LoL2013-1a lettura - Polo Tecnologico NETTUNO Milano

“Allestire Mostre” 2013
PRIMA LETTURA
Prima parte: alle origini delle esposizioni temporanee
Le mostre temporanee hanno avuto origine, da un lato,
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nelle «esposizioni di belle arti» (le prime a carattere regolare furono i Salons des artistes francesi
aperti a Parigi a partire dal 1673, originariamente riservati ai membri dell’Académie Royale de
peinture, dal 1791 accessibili a tutti gli artisti, previa accettazione delle opere da parte di una giuria) a
loro volta derivate dall'usanza, instauratasi nel sec. XVI di presentare anche dipinti e oggetti artistici
alle fiere e ai mercati popolari, che si tenevano nelle piazze delle città per festeggiare solennità
religiose. Le mostre d’arte sorgono dal progressivo trasformarsi del rapporto tra artista e cliente: tale
rapporto, prima fondato sulla commissione o ordinazione diretta, si muta, infatti, gradualmente in
normale rapporto di mercato, mentre zone sempre più vaste di pubblico si interessano all’arte.
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e, dall'altro nelle «esposizioni industriali», nate nel periodo dell'illuminismo con l'intento di
pubblicizzare i nuovi prodotti dell'industria che proprio allora muoveva i primi passi significativi (già
nel 1756 e poi nel 1761 la Society of Arts a Londra espose nella propria sede macchine e oggetti di uso
o di produzione industriale).
Se ai Salon des artistes fece seguito un gran numero di analoghe iniziative, alcune tipicamente accademiche e
altre che si configurarono come momenti di rottura con la tradizione, dando spazio agli artisti e alle correnti
d'avanguardia (il Salon des Refusés del 1868, quello des Indépendents del 1884 sempre a Parigi, le
«Secessioni» di Monaco e di Vienna ecc.), anche alle esposizioni industriali molte furono le iniziative che
seguirono le prime manifestazioni già citate: famose per es. quelle di Parigi del 1798 ai Champs de Mars e del
1806 sulla Place des Invalides, di Milano nel 1906, di Berlino nel 1844.
Nel sec. XIX le esposizioni industriali, divenute sempre più grandiose, estesero la partecipazione a più nazioni,
connotandosi come esposizioni internazionali e/o universali.
La nascita delle esposizioni moderne, di tipo universale, si fa coincidere con quella tenuta nel 1851 a Londra,
che ebbe sede a Hyde Park nel celebre Crystal Palace di J. Paxton. In effetti fu proprio questo edificio a
definire e sottolineare le nuove caratteristiche dell'esposizione concepito come un «contenitore» per esporre
prodotti industriali che fosse al contempo esso stesso un prodotto da esporre, risultò a pieno titolo il
«manifesto» dell'esposizione, inaugurando il criterio di utilizzare in simili occasioni architetture temporanee in
cui, proprio per il carattere eccezionale, fosse possibile, molto più che in opere permanenti o con destinazioni
più usuali, dare spazio e verifica a nuove tendenze espressive, alla sperimentazione di nuovi materiali e a
ricerche formali addirittura spregiudicate, spesso con risultati effimeri ma talvolta promotrici di «segni»
permanenti (per es. la Torre Eiffel).
Se la citata esposizione di Londra si può considerare all’origine del modello tipologico «a fabbricato unico»,
ripreso per es. nel Palais de l'Industrie a Parigi (esposizione universale del 1855) e che in seguito ha più spesso
caratterizzato le mostre d'arte e industriali, l’esposizione di Parigi del 1889 codifica un diverso modello e
alcuni criteri ricorrenti nelle successive esposizioni universali: l'intera città è coinvolta nell'avvenimento che,
sebbene trovi il suo centro tra Champs de Mars (dove fu realizzata la celebre Galleria delle Macchine di Dutert)
e la collina dello Chaillot, si riflette e si ramifica in molteplici padiglioni sparsi nei vari quartieri,
richiedendo interventi anche a livello urbano; «simbolo» visibile da ogni punto della città, la Torre Eiffel
riassume in sé e pubblicizza i contenuti innovativi - soprattutto tecnologici - che caratterizzano l'esposizione,
assolvendo al contempo la funzione di orientare facilmente il pubblico verso il cuore della manifestazione.
È evidente che l'impostazione a padiglioni sparsi richiede una più attenta pianificazione dei percorsi e dei
collegamenti, fornendo l'occasione per interventi che divengono in genere permanenti nel tessuto e
nell'organizzazione della città.
Le difficoltà insite in una simile operazione e la crescente espansione di queste manifestazioni hanno
portato alla creazione di un ulteriore modello: costituire un complesso «satellite» rispetto alla città (con
una propria organizzazione autonoma e una propria viabilità, ma ben collegato al centro urbano tramite reti
stradali, ferroviarie, metropolitane ecc.), in cui si prevede in genere anche la costruzione di edifici permanenti,
da mantenere a servizio della città.
Sebbene non risultino codificabili precisi standard tipologici, i tre modelli di riferimento per le esposizioni
possono così riassumersi:
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a fabbricato unico (un unico contenitore, come il Crystal Palace, Londra, 1851, e il Colosseo del
lavoro, Parigi 1867);
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a padiglioni sparsi in zona urbana (Parigi 1889);
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a padiglioni in un complesso «satellite» (Chicago 1893, New York 1939).
Londra 1851
Nel 1851, a Londra, la regina Vittoria inaugura in Hyde Park la prima Esposizione Universale concepita
organicamente. Fu tale l’importanza della manifestazione, che molti storici fanno per convenzione coincidere
con quella data l'inizio dell'età moderna in architettura.
L'Esposizione di Londra fu dominata dall'opera di Joseph Paxton, dal Crystal Palace, un immenso padiglione
totalmente prefabbricato in ferro e vetro.
La Gran Bretagna è al centro di un grande fermento per un eccezionale concorrere di uomini e
circostanze, di possibilità naturali e iniziative scientifiche ed industriali. Dal 1820 al 1860 le industrie
laniere e cotoniere, incettando materiale greggio in ogni parte del mondo, aumentano di ben 16 volte la loro
produzione dominando i mercati internazionali; nello stesso periodo le ferriere inglesi sono premute da una
richiesta di ghisa vertiginosamente crescente mentre il volume totale delle esportazioni subisce un aumento pari
a circa il 450%. Una politica liberista appoggia le iniziative degli industriali; nel 1832 si attua una riforma
elettorale che toglie la maggioranza parlamentare ai proprietari terrieri a favore delle nuove forze economiche;
da quell’anno sino al 1846 cade ogni residua forma di protezionismo.
L'impatto della rivoluzione industriale influenza via via ogni aspetto della vita nazionale e lo sviluppo del
sistema ferroviario e delle comunicazioni permette una maggiore diffusione dei prodotti e un ampliamento dei
mercati. L'età vittoriana - così denominata dalla regina Vittoria, sul trono di Gran Bretagna e Irlanda dal 1837
al 1901 - coincide con la fase culminante dell'espansione e della trasformazione industriale della nazione,
divenuta la potenza economica più prospera del mondo occidentale, sostenuta da un grosso impero coloniale.
La Great Exhibition of the Works of Industry of All Nations del 1851, promossa dal principe Alberto e
"gestita" da un'apposita commissione reale, riassunse questa rivoluzione: la scala, la dimensione e il numero
dei prodotti esposti, provenienti da ogni parte del mondo, non ebbero precedenti.
Sono in questa atmosfera di espansione intellettuale ed economica le premesse storiche della grande
Esposizione di Londra del 1851. Nei primi decenni del secolo re Giorgio IV fonda una associazione, la Society
of Arts, intesa a promuovere esposizioni annuali d'arte e di artigianato la quale ebbe un periodo di attività dal
1828 al 1833 presto seguito dall'insuccesso. Nel 1841 Alberto, principe consorte della regina Vittoria, ne
assume la presidenza deciso a farne un organismo utile e vivo e, favorevolmente impressionato dalla
Esposizione dei Prodotti Nazionali Francesi, tenutasi ai Campi Elisi nel 1849, decide di dare ad essa un
carattere internazionale, in accordo con la vasta politica commerciale del Paese, non senza incontrare,
tuttavia, opposizioni in Parlamento ad opera della destra isolazionista.
Per la progettazione dell’Esposizione di Londra fu indetto un concorso internazionale, di cui risultarono
vincitori ex aequo Hector Horeau e Richard Turner.
La proposta di Turner si presentava come manifestamente inattuale e disadatta alla temporaneità dell'opera:
cinque pesanti cupole di mattoni, dominanti un impianto quadrato privo di fluidità nei confronti della
circolazione interna; essa ricevette il premio per la mancanza di un più serio concorrente di nazionalità inglese.
Di ben altra levatura il progetto di Hector Horeau, costituito da una grande struttura in ferro sul modello di
quella che aveva ideato per il Mercato coperto di Parigi. Il palazzo di Horeau era indubbiamente assai
qualificato sul piano tecnico ma povero formalmente: il capannone da lui progettato non conquistò le simpatie
del pubblico inglese, ma ebbe il merito di porre in risalto i pregi distributivi di un impianto basilicale e quelli
economici connessi all'impiego del ferro.
Il comitato organizzatore della grande Esposizione, sondati alcuni imprenditori sul costo di realizzazione dei
progetti vincenti, decise di accantonarli entrambi perché eccessivamente dispendiosi e facendo giocare
abilmente l'ambiguità interpretativa offerta da un paragrafo del bando di concorso, si rivolse direttamente al
Sovrintendente ai Lavori del duca di Devonshire, Joseph Paxton, che godeva fama di abile costruttore di serre.
L’alternativa Paxton non deluse i suoi sostenitori, in quanto lo schema da lui presentato dimezzò la stima
preventiva del fabbricato.
Il ferro trovava finalmente un linguaggio autonomo e di alto livello in un edificio che diventò ben presto
popolare: con Paxton si conclude la polemica iniziata, quasi un secolo prima, con la costruzione dei ponti di
Severn e Sunderland, le prime opere civili eseguite in ferro, tra gli ingegneri da una parte, sostenitori delle
possibilità offerte dalla nuova tecnica, e gli esteti dall'altra, e tra di essi Ruskin, i quali attribuivano al ferro una
funzione architettonica puramente ausiliaria e priva di possibilità espressive.
Paxton non aveva partecipato al concorso per L’Esposizione di Londra, ma il presidente della commissione, sir
Henry Cole, uomo di fiducia del principe Alberto, compresa l’inattualità dei progetti vincenti invitò per una
consulenza Joseph Paxton di cui ammirava sinceramente le opere. Sembra che durante una delle sedute egli
schizzasse su di un foglio di carta assorbente lo schema di quello che poi diverrà il Palazzo di Cristallo. Poco
tempo dopo egli stupirà il mondo realizzando in sei mesi un edificio la cui area superava di ben cinque volte
quella di S. Pietro.
Si dice che la struttura del Palazzo di Cristallo venisse ispirata a quella delle enormi foglie della Victoria Regia,
nelle quali il sottile reticolo delle nervature costituisce il principale elemento resistente: l'idea innovatrice di
Paxton fu appunto quella di scomporre la struttura in “membrature” minori (piccoli elementi autoportanti),
prefabbricate, imbullonate e all'occorrenza controventate, sì da costituire un organismo unitario, ma articolato.
L'abbassamento dei costi si imperniò dunque:
- sulla suddivisione strutturale in piccoli elementi autoportanti;
- sull’uso di elementi modulari e quindi economia nella produzione;
- sullo snellimento del cantiere mediante lavorazioni d'officina ovvero economia sulla manodopera.
L’opera, ideata da Joseph Paxton consisteva in una struttura di ferro e vetro lunga 1848 piedi e larga 408. Il
fatto che sia la struttura in ferro sia i pannelli in vetro fossero prefabbricati e intercambiabili abbreviò
moltissimo i tempi della realizzazione, soltanto sei mesi circa. Un unico grande padiglione ma di un’estensione
di 19 acri.
Il titolo per esteso dell’esposizione, dunque il suo contenuto, fu The Great Exhibition of the Works of Industry
of all Nations ed ebbe luogo in Hyde Park. Il nome è importante perché dichiara fin dall’inizio i suoi obiettivi:
non solo una manifestazione artistica ma anzi, soprattutto, la prima dedicata ai prodotti, alla merce, oltre che al
commercio e alle relazioni internazionali e al turismo. Dunque una chiara manifestazione della nuova classe
emergente, la borghesia, che ha come scopo quello di raggiungere una massa di pubblico sempre più ampia per
mostrare –con eventi spettacolari – il progresso della nuova epoca, quello della città moderna. Il potere
politico, testimoniato dalla competizione-rivalità degli Stati, e il potere economico, esplicitato dal volume del
mercato degli affari, sono assolutamente in mostra in tutte le esposizioni.
Nonostante l’edificio fosse uno solo esso poté ospitare più di sei milioni di spettatori e quasi quattordicimila
espositori.
L'impianto planimetrico elementare non offriva difficoltà di orientamento all'interno dell'edificio; due ampie
corti ricche di alberi e fiori costituirono le zone di riposo indispensabili a non rendere oppressiva la visita ai
numerosi stands di esposizione, la molteplicità delle uscite e l'unicità dell’ingresso risposero a un criterio
logico, se si tiene conto che un grande parco circondava il palazzo; i grandi olmi preesistenti furono in gran
parte risparmiati e inclusi nella navata maggiore dell'edificio.
La realizzazione del Palazzo di Cristallo fu dovuta alla ditta Fox & Henderson, che collaborò con Paxton
attivamente per la soluzione di numerosi dettagli costruttivi, mentre una consulenza artistica venne fornita da
Owen Jones con il titolo di «Advisor on decorations». Si deve al fatto che l’operato di Paxton non venne
inizialmente giudicato dai suoi contemporanei come un'opera di architettura, bensì di pura ingegneria, che il
Palazzo di Cristallo risultò privo delle merletterie in ferro e delle false strutture in pietra che pochi anni più
tardi violenteranno simili strutture. Mentre la critica ruskiniana ripeteva «it is engineering, of the highest merit
and excellence, but not archtecture» e paragonava il Crystal Palace a un edificio industriale, e altri negavano
ad esso una «compiutezza organica», nel senso che esso «poteva essere allargato o ridotto di dimensione, senza
pregiudizio reale alle sue qualità visuali», veniva attribuita proprio nel 1851 a un oggi dimenticato sig. T. L.
Donaldson, architetto e capo dell'unica scuola d'architettura riconosciuta (the University College, London) la
Royal Gold Medal, il massimo riconoscimento ai meriti di un cittadino del Regno Unito. Joseph Paxton,
naturalmente, veniva ignorato in quell'anno ed in quelli successivi.
Altri critici riconobbero «un'alta bellezza» allo spazio interno e una atmosfera «quasi inebriante e magica» resa
più viva dalla colorazione che venne data alle varie membrature in ferro: un bleu pallido che aumentava
l'effetto di spazio non circoscritto e faceva sfumare in una nebbia azzurra le lunghe prospettive delle navate.
Gli stands di esposizione vennero sparsi in questo spazio «come le macchine in una officina», usando varie
colorazioni pei tendaggi e pei tramezzi, che formavano «come isole e accenti di colore» fluttuanti in una
«evanescente atmosfera turneriana».
Dopo 15 mesi dalla sua apertura, il parlamento insistette che venisse sgomberata l’area in Hyde Park: si ebbero
varie proposte per riutilizzare gli elementi strutturali del Crystal Palace, ma alla fine venne concessa una vasta
area a Sydenham e in quel luogo fu ricostruito, con qualche modifica. Divenne un museo storico che
approfondiva il taglio interdisciplinare e divulgativo, già in parte sperimentato all’Esposizione e assolutamente
originale per l’epoca. Vi sono esposte collezioni temporanee e permanenti, vi si organizzano conferenze e
lezioni. Nel novembre 1936, la struttura, uno dei primi esempi di moderna museografia, dove l’aspetto
divulgativo prevaleva sulla conservazione, dove discipline diverse si mescolavano, dove l’allestimento
proponeva il capolavoro a fianco dell’oggetto di uso quotidiano, a causa forse di un corto circuito bruciò
completamente.
Paxton, durante e dopo la costruzione del Crystal Palace, fu sommerso di richieste per la costruzione di
analoghe strutture, ma nessuna di quelle veramente importanti andò a compimento. In numerosi altri lavori
accettò invece gli standard accademici più convenzionali mentre nei progetti di altre strutture in ferro-vetro
introdusse ornati e rivestimenti: la critica conformista aveva portato i suoi effetti deleteri. Si prepara così quella
fase nella storia dell’ architettura in ferro, durante la quale le audacie dei primi tempi furono camuffate o
nascoste e l'immacolata purezza del Crystal Palace venne dimenticata.
Parigi 1867.
Il fondamentale problema distributivo di una esposizione consiste nell'orientare il percorso dei visitatori in
modo semplice e chiaro. Questa esigenza di ordine psicologico e pratico può essere attenuata da.
provvedimenti organizzativi, ma viene soddisfatta soltanto da una efficace soluzione architettonica.
Nel 1867 a Parigi, l’ing. Frédéric le Play (ingegnere minerario e sociologo), pretese che tutta l’Esposizione si
svolgesse a un solo livello e che si realizzasse un impianto distributivo limpido come un diagramma cartesiano.
Architettonicamente essa doveva avere la forma di un globo, che per ragioni tecniche fu poi trasformato in
un’ellisse di m 490 x 336. Costruttore fu J. B. Kranz, e calcolatore il giovane Eiffel. Insieme diedero vita al
cosiddetto Colosseo del Lavoro.
La trovata di Kranz consistette nel disporre in modo concentrico sette gallerie (anelli) intercomunicanti,
ciascuna delle quali fu destinata ad accogliere una determinata classe di prodotti e nell’attuare le varie
sezioni nazionali mediante spicchi radiali di ampiezza variabile. Kranz si rese conto della potenzialità
espressiva contenuta nelle coperture da lui realizzate e nell'impianto visualmente suggestivo e predispose una
serie di terrazze sopraelevate raggiungibili mediante ascensori idraulici. 530 lampade a gas disposte sulla corsia
più esterna permettevano la visita anche serale.
Tuttavia la vera innovazione apportata dalla manifestazione parigina del 1867 va ricercata nel tentativo di
esporre, esaltandoli, «scorci di vita reale»: le manifatture che funzionavano sotto gli occhi di migliala di
visitatori, la possibilità di assistere alla fabbricazione di oggetti di uso corrente ovvero al lavorio segreto delle
ancora nuove e misteriose macchine utensili, determinarono un fattore psicologico di grande attrazione che
sollecitò le curiosità più elementari del pubblico e che la massa di 15 milioni di visitatori conferma.
La sistemazione del parco circostante l’edificio del Kranz fu conseguente alle premesse imposte dal Le Play:
attorno al perimetro esterno dell'edificio, rappresentante il Globo, dovevano avere luogo libere esposizioni
delle varie nazioni. Sorge così il prototipo di quei villaggi folkloristici che affliggeranno le esposizioni di
ogni epoca: chalet svizzeri, isbe russe, moschee, minareti, riproduzioni di catacombe, dono dello Stato
Vaticano, un tempietto pompeiano dell’Italia. L'elettricità mostrava i suoi progressi con lampade, cavi
sottomarini e telegrafi; Ingres e Delacroix, i due rivali ormai giubilati, presiedettero una commissione che
giudicò giovani pittori come Manet e Corot. Krupp sbalordì, infine, con i suoi già famosi cannoni.
Vienna 1873.
Dopo le grandi manifestazioni di Parigi e Londra, le esposizioni mondiali divengono l’indice ufficiale della
potenza economica e della stabilità politica delle nazioni; ed è dal 1867 che in questo campo si assiste, nel
mondo occidentale, ad una corsa sfrenata al sempre più colossale. L’Esposizione di Vienna (Weltausstellung)
del 1873, che superò in estensione ogni altra precedente esposizione, rappresenta una delle tappe più vistose di
questa gara; con essa il Governo austriaco volle dimostrare l’integrità delle proprie forze malgrado gli scacchi
subiti nella campagna del 1866 da parte dell’alleanza italo-prussiana e la recente scissione del regno d'Ungheria
dal corpo dell'Impero.
Il ruolo di gigante meccanico, immancabile protagonista ormai di queste manifestazioni, fu sostenuto dalla
famosa «Rotonda del Prater», una cupola lanciata su di una luce di oltre 100 m, che determinò uno dei più
grandi volumi architettonici (a tronco di cono) di tutti i tempi. Scott Russel, ricostruttore del Palazzo di
Cristallo a Sydenham ne fu il progettista. La concezione di questa struttura non ha nulla di rimarchevole se non
le enormi sezioni di ferro impiegate e l’uso di lastre metalliche di spessore di 30 mm per la copertura con
funzione controventante: se l’interno della Rotonda venne profondamente alterato da posticci rivestimenti di
stucchi, la superficie esterna di essa si configurò in un linguaggio espressivamente sincero che risultò una delle
prime genuine realizzazioni dell'architettura metallica.
La disposizione planimetrica di tutto il complesso si giovò del sistema a pettine, caro alla tecnica distributiva
dell’800, ma l’eccessiva estensione di percorsi, le prospettive delle avenues coperte, lunghe circa 1 km,
determinarono un complesso non rapportato alle esigenze umane, fisiche e psicologiche. Questa esposizione
può dunque considerarsi come un prodotto anacronistico, privo di effettive invenzioni tecniche e distributive,
una successione di volumi statici e amorfi a mala pena riscattati dalle visuali drammatiche godute dall'alto dei
ballatoi della Rotonda..
L'Italia partecipò con stoffe, marmi, con le ceramiche del Ginori e con la ricostruzione in sughero di un
nuraghe sardo che si unì al coro dissonante del folklorismo tra le mostre libere del Prater. Tra i tanti errori, un
merito va ascritto al barone Guglielmo von Schwarzerbon, direttore dell'Esposizione: quello di aver provocato
incontri internazionali di uomini di scienza, intellettuali, economisti e industriali prendendo pretesto
dall’avvenimento dell'Esposizione. Essa, tenutasi dal maggio al novembre del 1873, si chiuse con dei
records numerici eccezionali: 233 ettari di superficie occupata, 60.000 espositori, ma anche con un deficit
finanziario che coprì solo per 1/5 le somme stanziate.
Parigi 1889 (celebrativa del centenario della Rivoluzione del 1789)
Undici anni trascorrono e la Parigi del 1889 ci offre una Esposizione mondiale che si definisce come un
classico del genere, un modello la cui validità d'impostazione e di mezzi è a tutt'oggi indiscussa. La città di
Parigi partecipa all’avvenimento nella sua interezza: l’esposizione ha il suo centro tra il Campo di Marte
e la Collina dello Chaillot ma importanti ramificazioni si estendono nell’Explanade des Invalides, alla
Bastiglia, al Louvre e infine lungo i famosi boulevards voluti da Napoleone III, progettati da Hausmann.
Se il Crystal Palace costituì il prototipo ideale dell'esposizione «accentrata» e contenuta in un unico
spazio interno, la Parigi del 1889 esplode all'aperto, si articola liberamente, si seziona secondo diversi
interessi, pur mantenendo una precisa fisionomia unitaria.
La Galleria delle macchine (m 400 x 115), senza sostegni intermedi, fu progettata dall’arch. Dutert, su archi
parabolici a tre cerniere. Ai visitatori era poi offerta la sorpresa di un gran semovente su binari (un pont
roulant) che, da grande altezza, faceva loro percorrere tutta la lunghezza del salone, con veduta panoramica dei
macchinari, molti dei quali in movimento. Eiffel non collaborò alla Galleria, ma in diciassette mesi costruì la
torre che porta il suo nome.
Dominando ovunque la scena visuale e inserendosi in ogni prospettiva, la Torre Eiffel, dal Campo di Marte,
penetra nel cuore della stessa Parigi, come un onnipresente traguardo di riferimento; le sistemazioni esterne del
verde con le fontane luminose, i chioschi e i classici fondali, pur conformandosi a schemi accademici,
commentano le architetture, alcune di grande valore, altre povere, legandole tutte mediante un unico filo
conduttore. Novità tecnica, invenzione di spazio, vitalità, atmosfera magica e surreale costituirono il vero
contenuto di questa esposizione.
Se nel 1851 a Londra il ferro venne consacrato all’architettura, a Parigi, nel 1889, l’ingegneria francese apre un
nuovo capitolo nella storia dell'architettura e della tecnica con Eiffel e Dutert: la torre in acciaio più alta del
mondo costituisce il compendio delle più approfondite conoscenze tecniche.
Quella del Dutert sarà l'ultima delle ormai tradizionali Gallerie delle macchine ad apparire in una
manifestazione mondiale: nei giorni della Restaurazione e dell'Età Vittoriana, la macchina utensile divenne
l'oggetto di una stupefatta curiosità del pubblico, ai cui occhi impreparati essa si presentava come una realtà
astratta e misteriosa, simbolo quasi kafkiano di un mondo attuale ma incomprensibile. La seconda Repubblica
trova le masse già evolute nelle conoscenze tecniche e, da oscura curiosità, l’idolatria della macchina si
trasforma in un'ansia tesa ad ottenere prodotti sempre più idonei al benessere e al progredire dell'umanità.
Politicamente, la situazione della Francia è ancora confusa: sotto l'ombra minacciosa di una probabile dittatura
boulangista, sconvolta da una serie di scandali che culmineranno nella tragedia di Dreyfus, alle soglie del
fallimento dell'impresa di Panama, la celebrazione del 1889 come «centenario della Rivoluzione e apoteosi
della rivoluzione tecnica» provoca le diffidenze delle monarchie europee, e tra di esse l’Italia, e ne determina la
diserzione completa o una timida partecipazione.
Ciò nonostante questa esposizione rappresenterà, nella storia, uno dei successi organizzativi e finanziari
più vistosi: il numero ufficiale dei visitatori ascende a 32 milioni e di essi 4 salgono sulla Torre Eiffel, la
quale ne riceve 23.000 durante la sola giornata dell'inaugurazione.
Direttore dei lavori fu Alphand, ingegnere e paesaggista, autore dei grandi parchi parigini al quale si deve la
decisa resistenza alla famosa protesta degli intellettuali per impedire la costruzione della Torre Eiffel. Per la
cronaca ricorderemo che al Campo di Marte, oltre che alla torre e alla Galleria delle macchine, ebbero luogo la
mostra industriale, quella delle Belle Arti e delle arti liberali; nel Trocadero furono alloggiate alcune mostre
specializzate, come il Museo etnografico, le antichità della Cambogia e i tesori d'Eglise; l’Esplanade des
Invalides, infine, venne quasi per intero dedicata all'Esposizione Coloniale, celebrazione dell'Impero Francese.
A collegare questi luoghi, sulle opposte rive della Senna, furono sistemate le Mostre dell'Alimentazione e
dell'Agricoltura e, infine, la Mostra retrospettiva dell'Abitazione, organizzata da Tony Garnier.
Chicago 1893
Benché inaugurata con un anno di ritardo, commemorava la scoperta dell’America. Chicago, città in quel
momento in rapido sviluppo, era alla testa dell’architettura moderna (la scuola di Chicago era universalmente
celebrata).
Gli spazi dell’esposizione sono pensati come una città nella città. Le vicissitudini dell’Esposizione cominciano
subito con la scelta del sito. Dopo varie proposte, tutte poco significative, finalmente la scelta ricade sul
Jackson Park. L’artefice è un eminente architetto del paesaggio, Frederick Law Olmsted, il quale pensava che
questa operazione avrebbe facilitato il dopo evento. L’incarico del design dei padiglioni fu affidato a Daniel
Burham e John W. Root, ma tutti i collaboratori furono fatti venire dalla Francia (specialmente dall’Ecole des
Beaux-Arts). Distribuita in edifici immensi, di stile accademico (neoclassico), in un ordine piuttosto caotico,
ebbe anch’essa la sua Galleria delle macchine con una superficie coperta di 12 ettari.
Nel 1891 muore Root, il più creativo dei due architetti, e il progetto ne risente. Root aveva immaginato vari
colori per i vari edifici, ma dopo la sua morte si decise di dipingere tutto in bianco. Fu così che l’esposizione
ebbe il soprannome di «White city».
Abbandonato il vetro e il ferro per materiali più durevoli, il luogo dell’esposizione ha tutta l’aria di una città
autosufficiente, giudizio più volte comparso come lode all’idea degli architetti. Particolare non da poco se,
come scrivono Robert W. Rydell, John E. Findling e Kimberly D. Pelle, «it was not surprising, then, that one
of the fair’s legacies was the spur that it gave to the city planning movement; in Chicago Burnham began
working in that area after the fair and in 1909 published his Plan of Chicago , which served as the basis for the
city’s development until the 1950s».
New York 1939
Una prima divisione di vedute si ebbe sul tema, quindi sui contenuti, da dare alla manifestazione. Delle due
ali vinse quella funzionalista a discapito di quella tradizionalista. L’attenzione al futuro era così evidente che fu
creato il motto «Building the World of Tomorrow».
Ancora una volta l’area utilizzata era esterna; in questo caso si trattava di una zona paludosa, Flushing
Meadows, assolutamente rifiutata dalla città. L’architettura dell’esposizione dà grande enfasi alle linee
geometriche soprattutto nei simboli che la rappresentano: il Trylon e il Perisphere. «The Trylon was a 610foot-tall tower that held nothing and was connected by a 950-foot spiral walkway, the Hecline, to the
Perisphere, which was 180 feet in diameter, in which the theme exhibit of the fair, Democracity, was
displayed».
Il padiglione di maggior successo fu quello costruito da Norman Bel Geddes, «Futurama», dove si tentava di
descrivere la città avveniristica, e la vita della società di quella città (idea ripresa nel 1964 nel grandissimo
padiglione della General Motors).
Riferimenti bibliografici
Linda Aimone, Carlo Olmo, Le Esposizioni Universali, Torino, Umberto Allemandi & C., 1990
Cesare Marchetti, Esposizioni e Fiere Campionarie, estratto da Pasquale Carbonara, Architettura pratica, vol.
IV, tomo secondo, UTET, 1954 (1a edizione) e successivi aggiornamenti
Maria Cristina Maiocchi, L’esposizione universale: modelli e committenza, in Antonello Negri (a cura di), Arte
e artisti nella modernità, Jaca Book, 2000.
E inoltre: Voce Mostre ed esposizioni d’arte in Arte, Collana Le Garzantine, Milano, Garzanti 2002