persone e famiglie... work in progress crisi di coppia e

RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
2004/1
PERSONE E FAMIGLIE...
WORK IN PROGRESS
CRISI DI COPPIA
E RESPONSABILITÀ
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI
TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
FORMAZIONE E DEONTOLOGIA
DELL’AVVOCATO FAMILIARISTA
DAL PARLAMENTO
W W W. A I A F - A V V O C AT I . I T
Anno IX - n° 1, gennaio - aprile 2004
Qadrimestrale; registr. Tribunale Roma n.496 del 9.10.95.
Stampa: Tip. Quatrini A. & figli snc, v. S.Lucia 43-47, 01100 Viterbo
Poste Italiane spa - Spedizione in A.P. - 70% - DCB Viterbo
SOMMARIO
Editoriale_
2 Il diritto delle persone e delle famiglie … una questione sempre più aperta
AVV.
MILENA PINI
Persone e famiglie… Work in progress_
4 Mettersi in coppia in Italia
PROF. CHIARA SARACENO
6
9
Le ragioni della crisi del rapporto coniugale a trent’anni dalla riforma
AVV. NICOLETTA MORANDI
Presupposti e condizioni per una corretta negoziazione dei coniugi
PROF. MIMMA MORETTI
La regolamentazione dei rapporti tra coniugi e tra conviventi_
12 Autonomia negoziale e definizione dei rapporti economici tra coniugi
21 Famiglia di fatto: la ricerca di una regolamentazione giuridica
AVV. ANTONINA SCOLARO
Crisi di coppia e responsabilità_
24 Violazione dei doveri coniugali e risarcimento del danno
DOTT.SSA ADALGISA FRACCON
27 Condotta vessatoria del coniuge: addebito della separazione e mobbing
AVV. GIOVANNA FAVA
Formazione e deontologia dell’avvocato familiarista_
31 La formazione professionale dell’avvocato di famiglia
AVV. RENATO VENERUSO
33 L’assistenza e la consulenza dell’avvocato nella fase stragiudiziale. Questioni di deontologia
AVV. ANNA GALIZIA DANOVI
Giurisprudenza_
In tema di…
36 assegno di mantenimento
41 famiglia di fatto
44 violenza sessuale nei confronti della moglie
In libreria_
Dal
46
53
56
57
Parlamento_
L’amministrazione di sostegno
Abolizione dell’addebito nella separazione
Cognome della moglie
Diritto di visita dei nonni
Europa_
60 Decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 22.12.2003 relativa alla lotta contro lo
sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile
AIAF_
66 La partecipazione dell’AIAF ai seminari del CSM
AVV. MARINA MARINO
DOTT. EMILIO CURTÒ
68 I nuovi Statuti dell’AIAF nazionale e delle AIAF regionali e distrettuali
Formazione_
AIAF_
79 Come aderire all’Aiaf ed abbonarsi alla rivista
80 Organi statutari
ANNO IX - N° 1,
GENNAIO-APRILE 2004,
NUOVA SERIE QUADRIMESTRALE
Redazione
GALLERIA BUENOS AIRES 1,
20124 MILANO
TEL. E FAX 02.29535945
EMAIL: [email protected]
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Direttore responsabile
MILENA PINI
Comitato di redazione
GIAN ETTORE GASSANI
NICOLETTA MORANDI
ANTONINA SCOLARO
Stampa
TIPOGRAFIA
QUATRINI A. & FIGLI SNC
V. S.LUCIA 43-47,
01100 VITERBO
Spedizione
POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. - 70% DCB VITERBO
EDITORIALE
“F
orse sono maturi i tempi per una nuova
azione regolativa, non tanto per ricondurre tutto ad unità, ma per trovare forme di coerenza ed equità al riconoscimento della
pluralità dei rapporti affettivi e di solidarietà che
vengono creati”, conclude Chiara Saraceno il suo
articolo, pubblicato su questo numero, dopo aver
ipotizzato che “il ritardo dei giovani italiani nella uscita dalla famiglia di origine, la mancanza
di una fase di vita autonoma e di sperimentazione della vita di coppia, e non solo la pur cruciale mancanza di servizi, sia responsabile della più
forte permanenza, nel nostro paese, di una divisione del lavoro e delle responsabilità entro la
famiglia in base al genere, ed in particolare del
IL DIRITTO DELLE
PERSONE E DELLE
FAMIGLIE...
UNA QUESTIONE
SEMPRE PIÙ APERTA
MILENA
PINI *
2
persistente affidamento alle donne delle responsabilità di cura, anche quando partecipano come
i loro compagni al mercato del lavoro”.
Problematiche di fondo che sono alla radice delle cause dell’instabilità del rapporto di coppia. A
trent’anni dalla riforma del diritto di famiglia, e
quindi dall’introduzione della normativa che
doveva concretamente dare applicazione ai principi di parità già affermati nella Carta Costituzionale, Nicoletta Morandi rileva che “nelle storie che ci vengono raccontate constatiamo che i
diritti/doveri sanciti dagli artt. 143 c.c. e segg.
riformati, si sono mediamente incarnati con basso profilo: il diritto/dovere di collaborazione
familiare è stato interpretato, al più, in modo
esecutivo, il diritto/dovere di comune indirizzo
come delega, la comunione legale come regime
patrimoniale preferenziale ha avuto scarsa fortuna” e, nel suo intervento, arriva alla conclusione, forse un po’ provocatoria, che “ … qualunque
sia il conflitto concreto che scateni la crisi, esso
rivela che è il paradigma della parità a non aver
funzionato, ed i comportamenti che accompagnano la separazione ce lo confermano.”
Nonostante l’indubbia persistenza della disparità
di ruoli, oggi la famiglia è certamente cambiata
rispetto all’epoca della riforma.
La famiglia è, nella realtà, e non solo nella definizione teorica, una formazione sociale nel cui
seno l’individuo persegue la propria realizzazione come persona. È uno strumento che consente
ad ogni componente del gruppo di esprimersi,
nelle sue aspirazioni, bisogni, affettività, capacità
relazionale, in una condizione di pari dignità e
pari responsabilità rispetto agli altri. Come
sostiene Adalgisa Fraccon, nel suo contributo alla
nostra Rivista, “è importante mettere in luce la
funzione della famiglia di consentire alla persona di ricercare attraverso di essa la propria realizzazione, perché quest’ottica consente di
apprezzare pienamente il valore della famiglia e
al tempo stesso dell’esperienza che in essa si
svolge, dal matrimonio, alla procreazione ed alla
educazione dei figli, alla condivisione di tutte le
vicende che coinvolgono i suoi membri nelle
varie età della vita. Esperienza di relazione,
incardinata, quindi, sul reciproco rispetto, non
solo, ma ancor più sul reciproco sostegno, necessario e, quindi, doveroso, per la coesione del
gruppo e, al tempo stesso, anche se con diverse
modalità e misura, per la soddisfazione delle esigenze individuali.”
Ma, si chiede Fraccon, “fino a che punto si può
pretendere dal partner un certo comportamento
in nome del dovere di assistenza morale, o di collaborazione; fino a che punto deve spingersi lo
spirito di adattamento, di sacrificio, di solidarietà, senza tradire le proprie esigenze insopprimibili? Se la famiglia è un luogo di autorealizzazione, in essa dovrebbe esserci il massimo di
libertà compatibile con il massimo di solidarietà,
due principi che talvolta, spesso purtroppo, sembrano divergere irrimediabilmente”. Ne consegue che, nel momento in cui i doveri coniugali
vengono violati con comportamenti gravi che
arrecano all’altro un danno ingiusto, non si può
non far riferimento alla normativa in tema di
responsabilità civile, essendo di tutta evidenza la
portata limitata e ormai anacronistica della sanzione “addebito”, che in recenti proposte di legge si chiede di abolire.
Giovanna Fava, nell’esaminare la possibile relazione tra comportamenti del coniuge lesivi dei
diritti dell’altro e mobbing, sottolinea che “la
ridotta portata sanzionatoria dell’addebito, e la
sua eccezionalità subordinata alla efficienza
causale sulla intollerabilità della prosecuzione
EDITORIALE
GENNAIO - APRILE 2004
della convivenza, ha portato più di uno studioso
a proporre l’ eliminazione dell’addebito dal
nostro ordinamento e a valutare più concretamente, sul piano della responsabilità civile, le
condotte lesive dei diritti dei singoli membri della comunità familiare, non solo quelli propri di
ogni essere umano, relativi alla salute psicofisica, all’integrità personale, alla riservatezza, alla
dignità, all’onore, all’immagine, ma anche quelli propri dello status di coniuge”.
Valorizzazione della persona e della relazione
familiare, dei principi di responsabilità, collaborazione e solidarietà : questa la tendenza in atto,
corretta e positiva, che deve possibilmente valere
anche quando il rapporto entra in crisi.
Il ricorso sempre più frequente all’autoregolamentazione dei rapporti, sia tra i coniugi che i
conviventi, ne costituisce una conferma. Dottrina
e giurisprudenza da tempo discutono su ammissibilità, contenuti, limiti della negoziazione dei
coniugi e dei conviventi, di cui Antonia Scolaro
ci offre un ampio e approfondito studio.
Certo, come rileva Mimma Moretti, nel suo articolo, “l’inequivocabile tendenza alla privatizzazione nei rapporti tra coniugi comporta l’ampliarsi dell’oggetto della possibile negoziazione:
si tratta, quindi, di analizzare i settori in cui
l’autoregolamentazione dei rapporti trova la sua
massima estensione e, nel contempo, sia di individuarne i confini di liceità, sia di evidenziare
quali fattori possano incidere negativamente sul
corretto formarsi del consenso di ciascuno dei
coniugi.”
In effetti se pensiamo alla prassi quotidiana di
accordi di separazione consensuale e di divorzi
congiunti, emergono non pochi dubbi sull’effettivo libero - in quanto non condizionato - e consapevole consenso alla transazione. Come afferma
Moretti, “quando si dichiara ammissibile la
transazione quale strumento di composizione
della lite tra coniugi, si dovrebbe fare riferimento a reciproche concessioni di diritti patrimoniali, ben diversi dalle suddette rinunce”. L’autrice
pone quindi l’interrogativo di come si può meglio
conciliare lo sviluppo dell’autoregolamentazione
dei rapporti tra coniugi “con il principio della
tutela del contraente economicamente più debole
- principio ispiratore di tutta la riforma attuata
con la l. 74/1987 - e come può essere valutato il
processo di formazione del consenso all’accordo
di quel coniuge che subisce, di fatto, la superiorità di chi può compensare le rinunce con benefici immediati e sicuramente quantificabili”.
Analoghi, e ancor più complessi, problemi sorgono in ordine all’esigenza di regolamentazione dei
rapporti tra conviventi more uxorio, ed è auspica-
bile, come sostiene Scolaro, l’attribuzione di un
maggior rilievo alla famiglia di fatto attraverso
una disciplina legislativa discreta e rispettosa
dell’autonomia negoziale dei conviventi.
Una “negoziazione” in cui l’avvocato - specializzato e “formato” in materia, e particolarmente
attento ai principi deontologici, come rilevano
nei loro interventi i Colleghi Renato Veneruso e
Anna Galizia Danovi - svolge una funzione fondamentale, sia nella fase stragiudiziale che in
quella giudiziale, poichè “il risultato auspicabile
è rappresentato dalla riorganizzazione degli
assetti familiari, dalla determinazione di nuovi
equilibri…”.
Il diritto delle persone e delle famiglie appare
dunque oggi come uno scenario in movimento e
in costruzione, una questione sempre più aperta,
nel cui dibattito l’AIAF porta il suo contributo.
* direttore della Rivista
3
PERSONE E FAMIGLIE... WORK IN PROGRESS
N
on solo in Europa, ma in tutti i paesi occidentali negli ultimi dieci-quindici anni si è
assistito ad un progressivo dilazionamento
dell’età al primo matrimonio. Questo fenomeno
nella maggior parte dei paesi si è accompagnato a
profonde modifiche dei modi di entrata nella vita
adulta da parte delle giovani generazioni e dei
processi di formazione della famiglia. In particolare, l’uscita dalla famiglia dei genitori è sempre
meno legata in prima battuta al matrimonio e
neppure alla messa in coppia. Si può uscire da
casa per andare a vivere con amici, per vivere da
soli, oltre che per vivere con un compagno/a senza sposarsi.
Ciò che distingue la situazione italiana e di tutti i
METTERSI IN COPPIA
IN ITALIA
CHIARA
SARACENO *
4
paesi mediterranei, quindi, non è tanto il ritardo
nell’entrata nel matrimonio, quanto il fatto che il
matrimonio continui ad essere il motivo principale di uscita dalla famiglia dei genitori, oltre che
l’ambito in cui si prendono decisioni di fecondità.
Perciò i giovani italiani, in particolare i maschi,
arrivano al matrimonio in età relativamente
matura, ma senza aver sperimentato periodi di
vita autonoma, da soli o in coppia. In particolare,
in Italia (come in Spagna, Portogallo e Grecia)
meno del 20% delle donne sotto i 30 anni ha,
come prima forma di vita di coppia, una esperienza di coabitazione senza matrimonio. Viceversa ciò vale per la grande maggioranza delle
loro coetanee svedesi, finlandesi e danesi e per
circa la metà delle francesi, austriache, olandesi e
tedesche
Alcuni indizi segnalano per altro anche in Italia
una tendenza ad una maggiore propensione verso
la convivenza, almeno per quanto concerne la
diffusione della convivenza come prolusione al
matrimonio - una sorta di nuova forma di fidanzamento piuttosto che di matrimonio di prova.
Negli ultimi anni sono infatti significativamente
aumentati i matrimoni preceduti da un periodo di
convivenza e questo periodo si è allungato,
segnalando come stia emergendo anche in Italia
una nuova modalità di entrata nella vita adulta e
in particolare di messa in coppia. La quota di
matrimoni preceduti da convivenza, infatti, è passata dal 2% delle coppie che si sono sposate negli
anni Settanta, al 7,7% di quelle che si sono sposate negli anni Ottanta, al 13,7% di quelle che si
sono sposate negli anni Novanta. In occasione del
censimento del 2001 le coppie eterosessuali conviventi senza essere sposate sono risultate essere
più che raddoppiate sia in termini assoluti che
relativi rispetto a 10 anni prima: erano rispettivamente 216.005 unità e l’1,6% del totale delle
coppie nel 1991, 510.251 e il 3,6% di tutte le
coppie nel 2001.
Le convivenze hanno una incidenza particolare
nel Nord, mentre hanno i valori molto più bassi
nel Mezzogiorno. Inoltre sono più diffuse tra le
persone ad alta istruzione e tra le coppie in cui
entrambi i partner lavorano. Ciò segnalerebbe
che anche in Italia le convivenze - pre-matrimoniali o invece del matrimonio - costituiscono una sorta di strumento di negoziazione dei
ruoli di genere in un contesto in cui le aspettative delle donne sono mutate.
In effetti, si potrebbe ipotizzare che il ritardo dei
giovani italiani nella uscita dalla famiglia di origine, la mancanza di una fase di vita autonoma e
di sperimentazione della vita di coppia, e non
solo la pur cruciale mancanza di servizi, sia
responsabile della più forte permanenza, nel
nostro paese, di una divisione del lavoro e delle
responsabilità entro la famiglia in base al genere,
ed in particolare del persistente affidamento alle
donne delle responsabilità di cura, anche quando
partecipano come i loro compagni al mercato del
lavoro.
Nelle coorti di età più giovani, infatti, le donne si
presentano sul mercato del lavoro in percentuale
simile a quelle dei loro coetanei. Ma il matrimonio e la presenza di figli segnano ancora una
divaricazione netta nei tassi di partecipazione al
mercato del lavoro femminile e maschile, a parità
di età. Nella coorte di età 30-49 è occupato
l’83,7% delle nubili, il 71,4% delle coniugate o
comunque in coppia senza figli, il 50,3% delle
coniugate/in coppia con figli.
Ciò segnala che il carico del lavoro familiare
rimane ancora largamente sulle spalle delle
mogli-madri e che i comportamenti maschili sono
cambiati molto meno di quelli femminili.
Per le donne con responsabilità familiari, quindi,
rimanere nel mercato del lavoro comporta un
sovraccarico complessivo testimoniato dagli orari complessivi di lavoro remunerato e non remunerato che assomigliano a quelli protoindustriali:
64,8 ore alla settimana, rispetto alle 53,6 dei loro
compagni, secondo le stime della Banca d’Italia.
Forse sta in questa sempre meno giustificabile
GENNAIO - APRILE 2004
PERSONE E FAMIGLIE... WORK IN PROGRESS
asimmetria, parte delle ragioni sia della bassa
fecondità che dell’aumento della instabilità
coniugale, specie nelle regioni del CentroNord, ove sono appunto più alti i tassi di occupazione femminile.
Va infine segnalato che è in aumento anche l’accettazione sociale sia della omosessualità che
delle relazioni di coppia omosessuali. In effetti,
l’accettazione della omosessualità e delle relazioni di coppia omosessuali è più ampia nel paese di
quanto non risulti nel dibattito pubblico-politico
e soprattutto nella legislazione.
Il diritto di famiglia del 1975, approvato tardivamente (rispetto ai principi costituzionali) e percepito allora come una radicale discontinuità con le
forme di regolazione fino ad allora prevalenti,
forse è ormai troppo invecchiato.
Forse sono maturi i tempi per una nuova azione regolativa, non tanto per ricondurre tutto
ad unità, ma per trovare forme di coerenza ed
equità al riconoscimento della pluralità dei
rapporti affettivi e di solidarietà che vengono
creati.
* docente di Sociologia,
Facoltà di Scienze Politiche, Università di Torino
EXPOELETTE
Si è svolta a Torino, l’11 e 12 marzo, la prima edizione di “ EXPOELETTE Salone Internazionale delle Elette e delle Pari Opportunità”; il progetto è
stato promosso dalla Consulta delle Elette e dal Consiglio Regionale del
Piemonte, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica.
All’interno del Salone si sono svolti convegni, seminari e mostre sul tema
del riequilibrio della rappresentanza, della presenza delle donne nei luoghi
di decisione(il Fondo Sociale Europeo nella programmazione 2000-2006
assegna uno spazio del tutto nuovo al raggiungimento degli obbiettivi di
pari opportunità) ed in particolare degli strumenti da adottare per passare
dalle dichiarazioni di principio a obbiettivi concreti e misurabili, che
saranno raccolti nella “Carta di Torino”.
È intervenuta Emma Bonino, deputata europea, sui diritti civili e politici
delle donne come chiave dello sviluppo democratico.
Tra i ben 15 seminari, che hanno spaziato dall’influenza delle religioni
monoteiste sul ruolo della donna, al ruolo delle donne nella finanza, di particolare interesse è stato quello sul tema “L’accesso delle donne alla giustizia nel mondo”.
Tale seminario è stato organizzato dal MAGED (Magistrati, Avvocati, Giuriste Europee Donne) e dal LAWJ (International Asociation of Woman Judges)
e sono intervenute giudici ed avvocate provenienti da: USA; Iraq, India,
Uruguay, Moldavia, Portorico e Afganistan; partendo dalla considerazione
che la giustizia e la sua amministrazione sono uno snodo cruciale della
divisione dei poteri negli stati moderni, le relatrici hanno esposto le loro
esperienze professionali, ponendo in evidenza come la rappresentazione
delle donne, attraverso una più incisiva presenza, può diventare un patrimonio di adeguamento complessivo all’evolversi dell’aspirazione a che la
giustizia sia amministrata in modo equilibrato da uomini e donne e a favore degli uomini e delle donne in ogni Paese del mondo.
(Saranno disponibili le relazioni e chi desidera averle potrà richiederle ad
Antonina Scolaro all’indirizzo e-mail : [email protected])
5
PERSONE E FAMIGLIE... WORK IN PROGRESS
C
he il matrimonio come relazione duratura di
una coppia adulta abbia subito, negli ultimi
trenta anni, un processo di crisi crescente, è
questione indiscutibile e di facile riscontro.
Più problematica, al contrario, è la ricerca delle
cause di questo processo, nel quale gioca, più che
in altri ambiti della vita, un complicato intreccio
di aspetti storici, sociali, relazionali e personali.
Eppure, capire in profondità le cause della crisi di
coppia oggi servirebbe a comprenderne i contenuti con i quali essa si manifesta quando diventa
contenzioso giudiziario e a meglio individuare,
quindi, l’efficacia dei rimedi che la legge può
approntare per limitarne i danni.
Tenteremo dunque un primo approccio a questo
LE RAGIONI DELLA CRISI
DEL RAPPORTO
CONIUGALE
A TRENT’ANNI DALLA
RIFORMA
NICOLETTA
MORANDI *
ordine del discorso, senza la pretesa, ovviamente,
che esso sia esaustivo, ma con l’intento di segnalare in primo luogo, in un momento in cui assistiamo ad un confuso tentativo di intervento legislativo in materia, una necessità.
Dunque, le cause.
Occorre qui subito, credo, una premessa di carattere storico, poiché non vi è dubbio che in ogni
epoca si sono manifestati fenomeni di crisi e/o
infelicità coniugale, ma non in ogni epoca nelle
medesime forme
La caratteristica del nostro tempo è che la crisi
deflagra, viene agita e resa pubblica, portata alle
sue estreme conseguenze.
Non così in passato.
La famiglia disegnata dal codice civile del 1942
non era molto diversa da quella del codice napoleonico e ruotava ancora fortemente intorno
all’autorità maritale a cui veniva demandata sia
l’intera gestione dell’economia familiare che
l’impostazione dell’educazione dei figli, mentre
permanevano forti restrizioni per le donne nel6
AIAF RIVISTA 1/2004
l’accesso al lavoro e all’istruzione.
La conseguente diffusa dipendenza economica e
psicologica delle donne ai mariti rendeva assai
difficile la rottura del matrimonio.
Il sentire comune considerava con sospetto,
quando non con disapprovazione, il fenomeno
della separazione.
I motivi di crisi coniugale restavano perciò,
mediamente, custoditi nelle case, tollerati e sopportati grazie ad un’etica dei doveri e della famiglia che se pure portatrice, assai spesso, di sofferenze inespresse, era però espressione di una
divisione dei ruoli forte, a suo modo funzionante,
“coerente” alla struttura sociale.
Questo schema salta in primo luogo con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Mentre si
mette in movimento una battaglia per la parità dei
diritti a largo spettro, parallelamente muta il sentire sociale e il modo di vivere, sino a culminare,
sul finire degli anni 60 in una trasformazione dei
costumi e dunque anche della configurazione
sociale della famiglia, che sul piano giuridico
troverà espressione, con significative anticipazioni della Corte Costituzionale, nella Riforma
del 1975 come famiglia degli affetti, della parità
e tutela dei singoli, e della solidarietà coniugale.
Parallelamente, nonostante che la regolamentazione giuridica sembri più aderente alle aspettative della coppia, il fenomeno separativo si espande.
Perché?
Può essere utile, sotto questo profilo, riflettere a
quello che ogni giorno ascoltiamo nelle nostre
stanze.
Su cosa si dividono i nostri clienti?
Io credo, esattamente sul punto nodale della
parità.
Qualunque sia il conflitto concreto che scateni
la crisi, esso rivela che è il paradigma della
parità a non aver funzionato, ed i comportamenti che accompagnano la separazione ce lo
confermano.
Nelle storie che ci vengono raccontate constatiamo che i diritti/doveri sanciti dagli artt..143 c.c. e
segg. riformati si sono mediamente “incarnati”
con basso profilo: il diritto/dovere di collaborazione familiare è stato interpretato, al più, in
modo “ esecutivo”, il diritto/dovere di comune
indirizzo come delega, la comunione legale come
regime patrimoniale preferenziale ha avuto scarsa fortuna.
La persistenza di una disparità dei ruoli familiari,
da un lato dovuta ad una persistente disuguaglianza tra i sessi nel mondo lavorativo, dall’altro
alla conferma di diverse attitudini della coppia
nella gestione domestica e relazionale, non ha
mediamente avuto, nella vita coniugale, il rico-
GENNAIO - APRILE 2004
PERSONE E FAMIGLIE... WORK IN PROGRESS
noscimento che pure la norma ha declamato.
Parimenti, ancora difficoltoso è risultato l’accesso alle risorse economiche della famiglia da parte del coniuge economicamente più debole.
Il superamento delle antiche prerogative maritali
ha evidenziato una crisi dei tradizionali poteri
maschili a tutto tondo, con la quale si è stentato a
fare i conti.
Il modello della famiglia autoritaria,giustamente
messa in crisi e superata sotto la spinta di istanze
reali, sembra non essere ancora stato sostituito,
nella vita vissuta, da un modello altrettanto forte.
Perciò stesso le coppie oscillano tra legittime
aspettative e delusioni frustranti, in una evidente
difficoltà a rifondarsi.
La parità coniugale, solennemente sancita dalla
Riforma, ha finito per essere vissuta in modo
puramente formale e sostanzialmente svuotata di
quella che, quantomeno nelle intenzioni dei legislatori, ne doveva costituire la carica innovativa:
non mera uguaglianza ma anche e soprattutto,
considerazione e riconoscimento di ruoli, capacità e soggettività differenziati in una comune
corresponsabilità progettuale.
Queste considerazioni aiutano a comprendere
non solo le ragioni del fenomeno separativo oggi,
ma anche i comportamenti con i quali esso
mediamente si manifesta.
Perché una coppia che abbia vissuto una relazione improntata a reciproco rispetto, nel momento
di dividersi dovrebbe recarsi offesa, se non per
un vizio all’origine, un malinteso senso appunto
della relazione coniugale come comunità degli
affetti, e non di potere, del reciproco riconoscimento e rispetto che essa contiene e sottende?
Perché i mariti, che restano tuttora nella media la
parte economicamente più forte, dovrebbero lesinare il mantenimento a moglie e figli se non per
un malinteso senso della responsabilità familiare?
E perché i padri hanno ingaggiato campagne per
l’affidamento dei figli, quando, al contrario, è
bassissima la percentuale di quelli che ne fanno
richiesta nei giudizi, se non per una negazione
reattiva dell’autonomia femminile e delle prerogative materne che la giurisprudenza andava
riconoscendo, declinando appunto la parità in
modo non astratto?
E che dire delle “nuove”infedeltà, uomini di
mezza età che si legano a donne giovanissime,
cui spesso si accompagnano paternità tardive, se
non di uno “smarrimento” del sesso forte nella
relazione di coppia?
I contenuti del contenzioso separativo con cui
generalmente la crisi della coppia si manifesta
sono essi stessi specchio, in buona sostanza, di
una disfunzionalità del rapporto che non si rico-
nosce, o stenta a riconoscersi, nei valori della
famiglia paritaria.
Se tutto questo è vero, appare evidente quanto
disfunzionali e incoerenti con il quadro delineato
e con le caratteristiche reali del conflitto coniugale siano le molteplici modifiche che il legislatore sembra intenzionato ad apportare alla normativa vigente.
Il Testo Paniz, (tralasciando qui le critiche tecnico-giuridiche sulle quali l’associazione si è pubblicamente espressa), anziché correggere, conferma per via legislativa (in ciò aderendo alla peggiore posizione delle associazioni dei padri separati) un’interpretazione formalistica e neutra del
concetto di parità, in nome del diritto del minore
alla “bigenitorialità”, espressione in sé quanto
mai ambigua e strumentale, dimenticando o ignorando di conoscere il parere unanime delle figure
professionali in ordine ai bisogni reali dei minori
di fronte alla separazione dei genitori e alle
modalità per affrontarli.
Psicologi e mediatori concordano nell’affermare
che la separazione richiede, per la salvaguardia
dei figli, una riorganizzazione delle relazioni personali nel rispetto e in funzione della scelta separativa dei coniugi.
La previsione che l’affidamento condiviso dei
figli possa essere imposto dal Giudice, il mantenimento diretto per capitoli di spesa, le sfere di
competenza genitoriale, sono, al contrario, proposte che tendono ad annullare gli effetti “naturali” della separazione, scimmiottature grottesche
e irrealizzabili di una convivenza familiare che
non c’è più.
Guardando ai contenuti della Riforma del ‘75 e a
questo progetto come a un percorso, ne risultano
tragicamente evidenti le tappe: dalla speranza
della coppia riformata, responsabile, consapevole
e eguale, passando per la dura prova dei ritardi e
7
PERSONE E FAMIGLIE... WORK IN PROGRESS
delle contraddizioni, alla coppia coartata e controllata, spogliata e delegittimata persino della
gestione della propria crisi. Quasi una punizione.
C’è in effetti in questo “nuovo” interventismo
dello Stato nelle questioni familiari qualcosa di
sinistro. Personalmente condivido quelle letture
che vi vedono l’intenzione, non so quanto inconsapevole, di limitare gli effetti della crisi della
centralità maschile e paterna : il paterno autoritario, superato dalla storia, torna nella veste dell’autorità e del controllo statale.
Ma comunque la si voglia vedere, resta il fatto
indiscutibile della incongruità delle proposte in
campo.
Occorrerebbe tutt’altro.
Il recupero della funzione regolatrice e non
prescrittiva, della legge, nel rispetto rigoroso
dei principi fondamentali di libertà personale
che sono ancora alla base del nostro sistema
giuridico.
In luogo della ridicola proposta di rendere
obbligatorio per i coniugi il ricorso alla mediazione familiare, avere consapevolezza che le
relazioni affettive, quali sono quelle interfamiliari, non possono essere, per loro natura, sottoposte a tutela, se non a rischio di aggravarne
i punti critici e che il processo di riorganizzazione che la separazione richiede, perché sia
8
AIAF RIVISTA 1/2004
efficace, non può essere sottoposto né sollecitato da strumenti coercitivi.
Mettere mano con urgenza a quelle disfunzioni
gravi dell’evento separativo che non incidono sui
rapporti personali e dove dunque doveroso
dovrebbe essere l’intervento riparatore della legge.
Mi riferisco a tutti gli aspetti economici connessi, ed in primo luogo al fenomeno di impoverimento crescente del coniuge debole, vere e proprie nuove povertà, in gran parte dovuto al diffuso inadempimento agli obblighi di mantenimento
messo in atto con i più svariati sistemi: dall’occultamento dei redditi, alle simulate perdite di
lavoro, alla sottrazione pura e semplice al pagamento, alle odiose pressioni ricattatorie sui rapporti con i figli, sono infiniti, ma ben conosciuti,
i comportamenti attraverso i quali viene negato
ciò che è dovuto.
Occorrerebbe, insomma, avere la volontà di smascherare dove e perché il paradigma della parità
non ha funzionato, anziché usarne, complici, le
mancate promesse.
* avvocato del Foro di Roma,
Direttivo Nazionale AIAF
GENNAIO - APRILE 2004
S
PERSONE E FAMIGLIE... WORK IN PROGRESS
olo qualche anno fa, o per lo meno un paio
di decenni addietro, il tema della corretta
negoziazione tra i coniugi si sarebbe risolto
in poche parole e, certo, non avrebbe avuto il
rilievo che oggi, giustamente, gli si riconosce.
Si tratta, infatti, di un argomento che potremmo
definire “figlio” di un principio che un tempo, se
non sconosciuto, era sicuramente negletto: l’autonomia privata dei coniugi e il loro potere di
autoregolamentarsi.
Una prima constatazione ci permette di esaminare la questione in tutta la sua portata. L’inequivocabile tendenza alla privatizzazione nei rapporti
tra coniugi comporta l’ampliarsi dell’oggetto della possibile negoziazione: si tratta, quindi, di
analizzare i settori in cui l’autoregolamentazione
dei rapporti trova la sua massima estensione e,
nel contempo, sia di individuarne i confini di
liceità, sia di evidenziare quali fattori possano
incidere negativamente sul corretto formarsi del
consenso di ciascuno dei coniugi.
Va anche detto che l’argomento pare tanto più
interessante quanto più si noti che alla costante
affermazione del riconoscimento della privata
autonomia - e si può quasi parlare di enfatizzazione - non fa riscontro una uguale attenzione al
problema che qui ci interessa. In taluni casi, sembra quasi che il potere riconosciuto ai coniugi di
autoregolamentarsi sia di tale rilievo e una tale
conquista da escludere l’opportunità di ogni altra
e ulteriore indagine.
Spesso e volentieri, infatti, è dato ritrovare solo
indicazioni generiche, quelle stesse che venivano
proposte nel periodo precedente alla riforma, e ci
si limita a ricordare la necessaria capacità delle
parti nello stipulare convenzioni matrimoniali e
che, nell’ambito della separazione consensuale,
gli accordi relativi ai coniugi sono sottoposti al
solo controllo di legittimità, con la conseguenza
che nessun esame verrà effettuato sul merito
degli accordi stessi.
L’analisi delle numerose ipotesi nelle quali si
esplica l’autoregolamentazione dei coniugi induce invece a riflessioni più accurate, tese ad evidenziare il pericolo che gli accordi raggiunti
vadano ben oltre quanto sarebbe consentito e non
siano stati scevri da condizionamenti.
Se, poi, volessimo dubitare della possibile esistenza di tali interferenze e stati di sudditanza,
basta porre mente ad alcune brevissime considerazioni. La prima, di ordine certamente storico,
ma non per questo meno attendibile, ci porta a
ricordare come, a giustificazione del divieto di
donazione tra coniugi - divieto venuto meno solo
con la nota sentenza della Corte costituzionale n.
91/1973 - si affermava che il matrimonio creava
una situazione tale per cui era forte il “timore che
l’uno potesse essere circuito o costretto dall’altro
a spogliarsi dei propri beni”. E se pure non vi è
dubbio della antistoricità e della contrarietà di
tale opinione con la proclamata uguaglianza tra
coniugi, non ci si può dimenticare che, ancora
oggi, il substrato di tale timore, ossia della non
assoluta libertà mentale e della possibilità di
interferenze che poco hanno a che fare con la
libera contrattazione, emerge con chiarezza dall’art. 182 c.c., là dove si impone che le procure
fra coniugi risultino da atto pubblico o da scrittura privata autenticata: la netta deroga al principio
generale espresso dall’art. 1392 c.c., che richiede
identità di forma tra procura e contratto che deve
essere stipulato - e quindi, per ipotesi anche la
PRESUPPOSTI E
CONDIZIONI PER UNA
CORRETTA
NEGOZIAZIONE DEI
CONIUGI
forma orale - non può che far riflettere.
Tutto ciò premesso, mi pare che il momento in
cui emergono maggiormente i suddetti rischi sia
quello della crisi familiare e, in particolare, il
momento in cui i coniugi decidano di separarsi
consensualmente o, se già separati, di presentare
domanda congiunta di divorzio: è in questo
momento, infatti, che l’aspetto patrimoniale del
rapporto coniugale diventa preminente e, conseguentemente, la negoziazione manifesta tutta la
sua rilevanza.
Prendendo inizialmente in considerazione l’ipotesi di separazione consensuale, non mi pare si
possa dubitare di quanto sia ampio il potere riconosciuto ai coniugi di autoregolamentarsi: si
ammette che possano liberamente stabilire l’an
ed il quantum dell’assegno, le modalità della sua
corresponsione ed anche che esso venga corrisposto in un’unica soluzione, in analogia con
quanto è disposto per l’ipotesi di divorzio. E’ a
tutti noto, poi, come sia frequente l’inserimento
MIMMA
MORETTI *
9
PERSONE E FAMIGLIE... WORK IN PROGRESS
di negozi giuridici, quali i trasferimenti immobiliari, che certo non sono direttamente connessi
alla separazione, ma in questa trovano semplicemente la loro occasione. E, rispetto a tali accordi,
si afferma la loro piena validità in quanto rappresentano “la libera espressione dell’ autonomia
negoziale”.
La questione, però, si fa più complessa se si procede nell’analisi e si giunge a rilevare come il
possibile contenuto degli accordi di separazione
venga presentato ancora più ampio e, in particolare, di come si ritenga che esso possa prevedere
anche ulteriori negozi, le cui caratteristiche
destano ben più di un sospetto.
In quella che sarei tentata di definire “smania di
libertà”, si giunge, infatti, ad affermare che il
verbale di separazione può anche validamente
contenere la rinuncia all’azione di nullità del
matrimonio, all’azione di disconoscimento della
paternità o, ancora, alla domanda di separazione
giudiziale con addebito.
In buona sostanza, emerge con chiarezza come si
ritenga che i coniugi, nell’ambito della possibilità di dettare le regole della loro separazione,
possano coinvolgere anche diritti inerenti allo
status - quali la stessa valida costituzione del vincolo matrimoniale o la discendenza biologica del
figlio dal marito della madre - o, comunque,
rinunciare a quegli effetti che discenderebbero
dalla pronuncia di addebito.
Due, quindi, sono le questioni - peraltro strettamente correlate - che debbono essere considerate:
la disponibilità dei diritti che formano oggetto di
pattuizione ed il “prezzo” pagato per ottenere che
tali accordi vengano raggiunti.
Per quanto concerne il primo aspetto, esso acquista tutta la sua rilevanza quando si ponga mente
alla circostanza che l’inserimento di tali pattuizioni sta ad indicare la presenza di una chiara
volontà transattiva, ossia che le suddette rinunce
altro non sono che la concessione reciproca
rispetto ad altri benefici ottenuti con l’accordo di
separazione.
D’altronde è noto come venga generalmente
ammessa la stipulazione di transazioni tra coniugi. Dunque, in una materia, quale quella familiare, tradizionalmente improntata alla indisponibilità dei diritti, si considera lecito un contratto del
quale si sancisce espressamente la nullità tutte le
volte in cui i diritti che formano oggetto della lite
siano, per loro natura o per espressa disposizione
di legge, indisponibili. E neppure la palese contraddizione tra l’effetto preclusivo della transazione ed il principio della revedibilità dei provvedimenti si frappone quale impedimento: la giurisprudenza supera l’ostacolo affermando che la
transazione in materia familiare non può produr10
AIAF RIVISTA 1/2004
re un effetto maggiore di quello che deriverebbe
da una sua sentenza e, quindi, ammette il contratto di transazione privandolo del suo effetto peculiare.
Ciò precisato, non si può che rilevare che quando
si dichiara ammissibile la transazione quale strumento di composizione della lite tra coniugi, si
dovrebbe fare riferimento a reciproche concessioni di diritti patrimoniali, ben diversi dalle suddette rinunce.
I dubbi sulla correttezza di una negoziazione tanto ampia, peraltro, non si esauriscono in quanto
fin qui detto, ma coinvolgono l’altro aspetto
menzionato, ossia quali e quanti condizionamenti possano incidere sulla decisione dei coniugi di
concludere un accordo e, quindi, di dettare essi
stessi le regole della loro condizione di separati o
divorziati, escludendo di conseguenza l’eteroregolamentazione giudiziale.
Riprendendo, ad esempio, il caso di rinuncia alla
pronuncia di addebito, ben si può ipotizzare che
essa sia ottenuta al fine di escludere la perdita dei
diritti successori, diritti che, con la separazione
consensuale, rimangono inalterati.
Se, poi, si passa ad analizzare il momento dello
scioglimento del vincolo, è facile rilevare come
la scelta del procedimento su domanda congiunta, maggiormente celere e semplificato, possa
essere influenzata e determinata da più di una
motivazione.
Si può, innanzitutto, ipotizzare che un coniuge
non si trovi in quella situazione di “mancanza di
mezzi adeguati” che gli permetterebbe di chiedere ed ottenere l’assegno di divorzio: un accordo,
grazie al quale gli viene riconosciuto quello a cui
non avrebbe diritto, può certamente indurlo ad
accettare di presentare domanda congiunta. E la
situazione può considerarsi tanto più determinante se si suppone ulteriormente che, nel caso concreto, manchino i presupposti stessi per ottenere
lo scioglimento del vincolo: intervenuta una
riconciliazione, egli potrebbe eccepire l’interruzione della separazione triennale richiesta dalla
norma, ma l’apporto economico che gli viene
garantito lo induce a rinunciare a tale diritto e ad
accettare l’accordo. Se, poi, inseriamo l’ulteriore
elemento determinato dalla circostanza che il
coniuge divorziato, se non titolare di assegno,
perde ogni ulteriore diritto di natura economica quali il diritto alla pensione di reversibilità e alla
quota di indennità di fine rapporto - risulta sempre più agevole comprendere la pressione cui può
essere sottoposto.
Va anche precisato che l’influenza che un coniuge sarà in grado di esercitare sull’altro al fine di
fargli raggiungere un accordo sarà tanto più forte
quanto più differenziate siano le condizioni eco-
GENNAIO - APRILE 2004
PERSONE E FAMIGLIE... WORK IN PROGRESS
nomiche e, a contrastare tale affermazione, non
pare sufficiente ricordare come il coniuge separato possa vantare il proprio diritto all’assegno di
mantenimento, così come il divorziato possa
godere di un assegno che gli consenta un tenore
di vita “adeguato”. Al di là della considerazione
che difficilmente tali benefici consentono di
vivere realmente con le stesse aspettative che si
nutrivano prima della crisi coniugale, non vi è
dubbio che la pressione derivante dall’incertezza
relativa alla possibilità di ottenerli - e di poterli
conservare - costituisce una forte spinta ad accettare quanto più possibile senza correre rischi.
Due brevi interrogativi finali si impongono:
come si concilia quanto evidenziato con il principio della tutela del contraente economicamente
più debole - principio ispiratore di tutta la riforma attuata con la l. 74/1987 - e come può essere
valutato il processo di formazione del consenso
all’accordo di quel coniuge che subisce, di fatto,
la superiorità di chi può compensare le rinunce
con benefici immediati e sicuramente quantificabili?
Non è certo questa la sede per affrontare il delicato problema dell’incapacità naturale e della sua
effettiva estensione. Va tuttavia detto che il generale condizionamento che prima si è evidenziato
- spesso acuito anche dall’incertezza e dall’insicurezza di chi si troverà solo a fronteggiare tutti
i delicati problemi di genitore affidatario potrebbe non essere considerato tanto distante da
quello stato di confusione e turbamento che, in
materia contrattuale, ha trovato riconoscimento e
tutela.
* docente di Diritto di Famiglia,
Facoltà di Giurisprudenza,
Università degli Studi di Milano
11
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
L
a materia in esame ha subito, nel corso degli
ultimi anni, una decisa evoluzione in senso
negoziale, nell’ottica di assegnare all’autonomia privata un ruolo primario nella definizione
dei rapporti patrimoniali fra coniugi.
Si è passati, infatti, da una concezione “istituzionale” della famiglia, intesa come comunità portatrice di valori a carattere superindividuale, quale
“cellula del corpo sociale cui l’interesse dei singoli deve piegarsi (CICU, 1965), ad una concezione di rango “costituzionale”, dove l’istituto
familiare viene a trovare il suo fondamento nei
principi di uguaglianza e di pari dignità dei
coniugi (artt. 3 e 29 Cost.), mentre la posizione
del singolo trova la sua tutela in quei diritti fon-
AUTONOMIA NEGOZIALE
E DEFINIZIONE DEI
RAPPORTI ECONOMICI
TRA CONIUGI
ANTONINA
SCOLARO *
12
damentali che gli devono essere riconosciuti
anche all’interno delle “formazioni sociali” (e la
famiglia è una tra le più importanti) in cui egli
svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).
Questa accentuata attenzione per l’autonomia dei
privati all’interno del nucleo familiare ha avuto
un ulteriore sviluppo attraverso la legislazione
ordinaria, nell’ambito dell’introduzione del
divorzio e della più generale riforma del 1975:
quest’ultima, in particolare, ha attribuito alla
negozialità un tal rilievo da elevare l’accordo a
strumento privilegiato per la disciplina dei rapporti familiari, ed è precisamente in questa regola che la dottrina coglie un segno della “privatizzazione” del diritto di famiglia (Russo, 1983 e
Briganti, 1997) ed il superamento di quella concezione pubblicistica che voleva le posizioni
individuali dei singoli orientate al raggiungimento di interessi superiori o “pubblici” (Alpa, Ferrando 1989).
Va rilevato, tuttavia, che questa evoluzione non
ha comportato per tutti gli autori un automatico
accoglimento della tesi favorevole al pieno
dispiegamento dell’autonomia contrattuale nel
campo familiare: molti di essi, anzi, giungono ad
asserire che i privati non potrebbero formulare
valide manifestazioni di volontà al di fuori dei
casi in cui la legge espressamente pone a loro
disposizione uno schema tipico (così sostiene
Galgano, 1988 e Ferri, 1959); di contro, è stato
esaurientemente dimostrato (Doria, 1996) che è
connotato tipico degli effetti dell’attività negoziale che questi non siano sempre, ed in quanto
tali, commisurati alla volontà delle parti, ben
potendo invece, “in maggiore o minore misura,
divergere dal voluto” senza che con ciò il carattere negoziale della manifestazione di volontà
possa ritenersi compromesso.
Deve, pertanto, concludersi nel senso della sussistenza di un generale potere di autoregolamentazione dei coniugi nei rapporti familiari, quale
esplicazione dell’autonomia privata di cui all’art.
1322 c.c., conformemente all’attuale struttura
della famiglia (non più monocratica ma basata su
posizioni paritarie), nonché alla ricezione del
principio della risolubilità del vincolo matrimoniale.
In questo senso, la previsione di un regime patrimoniale legale (la comunione dei beni) non costituisce un ostacolo al dispiegarsi dell’autonomia
contrattuale dei coniugi, la quale può, anzi, prevedere una diversa regolazione dei rapporti economici intercorrenti tra gli stessi, come dispone
l’art. 159 c.c. (“Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione
stipulata a norma dell’art. 162 c.c., è costituito
dalla comunione dei beni).
Tali “convenzioni matrimoniali”, pur in assenza
di un’espressa definizione legislativa, devono
ricomprendersi nella più ampia categoria negoziale, qualificandosi come “contratti direttamente
connessi alla vita familiare” (Santosuosso, 1983),
con comunione di scopo, stante la coincidenza
anziché la contrapposizione degli interessi delle
parti: effetto tipico delle convenzioni matrimoniali è, infatti, la determinazione negoziale delle
regole del regime patrimoniale prescelto per la
disciplina dei futuri rapporti tra i coniugi, che
realizza in sé l’interesse di questi ultimi, a prescindere dagli eventi concreti ai quali tali regole
dovranno applicarsi.
Al di là, pertanto, dei limiti posti all’autonomia
dei coniugi in tali determinazioni, va rilevata la
generale tendenza ad un’interpretazione restrittiva degli stessi, nell’ottica di una accentuazione
del potere negoziale delle parti (Oberto, 1999).
Così, l’art. 160 c.c. dispone che “gli sposi non
possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio”; al
riguardo, la dottrina ha osservato come i diritti e
i doveri cui la norma fa riferimento non possano
GENNAIO - APRILE 2004
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
essere quelli di carattere personale: dalla natura
contrattuale delle convenzioni matrimoniali,
infatti, discende che in esse non è consentito
disporre di rapporti diversi da quelli patrimoniali.
Se ne deduce, di conseguenza, che il limite di
derogabilità riguarda i doveri di contribuzione ex
art. 143, 3° co. c.c. e di mantenimento dei figli ex
art. 147 e 148.
Quanto all’art. 161 c.c. la norma, lungi dall’inibire l’autonomia dei coniugi, sembra piuttosto
rafforzarla; stabilisce, infatti, che “gli sposi non
possono pattuire in modo generico che i loro rapporti matrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti dagli
usi, ma devono enunciare in modo concreto il
contenuto dei patti con i quali intendono regolare
questi loro rapporti”.
Il divieto della relatio concerne solo il richiamo a
norme straniere o consuetudinarie; restano pertanto ammissibili altri tipi di rinvio, per esempio
a convenzioni in precedenza stipulate tra le parti.
Se ne deduce, dunque, che l’ostacolo posto dall’art. 161 c.c. è di natura puramente formale, nel
senso che nulla impedisce alle parti di tradurre
dalla lingua straniera la regolamentazione di un
certo istituto e di inserirla tale e quale nella loro
pattuizione.
Proprio per questo motivo si è rilevato come la
disposizione finisca con il fornire un argomento
alla tesi della libera stipulabilità di convenzioni
atipiche, osservando in proposito che “la norma
non stabilisce quali regimi si possono o non si
possono adottare, ma presuppone che gli sposi
siano liberi di adottare regimi patrimoniali diversi da quello legale tipico, con i soli limiti sanciti
dalla disciplina della comunione convenzionale
ed afferenti alla inderogabilità delle norme relative all’amministrazione e all’eguaglianza di quote
per i beni oggetto della comunione legale, e quindi anche di uniformare il regime liberamente prescelto ad un modello disegnato da un ordinamento straniero o da una consuetudine, anch’essa
eventualmente straniera” (Moscarini, 1989,
riprendendo Sacco, 1977).
Un’ulteriore dimostrazione dell’estensione del
principio della libertà contrattuale in questa
materia è data dalla progressiva erosione della
sfera di applicabilità delle regole formali previste
per le convenzioni matrimoniali.
Al fine di un’adeguata tutela dei terzi, l’art. 162
c.c. sancisce, infatti, la forma dell’atto pubblico
ad substantiam, con la conseguenza che l’inosservanza di detta forma (importando la nullità
della convenzione) provoca l’automatica instaurazione tra i coniugi del regime legale di comunione dei beni.
A partire dalla riforma del diritto di famiglia, la
giurisprudenza di legittimità ha fornito una lettura vieppiù restrittiva della norma, al fine di circoscriverne al massimo l’applicazione pratica; cito,
al riguardo:
a) il caso in cui la Cassazione ha negato che l’accordo intercorso, prima della riforma del diritto di famiglia, tra coniugi in regime di separazione dei beni, con il quale questi si obbligavano a versare in un unico conto corrente i
proventi delle rispettive attività professionali
costituisce convenzione matrimoniale da stipularsi con atto pubblico a pena di nullità, con
la conseguenza di ammettere la prova di tale
accordo anche a mezzo di testimoni; (Cass.
18/8/93, n. 8758);
b) la ritenuta inapplicabilità dell’art. 162 c.c. alla
divisione amichevole operata dai coniugi nel
patrimonio già in comunione legale, una volta
intervenuta una causa di scioglimento di quest’ultima (Cass. 28/11/96, n. 10586);
c) l’inapplicabilità dell’art. 162 c.c. all’accordo
per scrittura privata con il quale un coniuge,
successivamente alla stipula della convenzione di scioglimento del regime legale, rinunciava ad ogni sua pretesa su un’azienda commerciale acquistata nel vigore del regime di comunione e corrispettivamente l’altro si obbligava
a versargli una somma di denaro (Cass.
11/11/1996, n. 9846).
La riconosciuta autonomia contrattuale delle parti trova ulteriore conferma in materia di modifica
delle convenzioni matrimoniali, laddove oggi il
III comma dell’art. 162 segna il definitivo superamento della regola dell’immutabilità dei regimi
matrimoniali.
Quest’ultima era strettamente collegata allo storico (in quanto risalente al Codice Giustinianeo)
divieto di donazione tra coniugi, nell’ottica di
assicurare una trasmissione “in linea verticale”
dei patrimoni; tale ratio giustificatrice è venuta
meno in seguito alla caduta del principio della
indissolubilità del vincolo matrimoniale, con la
conseguenza che l’unico limite ad oggi esistente
è il richiamo all’inderogabilità dell’art. 194 c.c.,
nella parte in cui prevede la divisione in parti
uguali dei beni già in comunione legale.
Quanto all’istituto della comunione legale, lo
spazio concesso dal legislatore alla libertà negoziale dei coniugi è talmente ampio da contemplare, addirittura, la stessa possibilità di escludere
(del tutto o in parte) l’operatività del regime, così
attribuendo alla comunione carattere suppletico;
ciò risulta:
1) dall’art. 2647 c.c., laddove dispone che “devono essere trascritti, se hanno per oggetto beni
immobili, la costituzione del fondo patrimo13
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
niale, le convenzioni matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla comunione dei
coniugi (…);
2) dall’art. 210 c.c. I co., il quale sancisce
testualmente che “i coniugi possono, mediante
convenzione stipulata a norma dell’art. 162,
modificare il regime della comunione legale
dei beni, purché i patti non siano in contrasto
con le disposizioni dell’art. 161”.
In questo senso, del resto, è orientata la giurisprudenza di legittimità, la quale ha ritenuto
ammissibile il rifiuto preventivo, da parte di un
coniuge, del coacquisto ex lege ai sensi dell’art.
177 lett. a), d) e cpv.; in particolare, (Cass.
2/6/1989 n. 2688) dichiara testualmente che:
“(…) l’atto di opposizione-rifiuto del coniugi non
acquirente costituisce esplicazione della sua
autonomia negoziale, ed esso determina l’effetto
di limitare l’efficacia soggettiva dell’atto di
acquisto nei confronti del solo coniugi acquirente”. In tale ipotesi, è del tutto irrilevante che il
bene sia o meno compreso tra quelli che il codice
indica come beni personali; al contrario, il carattere personale (o meno) del bene ha rilevanza
nell’ipotesi inversa, in cui cioè il coniuge non
contraente non esprima il consenso all’acquisto
esclusivo da parte dell’altro coniuge, il quale
potrà ovviare alla mancata dichiarazione solo
mediante un accertamento giudiziale della natura
personale del bene.
Bisogna sottolineare, poi, che il rifiuto della contitolarità del bene integra una dichiarazione con
valore negoziale; da ciò discendono due importanti conseguenze:
1) non può essere revocato;
2) il coniuge che lo ha espresso non può opporre
ai creditori dell’altro coniuge o agli aventi
causa dal medesimo che il bene non aveva
carattere personale.
Queste significative aperture verso la negozialità
relativamente all’oggetto della comunione legale,
trovano riscontro anche nell’ambito dell’ amministrazione dei beni, essendo espressamente previsto (art. 180 c.c. I co.) che “l’amministrazione
dei beni della comunione e la rappresentanza in
giudizio per gli atti ad essa relativi spettano
disgiuntamente ad entrambi i coniugi”.
La norma esalta l’autonomia del singolo coniuge
nei rapporti esterni, pur facendo salva la regola
dell’accordo per gli atti di disposizione e di
straordinaria amministrazione (cfr. II co. art. 180
c.c.); la giurisprudenza ha ulteriormente ampliato
questo principio, riconoscendo a ciascuno dei
coniugi la possibilità di procedere ad atti di
disposizione di interi beni soggetti al regime
legale: in tali ipotesi, il consenso dell’altro
coniuge (richiesto dal cpv. dell’art. 180 c.c. per
14
AIAF RIVISTA 1/2004
gli atti di straordinaria amministrazione) si pone
come un negozio unilaterale autorizzativo che
rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un mero requisito di regolarità del procedimento di formazione
dell’atto di disposizione, la cui mancanza (laddove si tratti di bene immobile o di bene mobile
registrato) si traduce in un vizio da far valere nei
termini fissati dall’art. 184 c.c. (vale a dire, entro
un anno dalla data in cui il coniuge il cui consenso era necessario ha avuto conoscenza dell’atto
ovvero entro un anno dalla data di trascrizione).
Su questo punto, la Corte di Cassazione ha
respinto la tesi della radicale inefficacia degli atti
compiuti, ricollegandosi ad una pronuncia della
Corte Costituzionale (n. 311/1988) che attribuisce alla massa in comunione il carattere di “proprietà solidale”): secondo tale orientamento,
infatti, la comunione legale dei beni tra i coniugi
si differenzia da quella ordinaria in quanto trattasi di “comunione senza quote”, nella quale i
coniugi sono solidalmente titolari di un diritto
avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla
quale non è ammessa la partecipazione di estranei; ne consegue che “nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre
della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune” (Cass. 14.1.1997 n. 284).
E’ stata così respinta quella lettura restrittiva del
disposto dell’art. 184 c.c., proposta da una parte
della dottrina, secondo la quale la norma in esame avrebbe potuto trovare applicazione nel solo
caso in cui l’immobile venduto fosse risultato
“intestato” al solo coniuge alienante, dovendosi
nelle altre ipotesi (“intestazione” ad entrambi,
ovvero al solo coniuge del soggetto alienante)
ricadere nella regola generale dell’inefficacia
(Cost. Sacco, 1997; Corsi, 1979; Santosuosso,
1983), sanzione decisamente più grave di quella
prevista dall’art. 184 c.c. (annullabilità).
Un altro istituto dove trova esplicazione l’autonomia privata dei coniugi è quello della comunione convenzionale, la quale si fonda precisamente su un’espressa pattuizione degli stessi volta a “modificare il regime della comunione legale dei beni”, sia pure con alcune limitazioni poste
dall’art. 210 c.c.:
1) non possono essere compresi nella comunione
convenzionale i beni indicati nella lettera c),
d) ed e) dell’art. 179, in quanto trattasi di beni
propri e personali di ciascuno dei coniugi;
2) viene sancita l’inderogabilità delle norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni e all’uguaglianza delle quote
(limitatamente, però, ai beni che formerebbero
oggetto della comunione legale!).
Entro tali limiti (la cui portata, sul piano pratico,
GENNAIO - APRILE 2004
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
è assai limitata) i coniugi possono variamente
estendere l’oggetto della comunione ad esempio
ai beni di cui ciascuno sia titolare prima del
matrimonio (art. 179 lett. a) c.c.), ovvero a quelli acquistati in seguito per successione o donazione (art. 179 lett. b) c.c.); potrà anche prevedersi
che alla comunione convenzionale vadano attribuiti i frutti dei beni propri e dei proventi dell’attività separata di ciascuno, immediatamente, e
non solo de residuo; i coniugi, infine, potranno
escludere dalla comunione medesima talune categorie di beni, espressamente predeterminate.
Deve ammettersi, pertanto, che i margini di
modificabilità del regime legale concessi alle
parti sono “sostanzialmente illimitati” (Santosuosso, 1993 e Auletta, 1995), fornendo così ulteriore prova del riconoscimento della loro autonomia negoziale.
Anche nel regime di separazione dei beni si possono cogliere i segni del riconoscimento dell’autonomia dei coniugi, a cominciare dal fatto stesso che il legislatore, nell’attribuire alla comunione la dignità di regime legale, ha pur tuttavia concesso alle parti di escluderne in toto l’operatività.
In particolare, i segni del rilievo attribuito alla
negozialità sono evidenti nel momento genetico
dell’istituto, il quale sorge come “scelta dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio” (art.
162 II co. c.c.) ovvero come convenzione stipulata successivamente; la natura convenzionale di
detto regime risulta, del resto, dalla norma (art.
215 c.c.) che ne fornisce la definizione: “i coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio”).
Il carattere negoziale dell’istituto si riverbera,
poi, sulla materia dell’amministrazione e del
godimento dei beni (artt. 217 s.s. c.c.), governata
dal principio della libera disponibilità da parte
dei rispettivi titolari (ex art. 217 I c. c.c. “ciascun
coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei
beni di cui è titolare esclusivo”), mentre la sanzione prevista dall’ultimo comma dell’art. 217
c.c. (obbligo di risarcimento del danno) per il
coniuge che abbia amministrato o comunque
compiuto atti sui beni dell’altro, nonostante l’opposizione di quest’ultimo, conferma la necessità
del ricorso agli ordinari strumenti negoziali previsti in materia di mandato.
Anche per quanto riguarda il fondo patrimoniale la dottrina evidenzia due aspetti da cui emerge
il rilievo attribuito all’autonomia negoziale:
1) l’ampiezza dei poteri riconosciuti ai coniugi in
ordine all’impiego dei beni sottoposti a vincolo (consistenti in immobili, mobili registrati o
titoli di credito nominativi, compresi BOT,
CCT e quote di partecipazioni a fondi comuni
di investimento);
2) il potere delle parti di determinare discrezionalmente il contenuto dell’atto costitutivo del
fondo, nel rispetto dei principi fondamentali
che caratterizzano l’istituto (Auletta, 1997), il
quale si configura come “regime di cogestione
di uno o più beni vincolati ai bisogni della
famiglia” (Bianca, 1985).
Ma il riconoscimento di tale autonomia si spinge
oltre, fino a consentire alle parti di derogare a
talune disposizioni poste a tutela dell’interesse
familiare: l’art. 169 c.c., infatti, pur nella sua
contorta formulazione, ammette che i coniugi
possano disporre liberamente dei beni del fondo,
pur in presenza di figli minori. A questa conclusione perviene sia la maggioritaria dottrina
(Gabrielli, 1982; Santosuosso, 1983; Finocchiaro, 1984; Auletta, 1990) sia l’unica pronuncia
giurisprudenziale in materia (Trib. Roma
27/6/1979).
Anche la disciplina dell’impresa familiare concede un ampio spazio all’autonomia privata, a
cominciare dall’inciso “salvo che sia configurabile un diverso rapporto” con cui si apre l’art.
230 - bis c.c.; esso, peraltro, finisce per consentire alle coppie più accorte di aggirare le disposizioni poste a tutela del “coniuge debole”, rimuovendo in toto un istituto che, nell’intenzione del
legislatore, avrebbe dovuto apprestare un rimedio
ai problemi posti dalla spontanea prestazione di
attività lavorativa in ambito familiare!
La giurisprudenza, poi, pur attribuendo all’impresa familiare natura quasi - contrattuale, riconosce comunque effetto al negozio che se ne ponga eventualmente all’origine, non lasciando così
priva di effetti la volontà diretta a costituire una
serie di rapporti economici, purché non sia in
contrasto con le disposizioni dell’art. 230 bis
c.c., avente carattere imperativo.
In particolare, la Cassazione ritiene che ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare sia sufficiente “il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria
una dichiarazione di volontà (indispensabile,
invece, per costituire un rapporto giuridico diverso)”.
Peraltro, l’esistenza di un atto negoziale, che
ribadisca o precisi la disciplina legale dell’impresa familiare, non esclude la configurabilità della
medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto siano o no in contrasto con norme imperative dell’art. 230 bis c.c.,
con la conseguenza (nel primo caso) della loro
nullità e relativa sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate (Cass.
16/4/1992, n. 4650).
15
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
Va rilevato, infine, che anche la riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato,
attuata con la legge 31.5.95 n. 218, ha segnato
una decisa svolta verso un ulteriore potenziamento dell’autonomia contrattuale dei coniugi, a
cominciare dal ventaglio di possibilità che l’art.
30 l. cit. è venuto ad offrire alle parti, nel caso di
matrimonio caratterizzato dalla presenza di un
elemento di estraneità.
Si noti che il numero stesso degli elementi di
estraneità risulta incrementato rispetto al disposto dell’abrogato art. 19 prel., che ammetteva
esclusivamente la stipula di convenzioni in base
alla “nuova legge nazionale comune” nel caso di
“cambiamento di cittadinanza dei coniugi”. La
vigente normativa consente invece la stipula di
accordi in deroga rispetto ai principi fissati dall’art. 29 l. cit. anche nel caso di semplice residenza in (e non solo in caso di cittadinanza di) un
paese diverso da quello che costituisce l’elemento di collegamento rilevante per la determinazione della legge relativa ai rapporti personali,
richiamata nel campo dei rapporti patrimoniali
(vale a dire quello di cui entrambi i coniugi sono
cittadini, o in cui “la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata”.
Il legislatore è - tra l’altro - venuto implicitamente ad ammettere la possibilità che i coniugi risiedano in luoghi distinti: pertanto, una coppia italiana in cui la moglie, per esempio, per ragioni di
lavoro, risieda all’estero, potrà convenire (per
iscritto) che i rapporti economici siano regolati
per l’appunto dalla legge del paese di residenza
di quest’ultima.
Le opzioni consentite, per ciò che attiene ai rapporti patrimoniali, sono dunque oggi le seguenti:
a) legge nazionale comune;
b) legge dello stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, se i coniugi
16
AIAF RIVISTA 1/2004
hanno cittadinanze diverse o più cittadinanze
comuni;
c) legge dello stato del quale uno dei coniugi è
cittadino, se così si è convenuto per iscritto;
d) legge dello stato nel quale uno dei coniugi
risiede, se così si è convenuto per iscritto;
e) legge dello stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, se i coniugi
che pure hanno una (sola) legge nazionale
comune (non coincidente con la prima) hanno
convenzionalmente deciso di far prevalere la
prima sulla seconda.
Uno degli aspetti salienti dell’odierna regolamentazione del diritto internazionale privato dei
rapporti patrimoniali tra coniugi è quindi costituito dalla facoltà di una optio iuris ai sensi del
primo comma dell’art. 30 cit., conformemente ad
uno dei criteri ispiratori della riforma del 1995,
tesa ad esaltare nel suo complesso ben più che in
passato il criterio della volontà per l’individuazione della legge applicabile.
La scelta del diritto applicabile potrà attuarsi sul
presupposto della sussistenza delle condizioni
sopra evidenziate, e cioè che l’accordo sia concluso per iscritto e che si riferisca alla legge di
uno stato di cui uno dei coniugi abbia la cittadinanza o in cui uno di essi sia residente, oltre alla
circostanza che il patto sia considerato valido
dalla legge scelta o da quella del luogo in cui
l’accordo è stato stipulato (art. 30 cpv. l. n.
218/95).
Questa scelta di politica legislativa esalta l’autonomia dei coniugi permettendo loro di inserire
nella lex contractus (matrimonii) istituti tratti da
ordinamenti diversi dal nostro.
Un’ultima osservazione: l’art. 30 cit. viene ad
erodere almeno due dei limiti tradizionalmente
posti dalle norme imperative in materia di convenzioni matrimoniali. Il primo è di carattere formale ed attiene al requisito dell’atto notarile, ex
art. 162 c.c., stabilendosi invece, con riguardo
all’accordo sulla legge applicabile, la sufficienza
della mera forma scritta.
Il secondo tocca invece il disposto dell’art. 161
c.c., secondo il quale “gli sposi nono possono
pattuire in modo generico che i loro rapporti
patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da
leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi,
ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare questi loro rapporti”. E’ chiaro infatti che, nel
momento in cui si consente ai coniugi di stipulare un pactum de lege utenda, si viene ad ammettere che in tale fattispecie le parti possono limitarsi ad un generico richiamo al sistema di un
dato paese.
Né in proposito vale obiettare che a siffatta solu-
GENNAIO - APRILE 2004
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
zione osterebbero ragioni di chiarezza, sussistendo il rischio di non poter concretamente individuare il regime prescelto: il generico richiamo ad
un determinato ordinamento straniero, senza
ulteriori specificazione, determina invero l’automatica applicazione del regime che in quel sistema viene designato quale “legale”, cioè applicabile in difetto di opzione per un regime diverso.
Dopo aver illustrato i tratti salienti della negozialità tra coniugi con riguardo alla fase “fisiologica” della vita coniugale, occorre prestare attenzione al momento della crisi dell’unione. Qui si
frappongono svariati interventi di tipo giurisdizionale, quali le procedure di separazione legale,
di scioglimento e di cessazione degli effetti civili o, ancora, di annullamento del matrimonio, con
cui l’attività negoziale delle parti viene ad interagire.
Occorrerà, pertanto, stabilire se e in che misura
questo intreccio di attività negoziale e attività
giurisdizionale determini limitazioni al libero
dispiegarsi dell’autonomia dei soggetti, ponendosi quale ostacolo alla configurabilità di contratti
della crisi coniugale.
Al riguardo, la prima questione che si pone concerne l’individuazione della natura giuridica dell’accordo di separazione consensuale, dalla quale
discendono rilevanti risvolti pratici (si pensi, ad
esempio, all’applicabilità delle disposizioni dettate in materia di contratto in generale).
Preliminare all’indagine è la corretta identificazione dell’oggetto della stessa, in quanto l’espressione “accordo di separazione” è usata per
designare realtà anche assai distinte tra di loro; in
dottrina, infatti, ferve da tempo un acceso dibattito in ordine alla determinazione del contenuto
dell’accordo nel suo complesso, distinguendosi
tra contenuto necessario (o principale) e contenuto eventuale (o accessorio).
La tesi prevalente in dottrina (Iemolo, 1950;
Mantovani, 1992) e giurisprudenza (Cass.
15/5/1997 n. 4306) distingue tra:
a) contenuto necessario, costituito dall’accordo
sulla cessazione della coabitazione (negozio di
separazione in senso stretto), nonché le pattuizioni concernenti la prole minorenne;
b) contenuto eventuale, costituito da tutte le altre
condizioni della separazione.
Tale distinzione non coincide esattamente con
quella enunciata dalla Cassazione all’inizio degli
anni ‘90 (cfr. Cass. 15/3/1991 n. 2788), fondata
sull’antitesi tra:
a) contenuto tipico, comprendente, oltre al consenso a vivere separati, tutte le altre clausole
eventualmente necessarie al fine dell’instaurazione del nuovo regime di vita (in ordine
all’assegno di mantenimento, all’affidamento
e mantenimento della prole, al diritto di visita
ai figli e all’assegnazione della casa familiare);
b) contenuto atipico, caratterizzato in negativo
dal fatto che i relativi accordi non sarebbero
“direttamente collegati ai diritti e agli obblighi
che derivano dal perdurante matrimonio”.
Secondo la Suprema Corte, mentre le intese di
cui al punto a) apparterrebbero alla categoria delle “convenzioni di famiglia, quali figure giuridiche distinte dai contratti e caratterizzate da un
sostanziale parallelismo di interessi e volontà” (e
come tali sottratte alla disciplina dei contratti),
quelle di cui al punto b) (e solo quelle) costituirebbero “espressioni di libera autonomia contrattuale”.
Tale ricostruzione risente dei riflessi negativi che
sulla negozialità tra coniugi in crisi esercitano le
prese di posizione a favore del carattere non
disponibile dell’assegno di mantenimento e degli
accordi preventivi di divorzio, cosa che impedisce ai giudici di attrarre anche tale aspetto (pur
evidentemente caratterizzato dalla patrimonialità) nella sfera contrattuale.
L’aspetto positivo di tale giurisprudenza risiede
nel fatto che la Cassazione, attraverso il richiamo
alla figura del “contenuto atipico”, finisce con il
legittimare l’inserimento nel verbale di separazione consensuale di tutti quegli accordi che, pur
trovando sede ed occasione nella separazione
consensuale, non hanno causa in questa, in quanto non sono direttamente collegati ai diritti e agli
obblighi che derivano dal perdurante matrimonio.
Le conclusioni sono del resto perfettamente
conformi a quelle sviluppate successivamente
dalla stessa Corte, pur se basandosi sulla prima
distinzione suenunciata: “rientra, infatti, nel contenuto eventuale dell’accordo di separazione ogni
statuizione finalizzata a regolare l’assetto economico dei rapporti tra i coniugi in conseguenza
della separazione, comprese quelle attinenti al
godimento e alla proprietà dei beni, il cui nuovo
assetto sia ritenuto dai coniugi stessi necessario
in relazione all’accordo di separazione e che il
Tribunale (in sede di omologa) non abbia considerato in contrasto con interessi familiari prevalenti rispetto a quelli disponibili di ciascuno di
essi”.
Tale indirizzo ricalca quello della prevalente dottrina, la quale tende ad ampliare l’autonomia dei
coniugi nella determinazione del contenuto degli
accordi patrimoniali inseribili nel verbale di
separazione.
In effetti, le intese di ordine patrimoniale dirette
alla disciplina della futura vita “da separati”
costituiscono pur sempre oggetto del contenuto
di quelle “condizioni” che i coniugi possono
17
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
(anche se non necessariamente devono) presentare al vaglio del giudice.
In definitiva, la manifestazione di volontà in cui
si concreta il negozio di separazione consensuale,
si estende normalmente a tutte le condizioni di
ordine personale e patrimoniale che sia necessario stabilire secondo le contingenze, per concretare lo statuto dei rapporti tra coniugi separati
(Azzolina, 1991) ivi compresa, per esempio, la
possibilità di integrare, sotto il profilo formale,
l’intesa di separazione sottoposta al vaglio del
Tribunale mediante rinvio per relationem ad un
atto in precedenza sottoscritto dalle parti.
Del resto, appare inevitabile, una volta riconosciuta natura contrattuale agli accordi di contenuto patrimoniale diretti a comporre il conflitto
coniugale, concedere all’autonomia negoziale la
capacità espansiva che le è propria (cfr. art. 1322
c.c.), avuto riguardo al fatto che, in linea di principio, qualsiasi accordo tra i coniugi diretto a
disciplinare la futura vita “da separati” evitando
l’insorgere di possibili liti, appare senz’altro
meritevole di tutela da parte dell’ordinamento.
Venendo ora ai profili specifici dell’accordo di
separazione consensuale, esso è stato definito da
molti studiosi come un accordo in senso stretto,
atteso che qui i coniugi vogliono lo stesso risultato (cessazione della convivenza) e quindi il loro
consenso è determinato dall’identica causa.
Questo indirizzo è stato seguito da una parte della giurisprudenza, che ha così risolto l’antica
questione della revocabilità del consenso alla
separazione espresso in fase presidenziale, prima
dell’intervenuta omologa; in tal senso, si veda
Trib. Latina, 14/4/1988, secondo cui “il consenso
manifestato dai coniugi configura un accordoconvenzione, revocabile come tale unilateralmente fino a quando non sia intervenuta l’omologazione da parte del Tribunale”.
Successivamente, questa impostazione è servita
anche a negare l’applicazione all’accordo di
separazione consensuale delle norme contrattuali
in materia di errore di diritto (cfr. Trib. Genova
13/2/1981).
La Cassazione, poi, ha voluto estendere la teoria
in esame anche ad aspetti indubbiamente caratterizzati dalla patrimonialità, giungendo così a
negare l’applicazione della disciplina del contratto a favore di terzi (proprio perché figura prevista
in relazione all’istituto del contratto) alla clausola inserita all’interno di un accordo di separazione consensuale tra coniugi secondo la quale il
marito si obbligava a mettere a disposizione del
figlio e della moglie, per tutta la durata della loro
vita, un’abitazione, ad integrazione dell’assegno
di mantenimento dovuto agli stessi (cfr. Cass.
25/9/1978 n. 4277); in tal modo la giurispruden18
AIAF RIVISTA 1/2004
za di legittimità è venuta ad ammettere la validità
di un accordo diretto all’attribuzione dall’uno
all’altro coniuge, in sede di separazione consensuale, di uno o più beni determinati, precisando
che “nulla vieta l’ammissibilità della costituzione
di un vero e proprio diritto reale immobiliare, in
re aliena, rappresentato dal diritto di abitazione.
Con sentenza n. 2887/1984 la Suprema Corte ha
chiarito, sotto il profilo della natura del negozio
in questione e al fine di accertarne i requisiti formali, che “l’atto con cui un coniuge si obbliga a
trasferire gratuitamente all’altro determinati
beni, successivamente all’omologazione della
loro separazione personale consensuale e al
dichiarato fine dell’integrativa regolamentazione
del relativo regime patrimoniale”, non configura
una convenzione matrimoniale, né una donazione, bensì “un diverso contratto atipico, con propri
presupposti e finalità, soggetto per la forma alla
comune disciplina e, quindi, se concernente
immobili, validamente stipulabile con scrittura
privata, senza necessità di atto pubblico” (art.
1350 c.c.).
All’inizio degli anni ‘90, ad ulteriore chiarificazione, la Suprema Corte ha stabilito che “quei
negozi che, pur trovando sede in occasione della
separazione consensuale, non hanno causa in
questa, in quanto non sono direttamente collegati
ai diritti e agli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio, non si configurano come convenzioni di famiglia, ma costituiscono espressioni di libera autonomia contrattuale, in tal modo
ammettendo che tali accordi possano avere natura contrattuale.
È pacifica, invece, la natura negoziale di quelle
pattuizioni che solitamente accompagnano, o che
comunque possono accompagnare, l’intesa di
separazione in senso stretto e che vengono a
costituire il contenuto eventuale dell’accordo di
separazione (in senso lato).
Al riguardo, non sembra potervi essere dubbio
sulla natura non solo negoziale di questi accordi,
bensì addirittura contrattuale, allorquando gli
stessi (come per lo più accade), abbiano ad
oggetto prestazioni di carattere patrimoniale.
Potrà dunque parlarsi, al riguardo, di veri e propri contratti di separazione consensuale, intendendo per tali gli accordi di carattere patrimoniale su quelle che l’art. 711 c.p.c. definisce le “condizioni della separazione”.
Taluni indirizzi seguiti dalla giurisprudenza negli
ultimi anni testimoniano dell’applicazione (spesso diretta cioè senza richiamo al concetto di analogia) delle regole contrattuali, a cominciare dal
principio generale dell’autonomia contrattuale
(art. 1322 c.c.) cui la Corte di Cassazione ha fatto espresso riferimento al fine di ammettere, per
GENNAIO - APRILE 2004
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
esempio, la validità di un contratto preliminare
con il quale uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale, aveva promesso di
trasferire all’altro la proprietà di un bene immobile, anche se tale sistemazione dei rapporti patrimoniali era avvenuta al di fuori di qualsiasi controllo da parte del giudice in sede di omologa
(Cass. 5/7/1984 n. 3940).
Ma la regola in esame ha ricevuto concreta applicazione in un’innumerevole serie di casi che hanno portato il “diritto vivente” a determinare in
nome del principio dell’autonomia contrattuale,
una vera e propria dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di separazione.
Si è così deciso, per esempio, in relazione ad una
complessa pattuizione transattiva di tutti i rapporti nati dal vincolo coniugale, che l’accordo dei
coniugi sottoposto all’omologazione del Tribunale ben può contenere rapporti patrimoniali anche
“non immediatamente riferibili, né collegati in
relazione causale al regime di separazione o ai
diritti e agli obblighi derivanti dal matrimonio”.
Sempre in materia di transazione la Corte ha stabilito, in epoca ancora più recente, che “anche
nella disciplina dei rapporti patrimoniali tra i
coniugi è ammissibile il ricorso alla transazione
per porre fine o per prevenire l’insorgenza di una
lite tra le parti, sia pur nel rispetto della indisponibilità di talune posizioni soggettive, ed è configurabile la distinzione tra contratto di transazione novativo e non novativo, realizzandosi il primo tutte le volte che le parti diano luogo ad un
regolamento d’interessi incompatibile con quello
preesistente, in forza di una previsione contrattuale di fatti o di presupposti di fatto estranei al
rapporto originario (nella specie, la Suprema
Corte ha confermato la decisione di merito che ha
ritenuto novativa e, quindi, non suscettibile di
risoluzione per inadempimento, a norma dell’art.
1976 c.c., la transazione con la quale il marito si
obbligava espressamente, in vista della separazione consensuale, a far conseguire alla moglie la
proprietà di un appartamento in costruzione, allo
scopo di eliminare una situazione conflittuale tra
le parti)”, Cass.12/5/1994 n.4647.
Concludendo sul punto, deve rimarcarsi una
significativa
pronuncia
giurisprudenziale
(Cass.23/7/1987 n.6424), che giunge alla seguente affermazione: “I rapporti patrimoniali fra i
coniugi separati hanno rilevanza solo per le parti,
non essendovi coinvolto alcun pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibili e
rientrano nella loro autonomia privata”.
Siffatte conclusioni trovano conferma anche sul
piano pratico, con riferimento all’individuazione
dei criteri ermeneutici degli accordi in esame,
nonché alle regole che ne disciplinano gli effetti,
laddove l’equiparazione alla materia contrattuale
è più evidente. Così, mentre la Cassazione applica senz’altro all’accordo in materia di attribuzione della casa familiare i canoni ermeneutici ex.
art.1362 c.c (Cass.5/7/1988 n.4420), mostrando
altresì implicitamente di ritenere ammissibili
prove per testi aventi ad oggetto l’interpretazione
del contenuto di un verbale di separazione consensuale (Cass.14/1/1980 n.324), nella giurisprudenza di merito non si esita a rinvenire in questo
patto (coinvolgente un immobile in comproprietà
tra i coniugi separati) gli estremi di un’intesa idonea ad imprimere al bene comune una destinazione incompatibile con la divisione, ex art.1112 c.c.
(così Trib. Genova, 19/9/1986).
Da ultimo, va rilevato che parte della dottrina
ammette la risoluzione per inadempimento dei
contratti in esame: in tale orientamento si colloca
anche una pronuncia di legittimità, che afferma
addirittura la possibilità (in linea teorica) di risolvere, per effetto dell’applicazione delle regole in
tema di presupposizione, il trasferimento immobiliare operato da un coniuge in favore dell’altro
in adempimento di un’obbligazione assunta in
sede di separazione consensuale, una volta
dichiarato nullo il matrimonio. Determinante è
pertanto l’accertamento (negativo, nel caso di
specie) che l’attribuzione patrimoniale sia stata
implicitamente subordinata alla persistente validità del matrimonio.
Una volta accertata l’autonomia contrattuale delle parti in sede di separazione consensuale, si
pone il problema di determinare l’operatività
degli accordi fra di esse intercorsi: al riguardo la
giurisprudenza distingue a seconda che siano
intervenuti in un momento anteriore o coevo o
successivo alla omologazione .
Sul punto è intervenuta una sentenza della Cassazione la quale, distinguendo due situazioni in
relazione alle modalità temporali, ha affermato
che le pattuizioni successive sono “pienamente
ammissibili ed efficaci”, purché non in contrasto
con il limite ex art.160 c.c., in quanto esse trovano fondamento nell’art. 1322 c.c.; al contrario le
modifiche pattuite dai coniugi prima o in sede di
omologazione, ma non trasfuse nel verbale di
separazione, sono operanti solo se si collocano in
posizione di “non interferenza” rispetto a quelle
convenute, ovvero in posizione di “incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato (Cass. 22/1/94 n. 657), come per l’assegno di
mantenimento concordato in misura superiore a
quella sottoposta in omologazione.
In sostanza alle convenzioni intervenute tra i
coniugi viene riconosciuta concordemente natura contrattuale, ma le medesime si ritengono
affette da illiceità della causa se finalizzate ad
19
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
ottenere il divorzio.
Ormai da alcuni anni, infatti, la giurisprudenza
della Suprema Corte sta ripetendo la massima
secondo cui “gli accordi preventivi tra coniugi su
regime economico del divorzio sono affetti da
radicale nullità per illiceità della causa” (Cass.
11/8/92 n. 9494; Cass. 20/9/91 n. 9840; Cass.
6/12/91 n. 13128; Cass. 11/12/90 n. 11788).
Tale dichiarazione di nullità viene basata su varie
motivazioni, quali:
a) gli accordi preventivi avrebbero “l’effetto, se
non anche lo scopo, di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status, in un campo, cioè, in cui la
libertà di scelta e il diritto di difesa esigono
invece di essere indeclinabilmente garantiti”
(Cass. 11/10/92 n. 9494);
b) i coniugi non avrebbero il potere di disciplinare in anticipo i loro rapporti patrimoniali per
l’eventualità del divorzio, perché “ la materia
dei rapporti patrimoniali conseguente al divorzio è sottratta alla disponibilità delle parti ed è
affidata alle determinazioni del giudice, a tutela di interessi anche pubblicistici” (Cass.
11/12/1990 n. 11788);
c) i suddetti patti preventivi sarebbero affetti da
nullità per causa illecita perché inciderebbero,
“direttamente o indirettamente, sui comportamenti difensivi nel processo di divorzio”.
La tesi affermata dalla giurisprudenza investe
anche gli accordi con i quali i coniugi, in sede di
separazione, escludono l’eventuale diritto del
coniuge che non ha mezzi adeguati all’assegno di
divorzio, dichiarandoli nulli per illiceità della
causa, in forza della indisponibilità preventiva
dei diritti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio.
Questa posizione giurisprudenziale diffusa e consolidata si articola sul riconoscimento di tre posizioni pattizie poste in essere dai coniugi:
1) accordi vietati, perché stipulati in aperto e formale contrasto con il principio di disponibilità;
2) accordi consentiti, perché formalmente estranei alla determinazione dell’assegno, anche se
poi, dal punto di vista sostanziale, possono
condizionare le parti e il giudice nella determinazione dell’assegno di divorzio;
3) accordi famulativi o serventi, coevi o successivi alla determinazione giudiziale, ammessi e
considerati vincolanti (anche se in contrasto
con il principio della non disponibilità) solo
perché si risolvono in un maggior vantaggio
per il coniuge più debole.
In realtà, la giurisprudenza tende a salvaguardare
una tesi che, a ben vedere, risulta ormai superata
dalla mutata funzione della separazione; sarebbe
20
AIAF RIVISTA 1/2004
più utile, pertanto, riflettere su alcuni punti fermi
assolutamente incompatibili con il ricordato principio di indisponibilità.
In primo luogo non si può dubitare che sia l’assegno di divorzio, sia quello di separazione
richiedono un’espressa domanda della parte, la
cui mancanza non può essere supplita né da un
comportamento concludente, né da un intervento
officioso del giudice e neppure del Pubblico
Ministero, con la conseguenza che i presenza di
patti occulti e non impugnati il coniuge che non
richieda l’assegno non lo otterrà, in quanto il
giudice (pur in presenza di situazioni eclatanti)
non può intervenire in assenza di apposita
domanda (nonostante lo sbandierato principio di
indisponibilità!).
Alla rinuncia preventiva che sfocia nell’assenza
di richiesta va equiparata la rinuncia successiva,
valida ed efficace fin quando non revocata.
Una situazione analoga si presenta quando l’avente diritto all’assegno dichiari di non averne
diritto ovvero riconosca che non sussistono i presupposti per la concessione dell’assegno medesimo: in quest’ipotesi, nonostante l’indisponibilità,
il giudice non potrà stabilire alcun assegno anche
se la posizione del coniuge debole bisognoso lo
meriterebbe.
Una seconda breccia sul fronte dell’indisponibilità è data dalla distinzione assai frequente tra
inammissibile rinuncia all’an e libera determinazione del quantum, rimessa alla disponibilità dei
coniugi o ex coniugi, anche perché spesso sono
gli stessi giudici a sollecitare le parti a concludere un accordo extra processuale; è evidente, tuttavia, che il riconoscere la validità degli accordi
sul quantum contrasta fortemente con il principio
di assoluta indisponibilità.
Da quanto esposto emerge, pertanto, l’ambiguità
di un atteggiamento giurisprudenziale che in
astratto afferma vigorosamente la sussistenza di
un principio (quello di indisponibilità), mentre
nei casi di specie cerca in ogni modo di salvaguardare l’accordo patrimoniale raggiunto dalle
parti, nella speranza che sia deflattivo della crisi
coniugale in atto. (Per ulteriori approfondimenti
sul punto, cfr. Cass.14/6/2000, n.8109).
* avvocato del Foro di Torino,
Direttivo Nazionale AIAF
GENNAIO - APRILE 2004
C
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
on il termine “famiglia di fatto” s’intendono
tutte le situazioni di convivenza tra due persone, di sesso diverso (o anche del medesimo sesso, se si fa riferimento alla concezione di
respiro più internazionale), legate da una comunione di vita e di affetti caratterizzate da stabilità
e continuità e riscontro sociale, senza che l’unione venga formalizzata mediante il matrimonio. Il
termine racchiude in sé non solo la fattispecie di
convivenza more uxorio che discende da una
libera scelta della coppia, la quale decide di non
sottoporre il proprio rapporto alla disciplina giuridica del vincolo coniugale, ma costituisce, in
seguito all’introduzione del divorzio, la situazione nella quale viene a versare la coppia in attesa
del divorzio o dell’annullamento di un precedente matrimonio. Inoltre, a godere del medesimo
disconoscimento legislativo, concorrono concettualmente tutte quelle situazioni non codificate e
suscettibili di diversa definizione come il concubinato e l’unione libera o di fatto, tutte accomunate dal carattere non matrimoniale dell’unione,
alle quali rimane dubbio se estendere in futuro
l’auspicabile cappello regolamentativo della
famiglia di fatto oppure distinguere.
La famiglia di fatto si contrappone alla famiglia
legittima, modello familiare disciplinato compiutamente dall’ordinamento italiano, poggiante sulla previsione costituzionale dell’art. 29 in base al
quale “La Repubblica riconosce i diritti della
famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Considerata l’atipicità della fattispecie,
si pone dunque il problema della rilevanza giuridica della famiglia di fatto, vale a dire se e in
quali termini l’ordinamento riconduca a una
simile unione effetti giuridici, onde fornire un
modello comportamentale appetibile, alternativo
a quello tradizionale. In assenza di specifiche
previsioni normative, l’opinione maggioritaria
versa nel senso di non estendere alla famiglia di
fatto le attribuzioni previste dall’ordinamento per
quella legittima, anche il relazione al doveroso
rispetto della libera scelta delle parti di non sottoporre la loro unione al complesso di norme
vigente in materia matrimoniale. In questa direzione la Corte Costituzionale ha negato la possibilità di estendere alla convivenza more uxorio le
previsioni degli artt. 151, 155 c.c. e 706 c.p.c. per
la differenza delle situazioni raffrontate, pena la
violazione della libera determinazione delle parti
nella scelta (C. Cost. 166/1998).
La tendenza a regolamentare la famiglia di fatto
è oggi un argomento di dibattito in sede de jure
condendo, come dimostrano le recenti proposte
di legge in materia (tra cui quella delle On. Turco-Mussolini), che riflettono una sensibilità
maturata a livello comunitario rivolta alla promo-
zione dell’autonomia contrattuale privata in
materia di famiglia che ha preso forma a partire
dalla direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, ratificata con d. legis.
9 aprile 2003, n. 70, e attraverso il nuovo regolamento dell’Unione Europea in tema di competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni
in materia matrimoniale e di responsabilità
parentale, del 27 novembre 2003, n° 2201/2003.
Pare quindi omai superabile il tradizionale silenzio normativo dell’ordinamento italiano in materia, poggiante su considerazioni di antieconomicità del vaglio giurisdizionale della famiglia di
fatto, comunemente ascritte al carattere precario
FAMIGLIA DI FATTO:
LA RICERCA DI UNA
REGOLAMENTAZIONE
GIURIDICA
di tali unioni, che scevre da ogni formalità, possono venir meno in ogni momento. Legittimando
la famiglia di fatto come formazione sociale riferibile all’art. 2 Cost., la giurisprudenza in primis
(si veda App. Firenze 12.02.1991), seguita oggi
finalmente dal legislatore, vengono a ristabilire il
contatto con il sentire sociale maturato nell’ultimo ventennio.
Nell’ottica d’individuare una nuova forma di
tutela occorre, pertanto, far riferimento di volta
in volta a criteri e soluzioni diverse; sotto questo
profilo è opportuno distinguere tre diversi aspetti
del problema.
ANTONINA
SCOLARO
1) RAPPORTO DI FILIAZIONE
L’atteggiamento puericocentrico sviluppatosi in
seno alla nostra società ha ingenerato un profondo mutamento nel diritto, per cui la soddisfazione dei bisogni dei bambini ha assunto un’importanza centrale, passando da una situazione di
regolamentazione pressoché inesistente, al riconoscimento della titolarità di propri diritti azionabili in giudizio.
La filiazione naturale appare oggi pressoché
21
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
equiparata a quella legittima, anche se la rilevanza della filiazione naturale come propugnata dall’art. 30 Cost. non importa conseguentemente il
riconoscimento di uno status familiare di fatto. Il
figlio naturale, infatti, pur godendo degli stessi
diritti del figlio legittimo nei rapporti con i terzi,
non è titolare di uno status, tanto da dover sacrificare parte dei propri diritti qualora si rivelino
incompatibili con i diritti dei membri della famiglia legittima successivamente costituita dal
genitore.
Neppure si può desumere dal riconoscimento di
una famiglia di fatto dal disposto dell’art. 317 bis
c.c., il quale disciplina l’esercizio della potestà
da parte dei genitori naturali conviventi; atteso
che però la norma mira alla tutela del figlio e non
ai rapporti tra genitori, ne consegue che essa troverà applicazione anche nelle ipotesi in cui manchi una pur minima organizzazione di tipo familiare: ai sensi del secondo comma, “Se i genitori
non convivono, l’esercizio della potestà spetta al
genitore col quale il figlio convive, ovvero se non
convive con alcuno di essi, al primo che ha fatto
il riconoscimento”.
Sempre nell’ottica della tutela dei diritti del
figlio, la giurisprudenza riconosce all’ex convivente con figli a carico una posizione affine
all’assegnazione della casa coniugale (Corte
Cost. 404/1998).
La giurisprudenza sembra infine ormai ammettere la validità di accordi aventi ad oggetto l’affidamento della prole naturale (vedi Trib. Palermo,
18.02.1987; Trib. Monza, 22.06.1990; Trib. Min.
Reggio Calabria, 17.10.1994; App. Milano,
4.12.1995; Cass., Sez. Un., 25.5.1993, n. 5847).
Da cui consegue che ormai nessun dubbio
dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità dell’eventuale regolamentazione pattizia della misura in
cui ciascuno dei conviventi contribuirà al mantenimento dei figli (eventualmente anche non
minorenni).
2) RAPPORTI TRA I CONVIVENTI
La questione dei diritti e obblighi tra i conviventi nei loro reciproci rapporti è di cruciale importanza nell’ottica di una ricostruzione normativa
della famiglia di fatto. Occorre pertanto operare
debite distinzioni a seconda che si tratti di rapporti mortis causa oppure inter vivos.
Per quanto attiene ai rapporti mortis causa, la
Corte Costituzionale ha negato (sent. 310/1989 e
sent.10/1998) che il partner possa essere assimilato ex art. 3 Cost. al coniuge. Tale riconoscimento postulerebbe due inaccettabili corollari: il
contrasto con il diritto successorio, stante l’impossibilità d’individuare categorie dei successibili in base a rapporti certi e incontestabili; e la
22
AIAF RIVISTA 1/2004
necessità di una specifica previsione normativa di
diritti e obblighi fra i conviventi, a discapito della volontà delle parti di rifuggire da qualificazioni giuridiche. È stato così negato al partner la
possibilità di succedere nel diritto all’abitazione
della casa di proprietà del partner defunto, attribuito al coniuge superstite ex art. 540 c.c. Non
pare inoltre possibile usufruire di mezzi di tutela
alternativi come l’istituto del trust per il contrasto normativo non ancora superato con i principi
di responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c.
Per quanto riguarda i rapporti inter vivos, occorre innanzitutto stabilire se sussistano obblighi di
mantenimento in costanza di convivenza. La
giurisprudenza è ormai arrivata riconoscere,
dopo una lunga evoluzione, la natura solidaristica dell’obbligo di mantenimento a favore del
convivente più debole, ravvisando l’insorgere di
un’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. Così,
ad esempio nell’acquisto di un appartamento a
favore della donna (Cass. 60/1969) o nell’elargizione di somme di danaro a favore dell’uomo che
si trovi in difficoltà economiche (Cass.
389/1975). Tuttavia nonostante il dichiarato
intento di tutelare dell’affidamento della parte
debole, se da una parte un simile atteggiamento
promuove la configurazione di un obbligo di
mantenimento simile ai comportamenti che di
norma dovrebbero sussistere tra coniugi ex art.
143 c.c., è pur vero che la disciplina dell’art.
2034 c.c. si limita meramente ad escludere la
ripetibilità di quanto è stato spontaneamente versato in esecuzione di doveri morali o sociali.
In seguito alla cessazione della convivenza,
invece, la giurisprudenza è costante nell’affermare che nulla è dovuto a titolo di mantenimento,
neppure se la rottura della convivenza sia ingiustificata, non costituendo tale comportamento un
illecito ex art. 2043 c.c. per il principio volenti
non fit iniuria. A sostegno di questa tesi, che nega
il diritto al mantenimento da parte dell’ex-convivente, viene posto il carattere di precarietà e
revocabilità unilaterale che contraddistingue la
convivenza more uxorio, configuratesi come una
mera situazione fattuale, cui si ricollegano esclusivamente diritti e doveri di carattere morale. Sul
piano pratico, la conseguenza è che la richiesta di
uno dei due conviventi di un contributo al suo
mantenimento, manca di quel fumus bonis juris
richiesto dalla legge per la pronuncia di un provvedimento di urgenza, atteso che la giurisprudenza non contempla l’esistenza di alcun diritto di
mantenimento in capo all’ex convivente di fatto
(Trib. Napoli, 8.07.1999). I conviventi vengono
pertanto equiparati a terzi estranei, con conseguente impossibilità di apprestare una qualche
tutela sia pure minima, nei confronti della parte
GENNAIO - APRILE 2004
LA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI TRA CONIUGI E TRA CONVIVENTI
economicamente più debole, specialmente in
assenza di figli. Si pensi al partner non proprietario o non titolare del diritto di godimento sulla
casa paraconiugale, che, se scacciato, non ha
alcun diritto di abitazione né può far valere una
situazione possessoria che la prevalente giurisprudenza nega, assimilando il partner a un ospite.
In conclusione, si può quindi osservare il vuoto
normativo viene parzialmente colmato dal riconoscimento operato dalla giurisprudenza di forme di regolamentazione demandate all’autonomia privata. In quanto contratti atipici, sono
ammissibili sulla scorta dell’art. 1322 c.c., purché perseguano interessi meritevoli di tutela e
non contrastino con norme imperative, principi di
ordine pubblico e di buon costume.
Così, risulta valido ed efficace il contratto di
costituzione di usufrutto d’immobile stipulato tra
due conviventi more uxorio, senza corrispettivo
alcuno, ove esso trovi fondamento nella convivenza stessa e nell’assetto che i conviventi intendono dare ai rapporti (Trib. Savona 7.03.2001).
Ed è proprio nell’ottica pragmatica di una progressiva contrattualizzazione del diritto di famiglia, che la famiglia di fatto sembra finalmente
acquisire effettiva rilevanza giuridica, mediante
appositi “contratti di convivenza”, manifestazioni di volontà principalmente dirette a disciplinare
i rapporti patrimoniali, ancorché estese a profili
di carattere personale come i doveri di fedeltà,
assistenza morale, collaborazione e coabitazione,
apparentemente inidonei a costituire “prestazione” ai sensi dell’art. 1174 c.c. e a essere dedotti
in contratto secondo il disposto dell’art. 1321
c.c.. Un simile negozio comporta tuttavia la
necessità di meccanismi pubblicitari che garantiscano un certo grado di opponibilità ai terzi.
3) RAPPORTI CON I TERZI
Nei rapporti con i terzi la rilevanza della famiglia
di fatto poggia sul dato fattuale della stabile convivenza, al fine della distinzione dal semplice
rapporto occasionale (Cass. 3503/1998).
Così ad esempio, in materia di revisione dell’assegno di separazione o divorzio, se convivente è
l’obbligato, dovrà tenersi conto della contribuzione al ménage paraconiugale; se invece convivente è chi riceve l’assegno, dovrà tenersi conto
dell’aiuto che costui riceve dal partner. La convivenza more uxorio di coniuge separato che abbia
acquisito carattere di stabilità è dunque in grado
d’influire sull’entità dell’assegno di divorzio
(Cass. 13060/2002).
Analogamente, mentre è pacifico in giurisprudenza che l’uccisione del partner dà sempre diritto al risarcimento del danno morale ex art. 2059
c.c. (C. Cost. 372/1998), per quello patrimoniale
il superstite deve dare la prova della continuità
delle contribuzioni ricevute in vita dal defunto
(Ass. App. Ancona 17.4.2002).
Inoltre al convivente superstite è stato riconosciuto il diritto a succedere nel contratto di locazione ex art. 6, L. E., in caso di morte del partner
locatario. A differenza del caso di rottura del
ménage, per cui la successione è subordinata al
fatto che al convivente vengano assegnati i figli
naturali.
Un’equiparazione normativa si rende infine
necessaria in alcuni specifici casi come, per la
materia penale, le previsioni riguardanti il favoreggiamento personale, l’omessa denuncia, il reato di mancata assistenza familiare e maltrattamenti in famiglia. In diritto civile, si rende necessaria soprattutto per la tutela del contributo lavorativo del convivente nell’impresa familiare ex
art. 230 bis c.c.
Auspicabile sarebbe anche una modifica dell’attuale doppio canale di giurisdizione che trova
conferma nella sentenza della Corte Costituzionale n. 451/1997, per i conviventi con prole, i
quali devono adire il Tribunale dei Minorenni per
le vertenze in materia di affidamento dei figli, e
il Tribunale Ordinario per la determinazione del
relativo assegno di mantenimento in caso di cessazione della convivenza.
In conclusione, sarebbe auspicabile l’attribuzione
di un maggior rilievo alla famiglia di fatto attraverso una disciplina legislativa discreta e rispettosa dell’autonomia negoziale dei conviventi,
intesi quali componenti di un nucleo familiare.
La forza della famiglia di fatto potrebbe quindi
risiedere nella forza del contratto, come ormai
confermato dalla felice esperienza di diversi
ordinamenti stranieri, poggiando su caratteri di
duttilità e concretezza che ne faciliterebbero la
fruizione, difficilmente garantibili da una disciplina imposta dall’alto. Del resto, il contratto non
ha forse forza di legge tra le parti?
23
CRISI DI COPPIA E RESPONSABILITÀ
M
entre ci si chiede se abbia ancora un senso oggi l’istituto dell’addebito della separazione, come conseguenza della violazione dei doveri coniugali, al punto che i diversi
progetti di legge delle ultime legislature ne prevedono l’eliminazione, è affiorata negli ultimi
tempi la tematica della responsabilità aquiliana,
sull’onda della dilagante espansione che ha avuto
negli ultimi decenni e soprattutto in questi anni
l’area del danno alla persona. E’ proprio questa
leva, la tutela della persona, in ogni sua manifestazione individuale, relazionale, collettiva, ad
avere consentito ed anzi imposto di rivedere posizioni che, all’interno del diritto di famiglia, “vietavano” ogni approccio alla valutazione dei com-
RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE DEL
CONIUGE E
RISARCIMENTO DEL
DANNO
ADALGISA
FRACCON *
24
portamenti contrastanti con i doveri derivanti dal
matrimonio che andasse oltre la canonica sanzione di cui all’art. 151, 2° comma, c.c.. Revisione
che si presenta come imprescindibile a fronte della ormai quotidiana “scoperta” attraverso i mezzi
di comunicazione di un universo familiare violento, naturalmente a scapito dei soggetti più vulnerabili, al punto che persino una recente legge,
la n. 154 del 4.4.2001, è intitolata alla violenza
nelle relazioni familiari.
Questa riflessione sulla condizione della persona
all’interno della famiglia e, in particolare, del
rapporto di coppia, non può che partire dalla
visione costituzionale, quale emerge dal raffronto (in termine tecnico, dal combinato disposto)
tra gli artt. 2 e 3 e l’art. 29 della Carta fondamentale, ovvero da una definizione della famiglia
come formazione sociale, nel cui seno l’individuo persegue la propria realizzazione come persona. Non, quindi, come un’entità sovraordinata,
ma come uno strumento che consente ad ogni
componente del gruppo di esprimersi, nelle sue
aspirazioni, bisogni, affettività, capacità relazionale, in una condizione di pari dignità e pari
responsabilità rispetto agli altri.
È importante mettere in luce la funzione della
famiglia di consentire alla persona di ricercare
attraverso di essa la propria realizzazione, perché
quest’ottica consente di apprezzare pienamente il
valore della famiglia e al tempo stesso dell’esperienza che in essa si svolge, dal matrimonio, alla
procreazione ed alla educazione dei figli, alla
condivisione di tutte le vicende che coinvolgono
i suoi membri nelle varie età della vita. Esperienza di relazione, incardinata, quindi, sul reciproco
rispetto, non solo, ma ancor più sul reciproco
sostegno, necessario e, quindi, doveroso, per la
coesione del gruppo e, al tempo stesso, anche se
con diverse modalità e misura, per la soddisfazione delle esigenze individuali.
I diritti e doveri reciproci dei coniugi, descritti,
anche se non esaustivamente, dall’art. 143 c.c.,
rappresentano, quindi, posizioni costituzionalmente garantite, in quanto tali, meritevoli di tutela a tutti i livelli, tanto che per alcuni di essi è
prevista la sanzione penale (artt. 570 ss. c.p.). Al
di fuori della applicabilità delle norme penali,
cioè delle fattispecie tipiche di rilievo pubblicistico, rimane tutta una serie di ipotesi, al di sotto
di quella soglia di gravità, che tuttavia arrecano
un danno ingiusto al coniuge, o al figlio, che non
devono rimanere nel limbo di una zona grigia in
cui la persona è, in contrasto con i principi fondamentali, priva di protezione da parte dell’ordinamento.
Con questa problematica la prassi ha avuto modo
di misurarsi in poche occasioni, a giudicare dalle
sentenze pubblicate, ma è noto come la materia si
presti a soluzioni di tipo conciliativo, in cui la
componente risarcitoria viene spesso assorbita da
attribuzioni di tipo economico (come l’assegno)
o patrimoniale (l’intestazione di un cespite
immobiliare, o il versamento di una somma di
denaro, talora qualificata come assegno una tantum).
Si avverte, in ogni caso, una forte resistenza psicologica a infrangere il muro del suono dell’addebito, ossia della speciale sanzione prevista dal
codice, resistenza che altro non è se non il retaggio di una concezione della famiglia precostituzionale, anteriore alla Riforma del 1975, quando
essa era organizzata secondo il modello patriarcale, quale centro di accumulo e di trasmissione
del patrimonio, un gruppo chiuso (l’isola appena
lambita dal mare del diritto, di jemoliana memoria), in cui le controversie tra i componenti venivano risolte al suo interno (Patti, Famiglia e
responsabilità civile, 1984, 12 ss.).
GENNAIO - APRILE 2004
Per giustificare la conservazione di questa chiusura delle relazioni familiari si è invocata la specialità della disciplina dell’addebito, come si legge in Cass. 6.4.1993, n. 4108. Ma è un argomento debole.
All’addebito della separazione, così come è configurato attualmente in virtù degli artt. 156 e 548,
2° comma c.c., è estranea ogni funzione, né diretta né indiretta, di natura risarcitoria; l’unica riconoscibile finalità dell’istituto è quella di contenere la portata economica del dovere di solidarietà
tra coniugi separati, disciplinandone gli effetti a
vantaggio del coniuge obbligato al mantenimento
e dei suoi eredi, specialmente dopo gli interventi
della Corte costituzionale che negli anni ottanta
ha adeguato al principio solidaristico il sistema
retributivo (sentenza 22.7.1985, n. 213, interpretativa di rigetto della questione di illegittimità
dell’art. 2122 c.c. per contrasto con l’art. 3 Cost.)
e previdenziale (sentenze 28.7.1987, n. 286;
3.1.1988, n. 1009; 27.7.1989, n. 450). L’addebito, inoltre, ha suoi propri requisiti, in particolare,
quello della relazione causale con l’intollerabilità
della separazione, dai quali l’istanza ex art. 2043
c.c. prescinde completamente.
A queste considerazione si deve aggiungere che
la componente risarcitoria dell’assegno divorzile,
conseguenza della violazione dei doveri coniugali durante la convivenza, copre unicamente il
danno da perdita del tenore di vita e del diritto al
mantenimento derivante dal matrimonio, ma non
i danni ulteriori, diversi, come quelli aventi natura non patrimoniale (cfr. Cass. 26.5.95, n. 5866,
GI, 1997, I, 1, 843); riprova ne sono le vicende
cui è soggetto l’assegno in questione, quali l’estinzione per nuove nozze dell’avente diritto e
per revisione ex art. 9 l. div., o la sua trasformazione in assegno alimentare a carico dell’eredità,
in presenza dello stato di bisogno (art. 9-bis l.
div.).
Non sono certo queste le difficoltà con cui ci si
deve misurare quando si tratta di applicare l’art.
2043 c.c. alla violazione dei doveri sponsali. E’,
piuttosto, la peculiarità della relazione di coppia,
così come di quella genitoriale e, in generale,
delle relazioni affettive, a suggerire, ad imporre
una particolare attenzione nella definizione dell’ingiustizia. Fino a che punto si può pretendere
dal partner un certo comportamento in nome del
dovere di assistenza morale, o di collaborazione;
fino a che punto deve spingersi lo spirito di adattamento, di sacrificio, di solidarietà, senza tradire le proprie esigenze insopprimibili? Se la famiglia è un luogo di autorealizzazione, in essa
dovrebbe esserci il massimo di libertà compatibile con il massimo di solidarietà, due principi che
talvolta, spesso purtroppo, sembrano divergere
CRISI DI COPPIA E RESPONSABILITÀ
irrimediabilmente. Pare, in definitiva, che la
valutazione dell’ingiustizia del comportamento
dell’agente, in presenza di un danno cagionato al
coniuge come esito di una dedotta violazione dei
doveri derivanti dal matrimonio, debba essere
particolarmente oculata sull’individuazione (dei
limiti) di quello specifico dovere che si assume
trasgredito.
Gli esempi che vengono dalla prassi presentano,
a tal proposito, condotte di macroscopica gravità.
Così quella del marito che si era completamente
disinteressato della grave malattia psichica della
moglie, la quale per ben quattro anni era rimasta
in una condizione di completo abbandono dentro
le mura domestiche, mentre si era attivato, chiedendo un t.s.o., solo in vista della necessità di
rilasciare l’abitazione. E poi, dopo un ricovero
ospedaliero di oltre quaranta giorni, nel corso dei
quali era andato a trovarla solo un paio di volte,
al momento della dimissione aveva manifestato
assoluta indisponibilità a riaccoglierla presso di
sé “per la diversa organizzazione della famiglia,
nella quale non era prevista la presenza della
moglie”, cosicché la signora era stata costretta a
tornare a vivere presso i genitori.
La sentenza del Tribunale di Firenze del
13.6.2000 (in Famiglia e diritto, 2001, 161, con
nota favorevole di Dogliotti; in Danno e Responsabilità, 2001, 741, con nota favorevole di De
Marzo) ha pronunciato la separazione con addebito al marito, ma non si è fermata qui. Lo ha,
infatti, condannato a risarcire alla donna il danno
biologico per la invalidità temporanea, durata tre
anni e mezzo, ravvisando il profilo dell’ingiustizia nella violazione del dovere coniugale di assistenza morale e materiale, la colpa nell’inescusabile ritardo dell’attivazione dei sussidi terapeutici, il danno nella compromissione della salute
che ben poteva essere risparmiata alla poveretta,
se solo il coniuge avesse chiamato il medico fin
da quando la malattia l’aveva costretta nel più
totale isolamento, anziché ignorane la gravità, e
tentare di disfarsi della moglie con l’occasione
del trasloco, tentativo peraltro perfettamente riuscito. Per l’invalidità temporanea è stata liquidata la somma di £. 142.350.000 (£. 150.000 x gg.
1300, ridotte, poi, in ragione dell’età dell’avente
diritto), mentre è stata esclusa, per difetto di prova, la permanente.
Ancor più singolare, ma fortunatamente meno
grave del caso fiorentino è quello esaminato dal
Tribunale di Milano nella sentenza del 4.2.2002,
(Guida al Diritto, 2002, 37, con nota contraria di
M. Finocchiaro; Resp. civile e previdenza 2002,
1440, con nota favorevole di Cendon e Sebastio,
1257; Gius, 2002, 2239; GI, 2002, I, 2291, con
nota favorevole di Castagnaro; NGCC, 2003,
25
CRISI DI COPPIA E RESPONSABILITÀ
278, con nota favorevole di Fusaro; DR, 2003,
644, con nota favorevole di Migliorati).
Dopo circa due-tre mesi dalla scoperta di una
gravidanza voluta e ricercata, il futuro padre
dichiara alla moglie di non volerne più sapere né
di lei né del nascituro e tenta ostinatamente di
indurla ad abortire, si assenta spesso da casa, tanto che la donna si rivolge ai Carabinieri per ben
due volte denunciandone la scomparsa. Quando
ritorna, lascia alla moglie biglietti che attestano
la sua sprezzante ed ostentata indifferenza per la
sorte della gestante, al punto che una sera, rientrato a casa, dopo che questa era stata male tutto
il giorno, si era allontanato nuovamente lasciandola sola. Come se tutto ciò non fosse stato sufficientemente chiaro, costui mette anche espressamente per iscritto di non provare nessun sentimento per la moglie e per il figlio nonché di rifiutare e di non avere alcun interesse per nascituro.
Il sospetto che l’uomo avesse in corso una relazione extraconiugale non trova conferma nelle
prove orali e, tuttavia, il Tribunale addebita al
marito la separazione, in considerazione di questo comportamento clamorosamente contrastante
non solo con i doveri coniugali, ma perfino con i
più elementari doveri di rispetto e di solidarietà
umana e, in particolare, di quelli derivanti dalla
procreazione - in questo caso consapevolmente
voluta ed attuata - , che hanno riguardo non solo
al frutto del concepimento ed al nascituro, ma
altresì alla persona della gestante/madre. Oltre
all’addebito, la sentenza condanna l’uomo a
risarcire alla moglie, che aveva sviluppato una
sindrome depressiva reattiva al comportamento
coniugale, accertata dal medico curante, e che
aveva poi subito il parto cesareo, in considerazione del fatto che la crescita fetale appariva rallentata ed asimmetrica, il danno non patrimoniale, ravvisato nelle sole sofferenze psicologiche
subite durante la gestazione e subito dopo il parto, con la somma, assai contenuta, di £.
10.000.000. Il danno viene riconosciuto a norma
dell’art. 2043 c.c., e non dell’art. 2059 c.c.,
secondo l’orientamento allora prevalente, che
ravvisava nella seconda norma il mero danno
morale soggettivo, vincolato all’art. 185 c.p. (prima, cioè delle note pronunce della S.C. del 31
maggio 2003, n.ri 8827 e 8828).
A queste pronunce positive va accostata, per
meglio chiarire i termini della questione, nel senso sopra individuato della peculiarità dell’operazione valutativa dell’ingiustizia, e cioè del bilanciamento del diritto di libertà dell’agente con
quello della vittima a non subire la violazione di
posizioni soggettive tutelate (si veda, in proposito, la motivazione di Cass. sez. u., 22.7.1999, n.
500), la decisione del Tribunale di Savona
26
AIAF RIVISTA 1/2004
5.12.2002 (FD, 2002, 248, con nota di Dogliotti),
nella quale la moglie, in sede di divorzio, lamentava che il marito, dal quale si era separata consensualmente, l’avesse lasciata dichiarandole di
aspettare un bambino da un’altra donna, dopo che
nei nove anni di convivenza le aveva sempre detto di non volere figli.
Qui sembra evidente che sul piano giuridico
(altro è, naturalmente, il foro interno) non c’è
modo di valorizzare il supposto “tradimento”.
L’intesa coniugale di non procreare, non era
minimamente vincolante per la donna che la condivideva del tutto liberamente, come non ha mancato di sottolineare il Tribunale. Una sua unilaterale decisione di rompere l’accordo non avrebbe
potuto essere fondatamente addotta dal marito
quale ragione di addebito della separazione, per il
caso in cui il comportamento della moglie avesse
reso intollerabile la prosecuzione della convivenza. Parallelamente, se il marito era stato indotto
dalla nuova relazione a rivedere la preclusione
verso la procreazione, non gliene può essere fatta una colpa, in quanto la sua pretesa precedentemente manifestata era suscettibile di revisione in
ogni momento.
Ogni intesa che coinvolga i diritti irrinunciabili
di libertà, cioè quelli che costituiscono espressione fondamentale della persona, è necessariamente esposta alla possibilità di essere rovesciata a
causa della trasformazione che il rapporto di coppia e l’esperienza dei suoi componenti subisce
giorno dopo giorno. Ciò che conta è la lealtà nel
manifestare le proprie scelte ed il rispetto della
sensibilità altrui, ma non sembra che, nel caso
ligure, fosse questo il problema. In altri termini,
al di là della violazione del dovere di fedeltà per
la relazione extraconiugale, il fatto della procreazione in sé non sembra essere ipotizzabile come
causa di danno ingiusto alla moglie, più di quanto non lo sia stato il tradimento con l’altra donna.
La libertà specifica di procreare, infatti, “pesa” di
più, sul piatto della bilancia della valutazione dei
contrapposti interessi, della tutela della posizione
della moglie tradita.
* giudice presso il Tribunale di Milano
GENNAIO - APRILE 2004
“I
l giudice, pronunziando la separazione,
dichiara, ove ne ricorrano le circostanze
e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia
addebitabile la separazione, in considerazione
del suo comportamento contrario ai doveri che
derivano dal matrimonio.”
Cosi’ recita l’ultimo comma dell’art.151 c.c..
Non c’è studioso del diritto di famiglia che abbia
omesso di dire la sua su questa formulazione,
residuo della vecchia -colpa-, e non c’è avvocato della materia che non si sia chiesto come dare
visibilità e conseguenze concrete a questa pronuncia che, nella maggior parte dei casi, finisce
per esaurirsi in una funzione solo moralmente
sanzionatoria. Come è noto le uniche conseguenze economiche espressamente previste della pronuncia di addebito, sono quelle di cui all’art.156
c.c., secondo cui al coniuge cui non sia addebitata la separazione, e qualora non abbia adeguati
redditi propri, spetta un pieno diritto di ricevere
dall’altro quanto necessario al suo mantenimento, mentre al coniuge cui è addebitata la separazione spetta il più ridotto diritto agli alimenti ex
art.433 c.c. e seguenti, e all’art.548 c.c. sui diritti successori, per cui al coniuge cui è stata addebitata la separazione, non sono riservati gli stessi diritti ereditari del coniuge non separato ma
solo il diritto ad un assegno vitalizio, se ed in
quanto titolare di assegno alimentare. Infine, ove
l’assegno divorzile sia stato riconosciuto, del
tutto indifferente rimane la precedente pronuncia
di addebito della separazione in ordine ai successivi eventuali rapporti patrimoniali tra coniugi: diritto alla quota del trattamento di fine rapporto, assegno a carico dell’eredità, diritto alla
pensione di reversibilità.
La ridotta portata sanzionatoria dell’addebito, e
la sua eccezionalità subordinata alla efficienza
causale sulla intollerabilità della prosecuzione
della convivenza, ha portato più di uno studioso
a proporre l’ eliminazione dell’addebito dal
nostro ordinamento e a valutare più concretamente, sul piano della responsabilità civile, le
condotte lesive dei diritti dei singoli membri della comunità familiare, non solo quelli propri di
ogni essere umano, relativi alla salute psicofisica, all’integrità personale, alla riservatezza, alla
dignità, all’onore, all’immagine, ma anche quelli propri dello status di coniuge (1).
La nozione di comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio, e tale da comportare la pronuncia di addebito, ha subito nel
corso degli anni una costante evoluzione. Si pensi alla violazione dell’obbligo di fedeltà, ora
ritenuta costitutiva di sentenza dichiarativa di
addebito non per il fatto in sé ma solo se, per le
modalità in cui si svolge, configura lesione della
CRISI DI COPPIA E RESPONSABILITÀ
dignità ed ingiuria grave nei confronti dell’altro
e tale da provocare insanabile frattura matrimoniale (2).
Anche la violenza fisica, quando non è un fatto
isolato, ma una condotta ripetuta, è indubbiamente sanzionata con la dichiarazione di addebito. Meno facile trovare sentenze che si siano
occupate dell’aggressione della sfera psichica
dell’altro, condotta più sinteticamente espressa
ed identificata, per primo nell’ambito giuslavoristico, con la parola inglese mobbing.
Che cos’è il mobbing? Una recente sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione lo definisce
“l’aggredire la sfera psichica altrui” (3).
Mobbing letteralmente vuol dire “aggressione”,
CONDOTTA
VESSATORIA DEL
CONIUGE: ADDEBITO
DELLA SEPARAZIONE E
MOBBING
solo dopo la parola è stata collegata alla psiche.
Nel caso esaminato dalla Cassazione si tratta di
violenza sottile e oppressiva, comportamenti
piccoli, formalmente leciti, e singolarmente irrilevanti, ma che ripetuti e ininterrotti diventano
ossessivi e insopportabili. Una violenza nascosta
e silenziosa, ma non per questo meno invasiva,
qualche volta peggiore della violenza fisica; una
violenza per colpire la volontà e indurre all’errore o alle dimissioni.
La parola forse è nuova, ma la tecnica è sempre
la stessa: demansionare il lavoratore, isolarlo,
privarlo degli strumenti di lavoro quali computer, posta elettronica, accesso ai dati aziendali, a
volte del lavoro stesso, delegittimarlo, di fronte
ai colleghi o a terzi, contestare ogni sua azione
anche la più piccola ed irrilevante, sino a farlo
sentire estraneo al contesto, insicuro, indurlo a
sbagliare, provocando la sua espulsione dal processo produttivo e dal rapporto di lavoro.
Harald Ege ha sviluppato un questionario, il
GIOVANNA
FAVA *
27
CRISI DI COPPIA E RESPONSABILITÀ
LIPT (leyman Inventory of Psychological Terrorism), e ha identificato 45 azioni mobbizzanti
suddivise in cinque macro categorie a seconda
dell’aspetto colpito:
- la possibilità di comunicare (la persona è
impossibilitata a comunicare adeguatamente,
viene messa a tacere, interrotta quando parla,
non viene ascoltata)
- le relazioni sociali (la persona è isolata dagli
altri, le viene impedito in vari modi di comunicare e relazionarsi con gli altri, è ignorata in
quello che fa)
- l’immagine sociale (la reputazione e la sua
opinione di sé vengono intaccate da maldicenze, derisioni in pubblico, pettegolezzi, umiliazioni, prese in giro)
- la qualità della situazione professionale (il
suo lavoro perde significato, gli vengono
assegnati compiti privi di importanza o addirittura viene privata di quelli che ha, vengono
rimarcati pesantemente i suoi errori)
- la salute (gli vengono assegnate mansioni
umilianti o dannose, è vittima di molestie)
(4).
La vittima del mobbing, indipendentemente da
un suo eventuale danno alla salute, è una persona ingiustamente colpita nella sua personalità e
nella sua dignità di persona. Ed è facile osservare come lo schema individuato da Ege possa
essere utilizzato efficacemente sia nel rapporto
di lavoro che in quello familiare. Non è affatto
infrequente, nelle motivazioni che inducono un
coniuge a chiedere la separazione, che l’avvocato si senta indicare come elementi determinanti
per la separazione fatti apparentemente modesti,
mentre altri più gravi non assumono tale rilevanza. Penso al caso di una signora non più giovane
che, sposati i figli e nonostante fosse ammalata e
bisognosa di cure, si era determinata a chiedere
la separazione. Alla mia domanda sul perché,
cosi’ avanti negli anni e senza alcuna prospettiva
di una vita economicamente migliore, mi rispose
che era suo desiderio almeno morire in pace: non
erano stati i frequenti tradimenti del marito ad
indurla a chiedere la separazione ma il fatto che
lei aveva problemi di salute che le imponevano
un preciso regime alimentare, ma a fare la spesa
provvedeva il marito che riempiva quotidianamente il frigorifero di cibi per lei dannosi. Un
fatto lecito, l’acquisto di cibo, finiva per essere,
in quel caso, una vera e propria vessazione nei
confronti della moglie che non poteva recarsi a
fare spesa e neppure scegliere cosa mangiare.
Non sono infrequenti coniugi che impongono
all’altro determinate modalità di vita: il divieto
di frequentare le amiche, gli amici, financo i
parenti, l’uso o meno del telefono, la scelta del28
AIAF RIVISTA 1/2004
l’abbigliamento, la pettinatura, (5) il divieto di
usare cosmetici, di usare il bancomat, l’obbligo
di rendere conto di ogni azione e ogni piccola
somma spesa.
E quante volte non lo schiaffo, ma l’umiliazione
e la delegittimazione, incidono pesantemente
nella scelta separativa, frasi quali: “non vali
niente” “sei una poco di buono” “sei un fallito”
“puoi andartene quando vuoi” “se non ti va bene
quella è la porta” “sei una cerebrolesa” “non
capisci niente” “non sai crescere i figli” “non sai
neppure cucinare” “non combinerai mai niente
nella vita” “non mi piaci” “a letto non vali niente”, a volte dette anche in presenza dei figli e di
persone estranee al nucleo familiare, così come i
silenzi punitivi, ignorare l’altro e le sue scelte,
delegittimandolo nei fatti, intaccando la sua
autostima, annullandone la personalità.
Le prime sentenze a utilizzare il termine -mobbing- per vessazioni sul luogo di lavoro sono del
Tribunale di Torino, del 16 novembre 1999 e del
30 dicembre 1999, poco dopo è giunta la nota
sentenza della Corte di Appello di Torino, che ha
utilizzato il concetto di mobbing in una vicenda
familiare, ed in specie nelle molestie morali
poste in essere dal marito nei confronti della
moglie.
Si legge nella sentenza “È emerso infatti che il
comportamento tenuto dallo S. ha comportato,
per tutta la durata del rapporto,…offesa alla
dignità dell’altro coniuge, in considerazione
degli aspetti esteriori con cui era coltivato e dell’ambiente in cui era esternato, ed è stato oggettivamente tale da cagionare sofferenza e turbamenti lesivi all’immagine ed offese pregiudizievoli della personalità del coniuge con atteggiamenti di disistima e comportamenti espulsivi,
particolarmente gravi per i toni sprezzanti ed in
quanto esternati alla presenza dei componenti
del gruppo parentale ed amicale, benché la
moglie tentasse, in tali occasioni di ricomporre
le fratture. Lo S. ha dunque tenuto nel corso del
rapporto una condotta offensiva ed ingiuriosa
sotto plurimi profili….L’attacco alla autostima
della partner sia per le radici di appartenenza,
sia come donna, che come compagna, non solo
respinta nell’intimità del rapporto di coppia,
ma pubblicamente irrisa anche sul piano estetico … e svalutata in tutti i ruoli propri del sodalizio familiare, ripetutamente invitata con toni
pesanti ad andarsene di casa, perché compagna
non gradita, l’ha poi sicuramente condizionata,
demotivandola, nella scelta di rinunciare ad
essere madre…il marito curò sempre e solo il
rapporto di avere, trascurando quello dell’essere, e con comportamenti ingiuriosi protrattisi e
pubblicamente esternati per tutta la durata del
GENNAIO - APRILE 2004
rapporto coniugale ferì la T. nell’autostima,
nell’identità personale e nel significato che lei
aveva della propria vita”.
La Corte piemontese prosegue poi evidenziando
la gravità della violazione dei doveri sanciti
dagli articoli 143 e 144 c.c. direttamente collegandosi ai principi costituzionali.
“Il comportamento reiterato di S. è dunque
risultato violatorio del principio di eguaglianza
morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art.3 Cost. che trova, nell’art.29 Cost. la
sua conferma e specificazione, onde allo stesso
deve essere ascritta la responsabilità esclusiva
della separazione, in considerazione del suo
comportamento contrario ai doveri che derivano
dal matrimonio, in particolar modo al dovere di
correttezza e di fedeltà… pertanto la complessiva condotta dello S., secondo quanto emerso, fu
eziologicamente tale da cagionare disagio, sofferenza e turbamenti, lesioni all’immagine, pregiudizievoli della personalità del coniuge, con
atteggiamenti ingiuriosi di disistima che la isolavano dalla considerazione del gruppo di
appartenenza e ne sollecitavano l’allontanamento, essendo esplicitamente e ripetutamente
espulsivi (6).”
La Corte fa quindi riferimento alla pressione psicologica, esercitata da un coniuge sull’altro per
indurlo a comportamenti e scelte, da questi non
condivise ma subite al solo scopo di non essere
estromesso dalla vita matrimoniale.
La sentenza della Corte torinese, pur individuando nella condotta tenuta dal marito il fenomeno
internazionalmente noto come mobbing, si è
limitata a pronunciare l’addebito della separazione. Per la giurisprudenza maggioritaria, infatti, l’addebito della separazione, di per sé considerato, non è fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., determinando, nel
concorso delle altre circostanze specificamente
previste dalla legge, solo il diritto del coniuge
incolpevole al mantenimento (7).
La strada del risarcimento del danno in ambito
familiare era già stata aperta dalla giurisprudenza di legittimità ma con riferimento a danni ad
opera di terzi (8), poi dalla giurisprudenza di
merito e di legittimità in relazione al rapporto
genitore-figlio (9).
In relazione al rapporto coniugale significativa è
una pronuncia del Tribunale di Firenze, per il
quale, in un caso specifico di mancata assistenza, la condotta del coniuge è stata ritenuta, legittimante non solo la pronuncia di addebito della
separazione, ma anche di condanna, nel medesimo processo di separazione, al risarcimento del
danno c.d. biologico (10).
La novità della sentenza del Tribunale di Firenze
CRISI DI COPPIA E RESPONSABILITÀ
è appunto la condanna del coniuge, concorrente
e non alternativa, alla pronuncia dell’addebito e
al risarcimento del danno alla salute subito dalla
moglie per l’inescusabile ritardo nel fornirle i
necessari sussidi terapeutici.
Il caso di aggressione alla sfera psichica dell’altro, trattato dalla Corte di Appello di Torino, non
è entrato nel campo della responsabilità civile,
tuttavia, se la condotta lesiva del mobbing, perpetrato attraverso i medesimi schemi comportamentali, è fonte di responsabilità nell’ambito
lavorativo non si vede perché non debba esserlo
anche in ambito familiare (11).
Rimangono i problemi legati all’onere della prova, nel diritto di famiglia come nel diritto del
lavoro. Con la sentenza n. 143 del 2000 la Cassazione dà risposte precise e corrette a questo
vecchio ma sempre ricorrente fenomeno, ora
mobbing: la condanna è totale, ma allo stesso
tempo si confermano alcuni principi importanti.
A cominciare dalla prova: è confermata la necessità di una prova rigorosa, a carico ovviamente
di chi lamenta il fastidio, e va data una doppia
prova: sia della lesione (il danno), sia del nesso
causale con quel comportamento, che può essere
doloso o, dice sempre la Cassazione, anche colposo (12).
Non sfugge tuttavia all’interprete il fatto che il
mobbing, fenomeno che può procurare morbilità
e grave danno alla salute fisica e psichica, è
fenomeno non previsto dal nostro ordinamento,
ed è argomento proprio recentemente ritenuto
dalla Corte Costituzionale di competenza dello
Stato, per cui non è consentito alle Regioni legiferare autonomamente in materia (13). Ne deriva
che, non esistendo nel nostro ordinamento giuridico una definizione del mobbing (14) ed una
sua previsione come reato o anche solo come
condotta costitutiva di danno, i riferimenti normativi sono ancora necessariamente, quelli di
diritto comune. Per il diritto del lavoro si farà
ricorso agli artt.2059 c.c. e 41 Cost., artt. 1175
c.c., 1176 c.c., 1375 c.c., 2087 cc., 2043 c.c.,
2049 c.c. e art.2 Cost. mentre nell’ambito familiare si farà riferimento agli articoli 143, 144,
145 cc., artt. 2, 3 e 29 Costituzione, art. 2043 c.c.
Ed accanto al più generale danno alla salute,
dovranno considerarsi tutte le nuove figure di
danno elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, quali il danno biologico, il danno da perdita di chance, il danno esistenziale (15), il danno morale, il danno alla vita di relazione, nonchè
il danno da rimbalzo, che la condotta mobbizzante produce sulle persone che sono in relazione con la vittima delle condotte vessatorie. Nell’ambito familiare si avrà cura di considerare
principalmente i figli, ma anche i genitori e l’a29
CRISI DI COPPIA E RESPONSABILITÀ
AIAF RIVISTA 1/2004
rea parentale.
* avvocato del Foro di Reggio Emilia,
presidente Forum Associazione Donne Giuriste
NOTE
1) A. Fraccon, Relazioni familiari e responsabilità civile, Giuffrè 2003
2) Cassazione Sez. I civile, sent. 27 novembre 2003, n. 18132
3) Cassazione, sent. 8 gennaio 2000, n. 143, Pres. Trezza, Rel. Prestipino
4) Harald Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Giuffrè 2002
5) Trib. Catania, 31 dicembre 1992, in Dir. Fam. Persone 1993
6) C. Appello Torino, 19 febbraio 2000
7) Cassazione, Sez. I civile, sent. 27 novembre 2003, n. 18132
8) Cassazione, 11 novembre 1986, n.6607
9) Trib. Milano, 10 febbraio 1999; Cassazione, sent. 7 giugno 2000, n.7713; Trib. Roma, 13 giugno
2000. Osserva M.Dogliotti, (Dir. Fam e Per. 1/2002) commentando la sentenza del Tribunale di
Roma “è un fenomeno nuovo e sorprendente l’immissione dello schema della responsabilità civile
all’interno dei luoghi più riposti del diritto di famiglia, fenomeno sorprendente, ma in sostanza condivisibile: l’area della responsabilità civile si estende ancora, e si affianca (ma per ora non li sostituisce) a strumenti pur superati come l’addebito, lambisce profili di diritto particolare, caratterizzati ora da zone franche di privilegi deresponsabilizzanti, ora da situazioni di forte coercibilità ...ma
una più marcata incidenza dell’-altro- diritto non può che essere vista con favore, anche perchè
potrebbe contribuire a segnare una nuova prospettiva per i ruoli stessi all’interno della famiglia...marito, moglie, padre, madre, figlio non più, rispettivamente, titolari di posizioni di privilegio, di supremazia, o gravati da vincoli di soggezione, le une e gli altri particolari e esingolari, ma
finalmente liberi, uguali, e compiutamente responsabili verso terzi, ed anche l’uno nei confronti dell’altro.
10) Trib. Firenze 13 giugno 2000
11) Monateri, Bona e Oliva, Mobbing, Giuffrè, 2000, 126 e segg.
12) M. Miscione, I fastidi morali sul lavoro e il mobbing
13) C. Costituzionale, sent. 10-19 dicembre 2003, n.359, che ha dichiarato l’illegittimità della legge
Regione Lazio n.16/2002 in materia.
14) Amato, Casciano, Lazzeroni, Loffredo, Il mobbing, Giuffrè 2002, osservano l’importanza del ricondurre ad unità le singole condotte vessatorie proprio per meglio valutare l’entità del danno in quanto “gli effetti dannosi del mobbing non sono una semplice sommatoria degli effetti dannosi delle singole condotte persecutorie, per cui sarebbe sufficiente risarcirle singolarmente per avere risarcito il
tutto. Ogni singola condotta persecutoria crea un precedente nella psiche e/o sul corpo della vittima, il che significa che il danno provocato dalla seconda condotta dovrà essere valutato tenendo
conto del substrato psicofisico già compromesso nel quale va ad innestarsi.”
15) G. Cassano, Danno esistenziale, La Tribuna.
Sul danno esistenziale da mobbing, in giurisprudenza, Trib. Forlì 15.3.2001, Sorgi.
30
FORMAZIONE E DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO FAMILIARISTA
L
a figura dell’avvocato quale mero difensore
apud iudicem dei diritti del proprio assistito è
sempre meno credibile nell’odierno contesto
della giurisdizione, che richiede in maniera peculiare
e rinnovata (alla ricerca di deflazionare il contenzioso e della connessa esigenza di sottrarsi ai biblici
tempi del processo, da un lato; del diverso e più favorevole approccio culturale alla definizione della lite
attraverso forme di componimento bonario per il
mezzo della mediazione professionale, dall’altro)
l’esercizio del tradizionale sforzo -advocatus primus
praetor- di comporre il conflitto prima e senza l’intervento giudiziale.
Particolare enfasi, in tale ottica, assume l’attività di
assistenza e consulenza dell’avvocato negli affari
relativi ai diritti inferiti dal rapporto matrimoniale in
crisi e più in generale della famiglia, con riferimento, inispecie, ai diritti prevalenti dei figli minori.
Si tratta, qui, di svolgere il proprio munus difensivo
in una materia di estrema delicatezza, sia per relazione alla personalità dei diritti che al coinvolgimento
del bene comune della società riguardato sub specie
della integrità della famiglia o comunque del benessere materiale e spirituale dei suoi componenti che
sono, attraverso di essa, i primi attori sociali.
Si evidenzia per tale profilo l’elevata responsabilità
dell’avvocato chiamato a dare il proprio apporto di
specifica professionalità, non solo giuridica ma
anche psicologica e più generalmente di sensibilità
umana, da declinare non secondo schemi prefissati e
stereotipati -con funzione quasi notarile di semplice
recepimento delle istanze del cliente cui dover dare
solo appropriata veste giuridica-, ma con elasticità
flessibilità e capacità, prima di tutto, di ascolto, allo
scopo di rendere un servizio quanto più vicino alle
reali aspettative di chi chiede l’assistenza, il consiglio.
Occorrerà, allora, sia preparazione remota che
costante coltivazione della propria capacità di rendere il servizio professionale anche e soprattutto nella
fase stragiudiziale, nella prospettiva di potere preventivamente definire la lite ovvero di potervi arrivare avendo già limitato il thema decidendum solo a
quanto effettivamente meritevole della valutazione
processuale.
È il ricorrente tema della formazione che, in questo
ambito, dice ancor più direttamente relazione alla
“specializzazione”, nella accezione di rapporto fra
professionista, da un lato, e colui che attende il servizio di giustizia, in termini di assistenza e consulenza legale ovvero di affermazione giudiziale dei diritti, dall’altro, nella chiave di una sempre maggiore
adeguatezza della risposta, in termini appunto di servizio, alla relativa domanda di giustizia.
Secondo tale prospettazione, è la stessa etimologia
latina del servire che ci aiuta a cogliere lo spirito di
obbedienza che chi è chiamato a dare quella risposta
deve avere ai termini della domanda, in capacità di
ascolto, di comprensione, di elaborazione del quesito, di espressione e significanza della soluzione a
prospettarsi.
La necessità ed il senso della specializzazione risiedono appunto nello sforzo di obbedienza alla
domanda, cioè nella consapevolezza che solo l’adesione quanto più precisa alla richiesta di giustizia è
corretto pegno di una -almeno in tesi- adeguata risposta.
Specializzazione vuole conseguentemente dire formazione: formazione di accesso, formazione permanente, correttezza comportamentale intesa come
rispetto deontologico, cioè svolgimento della consecuzione essere - dover essere; in una parola, control-
LA FORMAZIONE
PROFESSIONALE
DELL’AVVOCATO DI
FAMIGLIA
lo di qualità del servizio nel senso di accertamento
periodico del mantenimento ovvero del necessario
accrescimento delle conoscenze e delle abilità
(appunto non solo tecniche ma anche comportamentali e, finalmente, morali) dei soggetti della giurisdizione in vista di garantire una sempre maggiore qualità finale del prodotto giustizia.
In questa prospettiva può avere un senso parlare di
formazione comune a magistrati ed avvocati, non
cioè per cassare le rispettive peculiarità distintive che
vanno anzi enfatizzate proprio perchè specializzanti,
ma per significare il richiamo per entrambe le categorie ai medesimi principi di servizio ed obbedienza
alle istanze di giustizia su cui sono, nei rispettivi ruoli, chiamati a chinarsi con atteggiamento di umile
ascolto e caritatevole risposta al reale storico e sociale.
Specializzazione vuole pure, quindi, dire organizzazione ordinamentale e logistica, anzi nel nostro caso
ri-organizzazione degli ordinamenti e degli uffici,
cioè riforma dell’esistente, perchè non più adeguato
-o forse giammai tale-, senza tema di perdere rendite
di posizione, senza atteggiamenti di conservazione
finalizzati alla migliore cura del proprio orticello,
RENATO
VENERUSO *
31
FORMAZIONE E DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO FAMILIARISTA
senza timore di prendere il largo e navigare nei mari
procellosi dell’ignoto: agli inizi del terzo millennio,
l’uomo pone a Dike domande sempre antiche nel
loro anelito di giustizia, certamente nuove nella loro
formulazione e diversità, cui non possiamo -come
interpreti della dea interrogata- rimanere silenti.
Si potrà e si deve discutere dei termini della riforma,
si potrà o meno concordare con i progetti aperti al
dibattito politico ed alla attività legislativa del Parlamento, ma, certo, non è lecito adottare atteggiamenti
meramente ostruzionistici tesi unicamente a rinviare
la trattazione del problema, che già sarebbe in sè un
modo per dargli una soluzione sì, ma negativa!
Nè si può continuare ad impostare qualsivoglia progetto di riforma con la riserva mentale del ‘costo
zerò, con il bugiardo alibi della limitatezza delle
risorse che, proprio in quanto tali, devono invece
essere spese al meglio, secondo criteri, appunto, di
specializzazione che sappiano compiutamente sfruttare le risorse -prima di tutto umane- a disposizione.
Emblematico, in tal senso, è stato il caso delle sezioni specializzate per la famiglia: nella ipotesi di riforma pregiudicata di incostituzionalità dalla Camera
dei Deputati, l’avvocatura, nella sua rappresentanza
politica (OUA), ha inteso sottolineare l’apprezzamento per una formulazione ordinamentale che, in
tesi, è ispirata a corretti principi di specializzazione,
che non sono affatto negati dalla abolizione di un
Tribunale, quale quello dei Minori, speciale solo sulla carta, ma in realtà, almeno nella prassi, ispirato ad
un’attitudine assistenzialistica e paternalistica invero
opposta a quel criterio di obbedienza della risposta
alla domanda di giustizia (frutto di una impostazione
ideologica di monopolio pedagogico statale invasivo
della primazia della famiglia, ritenuta ordinariamente -e non solo in presenza di conclamata patologiaincapace di gestire i propri conflitti evolutivi), pur
segnalando, nel contempo, il limite della pratica
impossibilità di conseguire la effettiva specializzazione degli operatori di tali costituende sezioni specializzate non essendosi affatto posto il problema
della loro formazione, della organizzazione degli
uffici, del rito che deve in esse essere officiato.
Specializzazione dice, infine, considerazione della
rilevanza del rito rispetto alla specialità della materia
da trattare, sempre nel rispetto di quella obbedienza
che deve essere tale anche nelle modalità di perseguimento della adesione della risposta alla domanda
di giustizia.
Anche sul punto è significativa la inadeguatezza
strutturale dei progetti di riforma in materia di diritto
di famiglia che, quando non improntati a fumisterie
ideologiche -come francamente appaiono, ad esempio, quelli sull’affidamento condiviso o più propriamente congiunto (ispirati a modelli di bi-genitorialità
piuttosto che di co-genitorialità, che sembrano adombrare strutture familiari a tipologia... tribale invero
32
AIAF RIVISTA 1/2004
ancora molto distanti dalla nostra Carta costituzionale!!), sono distanti anni luce dalla aspettativa di dare
una risposta concreta e realistica alle esigenze degli
operatori del settore.
Specializzazione dei riti significa pure porsi il problema dei sistemi alternativi delle controversie, di
come, cioè, gli ADR si pongono in relazione alla specializzazione, se sia possibile e corretto ipotizzare il
ricorso a forme additive di definizione amichevole
della lite anche per materie bisognose di trattazione
specializzata o se, addirittura, siano per esse preferenziali, come alcuni hanno adombrato proprio per la
mediazione familiare.
Se ciò volesse significare la mera esternalizzazione
del processo a vantaggio di presunti specialisti, incapaci però strutturalmente di assicurare le garanzie
procedimentali minime (terzietà ed apparenza di terzietà, rispetto del contraddittorio ancorchè non in
conferenza personale, difesa tecnica obbligatoria), è
evidente che ricadremmo in quel malinteso concetto
di falsa specializzazione invero inabile a dare adeguata risposta alla domanda di giustizia; se, invece, si
vuole riscoprire una opportunità di policentrismo dei
soggetti di giustizia, parallela ad un recupero di soggettività politica della società, allora il discorso va
spostato appunto sul sistema delle tutele e sulla
necessità di recuperare la unità della giurisdizione
non più nella unicità del monopolio statale del soggetto giudicante ma appunto nella salvaguardia degli
standard procedimentali a difesa della eguaglianza
sostanziale di chi invoca giustizia anche da una posizione debole.
Decisivo sarà al riguardo l’apporto dell’avvocatura,
se questa sarà veramente capace di dare assistenza e
consulenza già nella fase che preceda, ed eventualmente superi, il giudizio, nell’aspirazione di saper
replicare alle sfide del nuovo millennio.
Sia concesso sperare e vivere la convinzione che
l’Avvocatura saprà raccogliere e vincere queste sfide, guardando al futuro con capacità di innovazione
ma con i piedi ben saldi nel terreno della sua gloriosa tradizione di servizio alla persona umana.
* vice presidente Organismo Unitario Avvocatura
GENNAIO - APRILE 2004
FORMAZIONE E DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO FAMILIARISTA
L
a tutela della famiglia in ogni suo aspetto etico e giuridico deve costituire obiettivo primario delle società civili. Essa coinvolge un
ambito nel quale la posizione psicologica dei
soggetti coinvolti e i loro interessi personali
assumono estrema rilevanza. Da qui la necessità
di individuare gli strumenti giuridici a disposizione degli operatori di giustizia per raggiungere
questo obiettivo.
LE NORME DEONTOLOGICHE
È necessario, in primo luogo, individuare quali
siano le norme deontologiche fondamentali alle
quali il legale che opera nel diritto di famiglia
deve fare riferimento sia in ambito giudiziale che
stragiudiziale.
Va premesso che il codice deontologico forense
riguarda ogni avvocato con ciò prescindendo dalle competenze e specializzazioni dello stesso.
Attualmente quindi anche l’avvocato che si occupa di diritto di famiglia è sottoposto alla normativa senza alcun distinguo particolare per la sua
competenza specifica. Egli quindi dovrà esercitare la propria attività in piena libertà, autonomia
ed indipendenza al fine di garantire i diritti e gli
interessi della persona. Il fondamento della sua
deontologia professionale risiede sia nell’art. 12
della legge professionale, che fa riferimento al
dovere di dignità e decoro, che nell’art. 38 della
stessa legge, che stabilisce il ricorso al procedimento disciplinare come strumento per sanzionare coloro che abusino o manchino nell’esercizio
della professione.
Inoltre l’art. 37 del codice deontologico forense
disciplina espressamente il conflitto d’interessi
con riferimento alla materia familiare stabilendo
che “l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve
astenersi dal prestare la propria assistenza in
controversie successive tra i medesimi in favore
di uno di essi”.
Detta norma è stata meglio ridefinita dalla giurisprudenza del CNF che ha affermato che pone in
essere un comportamento disciplinarmente rilevante e viola il dovere di fedeltà sia l’avvocato
che, dopo aver ricevuto mandato da una coppia di
coniugi ed aver instaurato con essi il rapporto
professionale, segua la separazione giudiziale di
uno di essi nei confronti dell’altro (1), sia il professionista che, dopo aver assistito entrambi i
coniugi in una procedura di separazione, assuma
la difesa di un coniuge contro l’altro nella fase
del divorzio, salvo che l’attività precedente sia
stata di mera assistenza e non vi sia stato un concreto utilizzo di circostanze conosciute nella fase
precedente (2). Peraltro anche la Cassazione ha
preso posizione sul tema, affermando che nel
caso in cui la difesa di due parti in conflitto anche
solo potenziale di interessi, come ad esempio
relativamente a madre e figlio in un procedimento di disconoscimento della paternità, sia stata
affidata allo stesso avvocato, la parte che ha conferito per ultima la procura si deve ritenere non
costituita in quanto il difensore non può assumere il patrocinio di due parti che si trovino o possano trovarsi in contrasto tra loro (3).
Si deve inoltre considerare che i procedimenti di
separazione e divorzio tra i coniugi spesso coinvolgono anche minori con il rischio che il giudizio possa esasperare il conflitto e compromettere
ancor più la situazione dei minori stessi.
Al riguardo si richiama la normativa che impone
L’ASSISTENZA E LA
CONSULENZA
DELL’AVVOCATO NELLA
FASE STRAGIUDIZIALE.
QUESTIONI DI
DEONTOLOGIA
all’avvocato di osservare il dovere di probità,
dignità e decoro, di lealtà e correttezza nonchè di
fedeltà e diligenza (4). Il rispetto di queste qualità, peraltro è supportato dalla norma codicistica
(art. 88 c.p.c.) che prevede che “In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve
riferirne alle Autorità che esercitano il potere
disciplinare su di essi”.
Non vi è dubbio che i doveri dell’avvocato e
l’obbligo del giudice di riferirne, in caso di mancanza, al loro Ordine, appaiono ancor più pregnanti nel caso in cui l’impegno dell’avvocato sia
svolto nell’ambito familiare e anche se non specificatamente espressi debbano essere correlati al
raggiungimento di un equilibrio familiare adeguato alle esigenze di vita del minore coinvolto.
Il compito del difensore che opera nell’ambito
familiare in generale e del fanciullo nello specifico, è ancor più fortemente delineata dalla pre-
ANNA GALIZIA
DANOVI *
33
FORMAZIONE E DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO FAMILIARISTA
scrizione che impedisce all’avvocato di accettare
incarichi che sappia di non poter svolgere con
adeguata competenza (5), nonché dal dovere di
aggiornamento professionale (6).
Infatti e a maggior ragione quando viene coinvolto un minore, è fondamentale che l’avvocato sia
il corretto interprete della volontà del rappresentato, e si sottragga alle possibili strumentalizzazioni in danno del minore che possono essere
compiute anche dallo stesso suo assistito, compito quest’ultimo che, anche non scevro da difficoltà deve essere svolto con trasparenza ed obiettività.
L’avvocato infatti come ogni operatore coinvolto
nel giudizio familiare relativo ai minori non può
sottrarsi all’obbligo di tutela dell’interesse del
minore che è e rimane il principio cardine del
nostro ordinamento.
IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA
Va innanzitutto richiamato il dovere di segretezza e riservatezza, nel caso di specie ancor più
pregnante, imposto dal codice deontologico (7).
A seguito della legge 675/1996 sulla privacy,
inoltre, l’aspetto deontologico della professione
legale relativo alla riservatezza ha assunto ulteriori sfumature. In particolare, è opportuno ricordare che il diritto alla privacy si manifesta nel
rapporto tra l’individuo e la società. Nel sistema
anglosassone viene definito genericamente come
“the right to be alone”, il diritto di essere lasciato solo, di non subire ingerenze nella propria vita
privata.
La legge 675/1996 ha comportato un’evoluzione
tale da rendere meno sfumata la nozione di riservatezza in quanto radicata ad una visione dinamica, mirata a garantire il controllo e la gestione dei
dati personali. In via generale, la tutela del segreto è garantita dalla sanzione penale della viola-
34
AIAF RIVISTA 1/2004
zione del segreto professionale ex art. 622 c. p.,
così come in base ai principi generali dallo stesso art. 2043 c.c.
Il codice deontologico, all’art. 9 recita inoltre che
è dovere e diritto primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto sull’attività prestata e su tutte le informazioni che siano a lui fornite dal cliente o di cui sia venuto a conoscenza
in dipendenza del mandato. Anche il codice
deontologico europeo valuta il segreto professionale come dovere fondamentale e primordiale in
quanto posto a fondamento del rapporto di fiducia tra il legale ed il suo cliente.
È evidente che tali disposizioni assumono particolare rilievo con riferimento all’ambito del diritto di famiglia, ove le situazioni e gli interessi
coinvolti sono particolarmente delicati nonché
strettamente personali e richiedono che l’avvocato si investa completamente del suo ruolo di
garanzia e correttezza anche e soprattutto nel rapporto dialettico tra le parti. Gli interessi dei membri della famiglia, anche ed a maggior ragione se
in crisi, devono infatti essere individuati e protetti nel loro contenuto concreto e questo si rende
possibile solo per mezzo del rispetto non solo del
diritto ma in particolare dell’individuo e della sua
sfera personale.
La legge 675/1996 stabilisce che la raccolta ed il
trattamento dei dati personali devono avere il
consenso informato dell’interessato, ovvero, in
caso di minori, di chi abbia la sua tutela e rappresentanza. La conservazione dei fascicoli contenenti i dati richiede quindi la tutela delle informazioni in essi contenuti, escludendone la diffusione al pubblico. Tale impegno è finalizzato
all’assistenza ed alla protezione dei soggetti
coinvolti anche da parte dell’avvocato che è
obbligato al segreto professionale ed a quello
d’ufficio.
L’avvocato che si occupa di diritto di famiglia, a
nostro parere, dovrebbe svolgere il ruolo non soltanto di consulente legale del suo cliente ma al
contempo di garante delle delicate posizioni soggettive coinvolte. Pensiamo al caso, purtroppo
non isolato, della produzione in giudizio di documenti attinenti alla sfera privata dell’altro genitore o addirittura del minore.
Ed il caso non è di poco conto se si considerano
da un lato i danni immediati che queste produzioni possono comportare e dall’altro le difficoltà di
una adeguata risposta dell’Istituzione.
Parrebbe giusto quindi che anche questi comportamenti processuali potessero essere meglio valutati sotto il profilo deontologico per elevare la
nostra professionalità.
GENNAIO - APRILE 2004
FORMAZIONE E DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO FAMILIARISTA
LA FASE STRAGIUDIZIALE
La fase prodromica al giudizio è forse quella più
delicata in quanto il legale viene investito nell’immediatezza dall’intero carico delle problematiche per lo più irrisolte dell’assistito. A nostro
parere il compito dell’avvocato in questa fase è
quello di filtrare le richieste della parte traducendole in termini di diritto. E allo scopo a noi pare
doveroso che il legale debba rappresentare al proprio assistito la situazione reale senza ingenerare
false speranze o ipotizzare facili vittorie. In altre
parole è indispensabile che con coerenza, equilibrio e professionalità vengano annotati i percorsi
possibili ed i rischi connessi.
Queste indicazioni paiono indispensabili nell’ambito familiare, ove i soggetti coinvolti mirano al raggiungimento di obiettivi che in realtà, a
volte, non possono essere conseguiti nell’ambito
legale e che richiedono comunque un impegno
personale sia a livello psicologico che affettivo.
L’avvocato inoltre può cercare anche di mediare
e mantenere in equilibrio le istanze emotive
manifestate dalle parti per mezzo dell’applicazione concreta delle norme deontologiche che disciplinano la sua professione e facendo riferimento
alla sua esperienza ed alla sua sensibilità. L’eventuale funzione mediatoria che l’avvocato può
essere chiamato a svolgere non si pone in contrasto con l’attività puramente tecnica in quanto nella fase giudiziale e ancor più facilmente in quella stragiudiziale, il risultato auspicabile è rappresentato dalla riorganizzazione degli assetti familiari, dalla determinazione di nuovi equilibri tali
da portare certezza e garanzia con riferimento ai
soggetti coinvolti ed alle relazioni tra di loro
intercorrenti.
Il ruolo dell’avvocato e quello del mediatore in
senso stretto attengono certamente a due ambiti
diversi, afferendo l’uno ad un complesso di norme finalizzate alla disciplina della vita sociale,
l’altro ad una gestione del conflitto al di fuori del
processo e relativo a un particolare sistema di
relazioni umane. Tuttavia le due figure che non
devono a nostro parere sovrapporsi, possono
avvicinarsi e l’avvocato della famiglia può ben
arricchire il suo bagaglio attingendo alla cultura
della mediazione come a quella di altre scienze,
penso alla psicologia e alla sociologia. Così operando l’avvocato rafforzerà le sue competenze ed
essere a pieno titolo l’Avvocato di famiglia.
“ avvocato del Foro di Milano.
NOTE:
1
Consiglio naz. forense, 30 dicembre 1997, n. 163 in Rass. forense, 1998, 373.
2
Consiglio naz. forense, 23 dicembre 1996, n. 187, in Rass. forense, 1997, 559 e 4 luglio 2002, n.
97 in Rass. forense, 2002, 895.
3
Cass. 19 marzo 1984, n. 1860.
4
Artt. 88 c.p.c. ss.; 5, 6, 7, codice deontologico.
5
Art. 12 codice deontologico.
6
Art. 13 codice deontologico.
7
Art. 9 codice deontologico.
35
GIURISPRUDENZA
in tema di... ASSEGNO DI MANTENIMENTO
ASSEGNO DI MANTENIMENTO
E CAPACITÀ DI LAVORO DEL CONIUGE
Cassazione civ., 12 dicembre 2003,
n. 19042
“… esiste un consolidato orientamento di
questa Corte (cfr., e pluribus, sentenze
5916/1996, 5762 e 7630/1997, 3490 e
4543/1999,
3291
e
12136/2001,
4800/2002), integralmente condiviso dal
Collegio, secondo cui condizioni, per il
sorgere del diritto al mantenimento in
favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, sono la non titolarità, da
parte di quest’ultimo, di adeguati redditi
propri - e cioè, di redditi che consentano
al richiedente di mantenere un tenore di
vita analogo a quello tenuto in costanza di
matrimonio - e la disparità economica tra
le parti; secondo cui, ai fini della valutazione della adeguatezza dei redditi del
soggetto che chiede l’assegno, il parametro di riferimento è costituito dalle potenzialità economiche complessive dei
coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del
medesimo richiedente; e, secondo cui,
una volta accertato il diritto del richiedente all’assegno di mantenimento, il giudice,
per determinarne il quantum, deve tener
conto anche degli elementi fattuali di ordine economico o comunque apprezzabili
in termini economici, diversi dal reddito
dell’onerato, suscettibili di incidenza sulle
condizioni delle parti.
… omissis …
D’altro canto, i Giudici a quibus, valutando gli elementi probatori acquisiti, hanno
escluso - con motivazione adeguata e
scevra da errori logico-giuridici - che la
convivenza della D. con altra persona fosse idonea ad incidere sulla spettanza dell’assegno di mantenimento, in quanto
non avente le caratteristiche della convivenza more uxorio. I Giudici stessi, invece, hanno correttamente sottolineato, per
un verso, la disparità economica esistente tra le parti, ponendo a raffronto i redditi
del marito, docente universitario - che
hanno fatto coincidere con lo stipendio
mensile, determinato dal Tribunale, di lire
36
5.400.000, “con presumibili miglioramenti”, con quello della moglie, che hanno fatto coincidere con lo “stipendio medio di
una brava commessa” (lire 1.800.000
mensili) - e posto, altresì, in risalto che i
redditi della D. non le consentono di mantenere un tenore di vita analogo a quello
condotto in costanza di matrimonio; e,
sulla base degli elementi della capacità
lavorativa della stessa e della sua fruizione della casa familiare, hanno ridotto (da
lire 1.000.000 a lire 700.000) l’assegno di
mantenimento, stabilito dai Giudici di primo grado sulla base del presupposto che
la medesima non avesse capacità di guadagno. È appena il caso di aggiungere
che la dedotta - da parte della D. - perdita
del diritto di abitare la casa familiare, sancita in sede di giudizio di divorzio, non
può esplicare alcuna efficacia nel presente giudizio, avuto riguardo alla già ribadita
autonomia dei due giudizi.
… omissis …
… costituisce principio generale, applicato correttamente dalla Corte romana (cfr.,
supra, n. 1.2 lettera a)) quello, secondo
cui gli effetti di ogni provvedimento giurisdizionale retroagiscono al momento della proposizione della domanda, se in tale
momento esistevano le condizioni richieste per l’emanazione del provvedimento:
sicché, nelle cause di separazione personale - come il giudice istruttore, a norma
dell’art. 708, comma 4, c.p.c., ove si verifichino mutamenti della circostanze prese
in esame dal presidente del tribunale nell’adozione dei provvedimenti temporanei
ed urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole, può revocarli o modificarli, in
quanto assistiti dalla clausola generale
rebus sic stantibus, facendo decorrere i
relativi effetti dal momento in cui, verificatosi il suindicato mutamento delle circostanze, è correlativamente sorto il diritto
della parte istante ad ottenere la revoca o
la modifica richiesta (cfr. Cassazione
6322/93) - così il tribunale che, in sede di
deliberazione della sentenza di separazione personale, accerti il mutamento medesimo rispetto alla situazione precedentemente accertata può correttamente far
decorrere gli effetti del provvedimento di
revoca o modifica dalla data della deliberazione della sentenza.”
ASSEGNO DI MANTENIMENTO
PER LA MOGLIE SEPARATA
PRIVA DI REDDITI DI LAVORO
Cassazione civ., 11 dicembre 2003,
n. 18920
“La Corte territoriale, premesso come il
giudice di primo grado avesse giustificato
l’ammontare del contributo per il mantenimento della donna (determinato in lire
1.500.00 mensili indicizzate) tenendo conto che quest’ultima, “dopo il matrimonio,
aveva smesso ogni attività in precedenza
svolta; che a tale decisione non era rimasto estraneo il marito, le cui condizioni
economico patrimoniali erano all’epoca
floride; che la P. non era titolare di alcun
reddito o guadagno da lavoro, anche se
riceveva qualche aiuto economico dai
familiari; che le condizioni economiche
del L. non apparivano essersi deteriorate,
essendo contitolare di un patrimonio
immobiliare ed avendo costituito e
gestendo, in modo palese od occulto,
società operanti nella materia del software”, ha quindi considerato “la posizione
economica e reddituale dell’appellante”
(di cui al secondo motivo del ricorso principale), così da ritenere che questa non si
fosse “deteriorata in modo significativo
rispetto al periodo in cui le parti convivevano”, addivenendo tuttavia alla conclusione che l’ammontare dell’assegno,
disposto in prime cure, dovesse essere
ridotto, sul rilievo che “la donna, in ben
undici anni di separazione, non ha trovato
alcuna occupazione, e ciò induce a ritenere (sebbene la sua età - è nata nel 1964
- le consentiva e le consente di inserirsi
nel mondo del lavoro) che non si sia data
sufficientemente da fare per trovare occupazione”.
Ciò posto, si osserva come, secondo il
consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, le condizioni per il
sorgere del diritto al mantenimento in
favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la mancata titola-
GIURISPRUDENZA
GENNAIO - APRILE 2004
rità di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano al richiedente di mantenere un tenore di vita analogo a quello
goduto in costanza di matrimonio, nonché la sussistenza di una disparità economica tra le parti (Cass. 27 giugno 1997, n.
5762; Cass. 7 marzo 2001, n. 3291; Cass.
19 marzo 2002, n. 3974; Cass. 4 aprile
2002, n. 4800).
Si è in particolare precisato che il parametro di riferimento, ai fini della valutazione di adeguatezza dei redditi del soggetto che invoca l’assegno, è dato dalle
potenzialità economiche complessive dei
coniugi durante il matrimonio, inteso
come elemento condizionante la qualità
delle esigenze e l’entità delle aspettative
del medesimo richiedente, non avendo
rilievo il più modesto livello di vita eventualmente subito o tollerato, laddove “le
circostanze” da considerare, in vista della
determinazione del quantum, ai sensi del
comma secondo dell’art. 156 c.c., sono
soltanto quegli elementi fattuali di ordine
economico, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidenza sulle condizioni delle parti (Cass. 3291/2001, cit.; Cass.
3974/2002, cit.; Cass. 4800/2002, cit.).
In questa prospettiva, si è ulteriormente
rilevato che il già citato art. 156 c.c. (primo
e secondo comma), nello stabilire il diritto
del coniuge separato senza addebito al
mantenimento da parte dell’altro, subordina sì tale diritto alla condizione che chi lo
pretenda “non abbia adeguati redditi propri”, ma non aggiunge (come invece si
legge nel sesto comma dell’art. 5 della
legge n. 898 del 1970 in materia di divorzio) “o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive” (Cass. 18 agosto
1994, n. 7437; Cass. 3291/2001, cit.).
Una mancata previsione del genere, nell’art. 156 c.c., appare niente affatto priva di
ragion d’essere, in quanto, se prima della
separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure
soltanto per fatta concludentia) che uno di
essi non lavorasse, l’efficacia di tale
accordo permane anche dopo la separazione (evitando, così, tra l’altro, che il
coniuge che non lavorava sia costretto di
colpo a trovarsi un’occupazione), atteso
che la separazione instaura un regime il
quale, a differenza del divorzio, tende a
conservare il più possibile tutti gli effetti
propri del matrimonio compatibili con la
cessazione della convivenza e, quindi,
anche il tenore ed il tipo di vita di ciascuno dei coniugi, nel senso esattamente
che solo con il divorzio, capace di sciogliere a tutti gli effetti il matrimonio, la
situazione muta radicalmente, tanto da far
residuare tra gli ex coniugi solo un vincolo di solidarietà di tipo preminentemente
assistenziale che, in quanto tale, presuppone nell’ex coniuge assistito non solo la
mancanza di mezzi economici adeguati,
ma anche l’oggettiva impossibilità di procurarseli mettendo altresì a frutto tutte le
proprie capacità di lavoro (Cass.
7437/1994, cit.; Cass. 3291/2001, cit.).
Gli enunciati principi sono stati rispettati
dalla Corte territoriale, la quale ha proceduto ad apprezzare le possibilità lavorative della P. considerandole rilevanti al solo
fine di “ridurre” l’ammontare déll’assegno
disposto in prime cure, senza cioè omettere di valutare, quanto meno implicitamente, la sopra richiamata efficacia, in
relazione alla questione controversa,
degli accordi (sia pure taciti) tra i coniugi
nel senso che uno di essi (nella specie, la
moglie), “dopo il matrimonio, aveva
smesso ogni attività in precedenza svolta”, in tal modo addivenendo al corretto
riconoscimento dei diritto della stessa P.
all’assegno di mantenimento (an debeatur) ed all’inquadramento, parimenti corretto, delle suindicate capacità lavorative
della donna nel novero degli elementi di
riferimento necessari esclusivamente agli
effetti della stima di congruità dell’assegno medesimo (quantum debeatur).
Una simile conclusione va quindi esente:
a. dalle reciproche censure dedotte tanto
con il primo motivo del ricorso principale quanto con il primo motivo del
ricorso incidentale, senza cioè che
possano trovare accoglimento, sul piano logico-giuridico, né l’assunto del L.,
là dove questo (a torto) pretende che,
sulla base degli apprezzamenti di fatto,
sopra riferiti, circa la capacità lavorativa
riconosciuta alla P. dalla stessa Corte
territoriale, detto giudice sarebbe
dovuto pervenire non già semplicemente ad una riduzione dell’assegno
posto a suo carico, bensì alla totale
revoca di un simile emolumento, né
l’assunto della P., là dove quest’ultima
(a torto) pretende che il medesimo giudice abbia confuso “i requisiti per l’attribuzione dell’assegno di mantenimento in sede di separazione, con
quelli richiesti per la concessione dell’assegno divorzile ed in base a tale
errore (abbia assunto) la sua decisione”, ribadendo quindi di avere “diritto
ad ottenere un contributo di mantenimento”, che è quanto la Corte di merito, come si è visto, le ha invece esattamente riconosciuto;
b. dalle censure di cui al secondo motivo
del ricorso incidentale, relativamente
alle quali giova osservare sia, per un
verso, che del tutto correttamente la
medesima Corte ha preso in considerazione l’attitudine al lavoro della
richiedente l’assegno (ovvero della P.)
non già nella fase di valutazione della
condizione economica di questa,
ovvero in sede di apprezzamento dell’an debeatur (nella specie, come si è
visto, espressamente riconosciuto),
ma nella fase di quantificazione dell’assegno stesso, sia, per un altro verso,
che, a quest’ultimo fine, il giudice del
merito ha fondato una simile capacità,
assunta in termini di effettiva possibilità
di svolgimento di un’attività lavorativa
retribuita, sulla base di un apprezzamento di fatto di per sé non specificatamente censurato, sia, da ultimo, per
un altro verso ancora, che la mancanza di adeguati redditi propri, quale condizione essenziale per il sorgere del
diritto al mantenimento, è stata (lo si
ripete) espressamente riconosciuta
dalla Corte territoriale in capo alla P.,
onde, in questo senso, appare palese
come non facesse carico al L. l’onere
di indicare (o di provare) alcunché.
Per quanto riguarda, infine, con riferimento sempre al primo motivo del ricorso
principale, la pretesa “congruità del contributo patrimoniale che il convivente
more uxorio della signora P. si è impegnato, ormai da molti anni, ad assicurare all’odierna resistente (principale), tant’è che i
due, basandosi solo sul lavoro di lui, non
hanno esitato a regalarsi la gioia di un
figlio”, nonché i consistenti ed incessanti
aiuti economici, provenienti dalla famiglia
d’origine, che i genitori della medesima P.
hanno garantito alla figlia, basterà osservare come il ricorrente principale, a fronte
di un apprezzamento di fatto della Corte
territoriale (per quel che concerne la circostanza secondo cui la predetta riceveva
“qualche” aiuto economico dai familiari)
per sua natura insuscettibile di venire cen37
GIURISPRUDENZA
surato in sede di legittimità se non sotto le
specie del vizio di motivazione, ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. ed
alla stessa mancata considerazione, da
parte di detta Corte, dell’ulteriore profilo
relativo al contributo patrimoniale del convivente della P. (senza che, al riguardo, sia
stato minimamente dedotto il vizio di
omessa motivazione), non abbia, comunque, fatto riferimento, così contravvenendo al principio di autosufficienza del ricorso, ad alcuna specifica ed analitica situazione tale da risultare decisiva al fine di
contrastare quella assunta dal giudice di
merito a fondamento della decisione,
nonché, ancor più, alle relative risultanze
probatorie, desumibili dagli atti di causa,
delle quali, ove mai, il medesimo giudice
non avesse tenuto conto.”
ASSEGNO DI MANTENIMENTO
E CONVIVENZA TRA I CONIUGI
Cassazione civ., 19 novembre 2003,
n. 17537
“Con sentenza del … 1997 il Tribunale di
…, adito da A., pronunciava la separazione personale del medesimo dal coniuge
B. senza addebito e disponeva che ciascuna delle parti provvedesse al proprio
mantenimento.
Proposto appello dalla B., che censurava
il mancato addebito della separazione al
marito e l’esclusione dell’assegno di mantenimento in suo favore, con sentenza del
… 2000 la Corte di appello di Roma, in
parziale riforma, condannava il A. al pagamento dell’assegno mensile di lire
1.000.000, con decorrenza dal marzo
1997 e rivalutazione Istat dal marzo 1998,
e confermava nel resto.
Osservava in motivazione la Corte territoriale, per quanto concerne l’attribuzione
dell’assegno, che in questa sede unicamente rileva, che il A., funzionario dell’…
e collocato in pensione nel 1999, aveva
percepito per trattamento di fine rapporto
circa lire 81.000.000, che dal 1998 la sua
retribuzione media mensile, al netto delle
ritenute fiscali, era stata di circa lire
7.000.000, che la sua pensione ammontava a circa lire 7.000.000 lorde, che il
medesimo non era più gravato dall’obbligo di mantenimento dei figli, tutti maggiorenni ed autosufficienti, né doveva sostenere spese di locazione, occupando un
38
AIAF RIVISTA 1/2004
appartamento intestato ad una delle figlie,
e che d’altro canto la B., benché laureata
ed in possesso di numerose specializzazioni, svolgeva soltanto qualche saltuaria
attività di collaborazione, era altresì proprietaria della casa in cui abitava, gravata
peraltro da mutuo, e di un piccolo appartamento a Parigi e percepiva una pensione di circa lire 700.000 mensili.
Sulla base di tali risultanze affermava il
diritto della moglie all’assegno di mantenimento, malgrado la breve durata dell’unione coniugale, non consentendole l’accertata posizione economica di mantenere il tenore di vita spettante durante la
convivenza, né di soddisfare le legittime
aspettative offerte dalle condizioni economiche e reddituali del coniuge.
Riteneva infine che in considerazione dell’età e della capacità lavorativa della
richiedente, della mancanza di prole ed in
misura determinante della durata dell’unione e valutata comparativamente la
capacità economica delle parti fosse congruo determinare l’ammontare dell’assegno stesso nella misura suindicata.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso
per cassazione il A. deducendo sette
motivi.
… omissis…
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va in primo luogo rilevato, in relazione alle
denunce di violazione di legge enucleabili dalla richiamate censure, che correttamente la sentenza impugnata ha escluso
che la mancata instaurazione di una effettiva convivenza tra i coniugi precludesse il
diritto all’assegno di separazione: come è
noto, condizioni per il sorgere del diritto al
mantenimento in favore del coniuge cui
non sia addebitabile la separazione sono
la non titolarità di adeguati redditi propri,
ossia di redditi che consentano al richiedente di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la sussistenza di una disparità
economica tra le parti (v., tra le tante, Cassazione,
4800/2002;
3291/2001;
3490/1998; 7630/1997; 5762/1997;
5916/1996; 4720/1995; 2223/1995;
11523/1990; 6774/1990).
Si è in particolare precisato, nella giurisprudenza di legittimità, che il parametro
di riferimento, ai fini della valutazione di
adeguatezza dei redditi del soggetto che
invoca l’assegno, è dato dalle potenzialità
economiche complessive dei coniugi
durante il matrimonio, quale elemento
condizionante la qualità delle esigenze e
l’entità delle aspettative del medesimo
richiedente, non avendo rilievo il più
modesto livello di vita eventualmente
subito o tollerato (v. per tutte sul punto
Cassazione, 18327/2002; 3490/1998;
10465/1996; 4720/1995; 2223/1995;
7437/1994).
Questa Suprema corte ha altresì specificamente osservato che la norma in esame non richiede, quale presupposto per il
sorgere del diritto all’assegno, l’instaurazione di una effettiva convivenza tra i
coniugi e che nell’ipotesi in cui detto elemento fattuale non sussista occorre far
riferimento al tenore di vita che ciascun
coniuge aveva diritto di aspettarsi in conseguenza del matrimonio (così Cassazione, 3490/1998).
Tale indirizzo deve essere in questa sede
confermato, tenuto conto che il dato letterale e la ratio della norma non consentono di desumere che il legislatore abbia
subordinato la spettanza dell’assegno a
tale ulteriore presupposto; è peraltro
appena il caso di rilevare che la mancata
convivenza può trovare ragione nelle più
diverse situazioni o esigenze e va comunque intesa, in difetto di elementi che dimostrino il contrario, come espressione di
una scelta della coppia, di per sé non
escludente la comunione spirituale e
materiale, dalla quale non possono farsi
derivare effetti penalizzanti per uno dei
coniugi, ed alla quale comunque non può
attribuirsi, in difetto di pronuncia di addebito, efficacia estintiva dei diritti e doveri di
natura patrimoniale che nascono dal
matrimonio.
A tale principio si è attenuta la sentenza
impugnata, che in via del tutto autonoma
rispetto alle precedenti valutazioni in ordine alla richiesta di addebito - così che la
censura proposta nel primo motivo va
ritenuta del tutto infondata - ha proceduto
ad una completa analisi comparata delle
posizioni reddituali e patrimoniali delle
parti ed ha ritenuto che le ridottissime
entrate della donna non le consentissero
di mantenere il tenore di vita configurabile
sulla base delle richiamate aspettative,
quali potevano legittimamente fondarsi
sulla posizione professionale e reddituale
del coniuge.”
GIURISPRUDENZA
GENNAIO - APRILE 2004
ASSEGNO DI MANTENIMENTO
E PEGGIORAMENTO DELLE CONDIZIONI
Cassazione civ., 11 novembre 2003,
n. 16912
“Con ricorso depositato il ….1999 A. chiedeva al Tribunale di … il riconoscimento di
un assegno di mantenimento a carico del
coniuge separato B., poiché il suo reddito
era peggiorato con il sopraggiunto pensiona mento mentre quello del marito,
che conservava il godimento esclusivo
della casa familiare, era migliorato.
Con decreto del …2000 il tribunale poneva a carico del convenuto la corresponsione di un assegno mensile di £.
150.000.
Su gravame del coniuge obbligato la Corte d’Appello di …, con decreto … 2000,
confermava integralmente il provvedimento impugnato.
Osservava la Corte che ai fini del riconoscimento del diritto ad un assegno di
mantenimento occorreva accertare unicamente se i redditi del coniuge istante fossero tali da consentirgli la conservazione
delle condizioni di vita godute prima della
separazione. Ciò premesso affermava
che dagli atti risultava la sproporzione tra
le rispettive condizioni economiche dei
coniugi, mentre non era stato provato che
la istante ricavasse un qualche reddito
dall’esercizio della pittura, tanto che essa
era costretta a sostentarsi con l’aiuto dei
figli, mentre la casa familiare - di proprietà
comune e attualmente oggetto di divisione - era rimasta nel godimento esclusivo
del …, sicché meritava conferma il provvedimento impugnato che si era limitato a
riportare i redditi della C. al livello che essi
avevano nel 1988 tenuto conto del
deprezzamento della moneta.
Contro il decreto ricorre per cassazione B.
con tre motivi.
… omissis …
MOTIVI DELLA DECISIONE
…. Con la separazione non viene meno il
dovere dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia, nell’ambito dei quali
vengono compresi i bisogni di vita individuali che assumono rilevanza esclusiva in
assenza di prole, e quindi permane la solidarietà economica che lega i coniugi
durante il matrimonio: tale continuità attribuisce al coniuge separato, cui non sia
addebitabile la separazione, il diritto di
ottenere dall’altro coniuge un assegno di
mantenimento tendenzialmente idoneo
ad assicurargli la conservazione del
medesimo tenore di vita di cui godeva in
costanza di matrimonio, con la conseguenza che, in forza di tale permanente
solidarietà, il coniuge al quale non sia stato attribuito alcun assegno, qualora la sua
situazione economica si sia deteriorata, o
sia migliorata quella dell’altro coniuge,
può chiedere la corresponsione di un
assegno rapportato al tenore di vita che
avrebbe avuto ove la separazione non
fosse intervenuta (Cass. 21 aprile 2000, n.
5253).
… L’obbligo posto a carico del ricorrente
di corrispondere un assegno di mantenimento al coniuge separato non si fonda
nella specie unicamente sul contestato
miglioramento delle sue condizioni economiche e sul mero squilibrio venuto a
verificarsi tra le rispettive situazioni delle
parti, poiché il decreto impugnato ha evidenziato innanzi tutto il peggioramento
delle condizioni economiche della istante
a seguito del sopraggiunto pensionamento, con la conseguente riduzione dello stipendio mensile nei limiti dell’assegno di
pensione.
Va ricordato, inoltre, che la solidarietà tra
coniugi non viene meno con la separazione e non consente di escludere il diritto ad
un assegno di mantenimento in favore del
coniuge che, pur godendo di redditi sufficienti, non sia in grado di conservare il
tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. “
CRITERI DI QUANTIFICAZIONE
DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Trib. Roma, 18 luglio 2003
“… omissis …
Con sentenza passata in giudicato il Tribunale ha già pronunciato la separazione
personale tra i coniugi in epigrafe indicati.
In esito alla istruttoria svolta e sulle richieste delle parti che tendono alla modifica in
senso opposto dei provvedimenti provvisori di natura economica del presidente
(lire 8.000.000 per il contributo al mantenimento dei figli e 12.000.000 per la A.),
sulle altre domande proposte con gli atti
introduttivi e ribadite conclusioni definitive
si ritiene
…… omissis ….
- sulla domanda di assegno di mantenimento dei figli e per il mantenimento della ricorrente A.
si osserva:
a) la consulenza tecnica esperita e depositata, sui patrimoni e sui redditi delle
parti ha determinato, dopo accurate
indagini ed elaborazioni dei documenti che il C. ha un patrimonio di circa
Euro 3.500.000,00 ed un reddito di circa Euro 65.000,00 all’anno;
b) prendendo a base esclusivamente il
reddito complessivo della coppia
ammontante a circa Euro 325.000,00
annui, tale reddito deve essere destinato per un terzo al mantenimento
dei due figli minori e la relativa somma di Euro 108.333,00 va ripartita tra
i genitori in ragione di 4/5 per il C. e
di 1/5 per la A.;
c) consegue che il contributo al mantenimento dei figli che il C. deve alla A.
ammonta a Euro 86.666,00, comprese
anche tutte le spese straordinarie,
tenuto conto dei patrimoni e dei redditi delle parti, nonché dell’entità dell’assegno;
d) per mantenere alla A. lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, in cui la copia godeva di un
reddito di Euro 325.000,00 l’anno, l’unico criterio obiettivo, in mancanza
di altre indicazioni, è quello di dividere in parti uguali quel che resta
dello stesso, dopo la contribuzione
data da ciascuno al mantenimento
dei figli;
e) poiché ne risulta che il C. gode di un
reddito residuo di Euro 173.334,00
(260.000,00 meno 86.666,00) annui e
che la A. percepisce un residuo di
Euro 43.333,00 (65.000,00 meno
22.664,00), alla stessa spetta un
assegno di Euro 65.000,00 annui,
onde “pareggiare” la situazione economica che risulta alla fine di circa
108.000,00 euro per ciascuno al netto del contributo al mantenimento
dei figli.”
39
GIURISPRUDENZA
AIAF RIVISTA 1/2004
IL CRITERIO OBIETTIVO PER LA DETERMINAZIONE DEL MANTENIMENTO DEI FIGLI E DEL CONIUGE
Il Tribunale di Roma nella sentenza qui pubblicata, giunge alla determinazione del mantenimento dovuto dal coniuge obbligato per i figli e la
moglie, applicando il c.d. metodo “obiettivo”, che sostanzialmente consiste nell’assumere come unico elemento di valutazione l’ammontare dei
redditi e dei patrimoni dei coniugi, accertati, nella specie, attraverso l’espletamento di C.T.U..
Il procedimento individuato dal Tribunale di Roma è il seguente:
somma dei redditi di entrambi i coniugi
determinazione della quota di reddito necessaria al mantenimento dei figli che il Tribunale individua, in considerazione del numero di due,
nella misura di 1/ 3
ripartizione del reddito complessivo destinato ai figli in misura proporzionale ai redditi percepiti da ciascun coniuge
ripartizione del reddito complessivo residuo, una volta dedotto il mantenimento per i figli, in parti uguali tra i coniugi e conseguente onere
per il percettore del reddito più alto di versare all’altro il mantenimento nella misura della differenza.
L’interesse della pronuncia è evidente poiché essa risolve in modo inusuale uno dei punti più problematici della normativa codicistica sul punto.
La mancanza di criteri normativi “certi” per la determinazione del mantenimento è questione da sempre lamentata e dibattuta, sia da parte della stessa magistratura, che della c.d. utenza, i nostri clienti, dai quali spesso viene una domanda di prevedibilità della decisione a cui non è agevole rispondere.
Per non dire della diversificazione di orientamenti sul punto da parte dei vari Tribunali e del conseguente ineguale trattamento di casi analoghi a
seconda del foro di appartenenza delle parti.
Sotto questo profilo la ricerca di un metodo “oggettivo” è stata spesso invocata come unica possibile soluzione ai problemi di cui sopra.
Per altro verso, al contrario, sussiste un orientamento interpretativo che ritiene necessario conservare un sistema di valutazione integrato in cui
restino rilevanti per la determinazione del mantenimento elementi diversi, per loro natura variabili, anche di carattere personale, così che ogni
decisione debba effettivamente essere il risultato di un confronto con la realtà del caso concreto e non solo dell’applicazione di un metodo matematico.
Che dire dunque della pronuncia del Tribunale di Roma?
A noi preme, in primo luogo, suscitare si di essa un confronto e dunque sollecitiamo i nostri lettori ad esprimere la loro opinione.
La prima osservazione che viene da fare è che ci sia in questo indirizzo un rischio di semplificazione eccessiva che, soprattutto se applicato a
situazioni meno “ricche” di quella esaminata dalla sentenza, può condurre a decisioni poco aderenti alla realtà economico/personale dei coniugi.
Un metodo siffatto, ad esempio, come la stessa sentenza precisa in motivazione, supera totalmente la necessità di pronunciarsi in ordine alle c.d.
spese straordinarie.
Occorre, riteniamo, chiedersi se, sotto tale profilo, il metodo risponda, non solo e non tanto alle effettive esigenze così dette “extra” che per loro
natura sono imprevedibili, posto che la sentenza, nel distribuire l’intero reddito complessivo, di più non potrebbe materialmente attribuire, quanto piuttosto se l’attribuzione di somme a titolo di mantenimento senza quel correttivo di controllo costituito dal diritto del coniuge onerato di partecipare alla scelta di una spesa “straordinaria”, corrisponda ad una corretta impostazione della posizione del genitore non affidatario.
Viene,cioè, da chiedersi se in un sistema normativo che vede una crescente esaltazione della partecipazione del genitore non affidatario alla vita
dei figli, il metodo in parola non finisca col favorirne, al contrario, un sostanziale ridimensionamento.
Così come viene da chiedersi se predeterminare in misura percentuale rispetto al reddito percepito dai genitori il costo del mantenimento necessario per i figli corrisponda ad un criterio di necessità ed effettività dei bisogni dei figli, con possibili ricadute anche sul piano educativo.
Analogamente, relativamente al coniuge, è legittimo domandarsi se il riferimento alle “circostanze” dell’art.156 c.c. si può esaurire identificando
una coincidenza tra il “tenore di vita” e l’ammontare del reddito residuo, detratto il mantenimento per i figli.
Interrogativi, appunto.
La sentenza nel motivare la propria decisione, precisa “ in mancanza di altre indicazioni…” il che sembra suggerire che anche il Tribunale di
Roma non ha inteso dettare un criterio unico ed assoluto, quanto,piuttosto, spezzare una lancia verso la ricerca di un superamento delle difficoltà
interpretative e applicative ricordate.
D’altra parte è anche giusto aggiungere che, provando ad esercitarsi su casi già risolti ed applicando ad essi il metodo obiettivo, si perviene mediamente a risultati assai simili.
Si potrebbe dunque in prima battuta concludere che se il metodo venisse assunto come base per la determinazione del mantenimento da sottoporsi, però, nelle singole decisioni, alla verifica delle concrete circostanze della fattispecie esaminata,
ad una “griglia” di correttivi, esso potrebbe assumere la valenza di uno strumento di utile orientamento per il Giudice.
Qualora, al contrario, i Giudici subissero la fascinazione di un metodo di indubbia facilità e dovessero applicarlo acriticamente, ne deriverebbe
un ridimensionamento della portata degli artt.155 e 156 c.c. che non ci sembra auspicabile.
E questo, forse, è il solo vero rischio che la sentenza reca con sé.
-
Avv. Nicoletta Morandi
40
GIURISPRUDENZA
GENNAIO - APRILE 2004
in tema di... CONVIVENZA MORE UXORIO
FAMIGLIA DI FATTO
E DOVERE DI CONTRIBUZIONE
Trib. Napoli 8 luglio 1999 in Famiglia e
diritto n. 5/2000
Non sussiste, allo stato attuale della legislazione, alcun diritto al mantenimento o
agli alimenti nei confronti del convivente
more uxorio, concretizzando la convivenza una situazione di fatto, caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità
unilaterale, cui non si ricollegano diritti e
doveri se non di carattere morale. Al
contrario, la richiesta di contributo per il
mantenimento del figlio è fondata sull’obbligo dei genitori di mantenere i figli
per il solo fatto di averli generati.
CRISI DELLA CONVIVENZA MORE
UXORIO E ABITAZIONE FAMILIARE
Trib. Messina 10 settembre 1997 in
Famiglia e diritto n. 3/1998
Sussistono il fumus boni iuris ed il periculum in mora, che giustificano l’emissione di un provvedimento cautelare di
rilascio dell’immobile occupato sine titulo, nel caso in cui, entrata in crisi la relazione more uxorio, il convivente continui
ad occupare la casa di comune abitazione, rifiutando di restituirla al legittimo
proprietario.
ASSEGNAZIONE DELLA
CASA FAMILIARE
Trib. Torino 7 febbraio 2003
La casa familiare, può essere assegnata
al genitore affidatario dei figli, ove l’immobile sia stato rappresentativo del
nucleo familiare e non solo oggetto di
utilizzazione saltuaria e fosse ancora
abitato dalla coppia all’epoca della rottura della convivenza.
AFFIDAMENTI CONGIUNTI
E FAMIGLIA NATURALE
Trib. Minorenni Perugia 16 gennaio
1998 in Famiglia e diritto n.4/1998
Anche in ipotesi di famiglia non fondata
sul matrimonio è possibile disporre l’affidamento congiunto dei figli minori, nel
loro esclusivo interesse morale e materiale, nonostante i genitori vi si oppongano e anche laddove permanga tra di
essi una forte conflittualità, al fine di
imprimere una svolta in senso cooperativo alla gestione dei rapporti post-crisi.
FAMIGLIA DI FATTO:
DONAZIONI DI MODICO VALORE AZIONE DI RIVENDICA
Trib. Palermo 3 settembre 2000 in
Famiglia e diritto n.3/2000
L’attribuzione gratuita di alcuni gioielli a
favore della convivente more uxorio
costituisce donazione di modico valore,
dovendo questo essere commisurato
non al valore in sé delle cose, ma alle
condizioni economiche del donante.
Anche a volere escludere la modicità del
valore, si tratterebbe in ogni caso di liberalità d’uso, non soggetta ai requisiti formali prescritti per la donazione.
Il convivente che dia prova della proprietà esclusiva di alcuni beni mobili di
arredamento della casa, in passato
destinata a comune abitazione, ha diritto di ottenere la restituzione dall’altro
che li detenga senza titolo.
FAMIGLIA DI FATTO: COSTITUZIONE
DI USUFRUTTO E REVOCA
Trib. Savona 7 marzo 2001 in Famiglia
e diritto n. 5/2001
È valido ed efficace il contratto di costituzione di usufrutto di immobile stipulato tra due conviventi more uxorio, senza
corrispettivo alcuno, ove esso trovi il suo
fondamento nella convivenza stessa e
nell’assetto che i conviventi intendono
dare ai loro rapporti.
È ammissibile la risoluzione del contratto di costituzione di usufrutto di immobile per il venire meno della situazione di
sussistenza o permanenza nel tempo
del rapporto more uxorio tra conviventi,
necessariamente presupposta da essi
nella stipula del contratto.
FAMIGLIA DI FATTO:
ESCLUSIONE APPLICABILITÀ
ARTT. 151 COMMA 1 E 155 C.C.
Corte Cost. 13 maggio 1998 n.166 in
Giur. Costit. 1998, 1419
La convivenza more uxorio rappresenta
l’effetto di una scelta di libertà dalle
regole costruite dal legislatore per il
matrimonio, donde l’impossibilità, pena
la libera determinazione delle parti, di
estendere alla famiglia di fatto, per la
diversità delle situazioni raffrontate, le
regole anche processuali connesse all’istituto matrimoniale; pertanto è manifestamente infondata, in relazione agli artt.
2,3,24,e 30 cost., la questione di costituzionalità del combinato disposto degli
art. 151 comma 1 e 155 c.c., nella parte
in cui, per l’appunto, non consente l’applicabilità alla cessazione della convivenza di fatto degli artt. 706-709 c.p.c.
dettati per il caso di separazione dei
coniugi.
FAMIGLIA DI FATTO: NON È FONDATA
LA QUESTIONE DI ILLEGITTIMITÀ DEGLI
ARTT. 317 BIS C.C. E 38 DISP. ATT. C.C.
Corte Cost., 30 dicembre 1997 n. 451
in Giur. Cost. 1997, fasc. 6
Non è fondata, con riferimento agli art. 3
e 30 cost., la q.l.c. degli art. 317 bis c.c.
e 38 disp. atto. c.c., nella parte in cui,
assegnando al tribunale per i minorenni
la competenza a statuire sull’esercizio
della potestà dei genitori di figli naturali,
non attribuiscono a detto giudice, unitamente alla competenza in materia di affidamento dei figli minori e di regolamentazione dei rapporti tra i predetti e il genitore non affidatario, anche la competenza a pronunciarsi, con provvedimento
avente contenuto ed effetto di titolo esecutivo, sulle questioni relative all’obbligo
dei genitori di mantenere la prole, con
41
GIURISPRUDENZA
particolare riferimento alla determinazione di un assegno mensile a carico del
genitore non affidatario, in quanto posto che il legislatore, al quale va riconosciuta la più ampia discrezionalità nella regolazione generale degli istituiti processuali, è in particolare arbitro di dettare regole di ripartizione della competenza fra i vari organi giurisdizionali, sempreché le medesime non risultino manifestamente irragionevoli - nell’ipotesi in
cui, sia pure in vista dell’assolvimento
dei compiti genitoriali conseguenti all’esercizio esclusivo della potestà sul figlio,
la questione proposta sia di natura patrimoniale, in tal caso la lite tra i genitori e
le liti fra soggetti maggiorenni, sia pure
con effetti sugli interessi del minore, e
per di più di contenuto economico, sicché il tribunale ordinario deve ritenersi
più adatto perché dotato di specifica
esperienza; ed in quanto con riferimento
al preteso deteriore trattamento dei figli
naturali riconosciuti (tenuti a rivolgersi,
tramite il genitore affidatario, a due
diverse autorità giudiziarie, ed a subire
conseguenti rallentamenti e difficoltà)
rispetto ai figli legittimi, è lo stesso intervento dell’autorità giudiziaria ad atteggiarsi in modo diverso nelle due differenti ipotesi, tenuto conto che, mentre in
presenza di persone unite in matrimonio
non è possibile che il legame giuridico
tra le stesse esistente venga reciso senza l’intervento del giudice (con la separazione prima, e col divorzio poi), la
convivenza “more uxorio” può interrompersi immediatamente sulla base della
semplice decisione unilaterale di ciascuno dei conviventi.
CONVIVENZA MORE UXORIO ASSEGNO DI DIVORZIO
Cassazione Civ. 9 aprile 2003, n. 5560
In sede di accertamento del diritto all’assegno divorzile, la convivenza “more
uxorio”, e quindi la prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte del
convivente, costituisce elemento valutabile in ordine alla disponibilità, da parte
del richiedente, di “mezzi adeguati”
rispetto al tenore di vita goduto durante
il matrimonio.
42
AIAF RIVISTA 1/2004
Cassazione Civ., Sez. I, 09 settembre
2002, n. 13060 in Giust. Civ. Mass.
2002, 1644
La convivenza “more uxorio” di un
coniuge separato, che abbia acquisito
carattere di stabilità, pur se non esclude
- di per sé - il diritto dello stesso all’assegno di divorzio, influisce comunque
sulla determinazione della sua entità.
(Nella specie, la S.C. ha confermato la
sentenza impugnata che, ai fini della
determinazione della misura dell’assegno di divorzio, aveva attribuito rilievo
ad una convivenza “more uxorio” di
durata pari a quella del matrimonio).
Cassazione Civ., Sez. I, 05 giugno
1997, n. 5024 in Famiglia e diritto
1997, 305
La prestazione di assistenza di tipo
coniugale da parte di convivente more
uxorio, quando di fatto esclude, oppure
riduce, lo stato di bisogno del coniuge
separato o divorziato, spiega rilievo sulla sussistenza del diritto all’assegno di
mantenimento e sulla sua quantificazione. (Nella specie la S.C. ha annullato il
decreto della Corte d’Appello che, nel
giudizio per la revisione dell’assegno,
proposto dal coniuge beneficiario, non
aveva preso in esame la deduzione dell’altro coniuge di circostanze rilevanti in
base al riportato principio).
CONVIVENZA MORE UXORIO PENSIONE DI REVERSIBILITÀ
Cassazione Civ. Sez. I, 19 febbraio
2003, n. 2471
I periodi di convivenza prematrimoniale
del secondo coniuge devono essere
tenuti in considerazione ai fini dell’attribuzione delle quote della pensione di
reversibilità del marito defunto, tra la prima moglie, titolare di assegno di divorzio, e la moglie sposata in seconde nozze e rimasta vedova.
Proprio muovendo dal carattere solidaristico della pensione di reversibilità, più
volte sottolineato dalla Corte costituzionale (sentenze n. 962 del 1988, n. 495
del 1993, n. 18 del 1998 e n. 70 del
1999) e dal significato che essa assume
anche nell’ambito dell’art. 9, comma 3,
come una forma di protezione, oltre la
morte, della funzione di sostentamento
assolta in vita dal de cuius, che persegue lo scopo di porre il superstite al
riparo dall’eventualità dello stato di bisogno che potrebbe derivargli dalla scomparsa del coniuge, si ritiene di poter pervenire ad un risultato interpretativo in cui
si compongono le diverse esigenze
espresse dalla legge n. 898 del 1970.
L’art. 9, comma 3, della legge n. 898, nel
testo vigente, stabilisce: qualora esista
un coniuge superstite avente i requisiti
per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli atri assegni a
questi spettanti è attribuita dal tribunale,
tenendo conto della durata del rapporto,
al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di
cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di
cui all’art. 5.
Se in tale condizione si trovano più persone, il tribunale provvede a ripartire fra
tutti la pensione e gli altri assegni. La
norma prevede, quindi, che nella ripartizione della pensione di reversibilità
occorre tener conto della durata del
matrimonio.
Espressione che, già in base al suo
valore semantico secondo l’uso linguistico generale, non appare esaustiva,
ma prescrive al giudice di considerare
nella valutazione del rapporto matrimoniale del coniuge superstite e dell’ex
coniuge, l’elemento temporale; nel senso che non sarebbe possibile prescinderne, e che ad esso potrà essere attribuito, secondo le circostanze, valore
preponderale ed anche decisivo.
Ma tale criterio, nel contesto normativo,
non si pone come unico ed esclusivo
parametro cui conformarsi automaticamente ed in base ad un mero calcolo
matematico; conclusione, questa, rafforzata dal rilievo che ‘espressione tenendo conto, risulta utilizzata nel sistema
della legge 898, e, in particolare, nell’art.
5, comma sesto, proprio con riferimento
a circostanze da sottoporre, come elementi di valutazione, all’apprezzamento
del giudice del merito; e che, quando il
legislatore è intervenuto per determinare
in modo rigido ed automatico i criteri da
scegliere per le prestazioni patrimoniali
a favore dell’ex coniuge, ha utilizzato
un’espressione diversa, come nell’art.
12- bis, che, per la ripartizione dell’in-
GIURISPRUDENZA
GENNAIO - APRILE 2004
dennità di fine rapporto tra il coniuge e
l’ex coniuge, ha indicato il quaranta per
cento dell’indennità totale, riferibile agli
anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
Nel suo apprezzamento il giudice potrà,
dunque, ponderare ulteriori elementi,
correlati alle finalità che presiedono al
diritto di reversibilità, da utilizzarsi, eventualmente, quali correttivi del risultato
che conseguirebbe all’applicazione del
mero criterio temporale.
Se, poi, si considera che lo stesso art. 9
(comma 3) già contiene un richiamo
all’assegno di cui all’art. 5, esigenze di
coordinamento sistematico portano ad
individuare nell’ambito dello stesso art.
5 (comma sesto) tali ulteriori elementi di
giudizio, tra i quali potranno assumere
specifico rilievo l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima
del decesso dell’ex coniuge e le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda
matrimoniale.
Se, infatti, la funzione dell’assegno
divorziale è eminemente assistenziale
(nel senso precisato da questa Corte già
con la sentenza 29 novembre 1990, n.
11490, a Sezioni unite, e ribadito dalla
giurisprudenza successiva), anche questo profilo, come è ormai pacifico secondo il più recente orientamento (Casss.
14 marzo 2000, n. 2920; Cass. 14 giugno 2000, mn. 8113; Casss. 10 gennaio
2001, n. 282 e Casss. 2 marzo 2001, n.
3037), deve essere suscettibile di valutazione in funzione correttiva del criterio,
non eludibile, dell’elemento temporale.
In quest’ottica, ed al solo fine di evitare
che l’ex coniuge sia privato dei mezzi
indispensabili per mantenere il tenore
vita che gli avrebbe dovuto assicurare
nel tempo l’assegno di divorzio, ed il
secondo coniuge del tenore di vita che il
de cuius gli aveva assicurato in vita,
anche l’esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo
coniuge potrà essere considerata dal
giudice del merito quale elemento da
apprezzare, nel caso concreto, per una
più compiuta valutazione delle situazioni
(cfr. sent. 282/2002, cit.).
Corte Cost. (Ord.), 14 novembre 2000,
n. 491 in Nuova Giur. Civ. commentata
2001,I,176
È manifestamente infondata, con riferi-
mento all’art. 3 cost., la q.l.c. dell’art. 9
comma 3 L. 1 dicembre 1970 n. 898,
nella parte in cui, ai fini della determinazione delle quote della pensione di
reversibilità, spettanti al coniuge divorziato o superstite, non esclude dal computo della durata del rapporto matrimoniale il periodo di separazione personale e non include il periodo di convivenza
“more uxorio” precedente la celebrazione del secondo matrimonio, in quanto
non può certo ritenersi manifestamente
irragionevole, l’aver accomunato convivenza coniugale e stato di separazione costituendo quest’ultima, in conformità
alla sua natura ed alle sue origini storiche, una semplice fase del rapporto
coniugale - mentre rimane punto fermo
di tutta la giurisprudenza costituzionale
la diversità tra famiglia di fatto e famiglia
fondata sul matrimonio, in ragione dei
caratteri di stabilità, certezza, reciprocità
e corrispettività dei diritti e doveri che
nascono soltanto da tale vincolo; ed in
quanto gli eventuali riflessi negativi del
criterio della durata del matrimonio sulla
posizione del soggetto economicamente più debole, possono e debbono essere superati mediante l’applicazione di
altri e differenti criteri concorrenti, quale,
“in primis”, quello dello stato di bisogno
degli aventi titolo alla pensione di reversibilità.
Corte Cost., 3 novembre 2000, n. 461
in Giust. Civ.2001, I, 295
È infondata la q.l.c., in riferimento agli
art. 2 e 3 cost., dell’art. 13 r.d.l. 14 aprile
1939 n. 636, conv. in l. 6 luglio 1939 n.
1272 e dell’art. 9 commi 2 e 3 l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art.
131 l. 6 marzo 1987 n. 74, nella parte in
cui non includono il convivente “more
uxorio” tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità,
ancorché la convivenza presenti i caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale. La mancata inclusione
del convivente “more uxorio” tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità trova infatti una
sua non irragionevole giustificazione
nella circostanza che tale trattamento si
collega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che nel caso
“de quo” manca, con la conseguenza
che la diversità delle situazioni poste a
raffronto rende non illegittima una differenziata disciplina delle stesse (sent. n.
8 del 1996). Nemmeno può dirsi violato
il principio di tutela delle formazioni
sociali in cui si sviluppa la persona umana in quanto la riferibilità del principio
alla convivenza di fatto purché caratterizzata da un grado accertato di stabilità
(sentt. n. 310 del 1989 e 237 del 1986)
non comporta un necessario riconoscimento al convivente del trattamento
pensionistico di reversibilità, che non
appartiene certo ai diritti inviolabili dell’uomo presidiati dall’art. 2 cost.
Cassazione Civ., Sez. Un., 12 gennaio
1998, n. 159 in Giur. It. 1999, 279
La ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e quello
divorziato costituisce una mera operazione matematica. La quota spettante a
ciascun coniuge è determinata sulla
base di una frazione che ha al numeratore il numero corrispondente alla durata del rispettivo matrimonio legale, e al
denominatore il numero corrispondente
alla somma dei due periodi (o più nel
caso di più divorzi) matrimoniali. La
durata del rapporto matrimoniale coincide con la durata legale del matrimonio,
pertanto, è preclusa la rilevanza della
cessazione della convivenza matrimoniale e della convivenza “more uxorio”.
Trib. Taranto, 06 marzo 1998, in Famiglia e diritto 1998, 445
Il diritto del coniuge divorziato ad una
quota della pensione di reversibilità
spettante al coniuge superstite va calcolato secondo un criterio misto che tenga
conto, non solo del dato temporale del
rapporto coniugale, ma anche di altri criteri idonei a rendere il trattamento più
corrispondente alla reale situazione di
fatto in cui versano l’ex coniuge, il superstite e le loro rispettive famiglie (in particolare le condizioni economiche delle
parti e l’eventuale scarto verificatosi tra
matrimonio ed effettiva convivenza
“more uxorio” del coniuge successivo,
radicatasi prima del divorzio e protrattasi fino al nuovo matrimonio).
43
GIURISPRUDENZA
AIAF RIVISTA 1/2004
in tema di... VIOLENZA SESSUALE NEI CONFRONTI DELLA MOGLIE
Cassazione penale, 29 gennaio 2004,
n. 3343
La Corte confermando la sentenza della
Corte d’appello di Palermo nei confronti
di un uomo imputato dei reati di cui agli
artt. 572 c.p. e 609 bis c.p. , che aveva
unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, con le attenuanti generiche e
la diminuente di rito, e condannato alla
pena di anni due e mesi quattro di reclusione, con eliminazione del beneficio
della sospensione condizionale della
pena, ha affermato che il fatto che vittima della violenza sessuale sia la moglie
non costituisce una attenuante per la
responsabilità del marito, che anzi deve
essere ritenuto responsabile di tutti quei
comportamenti vessatori consistenti in
44
veri e propri maltrattamenti, compresa la
violazione delle più elementari norme di
riservatezza.
La Corte è giunta a tale decisione dopo
aver rilevato che nel corso dei precedenti giudizi era stato accertato che il
marito aveva posto in essere plurime ,
autonome e reiterate condotte penalmente illecite che concretizzavano
entrambi i reati contestatigli ed ossia
maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale in danno della moglie; che il marito, mediante una serie di comportamenti reiterati nel tempo, lesivi dell’integrità
fisica, della libertà e del decoro della
moglie, quali percosse, lesioni, ingiurie,
minacce, condotte ossessive (pretendeva di seguire la moglie anche nel bagno,
violando così le più elementari norme di
riservatezza; spesso le impediva di uscire da sola dall’abitazione), umiliazioni
(frequentemente le faceva mancare il
denaro necessario per gli acquisti familiari), aveva sottoposto in modo abituale
la moglie a sofferenze fisiche e morali,
condotta che integra il reato di maltrattamento in famiglia ex art. 572 c.p.; che lo
stesso, inoltre, mediante ulteriori condotte illecite, aveva costretto con violenza e minacce la moglie a subire rapporti sessuali; realizzando così anche il reato di violenza sessuale ex art. 609 bis
c.p.
La gravità di tali fatti non consente la
concessione delle attenuanti, ex art. 609
bis, ultimo comma c.p.
IN LIBRERIA
FRACCON ADALGISA,
RELAZIONI FAMILIARI E RESPONSABILITÀ
GIUFFRÈ, 2003
CIVILE.
Adalgisa Fraccon, magistrato, per anni applicata alla sezione specializzata in diritto di famiglia del Tribunale di Milano, e giudice
estensore della sentenza in cui si è iniziato a prendere in esame il
rapporto tra doveri coniugali e responsabilità civile, ricostruisce
nel volume i principali percorsi giurisprudenziali che hanno delineato la fisionomia della responsabilità civile delle relazioni familiari negli ultimi decenni ed affronta la tematica dei torti endofamiliari, che di fatto, in ambito civilistico, è sempre stata sommersa e solo da poco incomincia ad affiorare nelle sentenze di merito.
L’autrice approfondisce le problematiche connesse sia alla responsabilità civile nei rapporti interni alla famiglia, ed in particolare, la
rilevanza della violazione dei doveri coniugali e genitoriali ai fini
della sussistenza della responsabilità civile nei rapporti tra coniugi
e tra genitori e figli, sia alla responsabilità del terzo nei confronti
delle relazioni familiari.
L’opera è senza dubbio interessante per l’innovativa lettura e interpretazione del rapporto tra le relazioni familiari e la normativa in
materia di responsabilità civile, alla luce del dettato costituzionale, e, considerata l’ampia casistica di crisi del rapporto coniugale e i casi spesso gravi di violazione dei
diritti dei minori, è da ritenersi uno strumento di lavoro indubbiamente utile.
M.DOSSETTI - M.MORETTI - F.MENOTTI - D.PASTORI
L’ASSEGNO, LA PENSIONE E GLI ALTRI DIRITTI
LE CONSEGUENZE PATRIMONIALI DEL DIVORZIO VOL. I
ANNA DANOVI GALIZIA
LA TUTELA DELL’ASSEGNO
LE CONSEGUENZE PATRIMONIALI
DEL DIVORZIO VOL.
II
COLLANA “LA FAMIGLIA: REALTÀ E DIRITTO”, EDIZIONI LA TRIBUNA, 2003
L’incontro di diverse professionalità, ovvero la convergenza della
pratica professionale, del pensiero teorico e della capacità di
comunicazione, ha dato vita alla Collana “La famiglia : realtà e
LA FAMIGLIA: REALTÀ E DIRTTO
diritto”, edita da La Tribuna, di cui sono usciti due volumi, che
Collana a cura di Anna Danovi Galizia, Maria Dossetti, Mimma Moretti, Maria Silvia Sactrattano le conseguenze patrimoniali del divorzio.
ANNA DANOVI GALIZIA
Autrici e coordinatrici della collana sono Anna Galizia Danovi,
avvocato del Foro di Milano, Maria Dossetti, docente di Diritto di
LE CONSEGUENZE PATRIMONIALI DEL DIVORZIO - II
Famiglia alla Fac. di Giurisprudenza dell’Università MilanoBicocca, Mimma Moretti, docente di Diritto di Famiglia alla Fac.
di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, Maria Silvia Sacchi, giornalista del Corriere della Sera.
La collana interessa gli operatori del diritto, ma anche coloro che
si preparano ad accedere alle professioni forensi, in quanto la trattazione degli argomenti è estremamente chiara e precisa, e ogni
capitolo inizia con la descrizione della disciplina dell’istituto, e
quindi affronta i singoli problemi interpretativi e applicativi, e
riporta la giurisprudenza correlata.
CasaEditriceLaTribuna
Il primo volume tratta dell’assegno di divorzio, attribuzione e
quantificazione, e degli altri diritti patrimoniali conseguenti al
divorzio (assistenza sanitaria - pensione di reversibilità - indennità di fine rapporto - assegno a carico dell’eredità).
Nel secondo volume viene trattato il tema della tutela dell’assegno di divorzio, e quindi le questioni di
natura processuale, e attinenti alla fase di esecuzione della sentenza di divorzio, e di revisione.
La tutela dell’assegno
45
DAL PARLAMENTO
L’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
LEGGE 9 GENNAIO 2004, N. 6
“Introduzione nel primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429
del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonchè libro relative norme di
attuazione, di coordinamento e finali”
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 14 del 19 gennaio 2004
Capo I
FINALITÀ DELLA LEGGE
Art. 1.
1. La presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di
agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente.
Capo II
MODIFICHE AL CODICE CIVILE
Art. 2.
1. La rubrica del titolo XII del libro primo del codice civile è sostituita dalla seguente: “Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia”.
Art. 3.
1. Nel titolo XII del libro primo del codice civile, è premesso il seguente capo:
“Capo I. - Dell’amministrazione di sostegno.
Art. 404. - (Amministrazione di sostegno). - La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una
menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice
tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.
Art. 405. - (Decreto di nomina dell’amministratore di sostegno. Durata dell’incarico e relativa pubblicità). - Il giudice tutelare provvede entro sessanta giorni dalla data di presentazione della richiesta alla nomina dell’amministratore di sostegno con decreto motivato immediatamente esecutivo, su
ricorso di uno dei soggetti indicati nell’articolo 406.
Il decreto che riguarda un minore non emancipato può essere emesso solo nell’ultimo anno della sua
minore età e diventa esecutivo a decorrere dal momento in cui la maggiore età è raggiunta.
Se l’interessato è un interdetto o un inabilitato, il decreto è esecutivo dalla pubblicazione della sentenza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione.
Qualora ne sussista la necessità, il giudice tutelare adotta anche d’ufficio i provvedimenti urgenti per
la cura della persona interessata e per la conservazione e l’amministrazione del suo patrimonio. Può
procedere alla nomina di un amministratore di sostegno provvisorio indicando gli atti che è autorizzato a compiere.
Il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve contenere l’indicazione:
1) delle generalità della persona beneficiaria e dell’amministratore di sostegno;
2) della durata dell’incarico, che può essere anche a tempo indeterminato;
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GENNAIO - APRILE 2004
DAL PARLAMENTO
3) dell’oggetto dell’incarico e degli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in
nome e per conto del beneficiario;
4) degli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno;
5) dei limiti, anche periodici, delle spese che l’amministratore di sostegno può sostenere con utilizzo
delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità;
6) della periodicità con cui l’amministratore di sostegno deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario.
Se la durata dell’incarico è a tempo determinato, il giudice tutelare può prorogarlo con decreto motivato pronunciato anche d’ufficio prima della scadenza del termine.
Il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno, il decreto di chiusura ed ogni altro provvedimento assunto dal giudice tutelare nel corso dell’amministrazione di sostegno devono essere immediatamente annotati a cura del cancelliere nell’apposito registro.
Il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno e il decreto di chiusura devono essere comunicati, entro dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita del beneficiario. Se la durata dell’incarico è a tempo determinato, le annotazioni devono essere
cancellate alla scadenza del termine indicato nel decreto di apertura o in quello eventuale di proroga.
Art. 406. - (Soggetti). - Il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno può essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario, anche se minore, interdetto o inabilitato, ovvero da uno dei
soggetti indicati nell’articolo 417.
Se il ricorso concerne persona interdetta o inabilitata il medesimo è presentato congiuntamente all’istanza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione davanti al giudice competente per quest’ultima.
I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso di cui all’articolo 407 o a
fornirne comunque notizia al pubblico ministero.
Art. 407. - (Procedimento). - Il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno deve indicare le generalità del beneficiario, la sua dimora abituale, le ragioni per cui si richiede la nomina
dell’amministratore di sostegno, il nominativo ed il domicilio, se conosciuti dal ricorrente, del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del beneficiario.
Il giudice tutelare deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce recandosi,
ove occorra, nel luogo in cui questa si trova e deve tener conto, compatibilmente con gli interessi e
le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa.
Il giudice tutelare provvede, assunte le necessarie informazioni e sentiti i soggetti di cui all’articolo
406; in caso di mancata comparizione provvede comunque sul ricorso. Dispone altresì, anche d’ufficio, gli accertamenti di natura medica e tutti gli altri mezzi istruttori utili ai fini della decisione.
Il giudice tutelare può, in ogni tempo, modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte con
il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno.
In ogni caso, nel procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno interviene il pubblico ministero.
Art. 408. - (Scelta dell’amministratore di sostegno). - La scelta dell’amministratore di sostegno avviene con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario. L’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale
futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. In mancanza, ovvero in presenza di gravi motivi, il giudice tutelare può designare con decreto motivato un amministratore di
sostegno diverso. Nella scelta, il giudice tutelare preferisce, ove possibile, il coniuge che non sia
separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il padre, la madre, il figlio o il fratello o la
sorella, il parente entro il quarto grado ovvero il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Le designazioni di cui al primo comma possono essere revocate dall’autore con le stesse forme.
Non possono ricoprire le funzioni di amministratore di sostegno gli operatori dei servizi pubblici o
privati che hanno in cura o in carico il beneficiario.
Il giudice tutelare, quando ne ravvisa l’opportunità, e nel caso di designazione dell’interessato quando ricorrano gravi motivi, può chiamare all’incarico di amministratore di sostegno anche altra persona idonea, ovvero uno dei soggetti di cui al titolo II al cui legale rappresentante ovvero alla persona che questi ha facoltà di delegare con atto depositato presso l’ufficio del giudice tutelare, com47
DAL PARLAMENTO
AIAF RIVISTA 1/2004
petono tutti i doveri e tutte le facoltà previste nel presente capo.
Art. 409. - (Effetti dell’amministrazione di sostegno). - Il beneficiario conserva la capacità di agire
per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno.
Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana.
Art. 410. - (Doveri dell’amministratore di sostegno). - Nello svolgimento dei suoi compiti l’amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario.
L’amministratore di sostegno deve tempestivamente informare il beneficiario circa gli atti da compiere nonchè il giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso. In caso di contrasto, di
scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza nel perseguire l’interesse o nel soddisfare i bisogni o le
richieste del beneficiario, questi, il pubblico ministero o gli altri soggetti di cui all’articolo 406 possono ricorrere al giudice tutelare, che adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti.
L’amministratore di sostegno non è tenuto a continuare nello svolgimento dei suoi compiti oltre dieci anni, ad eccezione dei casi in cui tale incarico è rivestito dal coniuge, dalla persona stabilmente
convivente, dagli ascendenti o dai discendenti.
Art. 411. - (Norme applicabili all’amministrazione di sostegno). - Si applicano all’amministratore di
sostegno, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli da 349 a 353 e da 374 a 388. I
provvedimenti di cui agli articoli 375 e 376 sono emessi dal giudice tutelare.
All’amministratore di sostegno si applicano altresì, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 596, 599 e 779.
Sono in ogni caso valide le disposizioni testamentarie e le convenzioni in favore dell’amministratore
di sostegno che sia parente entro il quarto grado del beneficiario, ovvero che sia coniuge o persona
che sia stata chiamata alla funzione in quanto con lui stabilmente convivente.
Il giudice tutelare, nel provvedimento con il quale nomina l’amministratore di sostegno, o successivamente, può disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni. Il provvedimento è assunto con decreto motivato a seguito di ricorso che può essere presentato anche dal beneficiario direttamente.
Art. 412. - (Atti compiuti dal beneficiario o dall’amministratore di sostegno in violazione di norme di
legge o delle disposizioni del giudice). - Gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge, od in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli
dal giudice, possono essere annullati su istanza dell’amministratore di sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi ed aventi causa.
Possono essere parimenti annullati su istanza dell’amministratore di sostegno, del beneficiario, o dei
suoi eredi ed aventi causa, gli atti compiuti personalmente dal beneficiario in violazione delle disposizioni di legge o di quelle contenute nel decreto che istituisce l’amministrazione di sostegno.
Le azioni relative si prescrivono nel termine di cinque anni. Il termine decorre dal momento in cui è
cessato lo stato di sottoposizione all’amministrazione di sostegno.
Art. 413. - (Revoca dell’amministrazione di sostegno). - Quando il beneficiario, l’amministratore di
sostegno, il pubblico ministero o taluno dei soggetti di cui all’articolo 406, ritengono che si siano
determinati i presupposti per la cessazione dell’amministrazione di sostegno, o per la sostituzione
dell’amministratore, rivolgono istanza motivata al giudice tutelare.
L’istanza è comunicata al beneficiario ed all’amministratore di sostegno.
Il giudice tutelare provvede con decreto motivato, acquisite le necessarie informazioni e disposti gli
opportuni mezzi istruttori.
Il giudice tutelare provvede altresì, anche d’ufficio, alla dichiarazione di cessazione dell’amministrazione di sostegno quando questa si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario. In tale ipotesi, se ritiene che si debba promuovere giudizio di interdizione o di inabilitazione,
ne informa il pubblico ministero, affinchè vi provveda. In questo caso l’amministrazione di sostegno
cessa con la nomina del tutore o del curatore provvisorio ai sensi dell’articolo 419, ovvero con la
dichiarazione di interdizione o di inabilitazione”.
2. All’articolo 388 del codice civile le parole: “prima dell’approvazione” sono sostituite dalle
seguenti: “prima che sia decorso un anno dall’approvazione”.
3. Dall’applicazione della disposizione di cui all’articolo 408 del codice civile, introdotto dal comma 1, non possono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato.
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GENNAIO - APRILE 2004
DAL PARLAMENTO
Art. 4.
1. Nel titolo XII del libro primo del codice civile, prima dell’articolo 414 sono inserite le seguenti
parole:
“Capo II. - Della interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale”.
2. L’articolo 414 del codice civile è sostituito dal seguente:
“Art. 414. - (Persone che possono essere interdette). - Il maggiore di età e il minore emancipato, i
quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai
propri interessi, sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”.
Art. 5.
1. Nel primo comma dell’articolo 417 del codice civile, le parole: “possono essere promosse dal
coniuge” sono sostituite dalle seguenti: “possono essere promosse dalle persone indicate negli articoli 414 e 415, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente”.
Art. 6.
1. All’articolo 418 del codice civile è aggiunto, in fine, il seguente comma:
“Se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appare opportuno applicare l’amministrazione di sostegno, il giudice, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare. In tal caso il giudice competente per l’interdizione o per l’inabilitazione
può adottare i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell’articolo 405”.
Art. 7.
1. Il terzo comma dell’articolo 424 del codice civile è sostituito dal seguente:
“Nella scelta del tutore dell’interdetto e del curatore dell’inabilitato il giudice tutelare individua di
preferenza la persona più idonea all’incarico tra i soggetti, e con i criteri, indicati nell’articolo 408”.
Art. 8.
1. All’articolo 426 del codice civile, al primo comma, dopo le parole: “del coniuge,” sono inserite le
seguenti: “della persona stabilmente convivente,”.
Art. 9.
1. All’articolo 427 del codice civile, al primo comma è premesso il seguente:
“Nella sentenza che pronuncia l’interdizione o l’inabilitazione, o in successivi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore, o che taluni atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore”.
Art. 10.
1. All’articolo 429 del codice civile è aggiunto, in fine, il seguente comma:
“Se nel corso del giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione appare opportuno che,
successivamente alla revoca, il soggetto sia assistito dall’amministratore di sostegno, il tribunale,
d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare”.
Art. 11.
1. L’articolo 39 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, approvate con regio decreto 30 marzo 1942, n. 318, è abrogato.
Capo III
NORME DI ATTUAZIONE, DI COORDINAMENTO E FINALI
Art. 12.
1. L’articolo 44 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, approvate con regio decreto 30 marzo 1942, n. 318, è sostituito dal seguente:
“Art. 44. Il giudice tutelare può convocare in qualunque momento il tutore, il protutore, il curatore e
l’amministratore di sostegno allo scopo di chiedere informazioni, chiarimenti e notizie sulla gestione
della tutela, della curatela o dell’amministrazione di sostegno, e di dare istruzioni inerenti agli inte49
DAL PARLAMENTO
AIAF RIVISTA 1/2004
ressi morali e patrimoniali del minore o del beneficiario”.
Art. 13.
1. Dopo l’articolo 46 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie,
approvate con regio decreto 30 marzo 1942, n. 318, è inserito il seguente:
“Art. 46-bis. Gli atti e i provvedimenti relativi ai procedimenti previsti dal titolo XII del libro primo
del codice non sono soggetti all’obbligo di registrazione e sono esenti dal contributo unificato previsto dall’articolo 9 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di
giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.
2. All’onere derivante dall’attuazione del presente articolo, valutato in euro 4.244.970 a decorrere
dall’anno 2003, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del
bilancio triennale 2003-2005, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente “Fondo
speciale” dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2003, allo
scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero della giustizia.
3. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
Art. 14.
1. L’articolo 47 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, approvate con regio decreto 30 marzo 1942, n. 318, è sostituito dal seguente:
“Art. 47. Presso l’ufficio del giudice tutelare sono tenuti un registro delle tutele dei minori e degli
interdetti, un registro delle curatele dei minori emancipati e degli inabilitati ed un registro delle
amministrazioni di sostegno”.
Art. 15.
1. Dopo l’articolo 49 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie,
approvate con regio decreto 30 marzo 1942, n. 318, è inserito il seguente:
“Art. 49-bis. Nel registro delle amministrazioni di sostegno, in un capitolo speciale per ciascuna di
esse, si devono annotare a cura del cancelliere:
1) la data e gli estremi essenziali del provvedimento che dispone l’amministrazione di sostegno, e di
ogni altro provvedimento assunto dal giudice nel corso della stessa, compresi quelli emanati in via
d’urgenza ai sensi dell’articolo 405 del codice;
2) le complete generalità della persona beneficiaria;
3) le complete generalità dell’amministratore di sostegno o del legale rappresentante del soggetto
che svolge la relativa funzione, quando non si tratta di persona fisica;
4) la data e gli estremi essenziali del provvedimento che dispone la revoca o la chiusura dell’amministrazione di sostegno”.
Art. 16.
1. All’articolo 51 del codice di procedura civile, al primo comma, al numero 5, dopo la parola:
“curatore” sono inserite le seguenti: “, amministratore di sostegno”.
Art. 17.
1. Al capo II del titolo II del libro quarto del codice di procedura civile, nella rubrica, le parole: “e
dell’inabilitazione” sono sostituite dalle seguenti: “, dell’inabilitazione e dell’amministrazione di
sostegno”.
2. Dopo l’articolo 720 del codice di procedura civile è inserito il seguente:
“Art. 720-bis. (Norme applicabili ai procedimenti in materia di amministrazione di sostegno). - Ai
procedimenti in materia di amministrazione di sostegno si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 712, 713, 716, 719 e 720.
Contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo alla corte d’appello a norma dell’articolo
739.
Contro il decreto della corte d’appello pronunciato ai sensi del secondo comma può essere proposto
ricorso per cassazione”.
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GENNAIO - APRILE 2004
DAL PARLAMENTO
Art. 18.
1. All’articolo 3, comma 1, lettera p), del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei
relativi carichi pendenti, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313,
sono aggiunte, in fine, le parole: “, nonchè i decreti che istituiscono, modificano o revocano l’amministrazione di sostegno”.
2. All’articolo 24, comma 1, del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
14 novembre 2002, n. 313, la lettera m) è sostituita dalla seguente:
“m) ai provvedimenti di interdizione, di inabilitazione e relativi all’amministrazione di sostegno,
quando esse sono state revocate”.
3. All’articolo 25, comma 1, lettera m), del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, sono aggiunte, in fine, le parole: “, nonchè ai decreti che istituiscono, modificano o revocano l’amministrazione di sostegno”.
4. All’articolo 26, comma 1, lettera a), del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, sono aggiunte, in fine, le parole: “ai decreti che istituiscono
o modificano l’amministrazione di sostegno, salvo che siano stati revocati;”.
Art. 19.
1. Nell’articolo 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, dopo le parole: “procedimenti cautelari,” sono inserite le seguenti: “ai procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione, di
inabilitazione, ai procedimenti”.
Art. 20.
1. La presente legge entra in vigore dopo sessanta giorni dalla data della sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale.
RIFORMATO IL SISTEMA DI PROTEZIONE DELLE PERSONE INCAPACI
La legge 9 gennaio 2004 n. 6 comporta una riforma del sistema di protezione delle persone incapaci,
che diventa più articolato e rispondente alle specifiche esigenze del singolo caso, così da consentire
l’emanazione di provvedimenti giudiziari che incidono in modo diverso sulla capacità di agire del soggetto.
In particolare la legge ha introdotto l’amministrazione di sostegno delle persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, e cioè che si trovino in stato di
infermità o di menomazione fisica o psichica, che le comporti l’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. In tali casi la legge prevede la nomina, temporanea o a tempo
indeterminato, di un amministratore di sostegno, cui viene conferito l’incarico di assistere il beneficiario del provvedimento, nella cura della persona e/o nell’amministrazione del patrimonio, e/o di rappresentarlo nel compimento di determinati atti. Il soggetto però continuerà a conservare la capacità di
agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno.
Nel caso in infermità mentale grave e abituale, e cioè nel caso in cui la persona si trovi in uno stato di
incapacità di intendere e volere, totale o parziale, si continuerà a far ricorso al procedimento di interdizione o di inabilitazione, che rimangono di competenza del tribunale.
La legge n. 6/2004 modifica però anche le norme relative all’istituto dell’interdizione, che non è più
previsto come provvedimento obbligatorio in presenza delle suddette condizioni, ma è disposto solo
quando sia necessario per assicurare un’adeguata protezione alla persona.
Si tratta di una modifica significativa che pone in primo piano le esigenze di protezione della persona
da interdire, e non più la tutela dei suoi interessi, per tali intendendosi anche, e forse soprattutto se si
guarda alla casistica giudiziaria, quelli di natura economica e patrimoniale.
Spetta quindi al giudice, competente nell’ambito dei diversi procedimenti di amministrazione di sostegno, di inabilitazione o interdizione, valutare le condizioni fisiche e psichiche della persona, dopo
averla sentita personalmente, e aver assunto le necessarie informazioni del caso e disposto anche d’ufficio gli accertamenti di natura medica e ogni altro mezzo istruttorio utile, al fine di assumere la decisione più idonea per la sua protezione.
51
DAL PARLAMENTO
AIAF RIVISTA 1/2004
Quanto al procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno, può essere attivato dallo stesso soggetto beneficiario, anche se minore, interdetto o inabilitato, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o
curatore ovvero dal pubblico ministero.
Innovativa è la legittimazione attiva riconosciuta alla persona stabilmente convivente con il soggetto
non autonomo, che viene a colmare un vuoto legislativo e consente di estendere l’applicazione dell’amministrazione di sostegno sia ai casi di convivenza more uxorio che di convivenza omosessuale o
fondata su altro rapporto affettivo.
Significativo è altresì l’obbligo che viene posto a carico dei responsabili dei servizi sanitari e sociali
direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, di proporre il ricorso al giudice tutelare,
o comunque darne notizia al pubblico, qualora siano a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna
l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno. Considerato il costante aumento di ricoveri di persone anziane o inabili, che si registra nella nostra società, la norma si propone di responsabilizzare le strutture di ricovero nell’ottica di salvaguardare gli interessi dei degenti. Conseguentemente la legge fa divieto agli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura o in carico la persona non autonoma, di ricoprire le funzioni di amministratore di sostegno.
Non è prevista una sanzione in caso di mancata proposizione del ricorso al giudice tutelare o di segnalazione al pubblico ministero, ma non si può non rilevare la sussistenza di una potenziale responsabilità, civile e penale, dei responsabili delle strutture di ricovero, pubblico e privato, di tipo sanitario e
sociale, nel caso di persona non autonoma secondo i criteri della legge in esame, sia in relazione all’obbligo di acquisire il consenso informato in caso di cure mediche alla persona degente, sia con riferimento alla gestione diretta di pensioni o altri introiti della stessa, o a conseguenza di fatti di circonvenzione effettuati da terzi ai suoi danni.
Altra importante innovazione è la facoltà riconosciuta al beneficiario di effettuare, con atto pubblico o
scrittura privata autenticata, la designazione di una persona di sua fiducia quale amministratore di sostegno in previsione della propria eventuale futura incapacità. Questa norma che dà riconoscimento alla
volontà anticipata della persona, assume una particolare importanza in quanto costituisce un ulteriore
affermazione nel nostro ordinamento giuridico del principio di autodeterminazione della persona nel
campo dell’assistenza e delle cure mediche. Il soggetto nominato di fiducia dalla persona interessata,
potrà ad esempio, nel caso di perdita della capacità da parte di questa, esercitare in sua sostituzione i
diritti e le facoltà relativi all’esercizio del diritto al consenso informato, e non si vedono limiti anche
alla facoltà della persona di disporre anticipatamente determinate direttive e scelte in relazione alla propria salute e alle cure mediche, cui vincolare l’amministratore di sostegno, in vista di una situazione di
perdita della capacità.
Inoltre si prevede che nella sentenza di interdizione o inabilitazione, o in successivi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, è possibile stabilire che alcuni atti di ordinaria amministrazione possano essere
compiuti dall’interdetto o dall’inabilitato senza l’intervento del tutore o l’assistenza del curatore. In tal
modo si riconosce la possibilità di lasciare alla persona, anche se interdetta, una parziale capacità di
compimento di atti. La questione può assumere una notevole rilevanza per quanto riguarda gli atti personalissimi della sfera affettiva, sino ad oggi vietati agli interdetti e che hanno mosso il Prof Paolo Cendon a farsi promotore anni fa di questa riforma. Bisognerà però attendere l’applicazione della legge, per
verificare quale interpretazione intenda dare la giurisprudenza di merito a queste norme che aprono dei
varchi, ma tutto sommato non sono poi così chiare.
Avv. Milena Pini
52
DAL PARLAMENTO
GENNAIO - APRILE 2004
ABOLIZIONE DELL’ADDEBITO NELLA SEPARAZIONE
CAMERA DEI DEPUTATI
PROPOSTA DI LEGGE N. 4756
D ‘INIZIATIVA DEI DEPUTATI MILANESE, ANGELINO ALFANO, GIOACCHINO ALFANO,
ARNOLDI, COSSIGA, FALANGA, FALLICA, GAZZARA, LECCISI, LENNA, MILANATO, PATRIA,
PERROTTA, ROMOLI, ANTONIO RUSSO, SANTULLI, TARANTINO, VERRO, ZORZATO
presentata il 26 febbraio 2004
Modifiche al codice civile in materia di separazione dei coniugi
ONOREVOLI COLLEGHI!-Già nel 1975 la legge di riforma del diritto di famiglia aveva abolito l
‘istituto della separazione per colpa, ma il legislatore non riuscì completamente nel suo intento innovatore, in quanto in sede parlamentare furono approvati alcuni emendamenti che, seppur non parlando di “colpa “,introdussero tale concetto edulcorandolo con il termine di “addebito “ delle responsabilità della separazione.
Ora, però, dopo quasi trenta anni, in un mondo civilmente e socialmente più evoluto, è giunta l’ora di
ridiscutere la questione giacche vari mutamenti hanno modificato l’istituto del divorzio, il concetto
del matrimonio e la mentalità comune su tali questioni. Del resto l’istituto dell’addebito si è dimostrato un semplice strumento sanzionatorio, perdendo ogni capacità di moralizzare chi lo subisce;
inoltre non fa che aumentare le tensioni e, di conseguenza, dilungare i tempi del processo, promuovendo una politica di conflittualità che danneggia i figli e divide i coniugi in due categorie (il perdente e il vincente), favorendo conflitti e tensioni, piuttosto che collaborazione e dialogo.
Per tutte queste ragioni, con la presente proposta di legge si intende abolire l’istituto dell’addebito,
per avviare così la ricerca del dialogo, della condivisione e della solidarietà, nell’interesse delle parti più deboli.
ART.1.
1.Al codice civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il secondo comma dell’articolo 151 è abrogato;
b) il primo comma dell’articolo 156 e` sostituito dal seguente:
“Il giudice, pronunciando la separazione, può stabilire in favore di uno dei coniugi il diritto di ricevere dall’altro quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri “;
c) all ‘articolo 540:
1) al primo comma, dopo le parole: “A favore del coniuge “sono inserite le seguenti:”,anche se separato,”;
2) al secondo comma, dopo la parola:”coniuge “,ovunque ricorra, sono inserite le seguenti:”,anche
se separato,”;
3) alla rubrica sono aggiunte, infine, le parole:”,in costanza di matrimonio e in caso di separazione”;
d) l ‘articolo 548 è abrogato;
e) all ‘articolo 565,dopo la parola: “coniuge,”sono inserite le seguenti:”anche se separato,”;
f) l ‘articolo 585 è abrogato.
53
DAL PARLAMENTO
AIAF RIVISTA 1/2004
SENATO DELLA REPUBBLICA
DISEGNO DI LEGGE N.2769
d’iniziativa dei Senatori Leonzio Borea (UDC) e Vincenzo Demasi (AN)
presentato il 19 Febbraio 2004
Abolizione dell’ addebito nelle separazioni
DISEGNO DI LEGGE N. 2659
d’iniziativa dei senatori
MANZIONE, LIGUORI, BATTISTI, RIGONI, VERALDI, FORMISANO, DATO, BAIO DOSSI
comunicato alla Presidenza il 17 dicembre 2003
Modifiche al codice civile in materia di abolizione dell’addebito nelle separazioni
Onorevoli Senatori. - Nel 1975, all’apice di un percorso di evoluzione civile e sociale fortemente
avvertito dalla pubblica opinione, la legge di riforma del diritto di famiglia, nel disegnare nuovi schemi di rapporti familiari, abolì, tra l’altro, l’istituto della separazione per colpa.
La riforma, tuttavia, in questo come in altri campi, riuscì a raggiungere il suo intento innovatore soltanto a metà, perchè alcuni emendamenti presentati in sede di approvazione parlamentare reintrodussero in qualche modo la “colpa”, nella veste ridotta e mitigata dell’addebito della responsabilità delle separazioni.
I tempi, forse, non erano maturi perchè millenarie concezioni colpevoliste, non aperte allo spirito del
matrimonio come società tra uguali ed alla libera determinazione, per esso, di un consenso non limitato al momento iniziale, ma perdurante, fossero di colpo cancellate.
Il successivo decorso di quasi trent’anni consente, se non impone, la riapertura del discorso.
Nel periodo in questione, l’istituto del divorzio è stato modificato e profondi mutamenti sono intervenuti nel tessuto sociale, che ha superato gli schemi del passato per aprirsi a concezioni dei rapporti tra gli individui in cui la dimensione della “colpa” o dei suoi “surrogati”, in relazione alla scelta di
mantenere o meno in vita un matrimonio, non ha più ragion d’essere.
Va rilevato, peraltro, come dal momento di introduzione dell’istituto, sono sicuramente poche le persone separate che hanno “beneficiato” degli effetti di una dichiarazione di addebito, pur ricorrendone
i presupposti.
Nell’intenzione del legislatore del ‘75 l’addebito avrebbe dovuto porre rimedio a tutte quelle situazioni in cui si concretizzava una violazione dei più ampi doveri ed obblighi derivanti dal matrimonio
di cui all’articolo 143 del codice civile. Infatti, con il superamento della concezione della separazione che vedeva come unico suo presupposto la colpa, identificata in ipotesi tassative (abbandono, adulterio, sevizie, condanne penali, minacce, ingiurie, non fissata residenza) e l’introduzione della mera
intollerabilità della convivenza, si apriva il campo ad una casistica più vasta e complessa da valutarsi ai fini del giudizio di addebitabilità.
Nell’esperienza pratica di applicazione dell’addebito, esso si è dimostrato, invece, sempre più come
uno strumento meramente sanzionatorio con discutibili finalità moralizzatrici nei confronti di chi lo
subisce.
L’unico dato certo è che l’addebito contribuisce ad accendere le conflittualità e quindi a prolungare i
tempi del processo, soprattutto se si considera che ad esso si ricorre anche per fini strumentali e dilatori.
54
DAL PARLAMENTO
GENNAIO - APRILE 2004
Un’ulteriore debolezza e contraddizione nella configurazione dell’istituto la si riscontra nella fase di
divorzio, nella quale non è previsto l’addebito; i presupposti di quest’ultimo (ovvero i comportamenti contrari ai doveri matrimoniali) che nella fase della separazione assurgono ad un’autonoma e prioritaria rilevanza, nella successiva fase divorzile vanno ad integrare soltanto uno degli elementi di
valutazione che determinano il giudice nella quantificazione dell’assegno. Pertanto, nel passaggio tra
le due fasi, quel medesimo comportamento (censurabile e costitutivo di provvedimenti negativi nella
prima, meramente indicativo nella seconda) viene dalla legge di fatto “degradato” nello schema di
valutazione che il giudice del divorzio deve imporsi.
Le considerazioni svolte giustificano gli interrogativi posti in premessa sull’opportunità o meno di
concedere all’istituto che qui interessa ulteriore diritto di cittadinanza nell’ordinamento.
Onorevoli senatori! Piuttosto che agevolare la cultura del conflitto, che si risolve necessariamente in
un danno per i figli, la legge dovrebbe promuovere la cultura della mediazione e dell’accordo, tendendo alla sostituzione, in questa delicata materia, del giudice che pronuncia verdetti in ordine alle
responsabilità della vita familiare, con un giudice che sia arbitro della ricerca, ad opera delle parti, di
assetti validi per la propria (personalissima) realtà post-matrimoniale.
Un passo significativo in questa direzione è certamente costituito dall’abolizione dell’istituto dell’addebito, che non produce alcuna utilità per la famiglia in quanto tale, ma allarga ed estende, spesso all’intero gruppo parentale e comunque certamente ai figli, un conflitto che dovrebbe invece essere circoscritto nel tempo ed indirizzato, da una saggia normativa, nell’interesse delle parti più deboli, verso forme di collaborazione e solidarietà.
Nelle cause di separazione non dovrebbero esserci vinti e vincitori, ma solo persone che riescano a
dialogare, per poter definire in modo adeguato l’assetto dei loro rapporti.
È per questa serie di ragioni che si confida in una larga condivisione delle finalità e delle disposizioni del presente disegno di legge.
Art. 1.
1. Al codice civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il secondo comma dell’articolo 151 è abrogato;
b) il primo comma dell’articolo 156 è sostituito dal seguente:
“Il giudice, pronunciando la separazione, può stabilire in favore di uno dei coniugi il diritto di ricevere dall’altro quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri.”;
c) all’articolo 540, la parola: “coniuge”, ovunque ricorra, è sostituita dalle seguenti: “coniuge,
anche se separato”;
d) l’articolo 548 è abrogato;
e) all’articolo 565, la parola: “coniuge”, è sostituita dalle seguenti: “coniuge, anche se separato”;
f) l’articolo 585 è abrogato.
SENATO DELLA REPUBBLICA
DISEGNO DI LEGGE N. 2771
d’iniziativa dei senatori Sen. Leonzio Borea (UDC) e Vincenzo Demasi (AN)
Presentato il 19 Febbraio 2004
Abolizione della qualità di erede necessario per il coniuge separato
55
DAL PARALAMENTO
AIAF RIVISTA 1/2004
COGNOME DELLA MOGLIE
CAMERA DEI DEPUTATI
Proposta di legge N. 4755
D’iniziativa dei deputati Guido Milanese (Forza Italia), Gioacchino Alfano, Gianantonio
Arnoldi, Giuseppe Cossiga, Ciro Falanga, Giuseppe Fallica, Antonino Gazzara, Ivano Leccisi,
Vanni Lenna, Lorena Milanato, Maurizio Paniz, Renzo Patria, Aldo Perrotta, Ettore Romoli,
Antonio Russo, Paolo Santulli, Giuseppe Tarantino, Antonio Giuseppe Maria Verro, Marino
Zorzato
Presentato in data 26 Febbraio 2004
Modifiche al codice civile e altre disposizioni in materia di cognome della moglie
La presente proposta di legge tende all’abrogazione dell’articolo 143-bis del codice civile, considerato un retaggio storico del primato maritale rispetto alla moglie. Già nel passato la donna doveva, ai
sensi dell’articolo 144 del codice civile, assumere il cognome del marito, condizione modificata dall’articolo 143-bis del medesimo codice, che prevede nel testo vigente che la moglie aggiunga al suo
il cognome del coniuge.
Oggi, però, anche confrontando il codice civile italiano con quello degli altri Stati europei, si ritiene
che l’aggiunta del cognome del marito sia da eliminare, in quanto è solo un simbolo del possesso da
parte del marito, non rappresenta certo l’unità della famiglia e mina la parità giuridica fra uomo e donna. Anche per il fatto che molte donne, oggi, utilizzano nella loro professione solo il proprio cognome, con la presente proposta di legge si intende proporre l ‘abrogazione degli articoli 143-bis e 156bis del codice civile in materia di assunzione da parte della moglie del cognome del marito, nonché
dei commi 2, 3 e 4 dell’articolo 5 della legge n.898 del 1970, che dispongono per la donna la perdita
del cognome aggiunto al proprio a seguito del matrimonio, in caso di scioglimento dello stesso.
PROPOSTA DI LEGGE
ART.1.
1.Gli articoli 143-bis e 156-bis del codice civile sono abrogati.
ART.2.
1.I commi 2,3 e 4 dell ‘articolo 5 della legge 1 o dicembre 1970,n.898,e successive modificazioni,
sono abrogati.
56
DAL PARLAMENTO
GENNAIO - APRILE 2004
SENATO DELLA REPUBBLICA
DISEGNO DI LEGGE N. 2772
d’iniziativa dei senatori Sen. Leonzio Borea (UDC) eVincenzo Demasi (AN)
Presentato il 19 Febbraio 2004
Modifiche al codice civile in materia di cognome della moglie
DISEGNO DI LEGGE N. 2660
d’iniziativa dei senatori Roberto Manzione (Mar-DL-U) , Alessandro Battisti, Cinzia Dato,
Aniello Formisano , Ettore Liguori, Andrea Rigoni, Donato Tommaso Veraldi ,
Nicola Mancino, Giuseppe Scalera
Presentato il 12 Febbraio 2004
Modifiche al codice civile in materia di cognome della moglie
DIRITTO DI VISITA DEI NONNI
SENATO DELLA REPUBBLICA
DISEGNO DI LEGGE N. 2435
d’iniziativa dei senatori ALBERTI CASELLATI, CARUSO Antonino e CENTARO
comunicato alla Presidenza il 24 luglio 2003
Diritto di visita dei nonni
Onorevoli Senatori. - Negli ultimi decenni la società familiare ha subìto profonde trasformazioni, a
livello sociale prima che giuridico, stante l’oggettiva difficoltà per il legislatore di calibrare lo strumento normativo su fattispecie in continua evoluzione: difficoltà evidenziata efficacemente già dallo
Jemolo quando, con felice espressione, paragonò la famiglia ad “un’isola che il mare del diritto può
lambire, ma lambire soltanto”.
Essa è, infatti, una realtà estremamente mutevole che risente, forse più di ogni altra formazione sociale, del progredire del costume, dei rapporti sociali e politici e del cambiamento che ha caratterizzato
gli stessi rapporti personali nell’attuale fase storica.
Abbandonato il tradizionale modello patriarcale - proprio di società prevalentemente agricole -, che
comprendeva tutti i discendenti da un comune capostipite e li assoggettava all’indiscussa autorità del
pater familias, a seguito dei processi di industrializzazione si afferma il nuovo modello di famiglia
cosiddetto nucleare, ristretta al rapporto coniugi-figli e non più retta dall’autorità di un capo, ma dal
57
DAL PARLAMENTO
AIAF RIVISTA 1/2004
comune accordo e dall’affetto dei coniugi.
E proprio a quest’ultimo modello familiare si ispira la nostra Carta costituzionale negli articoli 29, 30
e 31 che recepiscono, con circa un secolo di ritardo, una trasformazione ormai consolidata a livello
sociale, ma del tutto trascurata a livello normativo. Analogo recepimento, sul piano della legislazione ordinaria, si ha solo nel 1975, quando la riforma del diritto di famiglia adegua le disposizioni codicistiche alla mutata coscienza sociale ed al nuovo quadro costituzionale di riferimento.
Orbene, la succitata riforma, entrata in vigore ormai trent’anni orsono, mostra oggi lacune che è indispensabile colmare, in quanto nel frattempo la comunità familiare ha visto emergere nuove figure di
riferimento, che appare indilazionabile fornire di riconoscimento e tutela giuridici.
Ci riferiamo, in particolare, ai nonni, la cui rinnovata importanza da un punto di vista sociale nasce,
paradossalmente, proprio dalla contrazione della famiglia da patriarcale a nucleare: è appunto questa
trasformazione, unitamente all’aumento dell’età media e del lavoro femminile, che ha riportato alla
luce, restituendole piena dignità, la figura dei nonni.
Si tratta, infatti, delle uniche persone che, in certe ore della giornata, hanno tempo per occuparsi concretamente dei minori, svolgendo nei loro confronti un ruolo educativo paragonabile a quello dei
genitori e divenendo, in questo modo, un importante punto di riferimento, non solo affettivo.
I problemi sorgono nel momento, non infrequente purtroppo, in cui i genitori del minore (o quello tra
essi che eserciti in via esclusiva la potestà sul minore) ostacolano lo svolgersi del rapporto tra i figli
ed i nonni. Nella maggioranza dei casi ciò avviene a seguito della separazione o dello scioglimento
del vincolo matrimoniale, ovvero - per le coppie di fatto - del cessare della convivenza, dunque sia
nelle ipotesi di separazione e divorzio (inteso in senso atecnico se riferito alle coppie di fatto), sia in
quelle di morte di uno dei genitori. Non si può, peraltro, escludere che siffatto impedimento del rapporto tra nonni e nipoti avvenga anche in costanza di matrimonio o di convivenza, sebbene si tratti di
ipotesi non facilmente quantificabili, rimanendo il più delle volte relegate nell’ambito del privato delle relazioni parentali.
In tutti questi casi occorre garantire che il minore non perda rapporti per lui consueti, validi e rassicuranti, che la moderna psicologia sottolinea essere essenziali per un corretto ed equilibrato sviluppo
della sua personalità.
Orbene, mentre l’ordinamento vigente contempla e tutela il rapporto tra il minore ed i genitori (si pensi, tra gli altri, all’istituto del diritto di visita), non fa altrettanto nel caso del rapporto tra il minore ed
i nonni, che, allo stato, non vantano alcun diritto.
Dottrina e giurisprudenza, infatti, salvo poche voci discordanti, negano che possa riconoscersi ai nonni un diritto di visita nei confronti dei nipoti, in quanto mancano precisi riferimenti normativi cui
ancorarlo. Generalmente si nega che tale diritto possa rinvenirsi nell’articolo 336 del codice civile,
che si riferiscono ad una limitata ipotesi di sollecito dell’intervento del giudice, o negli articoli 433 e
536 del codice civile, che riguardano rapporti di contenuto economico.
Alcuni autori esprimono una posizione favorevole al riconoscimento del diritto di visita fondandosi
sull’articolo 74 codice civile, che afferma il vincolo di parentela tra le persone che discendono da un
medesimo stipite: ma a ben guardare questa norma non è in sè attributiva di diritti, quanto di una qualifica cui altre norme possono riconnettere conseguenze.
La giurisprudenza, piuttosto che un diritto soggettivo perfetto, riconosce ai parenti, ed ai nonni in particolare, un interesse legittimo, non reclamabile direttamente e subordinato all’interesse dei minori.
In questo senso si esprime, in maniera particolarmente chiara, il Tribunale per i minorenni di Roma,
che in una sentenza del 1987 dichiara che “non spetta, de iure condito, ai nonni e agli altri parenti un
vero e proprio diritto soggettivo di visita nei riguardi del nipote minore, mancando, nel sistema, una
norma esplicita che tale diritto direttamente preveda; tuttavia l’interesse legittimo dei nonni e degli
altri parenti a visitare il nipote trova incondizionato riconoscimento e piena tutela ogni qual volta esso
venga a coincidere con l’interesse del minore ad instaurare e mantenere congrui rapporti con i propri
congiunti diversi dai genitori, vale a dire allorchè la visita dei nonni e degli altri parenti non arrechi
al minore stesso un danno rilevante ed un eventuale divieto dei genitori si ponga così contro l’interesse della prole ad un’ottimale integrazione nell’ambito della parentela”.
Il suddetto orientamento giurisprudenziale ha, peraltro, trovato autorevole accoglimento in una recente sentenza della Corte di Cassazione (25 settembre 1998, n. 9606), della quale non si è mancato di
sottolineare il contenuto innovativo: in essa il giudice di legittimità ha stabilito che “la mancanza di
previsione di legge non è sufficiente per precludere al giudice di riconoscere e regolamentare tali rapporti... che affondano le radici nella tradizione familiare che trova riconoscimento nella Costituzione... rientrando la tutela del vincolo affettivo e di sangue che lega nonni e nipoti nell’ambito del pre58
GENNAIO - APRILE 2004
DAL PARLAMENTO
cipuo interesse del minore”.
L’attuale legislazione non attribuisce dunque ai nonni un diritto di visita, nè tutela altrimenti il rapporto tra gli stessi ed i nipoti. Di qui la necessità di un intervento normativo che fondi in capo ad essi
un diritto proprio, autonomamente azionabile e reclamabile, recependo in tal guisa le istanze di tutela espresse dalla comunità e colmando un vuoto che allontana in maniera sensibile la realtà giuridica
da quella sociale.
In questo si sostanzia la ratio del presente disegno di legge, che si propone di introdurre un articolo
aggiuntivo, il 317-ter, nel libro primo, Titolo IX, del codice civile, che contiene le disposizioni in
materia di potestà dei genitori. E così, sotto la rubrica “Diritto di visita degli ascendenti”, si sancisce
il diritto medesimo in favore dei nonni, scegliendo una formulazione particolarmente ampia, tale da
consentirne l’azionabilità sia nelle ipotesi di filiazione legittima, sia in quelle di filiazione naturale.
È appena il caso di sottolineare che il diritto di visita si sostanzia in una facoltà finalizzata al mantenimento di un rapporto diretto con il minore, non avente carattere assoluto, ma subordinato all’interesse di quest’ultimo. Pertanto il giudice potrà legittimamente disciplinarlo nella maniera più idonea
al perseguimento di tale obiettivo e, financo, disconoscerlo ove l’esercizio di esso si ponga in contrasto con la salute psico-fisica del minore.
Il terzo comma dell’articolo 317-ter disciplina la competenza, da parte del Tribunale per i minorenni,
dei provvedimenti di cui al secondo comma.
A chiusura dell’articolo, il quarto comma, infine, radica la competenza ad adottare i provvedimenti
disciplinanti le modalità di esercizio del diritto de quo, nei casi di separazione e divorzio, in capo al
medesimo giudice della separazione e del divorzio.
Art. 1.
1. Dopo l’articolo 317-bis del codice civile, è inserito il seguente:
“Art. 317-ter - (Diritto di visita degli ascendenti) - I genitori, o il genitore che ha l’esercizio della
potestà sul minore, hanno il dovere di consentire e non ostacolare il rapporto tra i figli e i genitori
del padre e della madre dei figli, ove ciò non sia in contrasto con l’interesse del minore.
In caso di inosservanza di quanto disposto al primo comma, il giudice, accertato l’inadempimento
dell’obbligo, su istanza dei genitori del padre e della madre del minore, sentito chi esercita la potestà e, qualora lo ritenga opportuno, il minore, disciplina le modalità di esercizio del diritto di visita.
I provvedimenti di cui al secondo comma sono di competenza del Tribunale per i minorenni.
Nei giudizi di separazione personale giudiziale e di divorzio, il giudice competente ad assumere i
provvedimenti di cui al secondo comma è lo stesso giudice della separazione e del divorzio”.
2. All’articolo 38, primo comma, delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni
transitorie, dopo la parola: “317-bis,” è inserita la seguente: “317-ter, primo e secondo comma,”.
59
EUROPA
Il Consiglio dell’Unione Europea, integrando gli strumenti già adottati, ha approvato una decisione quadro per dare un contributo alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia infantile. Sono previste pene minime da uno a tre anni di reclusione e massime da cinque a dieci anni, che
saranno applicate non soltanto a coloro che in vario modo costringono, inducono, traggono vantaggio
o utilizzano i minori a scopo di prostituzione, ma anche a quanti vendono, cedono, pubblicano, acquistano o possiedono materiali a carattere pedopornografico. I reati compiuti a mezzo Internet saranno
perseguiti indipendentemente dalla dislocazione territoriale dei sistemi informatici che li consentono.
Gli Stati membri dovranno recepire le nuove indicazioni nei propri ordinamenti giuridici entro il 20
gennaio 2006, anche attraverso l’autonoma adozione di misure penali contro le condotte di istigazione, favoreggiamento, complicità e tentativo. Le attuali disposizioni comunitarie sono state anticipate dal
Parlamento italiano con il disegno di legge di iniziativa parlamentare “Disposizioni in materia di lotta
contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet” (C. 4466)
presentato alla Camera dei Deputati il 6 novembre 2003.
LOTTA CONTRO LO
SFRUTTAMENTO
SESSUALE DEI BAMBINI E
LA PORNOGRAFIA
INFANTILE
DECISIONE QUADRO 2004/68/GAI DEL
CONSIGLIO del 22 dicembre 2003 relativa
alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei
bambini e la pornografia infantile
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato sull’Unione europea, in particolare
l’articolo 29, l’articolo 31, paragrafo 1, lettera e) [3]
e l’articolo 34, paragrafo 2, lettera b),
vista la proposta della Commissione,
visto il parere del Parlamento europeo,
considerando quanto segue:
(1) Il piano d’azione del Consiglio e della Commissione sul modo migliore per attuare le disposizioni
del trattato di Amsterdam concernenti uno spazio di
libertà, sicurezza e giustizia, le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere e la risoluzione del Parlamento europeo dell’11 aprile 2000 contengono o sollecitano iniziative legislative volte a contrastare lo
sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile, tra cui l’adozione di definizioni, incriminazioni e sanzioni comuni.
(2) È necessario che l’azione comune 97/154/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 1997, per la lotta contro la
tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale dei bambini e la decisione 2000/375/GAI del Consiglio,
del 29 maggio 2000 [10], relativa alla lotta contro la pornografia infantile su Internet siano seguite da ulteriori iniziative legislative volte a dirimere le divergenze nelle impostazioni giuridiche degli Stati membri ed
a contribuire allo sviluppo di una cooperazione efficace, a livello giudiziario e di applicazione delle leggi,
nella lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile.
(3) Il Parlamento europeo nella sua risoluzione del 30 marzo 2000 relativa alla comunicazione della Commissione sull’attuazione delle misure di lotta contro il turismo sessuale che coinvolge l’infanzia ribadisce
che il turismo sessuale che coinvolge l’infanzia è un reato strettamente connesso ai reati di sfruttamento sessuale dei bambini e di pornografia infantile, e chiede alla Commissione di presentare al Consiglio una proposta di decisione quadro che stabilisca le regole minime comuni relative agli elementi costitutivi dei suddetti atti criminosi.
(4) Lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile costituiscono gravi violazioni dei diritti
dell’uomo e del diritto fondamentale di tutti i bambini ad una crescita, un’educazione ed uno sviluppo armoniosi.
(5) La pornografia infantile, una forma particolarmente grave di sfruttamento sessuale dei bambini, è in crescita e si diffonde attraverso l’uso delle nuove tecnologie e di Internet.
(6) L’importante opera portata avanti da organizzazioni internazionali deve essere integrata da quella dell’Unione europea.
60
GENNAIO - APRILE 2004
EUROPA
(7) È necessario affrontare reati gravi quali lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia infantile
con un approccio globale che comprenda quali parti integranti elementi costitutivi della legislazione penale comuni a tutti gli Stati membri, tra cui sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, e una cooperazione
giudiziaria più ampia possibile.
(8) La presente decisione quadro, in conformità con i principi di sussidiarietà e proporzionalità, si limita a
emanare le disposizioni minime per raggiungere questi obiettivi a livello europeo e non va al di là di quanto è necessario a tale scopo.
(9) È necessario introdurre, contro gli autori dei reati di cui trattasi, sanzioni la cui severità sia sufficiente
a far rientrare lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia infantile nell’ambito d’applicazione degli
strumenti già adottati allo scopo di combattere la criminalità organizzata, come l’azione comune 98/699/GAI
del Consiglio, del 3 dicembre 1998, sul riciclaggio di denaro e sull’individuazione, il rintracciamento, il congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato e l’azione comune 98/733/GAI del
Consiglio, del 21 dicembre 1998, relativa alla punibilità della partecipazione a un’organizzazione criminale negli Stati membri dell’Unione europea.
(10) Le caratteristiche specifiche della lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini debbono indurre gli
Stati membri a stabilire, nel loro diritto nazionale, sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive.Tali sanzioni dovrebbero inoltre essere adattate in linea con l’attività svolta dalle persone giuridiche.
(11) Ai fini delle indagini e dell’azione penale connesse ai reati contemplati nella presente decisione quadro,
i bambini che ne sono vittime dovrebbero essere interrogati secondo la loro età e il loro stadio di sviluppo.
(12) La presente decisione quadro non pregiudica i poteri della Comunità.
(13) La presente decisione quadro vuole dare un contributo alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei
minori e la pornografia infantile, integrando gli strumenti adottati dal Consiglio quali l’azione comune
96/700/GAI, del 29 novembre 1996, che stabilisce un programma di incentivazione e di scambi destinato alle
persone responsabili della lotta contro la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale dei bambini,
l’azione comune 96/748/ GAI, del 16 dicembre 1996, che estende il mandato conferito all’Unità droghe di
Europol, l’azione comune 98/428/GAI, del 29 giugno 1998, sull’istituzione di una Rete giudiziaria europea,
l’azione comune 96/277/ GAI, del 22 aprile 1996, relativa ad un quadro di scambio di magistrati di collegamento diretto a migliorare la cooperazione giudiziaria fra gli Stati membri dell’Unione europea e l’azione comune 98/427/GAI, del 29 giugno 1998, sulla buona prassi nell’assistenza giudiziaria in materia penale, nonché altri atti adottati dal Consiglio europeo e dal Consiglio, quali la decisione n.276/1999/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 gennaio 1999, che adotta un piano pluriennale d’azione comunitario per promuovere l’uso sicuro di Internet attraverso la lotta alle informazioni di contenuto illegale e
nocivo diffuse attraverso le reti globali, e la decisione n.293/2000/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 gennaio 2000, relativa a un programma di azione comunitaria nelle misure preventive intese a
combattere la violenza contro i bambini, i giovani e le donne (2000-2003) (programma Daphne),
HA ADOTTATO LA PRESENTE DECISIONE QUADRO:
Articolo 1
Definizioni
Ai fini della presente decisione quadro s’intende per:
a) “bambino “: una persona d’età inferiore ai diciotto anni;
b) “pornografia infantile “:materiale pornografico che ritrae o rappresenta visivamente:
i) un bambino reale implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, fra cui l’esibizione lasciva dei genitali o dell’area pubica; o
ii) una persona reale che sembra essere un bambino implicata o coinvolta nella suddetta condotta di cui al
punto i); o
iii) immagini realistiche di un bambino inesistente implicato o coinvolto nella suddetta condotta;
c) “sistema informatico “: qualsiasi dispositivo o sistema di dispositivi interconnessi o collegati, dei quali
uno o più di uno opera il trattamento automatico di dati secondo un programma;
d) “persona giuridica “: s’intende qualsiasi entità che sia tale in forza del diritto nazionale applicabile, ad
eccezione degli Stati o di altre istituzioni pubbliche nell’esercizio dei pubblici poteri e delle organizzazioni
internazionali pubbliche.
61
EUROPA
AIAF RIVISTA 1/2004
Articolo 2
Reati relativi allo sfruttamento sessuale dei bambini
Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché sia punibile come reato la condotta intenzionale di chi:
a) costringe un bambino alla prostituzione o alla produzione di spettacoli a carattere pornografico, ne trae
profitto o lo sfrutta sotto qualsiasi forma a tali fini;
b) induce un bambino alla prostituzione o alla produzione di spettacoli a carattere pornografico;
c) partecipa ad attività sessuali con un bambino, laddove:
i) faccia uso di coercizione, forza o minaccia;
ii) dia in pagamento denaro, o ricorra ad altre forme di remunerazione o compenso in cambio del coinvolgimento del bambino in attività sessuali; oppure
iii) abusi di una posizione riconosciuta di fiducia, autorità o influenza nel bambino.
Articolo 3
Reati di pornografia infantile
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché siano punibili come reato, che siano o meno
poste in essere a mezzo di un sistema informatico, le seguenti condotte intenzionali, allorché non autorizzate:
a) produzione di pornografia infantile:
b) distribuzione, diffusione o trasmissione di pornografia infantile;
c) offerta o messa a disposizione di pornografia infantile;
d) acquisto o possesso di pornografia infantile.
2. Uno Stato membro può prevedere che esulino dalla responsabilità penale le condotte connesse con la pornografia infantile:
a) di cui all’articolo 1, lettera b), punto ii) in cui la persona reale che sembra essere un bambino aveva in
realtà diciotto anni o un’età superiore ai diciotto anni al momento in cui è stata ritratta;
b) di cui all’articolo 1, lettera b), punti i) e ii), in cui, trattandosi di produzione e possesso, immagini di bambini che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale siano prodotte e detenute con il loro consenso e unicamente a loro uso privato. Anche nei casi in cui sia stata stabilita l’esistenza del consenso, questo non può
essere considerato valido se, ad esempio, l’autore del reato l’ha ottenuto avvalendosi della sua superiorità
in termini di età, maturità, stato sociale, posizione, esperienza, ovvero abusando dello stato di dipendenza
della vittima dall’autore;
c) di cui all’articolo 1, lettera b), punto iii), in cui sia dimostrato che si tratta di produzione e possesso unicamente a uso privato, purché per la produzione di tale materiale non sia stato utilizzato materiale pornografico di cui all’articolo 1, lettera b), punti i) e ii), e purché l’atto non comporti rischi quanto alla diffusione del materiale.
Articolo 4
Istigazione, favoreggiamento, complicità e tentativo
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie a fare sì che l’istigazione, il favoreggiamento e la
complicità nella commissione dei reati di cui agli articoli 2 e 3 siano punibili.
2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché il tentativo di commissione dei reati di cui
all’articolo 2 e all’articolo 3, paragrafo 1, lettere a) e b), sia punibile.
Articolo 5
Pene e circostanze aggravanti
1. Fatto salvo il paragrafo 4, ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i reati di cui agli
articoli 2, 3 e 4 siano punibili con sanzioni penali privative della libertà di durata massima compresa tra
almeno 1 e 3 anni.
2. Fatto salvo il paragrafo 4, ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i seguenti reati siano punibili con sanzioni penali privative della libertà di durata massima compresa tra almeno 5 e 10 anni:
a) i reati di cui all’articolo 2, lettera a), che consistono nel “costringere un bambino alla prostituzione o alla
produzione di spettacoli a carattere pornografico “e i reati di cui all’articolo 2, lettera c), punto i);
b) i reati di cui all’articolo 2, lettera a), che consistono nel “trarre profitto o sfruttare il bambino sotto qualsiasi forma a tali fini “, e i reati di cui all’articolo 2, lettera b), in entrambi i casi nella misura in cui siano
riferibili alla prostituzione, e si verifichi almeno una delle circostanze seguenti:
- la vittima sia un bambino che non ha raggiunto l’età del consenso sessuale prevista dalla legislazione
nazionale,
62
GENNAIO - APRILE 2004
EUROPA
- l’autore del reato, deliberatamente o per negligenza, ha messo in pericolo la vita del bambino,
- il reato è stato commesso ricorrendo a violenze gravi o ha causato al bambino un pregiudizio grave,
- il reato è stato commesso nel contesto di un’organizzazione criminale ai sensi dell’azione comune
98/733/GAI a prescindere dal livello di sanzione previsto in detta azione comune;
c) i reati di cui all’articolo 2, lettera a), che consistono nel trarre profitto o sfruttare il bambino sotto qualsiasi forma a tali fini e i reati di cui all’articolo 2, lettera b), in entrambi i casi in cui essi siano riferibili a
spettacoli a carattere pornografico, nonché all’articolo 2, lettera c), punti ii) e iii), e all’articolo 3, paragrafo 1, lettere a), b) e c), nei casi in cui la vittima sia un bambino che non abbia raggiunto l’età del consenso sessuale prevista dalla legislazione nazionale ed almeno qualora si verifichi una delle circostanze di
cui alla lettera b), secondo, terzo e quarto trattino.
3. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per garantire che una persona fisica che sia stata condannata per uno dei reati di cui agli articoli 2, 3 o 4 possa, se del caso, essere interdetta in via temporanea
o permanente dall’esercizio di attività professionali attinenti alla cura dei bambini.
4. Ciascuno Stato membro può stabilire altre sanzioni, ivi comprese sanzioni o misure di carattere non penale, per quanto riguarda i comportamenti in materia di pornografia infantile di cui all’articolo 1, lettera b),
punto iii).
Articolo 6
Responsabilità delle persone giuridiche
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili di un reato di cui agli articoli 2, 3 e 4 commesso a loro vantaggio da qualsiasi soggetto, che
agisca a titolo individuale o in quanto membro di un organismo della persona giuridica, che detenga una
posizione preminente in seno alla persona giuridica, basata:
a) sul potere di rappresentanza di detta persona giuridica; o
b) sul potere di prendere decisioni per conto della persona giuridica; o
c) sull’esercizio del controllo in seno a tale persona giuridica.
2. Oltre ai casi già previsti al paragrafo 1, ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché le
persone giuridiche possano essere ritenute responsabili qualora la mancata sorveglianza o il mancato controllo da parte di un soggetto tra quelli descritti al paragrafo 1 abbiano reso possibile la commissione, a
vantaggio della persona giuridica, di uno dei reati di cui agli articoli 2, 3 e 4 da parte di una persona sottoposta all’autorità di tale soggetto.
3. La responsabilità delle persone giuridiche ai sensi dei paragrafi 1 e 2 non esclude l’avvio di procedimenti penali contro le persone fisiche che abbiano commesso uno dei reati di cui agli articoli 2, 3 e 4, o abbiano istigato qualcuno a commetterli o vi abbiano concorso.
Articolo 7
Sanzioni applicabili alle persone giuridiche
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché alla persona giuridica ritenuta responsabile
ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, siano applicabili sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, che comprendano sanzioni di natura penale o non penale e che possano comprendere anche altre sanzioni quali:
a) esclusione dal godimento di un beneficio o aiuto pubblico;
b) divieto temporaneo o permanente di esercitare un’attività commerciale;
c) assoggettamento a sorveglianza giudiziaria;
d) provvedimenti giudiziari di scioglimento; oppure
e) chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti che sono stati usati per commettere il reato.
2. Ciascuno Stato membro adotta i provvedimenti necessari affinché alla persona giuridica ritenuta responsabile ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 2, siano applicabili sanzioni o misure effettive, proporzionate e dissuasive.
Articolo 8
Giurisdizione ed esercizio dell’azione penale
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie a stabilire la propria competenza giurisdizionale sui
reati di cui agli articoli 2, 3 e 4 laddove:
a) il reato sia commesso anche solo parzialmente sul suo territorio;
b) l’autore del reato sia un suo cittadino; oppure
c) il reato sia commesso a beneficio di una persona giuridica che ha la sua sede nel territorio di tale Stato membro.
2. Uno Stato membro può decidere di non applicare o di applicare solo in situazioni o circostanze specifiche
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EUROPA
AIAF RIVISTA 1/2004
le regole di giurisdizione di cui al paragrafo 1, lettere b) e c), purché il reato sia commesso al di fuori del
suo territorio.
3. Lo Stato membro che, secondo il suo ordinamento giuridico, non autorizza l’estradizione dei propri cittadini adotta le misure necessarie a stabilire la propria competenza giurisdizionale sui reati di cui agli articoli
2, 3 e 4, ed eventualmente a perseguirli, qualora siano commessi da suoi cittadini al di fuori del suo territorio.
4. Gli Stati membri che decidano di avvalersi della facoltà di cui al paragrafo 2 ne informano il Segretariato generale del Consiglio e la Commissione, indicando, in tal caso, le situazioni e le circostanze specifiche
alle quali si applica tale decisione. 5. Ciascuno Stato membro garantisce che rientrino nella sua competenza giurisdizionale i casi in cui un reato contemplato dall’articolo 3 e, se di pertinenza, dall’articolo 4, sia
stato commesso a mezzo di un sistema informatico a cui l’autore ha avuto accesso dal suo territorio, a prescindere dal fatto che il sistema si trovi o no su tale territorio.
6. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché sia reso possibile il perseguimento, conformemente al diritto nazionale, almeno dei più gravi dei reati di cui all’articolo 2 dopo che la vittima abbia
raggiunto la maggiore età.
Articolo 9
Protezione ed assistenza delle vittime
1. Gli Stati membri dispongono che le indagini o l’azione penale relative a reati contemplati dalla presente
decisione quadro non dipendano da una denuncia o accusa formulata da una persona oggetto del reato in
questione, almeno nei casi in cui si applica l’articolo 8, paragrafo 1, lettera a).
2. Le vittime di un reato di cui all’articolo 2 dovrebbero essere considerate vittime particolarmente vulnerabili ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, dell’articolo 8, paragrafo 4, e dell’articolo 14, paragrafo 1, della
decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio, del 15 marzo 2001 [20], relativa alla posizione della vittima
nel procedimento penale.
3. Ciascuno Stato membro adotta tutte le misure possibili per assicurare un’appropriata assistenza alla
famiglia della vittima. In particolare ciascuno Stato membro, se possibile ed opportuno, applica alla famiglia in questione l’articolo 4 di tale decisione quadro.
Articolo 10
Applicazione territoriale
La presente decisione quadro si applica a Gibilterra.
Articolo 11
Abrogazione dell’azione comune 97/154/GAI
L’azione comune 97/154/GAI è abrogata
Articolo 12
Attuazione
1. Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie per conformarsi alla presente decisione quadro entro
il 20 gennaio 2006.
2. Gli Stati membri trasmettono, entro il 20 gennaio 2006, al segretariato generale del Consiglio e alla Commissione il testo delle disposizioni che operano il recepimento nel sistema giuridico nazionale degli obblighi
che incombono loro in virtù della presente decisione quadro. Il Consiglio, entro il 20 gennaio 2008, valuterà, sulla base di un rapporto redatto a partire dalle informazioni fornite dagli Stati membri e di una relazione scritta trasmessa dalla Commissione, in che misura gli Stati membri abbiano adottato le misure necessarie per conformarsi alla presente decisione quadro.
Articolo 13
Entrata in vigore
La presente decisione quadro entra in vigore il giorno della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
Fatto a Bruxelles, addì 22 dicembre 2003.
Per il Consiglio,
Il Presidente
A.MATTEOLI
64
AIAF
IL DIRITTO
INTERNAZIONALE
PRIVATO
DI FAMIGLIA
LA GIURISDIZIONE ECCLESIASTICA
LA GIURISDIZIONE EUROPEA
LE GIURISDIZIONI NAZIONALI
GIOVEDÌ 20 MAGGIO
h. 16,00
presentazione del convegno; saluto del Presidente
del Consiglio Nazionale Forense
1A SESSIONE
LA GIURISDIZIONE ECCLESIASTICA
presiede e coordina L’Avv. Antonio Dionisio
L’accordo di Palazzo Madama. Concorrenza
tra giurisdizione civile ed ecclesiastica.
Modifiche necessarie. Sen.Avv. Valeria Fabj
Statuizione ecclesiastica e giudizio di separazione e di divorzio Prof. Avv. Alessandro D’Avack
h. 18,00 coffee break
h. 19,30 chiusura lavori
h. 21,00 cena e spettacolo
MODALITÀ DI ISCRIZIONE
La quota di partecipazione al convegno è di
Euro 60 oltre IVA a persona e dà diritto a
partecipare al medesimo usufruendo dei
coffee breack previsti nel programma e della colazione di lavoro del giorno 21 maggio.
Quanti intendano partecipare anche alla
cena con spettacolo del 20 maggio ed alla
cena di gala del 21 maggio dovranno corrispondere la somma complessiva di Euro
160 oltre IVA a persona.
Per l’iscrizione contattare al più presto la
segreteria del convegno ai numeri
06.3210633 ovvero 06.3202345.
Convegno Nazionale
al Residence di Ripetta, in Via Ripetta n. 231
ROMA 20 -21 MAGGIO 2004
VENERDÌ 21 MAGGIO
2A SESSIONE
STATO DI APPLICAZIONE IN
FRANCIA, INGHILTERRA, GERMANIA
DEL REGOLAMENTO DEL
CONSIGLIO D’EUROPA DEL 29.5.2000 E
PROSPETTAZIONE DEL “BRUXELLES II BIS”
presiede e coordina l’Avv. Luisella Fanni
h. 9,30
Inghilterra Avv. Simonetta Agnello Hornby
Francia Avv. Alexandre Boiche
Germania Prof. Dr. Gerhard Hohloch
dibattito
h. 13,00 colazione di lavoro
3A SESSIONE
PROBLEMATICHE DEL DIRITTO
INTERNAZIONALE PRIVATO ITALIANO
IN MATERIA DI DIRITTO DI FAMIGLIA,
E SGUARDO D’INSIEME ALLE
INIZIATIVE EUROPEE IN MATERIA
DI DIRITTO DI FAMIGLIA
presiede e coordina l’Avv. Marina Marino
h. 15,30
Il sistema di diritto internazionale privato
italiano nelle relazioni familiari:linee
evolutive e problematiche interpretative Avv.
Daniela Abram
“Dal Regolamento del Consiglio Europeo
1347/2000 al Regolamento del Consiglio
Europeo del 20.10.2003: il cosidetto
Bruxelles II bis” Dott. Alfio Finocchiaro
coffee break
Informativa sui lavori e le attività della
commissione Europea sul Diritto Privato di
Famiglia Prof. Dr. Gerhard Hohloch
dibattito
h. 19,00 conclusioni
h. 21,00 cena di gala
65
AIAF
N
ei mesi di ottobre, novembre e dicembre
2003 si è svolto a Roma un seminario al
quale hanno partecipato 50 magistrati e 10
avvocati scelti dall’AIAF tra i propri iscritti.
Il seminario prendeva le mosse da una iniziativa
dell’ANM di raccogliere, mediante un questionario inviato a tutti i tribunali italiani, informazioni e notizie relativamente alle prassi vigenti nel
nostro paese in tema di separazione e divorzio.
Il CSM ha quindi deciso di avviare un seminario
in cui fosse possibile non solo che i magistrati
confrontassero tra loro le diverse esperienze, ma
anche che si realizzasse per la prima volta uno
scambio di esperienze con gli avvocati.
Chi scrive, già in passato aveva verificato quanto
LA PARTECIPAZIONE
DELL’AIAF AI SEMINARI
DEL CSM CONCLUSIONE LAVORI
MARINA
MARINO *
66
fosse utile questo metodo di lavoro: infatti
l’AIAF Lazio dal 2001 ha avviato una pratica
assai fruttuosa di incontri cadenzati tra Avvocati
e Magistrati sia della sezione Famiglia del Tribunale di Roma, che della Corte di Appello ai quali ha partecipato anche il Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma.
Nel corso del seminario organizzato dal CSM, si è
avuto modo, non solo di scambiare esperienze differenti e di individuare una serie di prassi, nei
giudizi di separazione e divorzio, sulle quali si è
raccolta una notevole concordanza interpretativa,
ma anche di apprendere un metodo di lavoro, che
a dispetto di una consistente diffidenza iniziale,
dovuta alla impossibilità per i partecipanti di scegliere il gruppo di lavoro in cui operare, ha poi,
alla prova dei fatti, mostrato di essere in grado di
dare buoni frutti, sia sotto il profilo del contributo che ciascuno dei partecipanti può offrire agli
altri come arricchimento delle esperienze e conoscenze tecniche, ma anche della capacità di lavoro comune tra persone che in buona sostanza non
solo non avevano mai lavorato assieme, ma che
per lo più non si conoscevano neppure tra loro.
AIAF RIVISTA 1/2004
Questa esperienza ha offerto a tutti la possibilità
di comprendere come dallo sforzo di ascoltare gli
altri (per moltissimi anni, e per alcuni versi ancora oggi i Magistrati e gli Avvocati sono stati abituati a concepirsi con reciproca diffidenza), in
un clima di serenità e disponibilità, in vista di
uno scopo comune, che nel caso di specie era il
tentativo di rendere il più possibile uniformi le
prassi nei procedimenti di separazione e divorzio,
ha dato ottimi frutti.
La questione oggi è quella di impedire che questa
iniziativa e questo metodo vadano non dico persi,
ma finiscano per costituire un fatto episodico,
mentre, per fare in modo che il progetto venga
realizzato è necessario che questo lavoro sia proseguito e continuato nel tempo e che lo stesso
divenga in realtà un metodo di formazione continua. Mentre scrivevo questa frase mi sono dovuta correggere infatti avevo inizialmente scritto:
“il progetto venga realmente portato a conclusione” , ma poi ho compreso che la frase non esprimeva a pieno quello che intendevo dire infatti in
un diritto quale quello di famiglia, che non può
non essere influenzato dalle modifiche socio-culturali del paese, non solo le prassi necessitano e
necessiteranno sempre di aggiustamenti continui,
ma anche la formazione e l’aggiornamento professionale, sono in continuo divenire. In aggiunta
allo studio personale, alle esperienze personali, ai
corsi di perfezionamento, che ciascuno è tenuto
a fare sia per rispettare precisi obblighi, che per
gli avvocati derivano dal codice deontologico,
ma soprattutto per amore e rispetto della funzione sociale della propria professione, sarebbe utilissimo che la formazione e l’aggiornamento si
realizzassero anche attraverso esperienze quali
quella appena descritta
Le perplessità che si affrontano in questo campo
debbono essere oggetto di attenta riflessione da
parte di tutti ed è utile sottolineare non solo l’impegno, ma anche i risultati che l’AIAF ha conseguito a questo proposito. Infatti è stato e sarà utile ed importante sollecitare un impegno a riguardo al fine di consentire sia la maggiore diffusione della conoscenza delle diverse problematiche
che l’ampliamento del confronto tra un sempre
maggiore numero di operatori al fine di riuscire
ad offrire, per quanto nelle possibilità di Magistrati ed Avvocati, il più elevato livello del servizio giustizia, senza permettere che le gravissime
carenze
* Consiglio di Presidenza AIAF
AIAF
GENNAIO - APRILE 2004
NOTE MINIME A MARGINE DI UN GRUPPO
DI LAVORO MISTO, MAGISTRATI E AVVOCATI
I
l primo approccio era stato tutt’altro che
incoraggiante.
I tre avvocati AIAF assegnati al Gruppo 1 (“Profili organizzativi e ordinamentali…”) in un primo
momento erano rimasti perplessi, forse anche
delusi.
Ma dopo un inizio incerto sono seguiti, a dispetto delle problematiche trattate, sicuramente non
secondarie ma nemmeno di facile presa, un felice
andamento dei lavori ed una ancora più soddisfacente conclusione, a conferma che quello che
conta è soprattutto lo spirito di gruppo.
Ed in questo gli avvocati AIAF che hanno partecipato ad un incontro di studio organizzato e
dominato, per schiacciante rappresentanza numerica, da magistrati, non sono stati secondi a nessuno. Puntuali, nell’orario e negli interventi, collaborativi, interessati al più positivo possibile
andamento dell’incontro, hanno aiutato noi magistrati a vedere oltre lo specchio, a rivivere ansie e
aspettative di chi, al di la della scrivania del giudice, opera in una materia dai forti impatti emotivi e che non sempre consente quel distacco professionale possibile, invece, in altri settori di
intervento dell’avvocato.
Per me che con i gruppi e nei gruppi ho lavorato
per tanti anni l’esperienza romana, con la messa
in discussione (“a nudo”, come ha detto Valeria
durante il suo intervento nella giornata conclusiva) di ruolo e convinzioni nel confronto, non solo
con colleghi, ma anche con avvocati fuori dall’ambiente e dagli schemi usuali, è stata una
esperienza unica, esaltante.
Certo, qualcuno potrà pensare che sono frasi fatte, dettate solo dalla circostanza e dalla compiacenza doverosa dell’ospite, ma è soltanto la replica di sentimenti pubblicamente espressi in chiusura di convegno, prima di essere costretto ad un
saluto precipitoso, reso inutile solita manifestazione sindacale Alitalia.
Della sintonia venutasi subito a creare nel nostro
gruppo (ma mi risulta anche negli altri tre in cui
erano distribuiti complessivamente gli oltre sessanta partecipanti, tra avvocati e magistrati), del
modo di lavorare finalmente uniti dal comune
obbiettivo di rendere un servizio, della felice
intuizione del Consiglio Superiore della Magistratura di organizzare incontri di studio aperti a
professionalità diverse, forse sarebbe meglio che
dicessero gli avvocati AIAF che vi hanno preso
parte, non foss’altro perché, nell’occasione, voce
di minoranza.
A me, magistrato, lascio solo di esprimere il convinto augurio che l’esperienza comune romana
abbia un seguito, eventualmente anche in sede
solo locale, e che la doverosa attenzione che va
riservata alla tutela degli interessi primari che
vengono in gioco nel particolare settore della
giurisdizione che si occupa di vicende umane
personalissime, quale è quello della famiglia,
possa indurre tutti gli operatori, a prescindere dal
ruolo ricoperto, ad attivarsi per alimentare un
confronto continuo e a replicare una collaborazione risultata largamente positiva, con l’obbiettivo di ripensare regole e comportamenti procedimentali, in modo che, senza la mortificazione di
“paletti” puramente formali presi a prestito, forse
frettolosamente, da altri settori del diritto a cui
sono più congeniali, sia reso effettivamente possibile di soddisfare le attese anzitutto degli utenti, favorendo la diffusione di prassi omogenee e
in particolare di quelle “prassi virtuose” che facilitano la pienezza del contraddittorio e assicurano
la ricerca e la realizzazione degli interessi reali
dei cittadini.
EMILIO
CURTÒ *
* presidente sezione II civile Tribunale di Varese
67
AIAF
AIAF RIVISTA 1/2004
STATUTO
DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE DENOMINATA
ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
AIAF
ARTICOLO 1 - SCOPI
L’Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i minori, con la denominazione AIAF, con sede
in Roma è un’associazione senza fini di lucro che opera sul territorio nazionale, aperta all’adesione di
avvocati che esercitano la professione con continuità o prevalentemente nel settore del diritto di famiglia
e dei minori.
L’Associazione si propone:
a) di promuovere la rappresentanza associativa tra gli avvocati che esercitano la professione, con continuità o prevalentemente, nel settore del diritto di famiglia e dei minori.
b) di promuovere il dibattito sulle tematiche della
famiglia e della condizione giovanile, con particolare riferimento alle esigenze di miglioramento e di
riforma della legislazione familiare e minorile;
c) di incoraggiare, in una prospettiva multidisciplinare, il confronto e la collaborazione con le altre
figure professionali che si occupano dell’età evolutiva e della famiglia;
d) di favorire, soprattutto tra le giovani generazioni
di avvocati, l’acquisizione di una competenza adeguata alla complessità dei problemi della famiglia,
dell’infanzia e dell’adolescenza, contribuendo di
conseguenza al pieno rispetto dei diritti di ogni persona coinvolta in un procedimento giudiziario,
anche attraverso corsi di formazione ed aggiornamento.
Essa pertanto, svolgerà ogni attività, di carattere culturale, didattico ed editoriale, per promuovere l’attività dell’avvocato nell’ambito del diritto di famiglia
e dei minori. L’associazione promuoverà, inoltre,
direttamente e/o in collaborazione con altre Associazioni, Enti Pubblici e Privati, ogni iniziativa ritenuta utile e/o necessaria al raggiungimento dello scopo
sociale.
I NUOVI STATUTI
DELL’AIAF NAZIONALE
E DELLE AIAF REGIONALI
E DISTRETTUALI
ARTICOLO 2 - ORGANIZZAZIONE
L’AIAF per il conseguimento dei propri scopi sull’intero territorio nazionale, opera anche tramite associazioni territoriali denominate “AIAF-Regioni” che possono avere sede o nel capoluogo regionale o nella
città sede di Tribunale circondariale ove sia costituita la prima associazione locale. La denominazione
“AIAF-Regioni” è riconosciuta di diritto alle sezioni regionali ad oggi esistenti e potrà essere conservata
solo fino a che permane l’adesione all’AIAF Nazionale.
Il Comitato Direttivo Nazionale dell’Associazione riconosce quali associati dell’AIAF Nazionale le Associazioni costituitesi a livello regionale. Il Comitato Direttivo Nazionale ove lo ritenga opportuno, ai fini
del raggiungimento degli scopi di cui al art.1 e secondo un equo principio di distribuzione delle Associazioni, e di numero di soci - può autorizzare, a maggioranza dei voti, la costituzione di una Associazione
distrettuale denominata “AIAF-Distretto” avente le medesime caratteristiche di autonomia e poteri delle
Associazioni Regionali. Le AIAF distrettuali sono rappresentate al Comitato direttivo Nazionale solo dal
Presidente dell’Associazione Distrettuale. In ogni caso non possono esistere più di due AIAF (quella regionale e quella di un distretto) nella medesima regione.
Le “AIAF REGIONALI” E “DISTRETTUALI” operano sul territorio delle singole Regioni Italiane, sono costituite in conformità ai principi stabiliti dal presente Statuto. Lo Statuto delle “AIAF REGIONALI” E
“DISTRETTUALI” dovrà essere uniformato al modello deliberato dal Comitato Direttivo Nazionale. Detto
modello non è modificabile nelle sue parti essenziali. Gli Statuti locali entrano in vigore solo dopo l’approvazione definitiva e la ratifica del Comitato Direttivo Nazionale.
Le Associazioni Regionali/Distrettuali non possono avere un numero di soci inferiore a dieci. Il Presidente Regionale/Distrettuale è garante della politica dell’AIAF sul suo territorio, cura e controlla la gestione
68
AIAF
GENNAIO - APRILE 2004
amministrativa della Sezione Regionale/distrettuale e ne è il Legale Rappresentante.
Le Associazioni Regionali/Distrettuali sono tenute a rispettare le linee programmatiche stabilite dal Comitato Direttivo Nazionale. Le cariche delle Associazioni Regionali/Distrettuali hanno la stessa durata di
quelle nazionali, ma devono essere rinnovate almeno 30 giorni prima del rinnovo di quelle nazionali.
ARTICOLO 3 - SOCI
Potranno essere soci dell’AIAF tutti gli avvocati, regolarmente iscritti all’ordine di appartenenza, che esercitano la professione con continuità o prevalentemente nel settore del diritto di famiglia e dei minori.
Per aderire all’AIAF in qualità di socio, sarà necessario avanzare domanda al Comitato Direttivo Regionale/Distrettuale ove costituiti o al Comitato Direttivo Nazionale, laddove non sia costituita la Associazione
Regionale/Distrettuale.
I1 Comitato Direttivo Regionale/Distrettuale ove costituiti o il Comitato Direttivo Nazionale, laddove non
sia costituita la Sezione Regionale/Distrettuale, ricevuta la domanda, delibera in merito, nella seduta
immediatamente successiva e comunque entro centoventi giorni dalla sua ricezione. All’accettazione della richiesta di iscrizione, il socio dovrà versare la quota di iscrizione, nella misura stabilita per l’anno in
corso dal Comitato Direttivo Nazionale.
Il socio che aderisce all’AIAF è automaticamente iscritto alla Associazione Regionale eventualmente costituita sul territorio di appartenenza. La decadenza della qualifica di associato comporta la decadenza anche
dalla Associazione Regionale/Distrettuale.
ARTICOLO 4 - PATRIMONIO
Il patrimonio dell’AIAF Nazionale è costituito dai contributi dei soci, dai beni acquistati con questi contributi nonché da eventuali legati, donazioni ed eredità. La gestione del patrimonio è curata dal Legale
Rappresentate dell’associazione, nominato secondo quanto disposto dal successivo articolo 10.
I contributi vengono riscossi dalle Associazioni Regionali/Distrettuali entro il trentuno marzo di ogni anno,
salve le nuove iscrizioni. Le Associazioni Regionali/ Distrettuali dovranno provvedere al versamento della
quota proporzionale annualmente stabilita dal Comitato Direttivo Nazionale, sul conto corrente dell’AIAF
Nazionale entro i trenta giorni dalla ricezione della quota.
ARTICOLO 5 - BILANCI
L’esercizio finanziario dell’associazione ha inizio il 1^ gennaio e termina il 31 dicembre di ciascun anno.
Entro il 28 febbraio di ogni anno il Comitato di Presidenza, su proposta del Legale Rappresentate, deve
predisporre il rendiconto dell’anno precedente ed il preventivo dell’anno in corso da sottoporre all’approvazione del Comitato Direttivo Nazionale. Il Comitato Direttivo Nazionale deve convocare l’Assemblea
Generale dei Soci per l’approvazione del rendiconto dell’anno precedente ed il preventivo dell’anno in
corso, entro 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio. Il rendiconto ed il preventivo devono rimanere depositati presso la sede dell’Associazione, per almeno i 15 giorni precedenti all’assemblea generale dei soci,
e devono essere inviati in copia alle Associazioni Regionali/Distrettuali, almeno 15 giorni prima della data
fissata per l’Assemblea.
ARTICOLO 6 - DIRITTI E OBBLIGHI DEI SOCI
I soci dell’AIAF, in regola con la quota di iscrizione, godono dell’elettorato attivo e passivo rispetto a tutte le cariche; essi sono tenuti al pagamento di un contributo annuale nella misura che verrà determinata
dal Comitato Direttivo Nazionale.
Il versamento del contributo annuale nella percentuale deliberata dal Direttivo Nazionale e spettante al
Direttivo Nazionale viene eseguito a cura dell’associazione aderente di appartenenza del socio.
La qualità di associato si perde:
1. per sopravvenuti motivi di incompatibilità;
2. per aver commesso atti in contrasto con le finalità ed il buon nome della associazione;
3. per accertate gravi inadempienze o di sostanziali mutamenti nell’attività dell’associato che rendano
incompatibile o pregiudizievole la sua permanenza nell’associazione;
4. per morosità protratta per oltre un esercizio;
5. per recesso, da comunicarsi per iscritto, almeno tre mesi prima dello scadere dell’anno sociale;
6. per la perdita dei requisiti personali in base ai quali è stata deliberata l’ammissione.
La perdita della qualità di associato è deliberata, previa audizione dell’interessato ed il parere dei probiviri, dal Comitato Direttivo Nazionale di propria iniziativa o su richiesta del Comitato Direttivo della Associazione Regionale/Distrettuale di appartenenza del socio. Il socio escluso non ha diritto alla restituzione
delle quote associative versate.
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AIAF
AIAF RIVISTA 1/2004
ARTICOLO 7 - ORGANI DELL’ASSOCIAZIONE
Sono organi dell’AIAF:
A) l’Assemblea Generale dei Soci;
B) il Comitato Direttivo Nazionale;
C) il Comitato di Presidenza ed il Legale Rappresentante dell’associazione;
D) il Collegio dei Probiviri.
Le elezioni a qualsiasi carica collegiale devono avvenire per iscritto e sempre con voto limitato a due terzi (arrotondati per eccesso) degli eligendi.
Il componente di qualsiasi organo collegiale che non partecipa, senza giustificato motivo a più di tre riunioni consecutive del consesso di cui fa parte viene dichiarato decaduto dall’organo di appartenenza che
provvede alla sua sostituzione.
Gli organi collegiali durano in carica per un triennio e le cariche di cui al comma precedente sono rinnovabili anche consecutivamente.
ARTICOLO 8 - ASSEMBLEA GENERALE DEI SOCI
L’Assemblea Generale dei Soci è costituita da un rappresentante dei soci aventi sede in regioni ove non sia
costituita una associazione AIAF regionale/distrettuale, detto rappresentante sarà eletto a maggioranza semplice dei soci di detta regione, ovvero dai delegati delle Associazioni Regionali/Distrettuali costituite, in
misura pari a un delegato ogni dieci soci ed in caso di loro impedimento dai delegati supplenti, nonché
dai componenti del Direttivo Nazionale.
Ogni partecipante all’Assemblea Generale dei Soci ha un voto e non può avere deleghe.
L’assemblea delibera, anche per le modifiche dello Statuto, con le maggioranze previste nell’art. 21, comma 1, del codice civile.
L’Assemblea Generale ordinaria è convocata dal Comitato di Presidenza, almeno una volta l’anno per l’approvazione del rendiconto annuale e del bilancio di previsione.
L’Assemblea Generale straordinaria è convocata d’iniziativa del Comitato di Presidenza o quando ne facciano richiesta cinque Presidenti Regionali/Distrettuali, per questioni di rilevante interesse associativo.
L’Assemblea Generale, ordinaria e straordinaria, viene convocata dal Comitato di Presidenza con avviso
di convocazione spedito al domicilio di tutti i delegati, con lettera raccomandata, e-mail, fax o altro mezzo equivalente, purché ne sia certa l’avvenuta ricezione, almeno 30 giorni prima di quello fissato per l’adunanza. In caso di urgenza il termine di convocazione può essere ridotto a 15 giorni.
L’Assemblea Generale dei Soci è presieduta da uno dei componenti il Comitato di Presidenza e, in caso
di impedimento, dal membro più anziano del Comitato Direttivo. Il Presidente dell’assemblea di turno
nomina il segretario dell’assemblea per la redazione del verbale.
Spetta all’assemblea:
1. determina le linee programmatiche per l’attuazione degli scopi sociali;
2. eleggere ogni 3 anni i componenti non di diritto del Comitato direttivo;
3. approvare la relazione annuale del Comitato di presidenza;
4. approvare annualmente il rendiconto di gestione ed il bilancio di previsione;
5. approvare le modifiche dello statuto
ARTICOLO 9 - COMITATO DIRETTIVO NAZIONALE
Il Comitato Direttivo Nazionale è composto, di diritto, dai Presidenti delle Associazioni Regionali / Distrettuali e da un massimo di venti soci eletti dall’Assemblea Generale dei Soci, in modo che ciascuna Regione, proporzionalmente al numero dei soci, non abbia più di due rappresentanti eletti.
Il Comitato Direttivo Nazionale elegge al suo interno:
a. il Comitato di Presidenza, composto al massimo da tre membri;
b. il Direttore Responsabile della rivista;
Il Comitato Direttivo Nazionale può eleggere un tesoriere.
Il Comitato Direttivo:
a. determina la politica associativa attuando le linee programmatiche deliberate dall’assemblea per l’attuazione degli scopi sociali;
b. approva annualmente il rendiconto annuale ed il bilancio di previsione predisposto dal Comitato di
Presidenza e lo sottopone all’approvazione dell’Assemblea Generale dei soci, ai sensi del precedente
articolo 3;
c. presenta le eventuali proposte di modifica dello statuto;
d. delibera in ordine alle nuove domande di adesione all’associazione in assenza della Associazione
Regionale/Distrettuale;
e. stabilisce annualmente le quote sociali e l’ammontare del contributo che l’Associazione
Regionale/Distrettuale deve versare all’Associazione Nazionale;
f. emana e modifica il regolamento interno.
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AIAF
GENNAIO - APRILE 2004
Il Comitato Direttivo Nazionale si riunisce almeno tre volte l’anno per la programmazione, la discussione
e la verifica delle iniziative associative. La riunione dovrà essere convocata almeno 20 giorni prima della
relativa seduta con lettera raccomandata, e-mail, fax o altro mezzo equivalente, purché ne sia certa l’avvenuta ricezione. In caso di urgenza il termine di convocazione può essere ridotto a 10 giorni.
Il Comitato Direttivo Nazionale è presieduto da uno dei componenti il Comitato di Presidenza a turno e
può eleggere al suo interno un Segretario per l’organizzazione del lavoro e per la redazione del verbale
delle riunioni. Il verbale verrà inviato, a cura del presidente di turno del Comitato Direttivo, a tutti i componenti anche a mezzo fax o e-mail.
ARTICOLO 10 - CONSIGLIO DI PRESIDENZA
Il Consiglio di Presidenza ha i poteri decisionali ed operativi del Comitato Direttivo, salvo quelli riservati
per Statuto al Comitato.
Il Consiglio di Presidenza, elegge al suo interno, il Legale Rappresentante dell’Associazione, che ha i poteri di legge.
Il Consiglio di Presidenza, predispone la relazione annuale da sottoporre unitamene al rendiconto dell’anno precedente ed il preventivo dell’anno in corso, al comitato Direttivo Nazionale.
Il Consiglio di Presidenza, predispone il rendiconto dell’anno precedente ed il preventivo dell’anno in corso, da presentare al Comitato Direttivo Nazionale entro il 28 febbraio di ogni anno.
Il Consiglio di Presidenza dura in carica tre anni e può essere rieletto; si riunisce ogni due mesi e comunque almeno prima di ogni Direttivo Nazionale.
ARTICOLO 11 - COLLEGIO DEI PROBIVIRI
Il Collegio dei Probiviri è composto da tre membri eletti, ogni triennio, dall’Assemblea Generale dei Soci
tra gli iscritti alle associazioni aderenti. Il collegio dei probiviri dura in carica un triennio, in quanto i suoi
membri conservino la qualità di iscritti a un’associazione aderente; la perdita di tale qualità comporta la
sostituzione con un supplente, fino allo scadere del triennio.
Il Collegio elegge al suo interno un Presidente e si pronuncia inappellabilmente, senza formalità e secondo equità, su ogni controversia tra soci e Organi Centrali e tra Associazioni territoriali e AIAF Nazionale
e su quanto attiene all’osservanza del presente Statuto.
Deve essere rimessa pregiudizialmente al Collegio dei Probiviri qualsiasi controversia tra soci, tra soci e
associazione, e tra Associazioni territoriali e AIAF Nazionale anche in relazione alla interpretazione del
presente Statuto.
ARTICOLO 12 - DURATA
L’Associazione ha durata illimitata e il suo scioglimento può essere deliberato dall’Assemblea la quale
provvederà alla nomina di un liquidatore e delibererà in ordine alla devoluzione del patrimonio.
La devoluzione del patrimonio associativo in caso di scioglimento per qualunque causa dell’Associazione
avverrà a favore di associazioni con finalità analoghe o a fini di pubblica utilità.
ARTICOLO 13 - RINVIO
Per tutto quanto non previsto nel presente Statuto si fa riferimento al codice civile e alle disposizioni di
legge in materia.
ARTICOLO 14- DISPOSIZIONI TRANSITORIE
Lo Statuto entra in vigore al momento stesso della sua approvazione da parte degli organi a ciò preposti.
Gli associati e gli organi statutari attualmente in carica dovranno adeguarsi alle nuove normative previste
dal presente Statuto, entro il 31.01.2004.
In via transitoria gli organi Regionali possono rimanere in carica sino a trenta giorni prima del prossimo
Congresso Nazionale. Entro tale scadenza dovranno essere rinnovati secondo le nuove disposizioni del
presente Statuto.
Ciascuna Associazione territoriale regionale o distrettuale risponde esclusivamente degli atti e dei rapporti giuridici economici e patrimoniali da essa posti in essere secondo i principi stabiliti dal codice civile per
le associazioni non riconosciuti e non ha responsabilità per gli atti compiuti dalle altre associazioni territoriali o dal Nazionale.
Approvato dall’Assemblea straordinaria dell’AIAF tenutasi in Roma il 20 novembre 2003
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AIAF
AIAF RIVISTA 1/2004
SCHEMA DELL’ ATTO COSTITUTIVO
E DELLO STATUTO
DELLE AIAF “REGIONE” O “DISTRETTO”
ARTICOLO 1 - COSTITUZIONE
È costituita in …. l’Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i minori, con la denominazione AIAF “REGIONE” O “DISTRETTO”, che non ha fini di lucro aperta all’adesione di avvocati che esercitano la professione con continuità o prevalentemente nel settore del diritto di famiglia e dei minori, sul
territorio della Regione …, secondo le direttive e riconoscimento da parte dell’AIAF con sede i Roma,
costituita come da repertorio n. ______ notaio ______.
ARTICOLO 2 - SCOPI
L’Associazione si propone di promuovere, sul territorio di propria competenza, le attività e gli scopi sociale dell’AIAF,come espressi all’art.1 dello Statuto dell’AIAF Nazionale.
Al fine di realizzare gli scopi sociali l’associazione promuoverà, inoltre, direttamente e/o in collaborazione con altre Associazioni, Enti Pubblici e Privati, ogni iniziativa ritenuta utile e/o necessaria di carattere culturale e formativo.
ARTICOLO 3 - PATRIMONIO
Il patrimonio dell’AIAF …. è costituito da:
a) beni mobili ed immobili;
b) le somme accantonate ed i contributi volontari dei soci e di terzi;
c) da qualsiasi altro bene che le sia pervenuto a titolo legittimo.
Le entrate dell’AIAF …. sono costituite:
dalla quota associativa di spettanza delle Associazioni Regionali disposti dal Comitato Direttivo Centrale
dell’AIAF, a mente dell’articolo quarto del regolamento Sezioni Regionali.
a) dagli eventuali contributi concessi da altri enti o persone;
b) dalle attività di gestione;
c) da qualsiasi altro provento pervenuto a qualsiasi titolo.
ARTICOLO 4 - BILANCI
L’esercizio finanziario dell’associazione ha inizio il 1^ gennaio e termina il 31 dicembre di ciascun anno.
Entro il 31 gennaio di ogni anno il Presidente deve predisporre il rendiconto dell’anno precedente ed il
preventivo dell’anno in corso da sottoporre all’approvazione del Comitato Direttivo Regionale. Il Comitato Direttivo Regionale deve convocare l’Assemblea dei Soci per l’approvazione del rendiconto dell’anno
precedente ed il preventivo dell’anno in corso, entro 120 giorni dalla chiusura dell’esercizio. Il rendiconto ed il preventivo devono rimanere depositati presso la sede dell’Associazione, per almeno i 15 giorni
precedenti all’assemblea dei soci.
ARTICOLO 5 - SOCI
Sono soci di diritto dell’AIAF …. tutti gli avvocati
residenti nel territorio della Regione Lombardia che
siano già siano soci dell’AIAF alla data di costituzione dell’Associazione territoriale, in forza dello
statuto Nazionale.
Per aderire all’AIAF …. in qualità di socio, sarà
necessario avanzare domanda al Comitato Direttivo
Regionale,
I1 Comitato Direttivo Regionale ricevuta la domanda, delibera in merito entro centoventi giorni dalla
sua ricezione. All’accettazione della richiesta di
iscrizione, il socio dovrà versare la quota di iscrizione, nella misura stabilita per l’anno in corso dal
Comitato Direttivo Centrale.
ARTICOLO 6- DIRITTI E OBBLIGHI DEI SOCI
I soci dell’AIAF ….. godono dell’elettorato attivo e
passivo rispetto a tutte le cariche.
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AIAF
GENNAIO - APRILE 2004
La
1.
2.
2.
qualità di associato si perde:
per sopravvenuti motivi di incompatibilità;
per aver commesso atti in contrasto con le finalità ed il buon nome della associazione;
per accertate gravi inadempienze o di sostanziali mutamenti nell’attività dell’associato che rendano
incompatibile o pregiudizievole la sua permanenza nell’associazione;
3. per morosità protratta per oltre un esercizio;
4. per recesso, da comunicarsi per iscritto, almeno tre mesi prima dello scadere dell’anno sociale;
5. per la perdita dei requisiti personali in base ai quali è stata deliberata l’ammissione.
La perdita della qualità di associato è deliberata, previa audizione dell’interessato, dal Comitato Direttivo
Nazionale dell’A.IA.F. Nazionale o su richiesta del Comitato Direttivo Regionale. Il socio decaduto non
ha diritto alla restituzione delle quote associative versate.
ARTICOLO 7 - ORGANI DELL’ASSOCIAZIONE
Sono organi dell’AIAF …… :
a) l’Assemblea Generale dei Soci;
b) il Comitato Direttivo Regionale;
c) il Presidente del Comitato Direttivo Regionale;
d) il Collegio dei Probiviri
Le elezioni a qualsiasi carica collegiale devono avvenire per iscritto e sempre con voto limitato a due terzi (arrotondati per eccesso) degli eligendi.
Il componente di qualsiasi organo collegiale che non partecipa, senza giustificato motivo a più di tre riunioni consecutive del consesso di cui fa parte viene dichiarato decaduto dall’organo di appartenenza che
provvede alla sua sostituzione.
Gli organi collegiali durano in carica per un triennio e le cariche di cui al comma precedente sono rinnovabili anche consecutivamente.
ARTICOLO 8 - ASSEMBLEA GENERALE DEI SOCI
L’Assemblea Generale dei Soci è costituita dai soci in regola con il versamento della quota sociale dell’A.IA.F. Nazionale, per l’anno in corso.
Ogni partecipante all’Assemblea Generale dei Soci ha un voto e non può avere deleghe.
L’assemblea delibera con le maggioranze previste nell’art. 21, comma 1, del codice civile.
L’Assemblea Generale ordinaria è convocata dal Presidente, almeno una volta l’anno per l’approvazione
del rendiconto annuale e del bilancio di previsione.
L’Assemblea Generale straordinaria è convocata d’iniziativa del Presidente o quando ne facciano richiesta
un terzo dei soci, per questioni di rilevante interesse associativo.
L’Assemblea Generale, ordinaria e straordinaria, viene convocata dal Presidente con avviso di convocazione spedito al domicilio di tutti i soci, con lettera raccomandata, e-mail, fax o altro mezzo equivalente,
purché ne sia certa l’avvenuta ricezione, almeno 30 giorni prima di quello fissato per l’adunanza. In caso
di urgenza il termine di convocazione può essere ridotto a 15 giorni.
L’Assemblea Generale dei Soci è presieduta dal Presidente dell’associazione e, in caso di impedimento,
dal socio più anziano presente all’assemblea. Il presidente dell’assemblea nomina il segretario dell’assemblea per la redazione del verbale.
Spetta all’assemblea:
1. indicare le linee programmatiche per l’attuazione degli scopi sociali;
2. eleggere ogni 3 anni i componenti del Comitato direttivo;
3. eleggere i delegati dell’Assemblea Generale dei soci dell’AIAF, in numero pari a uno ogni dieci iscritti, o frazioni superiori a cinque iscritti;
4. approvare la relazione annuale del Presidente;
5. approvare annualmente il rendiconto di gestione ed il bilancio di previsione;
6. approvare le modifiche dello statuto
ARTICOLO 9 - COMITATO DIRETTIVO
Il Comitato Direttivo Regionale è composto da un minimo di 3 ad un massimo di 7 membri. Il Comitato
Direttivo Regionale elegge al suo interno il Presidente.
Il Comitato Direttivo Regionale può eleggere un tesoriere.
Il Comitato Direttivo Regionale:
a. determina la politica associativa attuando le linee programmatiche deliberate dall’assemblea per l’attuazione degli scopi sociali;
b. approva annualmente il rendiconto annuale ed il bilancio di previsione predisposto dal Presidente e lo
sottopone all’approvazione dell’Assemblea Generale dei soci, ai sensi del precedente articolo 3;
c. presenta le eventuali proposte di modifica dello statuto;
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AIAF
AIAF RIVISTA 1/2004
d. delibera in ordine alle nuove domande di adesione all’associazione.
Il Comitato Direttivo Regionale si riunisce almeno tre volte l’anno per la programmazione, la discussione
e la verifica delle iniziative associative. La riunione dovrà essere convocata almeno 20 giorni prima della
relativa seduta con lettera raccomandata, e-mail, fax o altro mezzo equivalente, purché ne sia certa l’avvenuta ricezione. In caso di urgenza il termine di convocazione può essere ridotto a 10 giorni.
Il Comitato Direttivo Regionale è presieduto dal Presidente dell’associazione e può eleggere al suo interno un Segretario per l’organizzazione del lavoro e per la redazione del verbale delle riunioni. Il verbale
verrà inviato, a cura del Presidente, a tutti i componenti anche a mezzo fax o e-mail.
ARTICOLO 10 - IL PRESIDENTE
Il Presidente ha i poteri decisionali ed operativi del Comitato Direttivo Regionale, salvo quelli riservati per
Statuto al Comitato stesso.
Il Presidente ha la rappresentanza legale dell’associazione. Dirige tutte le attività necessarie ed opportune
per il raggiungimento degli scopi statutari e cura l’esecuzione delle delibere dell’Assemblea Generale dei
Soci. Dura in carica un triennio e può essere rieletto.
Il Presidente predispone la relazione annuale da sottoporre unitamene al rendiconto dell’anno precedente
ed il preventivo dell’anno in corso, al Comitato Direttivo Regionale.
Il Presidente predispone il rendiconto dell’anno precedente ed il preventivo dell’anno in corso, da presentare al Comitato Direttivo Regionale entro il 31 gennaio di ogni anno.
ARTICOLO 11 - COLLEGIO DEI PROBIVIRI
Il Collegio dei Probiviri è composto da tre membri eletti, ogni triennio, dall’Assemblea Generale dei Soci
tra gli iscritti alle associazioni aderenti. Il collegio dei probiviri dura in carica un triennio, in quanto i suoi
membri conservino la qualità di iscritti a un’associazione aderente; la perdita di tale qualità comporta la
sostituzione con un supplente, fino allo scadere del triennio.
Il Collegio elegge al suo interno un Presidente e si pronuncia inappellabilmente, senza formalità e secondo equità, su ogni controversia tra soci e Organi Centrali e su quanto attiene all’osservanza del presente
Statuto.
Deve essere rimessa pregiudizialmente al Collegio dei Probiviri qualsiasi controversia tra soci, tra soci e
associazione, anche in relazione alla interpretazione del presente Statuto.
ARTICOLO 12 - DURATA
L’Associazione ha durata illimitata e il suo scioglimento deve essere deliberato dall’Assemblea la quale
provvederà alla nomina di un liquidatore e delibererà in ordine alla devoluzione del patrimonio.
La devoluzione del patrimonio associativo in caso di scioglimento per qualunque causa dell’Associazione
avverrà a favore dell’A.IA.F. o di altre Sezioni Regionale, di associazioni con finalità analoghe o a fini di
pubblica utilità.
ARTICOLO 13 - DISPOSIZIONI DI RINVIO
Per tutto quanto non previsto nel presente Statuto si fa riferimento al codice civile e alle disposizioni di
legge in materia. All’ A.IA.F. vengono riconosciuti poteri di tutela e vigilanza, ed il diritto e dovere di
disporre ispezioni e, in caso di mancato funzionamento, di gravi irregolarità e di violazioni statutarie, di
sciogliere gli organi sociali e nominare un Commissario Straordinario con il compito di regolarizzare la
situazione nel termine massimo di quattro mesi dalla sua nomina, convocando l’assemblea generale dei
soci perché rinnovi gli organi sociali.
Ciascuna associazione territoriale, regionale o distrettuale risponde esclusivamente degli atti e dei rapporti giuridici, economici e patrimoniali da essa posti in essere secondo i principi stabiliti dal codice civile
per le associazioni non riconosciute, e non ha responsabilità per gli atti compiuti dalle altre associazioni
territoriali o dal nazionale.
ARTICOLO 14- DISPOSIZIONI TRANSITORIE
Lo Statuto della Sezione Regionale entra in vigore al momento stesso della loro approvazione da parte degli
organi a ciò preposti.
Approvato dall’Assemblea straordinaria dell’AIAF tenutasi in Roma il 20 novembre 2003
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FORMAZIONE
AIAF SALERNO - CORSO DI AGGIORNAMENTO
FAMIGLIA LEGITTIMA E DI FATTO:
PROFILI GIURIDICI E PSICOLOGICI
L’AIAF di Salerno, con il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Salerno, ha organizzato un corso di aggiornamento professionale (master) sul diritto di famiglia e minorile. L’iniziativa ha, come relatori, avvocati provenienti dalle varie realtà giudiziarie italiane, magistrati, esponenti politici, docenti universitari, esperti in problematiche minorili e si articola in 9 incontri, dal 12
marzo 2004 al 7 maggio 2004.
PROGRAMMA
Venerdì 12 MARZO 2004 - ore 15.30
SALUTI
L’evoluzione del diritto di famiglia, fonti e principi
costituzionali Dott. Bruno DE FILIPPIS
Il matrimonio: civile, concordatario, invalidità e relativi
vizi Avv. Marina MARINO
Evoluzione e cambiamenti della famiglia, aspetti culturali
e sociologici Prof. Paolo APOLITO
Crisi della coppia e mutamenti dei valori familiar Prof.
Paolo APOLITO
La violenza intrafamiliare Cons. Francesco VERDOLIVA
Venerdì 16 aprile 2004
La fase patologica del matrimonio, separazione
consensuale, accordi pre-separazione, accordi non
omologati, modificabilità degli accordi, revocabilità del
consenso Avv. Luisella FANNI
La separazione giudiziale, domanda principale e domande
Venerdì 19 marzo 2004
accessorie, l’addebito Avv. Raffaele BARRA
Diritti e doveri dei coniugi nascenti dal matrimonio,
Adozioni internazionali: tutela dei figli adottivi Dott.ssa
rapporti personali e rapporti patrimoniali, convenzioni
Melita CAVALLO
matrimoniali, fondo patrimoniale, l’impresa familiare Dott.
Mario PAGANO
La famiglia di fatto: diritti, doveri e garanzie
Venerdì 23 aprile 2004
1. La filiazione naturale Avv. Anna DANOVI
L’affidamento dei figli, proposte di riforma On. le Avv.
La famiglia di fatto: diritti, doveri e garanzie
Maurizio PANIZ
2. I rapporti economici e patrimoniali tra i conviventi Avv.
L’assegnazione della casa coniugale e l’assegno di
Milena PINI
mantenimento Avv. Manuela CECCHI
Venerdì 26 marzo 2004
La filiazione e le azioni di stato Dott. Bruno DE FILIPPIS
I rapporti di solidarietà familiare, diritto all’assistenza
morale e materiale. Ricadute delle sentenze ecclesiastiche
di nullità sui principi di diritto sostanziale civile Avv.
Valeria FABJ
Diritti e doveri nei rapporti di filiazione, potestà e
responsabilità genitoriale, i luoghi della famiglia, diritti e
doveri dei figli Avv. Maria Giuseppina CHEF
Sabato 3 aprile 2004
Tutela del figli naturali Dott. Paolo GIANNINO
Affidamento dei figli naturali nel conflitto della coppia
more uxorio Dott. Pasquale ANDRIA
Mediazione nel conflitto della coppia di fatto Dott.
Davide AMENDOLA
Il divorzio congiunto e contenzioso, aspetti patrimoniali,
assegno divorzile pensione di reversibilità Avv. Antonio
DIONISIO
Venerdì 30 aprile 2004
Ablazione e limitazione della potestà genitoriale Prof. Avv.
Alberto FIGONE
Mobbing familiare Dott. Sergio Maria MARESCA
L’ascolto del minore e l’audizione protetta Prof. Cons.
Massimo DOGLIOTTI
Venerdì 7 maggio 2004
Stato di abbandono del minore, procedimento e revoca
Avv. Gian Ettore GASSANI
Il bambino deprivato Prof. Bruno SCHETTINI
Diritto di famiglia e vicende minorili:quale informazione?
Dott. Francesco ESPOSITO
Relazione di sintesi Prof. Alfredo Carlo MORO
Venerdì 9 aprile 2004
La conflittualità coniugale, separazione ed affidamento dei
figli. Una prospettiva psicodinamica Dott.ssa Adele
Nunziante CESARO
75
FORMAZIONE
AIAF RIVISTA 1/2004
AIAF LOMBARDIA
CORSO DI DIRITTO DI FAMIGLIA
L’ AIAF LOMBARDIA, in attuazione del protocollo di intesa sottoscritto dall’AIAF Nazionale con il Centro di Formazione e Aggiornamento Professionale del Consiglio Nazionale Forense, in data 4 giugno 2002 sulla formazione in diritto di famiglia e minorile,
promuove un CORSO DI DIRITTO DI FAMIGLIA.
Destinatari: Avvocati (massimo 60) e praticanti avvocati (massimo 20)
Durata: dal 7 maggio 2004 al maggio 2005 (n. 22 lezioni, che si terranno
il venerdì ogni 15 giorni, dalle ore 14.30 alle ore 17.30
Sede degli incontri: Aula Magna del Palazzo del Giudice di Pace, Viale F. Sforza 23, e
Sala Conferenze Ordine degli Avvocati di Milano, Palazzo di Giustizia
Docenti: avvocati, magistrati, docenti universitari, psicologi
Metodologia: lezioni teoriche; discussione di casi; role playing
Segreteria: sede AIAF Lombardia, Gall. Buenos Aires 1, Milano
Quota di partecipazione: Avvocato : euro 800,00 + IVA 20%
Praticante avvocato: euro 400,00 + IVA 20%
Per le iscrizioni contattare la segreteria:
tel. 02 29531352
fax 02 29535945
e-mail: [email protected]
Al termine del corso è previsto il rilascio dell’attestato di Partecipazione, per gli usi consentiti dalla legge, a chi avrà seguito il
90% delle lezioni
PROGRAMMA DEL CORSO
Venerdì 7 maggio 2004 - lezione n. 1
Diritti e doveri reciproci dei coniugi e loro evoluzione
nelle varie vicende legali che interessano il rapporto
coniugale
Dott.ssa Gloria Servetti, Prof. Avv. Enrico Vitali
Venerdì 14 maggio 2004 - lezione n. 2
I regimi patrimoniali - Prima parte
La comunione dei beni
Prof. Mimma Moretti, Prof. Avv. Carlo Rimini
Venerdì 28 maggio 2004 - lezione n. 3
I regimi patrimoniali - Seconda parte
La separazione dei beni. Il fondo patrimoniale - L’impresa
familiare - Il trust
Prof. Avv. Alberto Figone, Dott. Giorgio Pretti
Venerdì 11 giugno 2004 - lezione n. 4
Diritti e doveri dei genitori verso i figli durante il
matrimonio e nel conflitto di coppia
Dott.ssa Maria Carla Gatto, Prof. Maria Dossetti
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Venerdì 25 giugno 2004 - lezione n. 5
La famiglia di fatto
Dott.ssa Anna Bonfilio, Avv. Anna Galizia Danovi
Venerdì 17 settembre 2004 - lezione n. 6
La separazione personale e il divorzio
L’autonomia negoziale dei coniugi. Discussione di casi e
tecniche difensive
Avv. Milena Pini, Avv. Cinzia Calabrese
Venerdì 24 settembre 2004 - lezione n. 7
La separazione personale e il divorzio
I provvedimenti relativi all’affidamento e al mantenimento
dei figli
Discussione di casi e tecniche difensive
Dott.ssa Maria Cristina Canziani, Avv. Licia Petri Dell’Oro
Venerdì 8 ottobre 2004 - lezione n. 8
La separazione personale e il divorzio
I provvedimenti di natura personale ed economica,
relativi ai coniugi
Discussione di casi e tecniche difensive
Dott.ssa Serena Baccolini, Avv. Donata Piantanida
FORMAZIONE
GENNAIO - APRILE 2004
Venerdì 22 ottobre 2004 - lezione n. 9
La separazione personale e il divorzio
La modifica delle condizioni
Discussione di casi e tecniche difensive
Dott. Laura Cosentini, Avv. Franca Alessio
Venerdì 11 febbraio 2005 - lezione n. 16
La responsabilità civile nelle relazioni familiari
Questioni processuali - Discussione di casi e tecniche
difensive
Avv. Milena Pini
Venerdì 5 novembre 2004 - lezione n. 10
I procedimenti di separazione e di divorzio
Questioni di diritto processuale: le norme procedurali;
l’udienza presidenziale
Dott. Ezio Siniscalchi, Dott. Giacomo Caliendo
Venerdì 25 febbraio 2005 - lezione n. 17
I procedimenti davanti al Tribunale per i Minorenni
I procedimenti camerali ex art. 330 e seg. c.c
Aspetti procedurali e tecniche difensive
Giudice T. M. Milano, Avv. Licia Petri
Venerdì 19 novembre 2004 - lezione n. 11
I procedimenti di separazione e di divorzio
la fase istruttoria
b) tecniche difensive
Avv. Loredana Amoroso, Avv. Manuela Ulivi
Venerdì 11 marzo 2005 - lezione n. 18
I procedimenti davanti al Tribunale per i Minorenni
Il procedimenti di adottabilità e l’impugnazione
Avv. Lucrezia Mollica, Avv. Laura Pietrasanta
Venerdì 3 dicembre 2004 - lezione n. 12
I procedimenti di separazione e di divorzio
Le misure cautelari.La fase esecutiva.Discussione di casi e
tecniche difensive
Prof. Avv. Filippo Danovi, Avv. Laura Hoesch
Venerdì 17 dicembre 2004 - lezione n. 13
I procedimenti di separazione e di divorzio
I procedimenti per le tutele post divorzio (domanda TFR,
liquidazione pensione, etc.)
Discussione di casi e tecniche difensive
Avv. Milena Pini, Avv. Mirella Quattrone
Venerdì 14 gennaio 2005 - lezione n. 14
La tutela penale delle relazioni familiari
Maltrattamento in famiglia, violazione degli obblighi di
assistenza familiare
Aspetti processuali e tecniche di difesa
Avv. Laura De Rui
Venerdì 25 marzo 2005 o 1 aprile 2005 - lezione n. 19
La “difesa” del minore
Avv. Lucrezia Mollica,Dott.ssa Cecilia Ragaini
Venerdì 8 aprile 2005 - lezione n. 20
La mediazione dei conflitti familiari
Dott. ssa Maria Martello
Venerdì 22 aprile 2005 - lezione n. 21
La mediazione familiare
Dott.ssa Irene Bernardini
Venerdì 6 maggio 2005 - lezione n. 22
Conclusione del corso
Questioni di etica e di deontologia nei giudizi aventi ad
oggetto le relazioni familiari
Avv. Enrico Moscoloni, Avv. Milena Pini
Venerdì 28 gennaio 2005 - lezione n. 15
La responsabilità civile nelle relazioni familiari
Diritti e doveri reciproci tra coniugi e dei genitori fra loro
e verso i figli e responsabilità civile
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FORMAZIONE
AIAF RIVISTA 1/2004
AIAF LAZIO
IL DIRITTO DI FAMIGLIA:
DIRITTO SOSTANZIALE E PROCESSUALE.
TEORIA E PRASSI
In esecuzione del protocollo di intesa con il CNF (Consiglio Nazionale Forense) del 4 giugno 2002 sulla formazione in materia
familiare e minorile, l’AIAF - LAZIO organizza un Corso di aggiornamento professionale dal titolo: IL DIRITTO DI FAMIGLIA: DIRITTO
SOSTANZIALE E PROCESSUALE. TEORIA E PRASSI
Il corso si terrà ogni martedì dalle 15 alle 18 con inizio martedì 21 settembre e termine il 14 dicembre 2004, nella sede che verrà
successivamente comunicata.
Il costo di tale Corso di Aggiornamento Professionale è di Euro 650,00 (oltre iva); per gli iscritti all’AIAF-LAZIO la quota di partecipazione ammonta ad Euro 550,00 (oltre IVA).
Il pagamento della quota di iscrizione dovrà essere effettuato in un’unica soluzione, entro e non oltre il 31 maggio 2004, (salvo
il raggiungimento del tetto massimo di iscrizioni previsto prima del suddetto termine) a mezzo bonifico bancario in favore dell’AIAF Lazio le seguenti coordinate bancarie:conto corrente c/c n. 11802/31 intestato all’AIAF-LAZIO presso la Banca di Roma
ag.090, ABI 03390.3, CAB 3002.3.
La ricevuta dell’avvenuto bonifico dovrà essere allegata alla domanda di iscrizione, debitamente compilata e fatta pervenire in
tempo utile alla sede AIAF - Lazio personalmente o anche a mezzo fax allo 06.3210633.
Per informazioni e chiarimenti rivolgersi alla sede dell’AIAF LAZIO, presso lo studio dell’avv. Marina Marino (Viale Mazzini n.11
tel.06. 3202375, e fax 06 06.3210633) solo nei giorni feriali dalle ore 15.00 alle 17.30.
All’esito del corso è previsto il rilascio di idoneo Attestato di Partecipazione rilasciato dall’AIAF-LAZIO, per gli usi consentiti, solo
a chi avrà seguito completamente almeno undici dei 13 incontri stabiliti.
PROGRAMMA PROVVISORIO
1) 21.09.04
Presentazione del Corso
Avv. Marina Marino
I regimi patrimoniali e l’autonomia negoziale
a cura del Dr. Giacomo Oberto
2) 28.09.04
La comunione dei beni
Avv. Costanza Pomarici
3) 5.10.04
Lo scioglimento della comunione
Dr. Franca Mangano
4) 12.10.04
La separazione dei beni
Avv. Marina Marino
5) 19.10.04
I provvedimenti economici nella separazione e nel divorzio;
aspetti sostanziali e processuali
Prof. Avv. Lorenzo D’Avack
6) 26.10.04
L’accertamento dei redditi e dei patrimoni
Avv. Marina Marino
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7) 2.11.04
L’assegnazione della casa coniugale
Avv. Loretta Innamorati
8) 9.11.04
L’affidamento dei minori
Avv. Nicoletta Morandi
9) 16.11.04
L’esecuzione dei provvedimenti economici e relativi ai minori
Avv. Prof. Fabio Lepri
10) 23.11.04
La responsabilità civile tra i coniugi e nei confronti dei figli
Avv. Milena Pini
11) 30.11.04
La mediazione familiare
Dr Francesco Canevelli
12) 7.12.04
L’avvocato del minore
Avv. Carla Marcucci
13) 14.12.04
L’audizione del minore e la Convenzione di Strasburgo
Dr. Alida Montaldi
AIAF
COME ADERIRE ALL’AIAF ED ABBONARSI ALLA RIVISTA
Potranno essere soci dell’AIAF tutti gli avvocati, regolarmente iscritti all’ordine di appartenenza, che esercitano la professione con continuità o prevalentemente nel settore del diritto di famiglia e dei minori.
[Statuto, art. 3]
La quota associativa per l’anno 2004 è di Euro 130,00 e dà diritto a partecipare alle iniziative
AIAF oltre che a ricevere annualmente:
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numeri di
AIAF - Rivista dell’Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i minori
3
2
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numeri di
AIAF - Quaderni, un ampio e qualificato approfondimento sui temi più attuali.
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CD-ROM, che raccoglie l’archivio con tutti i numeri arretrati della rivista dal 1999 ed i
nuovi quaderni con i testi completi dei vari contributi, nonché gli indici per numero, per
autore, per tipologia.
1
I soci riceveranno tutti i prodotti a partire dalla data di iscrizione e fino al n° 1 della rivista dell’anno successivo.
La richiesta di iscrizione va presentata contattando il responsabile regionale o distrettuale competente per territorio (l’elenco completo è riportato in fondo).
Ora anche chi non è socio può ordinare i nostri prodotti editoriali:
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Abbonamento annuale ad AIAF - Rivista dell’Associazione Italiana degli Avvocati per la
Famiglia e per i minori (3 numeri della rivista + 2 numeri dei quaderni + 1 CD-ROM AIAF)
EURO 90,00
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Acquisto del CD-ROM con l’archivio storico della Rivista
EURO
30,00
(spese di spedizione incluse)
Si può sottoscrivere l’abbonamento oppure ordinare il CD-ROM:
Z Compilando il modulo online disponibile sul sito www.aiaf-avvocati.it
Z Compilando il modulo in calce ed inviandolo via fax alla redazione della rivista
È possibile effettuare il pagamento mediante bonifico bancario sul conto corrente bancario
dell’AIAF Nazionale (indicato in calce).
Per dettagli e
aggiornamenti sulle
proposte:
www.aiaf-avvocati.it
Modulo di sottoscrizione/prenotazione - riservato ai non-soci
da inoltrare a: Redazione AIAF (Direttore avv. Milena Pini - fax: 02.29535945)
[il modulo può essere anche compilato online sul sito www.aiaf-avvocati.it]
Cognome e Nome / Nome Ente _____________________________________________________________________
Indirizzo ______________________________________________________________________________________
CAP___________ Città __________________________________________________________________________
Professione ____________________________________________________________________________________
Dati per l’eventuale fatturazione:
Intestazione ____________________________________________________________________________________
Indirizzo ______________________________________________________________________________________
CAP___________ Città _____________________________________ p.IVA _______________________________
Ho effettuato il pagamento complessivo di Euro _____ mediante bonifico bancario (di cui allego copia) a favore dell’AIAF sul conto corrente: BBAN F 03002 03390 000001195930
AIAF
AIAF RIVISTA 1/2004
AIAF - ORGANI STATUTARI
Consiglio di Presidenza
Marino Marina (rappresentante legale)
Fanni Luisella
Dionisio Antonio
Comitato Direttivo Centrale
Presidenti delle sezioni regionali:
Abruzzo:
Calabria:
Campania - Napoli:
Campania - Salerno:
Emilia Romagna:
Friuli Venezia Giulia
Lazio:
Liguria:
Lombardia:
Marche:
Piemonte:
Sardegna:
Sicilia:
Toscana:
Umbria:
Veneto:
Salbitani M.Teresa
via De Lauretis 18, 64029, Silvi Marina - TE; tel. 085.9359037, fax 085.932269; email: [email protected]
Mendicino Stefania
via del mare, 88040, Lamezia Terme (CZ); tel. 0968.51003; email: [email protected]
Delcogliano Erminia
via Scipione Capece 3/c, 80121, Napoli; tel. 081.640726 - 0824.312909
Gassani Gian Ettore
corso Vittorio Emanuele 203, 84122 Salerno; tel. e fax 089.220254; email [email protected]
Fabj Ada Valeria
via Garibaldi 5, 40124, Bologna; tel 051.581706, fax 051.581329; email: [email protected]
Montemurro Maria
via Nazario Sauro 3, 33100, Udine; email: [email protected]
Marino Marina
viale Mazzini 9 -11, 00195, Roma; tel 06.3202351, fax 06.3202345; email: [email protected]
Figone Alberto
piazza Leonardo da Vinci, 2/3, 16146 Genova; tel 010.367908, fax 010.367908
Pini Milena
Galleria Buenos Aires 1, 20124, Milano; tel 02.29525195, fax 02.29531352; email: [email protected]
Pelamatti Cagnoni Anna via Calatafimi 2, 60121, Ancona; tel 071.202108, fax 071.200972; email: [email protected]
Pelloso Anna
c.so Ferrucci 6, 10138 Torino; tel 011.4472953, fax 011.4333844; e-mail :[email protected]
Fanni Luisella
via Deledda 39, 09127, Cagliari; tel.070.663904, fax 070.663904; email: [email protected]
D’Agata Remigia
via Eleonora d’Angiò 2, 95125, Catania; tel 095.505305, fax 095.508660; email: [email protected]
Cecchi Manuela
via Bonifacio Lupi 14, 50129, Firenze; tel 055.494284, fax 055.486912; email: [email protected]
Tiburzi Maria Rita
viale Indipendenza, 06124, Perugia; tel 075.5726151, fax 075.5726151; [email protected]
Sartori Alessandro
via Dominutti 20, 37135, Verona; tel 045.8011711, fax 045.8002752; email: [email protected]
Componenti eletti:
Alessio Franca
Bet Enrico
Bond Lorenza
Cacco Maria Paola
Calvaruso Vincenza
Dama Rosanna
De Strobel Gabriella
Facchini Giulia
Ferraris Giovanna
Macis Valentina
Marinucci Anna
via Roma 45, 22053, Lecco; tel 0341.282181, fax 0341.286164; email: [email protected]
p.zza della Vittoria 11/16, 16121, Genova; tel 010.5959159-010.580117, fax 010.5760014; email: [email protected]
via D’Azeglio 27, 40123, Bologna; tel 051.6486123, fax 051.6565579
via Longhin 121, 35129, Padova; tel 049.774276, fax 049.8074734
via Tunisi 11, 90138, Palermo; tel e fax 091.329064; email: [email protected];
viale Costituzione Is.G/1, 80143, Napoli; tel 081.7879271, fax 081.7879274
via Santa Chiara 15, 37129, Verona; tel 045.594301, fax 045.8011023
corso Galileo Ferraris 63, 10128, Torino; tel 011.5178599, fax 011.5184649; email: [email protected]
via Manzoni 3, 21100, Varese; tel 0332.234601, fax 0332.835255; email [email protected]
via Rossini 61, 09128, Cagliari; tel.070.41082, fax 070.485101
piazza Duomo 11 / B, 07100, Sassari; tel e fax 079.235548; email: [email protected]
Martucci Zecca Rosa Angela via Imbriani 10, 70026, Modugno - Bari; tel 080.5328336, fax 080.5354151; email: [email protected]
Montano Maria Gigliola
Morandi Nicoletta
Pomarici Costanza
Romano Francesca
Scacchetti Maria Grazia
Scolaro Antonina
Serafini Mariacarla
piazza Benamozegh 17, 57123, Livorno; tel 0586.891084, fax 0586.899857; email: [email protected]
viale Carso 51, 00195, Roma; tel. 06.3720292, fax 06.37352806; email: [email protected]
via Lucrezio Caro 38, 00193, Roma; tel 06.3244839, fax 06.32609700
via G. Leopardi 132, 95127, Catania; tel 095.388503, fax 095.373320; [email protected]
via Modonella 80, 41100, Modena; tel 059.243157
corso Re Umberto 28, 10128, Torino; tel 011.5617102, fax 011.5617188
via Trento 138, 65122, Pescara; tel e fax 085.4214275; email: [email protected]
Collegio dei probiviri
Pozzi Angela
Quattrone Mirella
Della Felice Susanna
80
via Rubbiani 1, 40124, Bologna;tel 051.580096, fax 051.580759
via Varese 67, 22100, Como; tel 031.272461, fax 031.271647; email: [email protected]
corso Italia 29, 50123, Firenze; tel 055.282979, fax 055.2645821; email: [email protected]