Responsabilità degli amministratori Aspetti civili La riforma del diritto

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Responsabilità degli amministratori
Aspetti civili
La riforma del diritto societario ha innovato significativamente l'attuale disciplina inerente agli
amministratori, in particolare quella riservata alla responsabilità di questi verso la società,
nonché per via della inedita azione a impulso della minoranza.
Ciò è avvenuto mediante la riscrittura, comunque parziale, degli artt. 2392 e ss. del codice
civile e la previsione di un unico riferimento normativo per la società a responsabilità limitata,
rivisitata nel tipo.
Il messaggio contenuto all'interno dell'articolato è chiaro: scomparso il riferimento all'obbligo
di vigilanza sul generale andamento della gestione sociale, all'amministratore potrà essere
imputato unicamente l'inadempimento specifico, derivante da compiti che per legge o in via
statutaria gli siano attribuiti.
Ciò è il frutto di un netto cambiamento di rotta, voluto dal legislatore del 2003 per evitare
indebite estensioni di responsabilità a tutti i membri del consiglio. L'assimilazione della figura
dell'amministratore a quella del mandatario è soltanto uno dei punti critici dell'attuale
normativa. Intona il de profundis al dibattito la disposizione che identifica la diligenza richiesta
agli amministratori con quella commisurata alla natura dell'incarico e delle specifiche
competenze. Necessario corollario della nuova filosofia è la netta (si dirà in che termini)
suddivisione di responsabilità all'interno del consiglio di amministrazione. Non vi sarà più il
rischio per cui tutti gli amministratori, ancorché non delegati, potevano essere chiamati a
rispondere a titolo di responsabilità.
Ciò accade tanto nel caso in cui non sia stato previsto nulla dallo statuto, per cui
l'amministrazione e il controllo continueranno a essere affidate a un consiglio di
amministrazione e a un collegio di sindaci, tanto nel caso in cui si sia accolto uno dei nuovi
modelli alternativi cosiddetti dualistico o monistico. In generale, l'amministratore delegante va
esente da colpa. Nondimeno, tuttavia, sussiste in capo allo stesso un vero e proprio obbligo di
informazione per cui è solidalmente responsabile se, essendo a conoscenza di fatti
pregiudizievoli, non ha fatto quanto poteva per impedirne, eliminarne o attenuarne le
conseguenze dannose.
Resta inalterata la tripartizione della responsabilità degli amministratori. Gli articoli del codice li
vedono ancora responsabili verso la società, nei confronti dei creditori sociali e nei confronti di
singoli soci o di terzi. La vera novità consiste nella disposizione ulteriore che rende gli
amministratori responsabili verso la società, che sarà non più solo fatta valere dalla
maggioranza dei soci ma anche da una minoranza, seppur qualificata, di essi.
La riforma del diritto societario dà quindi voce alle riflessioni della dottrina, che da sempre
lamenta una eccessiva carenza di tutela riservata alla minoranza.
Altri elementi di specificità sono quelli per cui permane la responsabilità dell'amministratore
anche per gli atti autorizzati dall'assemblea e la disciplina sul conflitto di interessi, per cui
l'amministratore risponderà in ogni caso dei danni derivanti alla società dalla sua azione od
omissione.
Viene definita, infine, la responsabilità dell'amministratore nell'ambito della disciplina dedicata
ai gruppi. Il primo comma dell'art. 2497 cc si riferisce alle società o enti che, nell'esercizio
dell'attività di direzione e coordinamento, agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o
altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale. Il secondo
comma, tuttavia, afferma che è responsabile in solido anche colui che abbia comunque
partecipato al fatto lesivo o che ne abbia comunque tratto consapevolmente beneficio.
Sono questi i nuovi parametri delineati dalla riforma del diritto societario, come risulta a una
prima lettura delle disposizioni interessanti la responsabilità degli amministratori
Amministratori più responsabili
A opera della riforma del diritto societario, diventerà sempre più marcata la linea di
demarcazione che segna le competenze dell'organo assembleare e di quello amministrativo.
Ciò sulla scorta di quanto previsto nella delega, che prescriveva di definire con chiarezza e
precisione i compiti degli organi sociali (art. 2, primo comma, lett. b, legge n. 366/2001). Si
stabilisce, infatti, che ´la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori' (art.
2380-bis), mentre lo statuto può richiedere la competenza assembleare per il compimento di
determinati atti degli amministratori, ferma restando la responsabilità di questi ultimi (art.
2364, primo comma, n. 5).
Chi ricoprirà in futuro la carica di amministratore non potrà reiterare la consolidata prassi di
attribuire compiti all'assemblea, per poi scaricarsi di ogni responsabilità.
La riformulazione dell'attuale art. 2364, primo comma, n. 4) non lascia spazio a dubbi.
Si stabilisce, in primo luogo, che il potere dell'assemblea di decidere questioni strettamente
amministrative non promana più dall'atto costitutivo, ma dalla stessa legge; in più, la stessa
non potrà più deliberare autonomamente su questioni inerenti alla gestione societaria, ma
potrà solo autorizzare eventuali atti di competenza degli amministratori. Infine, per arginare i
possibili abusi, si afferma che questi ultimi non potranno più chiamarsi fuori dalla
responsabilità, dopo aver sottoposto all'assemblea oggetti relativi alla gestione della società.
L'estensione della competenza assembleare agli atti degli amministratori, e quindi rientranti
nell'alveo della gestione tout court, è stato un tema alquanto dibattuto, che le disposizioni
dell'articolato di riforma hanno provveduto definitivamente a sanare:
- da un lato, restringendo la competenza dell'assemblea, in luogo dei più estesi poteri
dell'organo amministrativo;
- dall'altro, stabilendo che gli amministratori sono comunque responsabili degli atti di propria
competenza, qualora la relativa autorizzazione sia stata attribuita all'assemblea.
Ci si è chiesti in passato se l'assemblea potesse deliberare su argomenti attinenti alla gestione
della società così come, e fino a che punto, gli amministratori avessero potuto devolvere
all'assemblea ordinaria il compito di deliberare su tutte le attività inerenti all'esercizio
dell'impresa.
Sotto il primo aspetto, si è stabilito che esula dalla competenza degli amministratori la
devoluzione degli atti cui essi sono competenti. Tale possibilità è ammessa soltanto dalla
legge, potendo unicamente lo statuto decidere se, e per quali atti inerenti alla gestione, si
renda necessario il nulla osta dell'assemblea.
Il nuovo art. 2364, primo comma, n. 5) stravolge pertanto i contenuti di cui all'art. 2364,
primo comma, n. 4), e della relativa posizione giurisprudenziale, per cui l'assemblea ´può
eccezionalmente deliberare in ordine ai singoli atti di gestione, oltre che quando ciò sia
espressamente previsto nell'atto costitutivo e nei limiti da questo stabiliti, anche nelle ipotesi in
cui l'organo amministrativo devolva spontaneamente a essa ogni decisione su questi attiÉ'
(Cassazione civile sez. III, 25 febbraio 1992 n. 2330).
Non lascia spazio a dubbi l'inciso ´ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti
compiuti', cioè a dire che quantunque l'assemblea autorizzi gli atti degli amministratori questi
rispondono degli eventuali danni. (vedi tabella)
Interessi degli amministratori e responsabilità dell'amministratore interessato
Altro punto qualificante della riforma, che spiega importanti riflessi sulla responsabilità degli
amministratori, è la disciplina sul conflitto di interessi. Gli amministratori devono dare notizia
agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse (anche non in conflitto con
quello della società) che, per conto proprio o di terzi, abbiano in una determinata operazione
della società, precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata. In caso di amministratore
delegato, lo stesso ha il dovere di astenersi dall'operazione, investendo della stessa l'organo
sociale (art. 2391, primo comma). Quando sussiste un interesse dell'amministratore, la
deliberazione del consiglio dovrà motivare le ragioni e la convenienza dell'operazione per la
società.
La delibera può essere impugnata dagli amministratori e dal collegio sindacale entro 90 gg
dalla data di adozione della delibera qualora:
- non siano stati adempiuti gli obblighi di informativa;
- la delibera, adottata con il voto determinante dell'amministratore interessato, possa arrecare
danno alla società.
Le deliberazioni possono essere a tal punto impugnate dagli amministratori e dal collegio
sindacale entro 90 gg dalla data di adozione della delibera
La questione non si risolve, tuttavia, o almeno non solo, nell'annullabilità della deliberazione.
La società può infatti agire nei confronti dell'a mministratore per i danni a essa arrecati. Questi
è infatti chiamato a rispondere dei danni causati dalle sue azioni od omissioni (art. 2391, terzo
comma). Ma non solo, posto che risponde altresì ´dei danni che siano derivati alla società dalla
utilizzazio ne a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi
nell'esercizio del suo incarico' (art. 2391, quarto comma). Dovrebbero in tal modo superarsi le
perplessità sorte vigente l'attuale disciplina, la quale, all'art. 2391, secondo comma, rende
responsabile l'amministratore ´delle perdite che siano derivate alla società dal compimento
dell'operazione'.
L'amministratore è adesso responsabile per i danni derivanti alla società dalle sue azioni o
omissioni. Nel primo caso, ci si riferisce all'amministratore che ha partecipato alla deliberazione
o compiuto una determinata operazione; nel secondo, vi rientra certamente l'amministratore
che non ha dichiarato il proprio interesse, in violazione del dovere di informazione. Se non
suscita particolari dubbi il caso dell'amministratore che abbia attivamente partecipato al
compimento dell'operazione, lo stesso non può dirsi per il caso di omissione. Dovrà dunque
provarsi, in tal caso, un preciso nesso causale tra l'omissione dell'amministratore e il danno
cagionato alla società. Ciò per non approdare a una inaccettabile oggettivizzazione della
responsabilità dell'amministratore (sul punto: U. Patroni Griffi, sub art. 2391, in Aa.Vv., La
riforma delle società, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Torino, 2003). La responsabilità
dell'amministratore di interessi è massima. Ciò in linea con i fini della riforma, por cui ognuno è
chiamato a rispondere in proporzione alle proprie competenze, venendo meno la
responsabilità, marcatamente oggettiva, di cui all'attuale disciplina. Nello scalino più alto si
pone dunque l'amministratore in conflitto di interesse (dandosi rilevanza, come detto, anche
agli interessi concorrenti con quelli della società e non più solo configgenti), mentre in quello
più basso troviamo i membri del consiglio di amministrazione non esecutivi ovvero non
delegati.
A un livello intermedio, si collocano gli amministratori delegati e i membri del comitato
esecutivo, che, in quanto investiti dei più ampi poteri gestori, subiranno le conseguenze
derivanti dalle proprie omissioni e dal mancato rispetto degli obblighi cui li sottopone il quinto
comma dell'art. 2381 cc.
Responsabilità verso la società
La riforma del diritto societario conferma la scelta che vede gli amministratori responsabili: nei
confronti della società (art. 2392-93); nei confronti dei creditori sociali (art. 2394); nei
confronti di singoli soci o singoli terzi (art. 2395). Quanto previsto all'interno dell'art. 2392 cc,
trae avvio da quanto specificamente richiesto dalla legge delega (art. 4, comma 8), per cui si
imponeva al legislatore delegato di precisare contenuti e limiti delle deleghe a singoli
amministratori (lett. a); riconoscere allo statuto la possibilità di prevedere particolari requisiti
di onorabilità, professionalità e indipendenza per la nomina alla carica (lett. b); definire le
competenze dell'organo amministrativo con riferimento all'esclusiva responsabilità di gestione
dell'impresa sociale (lett. c); disciplinare i doveri di fedeltà dei componenti dell'organo
amministrativo, in particolare con riferimento alle situazioni di conflitto di interesse nonché
precisare che essi sono tenuti ad agire in modo informale (lett. g). Uno dei punti di maggior
interesse nonché di novità, all'interno della nuova disciplina dettata in tema di responsabilità, è
dato dai nuovi parametri richiesti all'amministratore nell'esercizio della propria funzione. Nulla
il legislatore delegante dice, tuttavia, in relazione agli inediti doveri imposti agli amministratori.
Soltanto nella relazione governativa, come si dirà, vengono offerte delucidazioni in ordine alle
disposizioni introdotte.
Stabilisce anzitutto l'art. 2392 cc che gli amministratori ´devono adempiere i doveri a essi
imposti dalla legge e dallo statuto'. Quanto ai primi, si ricordano la redazione del bilancio; la
convocazione dell'assemblea, la richiesta dei versamenti ancora dovuti; la tenuta della
contabilità e gli adempimenti pubblicitari. Il legislatore del 2003 conferma dunque la scelta
operata vigente l'attuale disciplina: ´Tali e tanti sono gli adempimenti ai quali gli
amministratori sono tenuti nello svolgimento dell'attività sociale che una completa elencazione
sarebbe praticamente impossibile e probabilmente poco utile' (così la dottrina anteriforma:
Bonelli, Gli amministratori di spa, Giuffrè, 1985, p. 160). Ciò conferma il ruolo centrale che in
concreto assumerà lo statuto, nel quale dovranno essere puntualmente individuati i doveri
imposti agli amministratori. Cambia tuttavia radicalmente il parametro richiesto agli
amministratori: la diligenza è adesso commisurata alla natura dell'incarico (recependo, con ciò,
le istanze formulate recentemente in dottrina. Sul punto, R. Weigmann, L'organo
amministrativo, Convegno di Studi - Alba, 21 novembre 1998, Dalla riforma Draghi alla riforma
delle società non quotate, in Soc., n. 7/1999, p. 792). Il cambiamento di rotta è evidente,
posto che l'attuale art. 2392, primo comma, afferma che ´gli amministratori devono adempiere
i doveri a essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo con la diligenza del mandatarioÉ'.
Dovrà tenersi conto, quindi, non più della diligenza del mandatario, richiesta a chi gestisce
affari altrui, ma di quella (ben più specifica) commisurata alla natura dell'incarico (art. 1176,
secondo comma, prevista per le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale).
La diligenza richiesta all'amministratore non potrà più identificarsi, dunque, con la comune
diligenza, del buon padre di famiglia. Ciò - sottolinea la relazione governativa - non significa
che gli amministratori debbano necessariamente essere periti in contabilità, in materia
finanziaria, e in ogni settore della gestione e dell'amministrazione dell'impresa sociale, ma
significa che le loro scelte devono essere informate e meditate, basate sulle rispettive
conoscenze e frutto di un rischio calcolato, e non di irresponsabile o negligente
improvvisazione. Un tema discusso in passato, ma di cui non è rinvenibile traccia all'interno
dell'articolato, è se accanto alla diligenza debba sussistere un obbligo riferibile alla perizia. La
relazione, ancorché prenda in prestito le parole del Bonelli, non arriva esplicitamente alle sue
stesse conclusioni. Tuttavia, se l'impostazione è questa, sembra che nella diligenza richiesta
all'amministratore non possa includersi anche l'obbligo di amministrare con perizia,
intendendo, con ciò, la conoscenza e l'esercizio di un'attività con padronanza assoluta dei
mezzi tecnici. Si specifica poi che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la
società dei danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri (la responsabilità degli
amministratori è di chiara origine contrattuale; rispondono, in altri termini, di un
inadempimento specifico, che, come visto, può discendere da una apposita previsione,
derivante dalla legge o dallo statuto), a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato
esecutivo o di funzioni in concreto attribuite a uno o più amministratori delegati.
Amministratori esecutivi e delegati
Ciascun amministratore sarà chiamato a rispondere nei limiti delle proprie competenze e dei
compiti attribuitigli. I soci, tanto a maggioranza quanto a minoranza nonché i creditori sociali
non potranno più colpire l'amministratore in quanto tale, posto che nell'articolato di riforma si
assiste a un intensificarsi del grado di responsabilità a seconda di circostanze non più
oggettive.
La nuova filosofia tocca direttamente la responsabilità degli amministratori nel caso in via
statutaria (o per mezzo di deliberazione assembleare) si sia consentito la delega di attribuzioni
del cda a un comitato esecutivo o a uno o più amministratori delegati (art. 2381, secondo
comma). In linea generale, infatti, non saranno tenuti a rispondere dei danni gli altri membri
del consiglio (art. 2392, primo comma). La ratio di tale intervento è sottolineata dalla relazione
governativa, dove si afferma che l'obiettivo è di evitare ogni indebita estensione della
responsabilità solidale degli amministratori, estensione che, ´soprattutto nell'esperienza delle
azioni esperite da procedure concorsuali, finiva per trasformarla in una responsabilità
sostanzialmente oggettiva, allontanando le persone più consapevoli dall'accettare o mantenere
incarichi in società o in situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le esponeva a
responsabilità praticamente inevitabili'. Ciò è la diretta conseguenza di quanto appena visto,
per cui la diligenza richiesta, di tipo professionale, va commisurata ai compiti svolti in concreto.
Tali mutamenti nel funzionamento interno al consiglio non sarebbero attuabili se fosse rimasta
inalterata nel codice la previsione del ´dovere di vigilare sul generale andamento della
gestione'. La sua scomparsa agevolerà l'accertamento delle singole colpe, evitando la
commistione di responsabilità, tra deleganti e delegati.
Non era infrequente, infatti, che agli amministratori deleganti venissero attribuite, in modo
pressoché automatico, le colpe dei delegati. Bastava a tal fine imputare loro l'inadempimento
al dovere di vigilare sul generale andamento della gestione sociale.
La riforma stabilisce che in via statutaria possono essere delegate attribuzioni a uno o più
amministratori delegati, spettando tuttavia, agli altri membri del consiglio, una funzione che
può definirsi di controllo.
Non potrà infatti parlarsi di suddivisione di competenze a compartimento stagno, posto che,
come traspare nel nuovo articolato, tra esecutivi (o delegati) e altri membri del consiglio viene
a crearsi un vero e proprio rapporto di reciproca interferenza. Solo in tal modo si spiega la
responsabilità dei deleganti per gli atti gestionali compiuti dai delegati: i primi devono agire in
modo informato, e i secondi sono tenuti, quantomeno, a riferire sulle operazioni di maggior
rilievo e sul generale andamento della società.
Quantunque lo statuto preveda di affidare ai membri esecutivi compiti operativi e gestionali
diretti, permane in capo agli altri membri del consiglio un significativo potere nel pilotare il
processo decisionale, tanto che lo stesso può sempre impartire direttive agli organi delegati e
avocare a sé operazioni rientranti nella delega.
Ai membri del consiglio non esecutivi o non delegati non compete dunque un ruolo passivo,
posto che, sulla base del rapporto con i membri delegati, concorrono nelle scelte gest ionali e
strategiche della società. In tal modo, in ossequio ai principi fissati nella delega, per cui si
imponeva al legislatore delegato di attribuire all'autonomia statutaria un adeguato spazio con
riferimento all'articolazione interna dell'organo amministrativo, al suo funzionamento nonché
alla circolazione delle informazioni tra i suoi componenti e gli organi deputati al controllo,
vengono individuati i poteri/doveri del consiglio per cui lo stesso:
- valuta il generale andamento della società sulla base della relazione degli organi delegati,
chiamati a fornirla a scadenze, così come previsto in via statutaria (180 gg ovvero il minor
termine previsto);
- valuta l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società sulla
base delle informazioni ricevute;
- quando elaborati (dai delegati) esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società;
- può impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega.
Il comitato esecutivo o i membri delegati, dal canto loro, sono tenuti a riferire al consiglio di
amministrazione e al collegio sindacale con la periodicità fissata dallo statuto (almeno ogni 180
gg):
- sul generale andamento della società e sulla sua prevedibile evoluzione;
- sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni e caratteristiche, effettuate dalla
società e dalle sue controllate.
Una volta che siano stati designati i soggetti delegati, resta da chiarire quali obblighi e
responsabilità permangono in capo al consiglio di amministrazione, quale diretto destinatario
dei generali obblighi di informazione e comunicazione degli organi delegati. I membri del
consiglio di amministrazione sono tenuti ad agire in modo informato, tanto che ´ciascun
amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni
relative alla gestione della società' (art. 2381, ultimo comma). È questo un aspetto
particolarmente rilevante della disciplina inerente all'amministrazione. Sorge quindi, in capo
agli altri membri del consiglio, un vero e proprio obbligo di attivarsi a chiedere tutte le
informazioni necessarie al compimento delle operazioni sociali.
Pertanto, esclusa l'estensione della responsabilità dell'amministratore delegante, per fatti
riconducibili al membro delegato, permane pur sempre la responsabilità del primo se, essendo
a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbia fatto quanto in suo potere per impedirne il
compimento o attenuarne o eliminarne le conseguenze dannose (art. 2392, secondo comma).
Quanto ai rimedi offerti all'amministratore per discolparsi, afferma il terzo comma dell'art.
2392 cc che ´la responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a
quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo
dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia
per iscritto al presidente del collegio sindacale'.
È importante evidenziare che l'amministratore deve essere immune da colpa, cioè a dire che
non deve aver omesso quanto era in suo potere per impedire il compimento dell'atto dannoso,
o per eliminarne ovvero attenuarne le conseguenze dannose.
Responsabilità graduata
Massimo livello
Amministratore in conflitto di interessi
Livello intermedio
Amministratori esecutivi, delegati
Livello inferioreMembri del consiglio non esecutivi ovvero non delegati
L'azione sociale di responsabilità
Il legislatore del 2003 è intervenuto in maniera incisiva sui contenuti dell'art. 2393 cc,
rubricato ´azione sociale di responsabilità'.
Ciò sulla scorta di quanto imposto dai principi contenuti nella delega (legge n. 366/2001), per
cui si dava mandato al legislatore delegato di:
- ´definire con chiarezza e precisione i compiti e le responsabilità degli organi sociali' (art. 2,
lett. b), nonché
- di individuare limiti e condizioni in presenza dei quali sono applicabili alle società che fanno
ricorso al mercato del capitale di rischio norme inderogabili, ´dirette a consentire l'azione
sociale di responsabilità da parte di una minoranza dei soci, rappresentativa di una quota
congrua del capitale idonea al fine di evitare l'insorgenza di una eccessiva conflittualità tra i
soci'.
Si dice tuttora che l'azione di responsabilità contro gli amministratori è promossa in seguito a
deliberazione dell'assemblea, anche se la società è in liquidazione (art. 2393, primo comma). È
escluso ovviamente dal voto l'amministratore contro cui l'azione è proposta (art. 2373,
secondo comma). Ciò per evitare il conflitto di interesse nel quale lo stesso verrebbe a trovarsi
con l'interesse della società.
Ma l'azione, come si dirà, può essere promossa anche se la società è fallita, è sottoposta a
liquidazione coatta amministrativa o ad amministrazione straordinaria, legittimati,
rispettivamente, il curatore, il commissario liquidatore e il commissario straordinario.
La delibera può essere assunta in occasione della discussione di bilancio, anche se non indicata
nell'ordine del giorno, purché si tratti di fatti di competenza dell'esercizio cui si riferisce il
bilancio (art. 2393, secondo comma).
Si tratta di una innovazione rispetto al passato, nella parte in cui si afferma che l'azione di
responsabilità può fondarsi su fatti diversi da quelli esaminati dall'assemblea, che recepisce le
indicazioni di una non recente giurisprudenza (trib. Milano, 9 novembre 1987, in Giur. comm.,
1988, II, 967). L'azione può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione
dell'amministratore in carica (art. 2393, terzo comma). Si tratta di una disposizione in deroga
a quanto previsto dall'art. 2949 cc e 2935 cc (decorrenza della prescrizione) per cui la
prescrizione dei diritti che nascono da rapporti societari, è di cinque anni, con inizio del termine
dalla data di nascita del diritto. Il dies a quo va fatto coincidere non, dunque, ´dal giorno in cui
il diritto può essere fatto valere' (la commissione del fatto o l'omissione), ma dalla data di
cessazione dell'amministratore dell'incarico, come prevede adesso l'art. 2393, terzo comma.
La revoca dall'ufficio dell'amministratore contro cui è proposta avviene se la relativa
deliberazione è approvata con una maggioranza che rappresenti almeno il 20% del capitale
sociale. In tal caso, all'assemblea compete di provvedere alla loro sostituzione (art. 2393,
quarto comma).
La società può rinunciare all'esercizio dell'azione di responsabilità e può transigere in ordine
all'ammontare del risarcimento, purché la rinunzia e la transazione siano approvate con
espressa deliberazione dell'assemblea, e purché non si opponga una minoranza di soci
rappresentativa del quinto del capitale sociale. Si tratta di principi sui quali la giurisprudenza
non ha mancato, a scadenze fisse, di fare luce: ´l'art. 2393 cc attribuisce al potere deliberativo
dell'assemblea sia il promovimento dell'azione sociale di responsabilità nei confronti degli
amministratori, sia la rinunzia all'esercizio di detta azione, sia, infine, la transazione in ordine
alla stessa responsabilità: solo l'assemblea dei soci, pertanto, può formare e dichiarare la
volontà dell'ente di compiere uno di tali atti giuridici, con la conseguenza che la rinuncia o la
transazione effettuate dal nuovo amministratore (o dal legale rappresentante della società)
senza la preventiva delibera assembleare è affetta non da mera inefficacia, secondo la
disciplina dell'atto posto in essere dal rappresentante senza poteri, ovvero da mera
annullabilità, in base alle regole circa il difetto di capacità a contrattare, ma da nullità assoluta
e insanabile, deducibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile anche d'ufficio (Cass., 1
ottobre 1999, n. 10869, conforme a Cass., 2681-72 e 2012-83).
Novità assoluta è invece quella riferita alle società cosiddette aperte (art. 2325-bis), per cui è
ostativo alla rinunzia o alla transazione dell'assemblea il voto contrario di una minoranza di
soci che costituisca ´almeno un ventesimo del capitale sociale, ovvero la misura prevista nello
statuto per l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità ai sensi dei commi primo e secondo
dell'art. 2393-bis'.
L'azione sociale di responsabilità esercitata dai soci
La riforma del diritto societario non manca di dare voce a quanto da tempo veniva lamentato in
dottrina, ovvero la mancanza di disposizioni rivolte a tutelare, in modo adeguato, le
minoranze. Si tratta di formule nuove, la cui filosofia ispiratrice traspare all'interno della
disciplina dedicata al recesso, ai gruppi e, non ultimo, nell'inedita azione a impulso della
minoranza. Quest'ultima, invero, rappresenta uno degli interventi di maggior rilievo
dell'odierno legislatore per la riforma delle spa, così come tracciato dal nuovo art. 2393-bis.
Accanto all'ordinaria azione dell'assemblea, troverà spazio quella della minoranza, seppure
qualificata, di soci. Ancorché esercitata dai soci, non vi è alcun dubbio in ordine alla natura,
surrogatoria, dell'azione. Si tratta infatti, anche in tal caso, di azione sociale di responsabilità.
L'intervento si pone sul solco di quanto previsto nella legge delega, che prescriveva al governo
di ´consentire l'azione sociale di responsabilità da parte di una minoranza dei soci,
rappresentativa di una quota congrua del capitale sociale idonea al fine di evitare l'insorgenza
di una eccessiva conflittualità tra i soci' (art. 4, comma 2, n. 2).
Nel silenzio statutario, la legittimazione spetta a tanti soci che rappresentino almeno il 20% del
capitale sociale (o il 5% nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio).
Questa importante tutela, puntualizza la relazione, spetta solo a minoranze sufficientemente
significative. Proprio tale circostanza, assieme alla previsione che ogni vantaggio conseguito
anche in via transattiva spetta alla società, dovrebbe evitare potenziali conflitti in seno alla
compagine.
L'intervento di specie, ancorché rappresenti una novità per il nostro ordinamento, recepisce
quanto (già) previsto nei lavori preparatori alla miniriforma societaria del 1974 (legge 7 giugno
1974, n. 216), poi però disattesa. Ma non solo, posto che ci si rifà, sul punto, a quanto
previsto nel Tuf e nella legge azionaria tedesca del '65.
Nel primo caso, l'art. 129 afferma appunto che possono esercitare l'azione tanti soci che
rappresentano almeno il 5% del capitale sociale. Previsione analoga a quella richiesta, dal
nuovo articolo 2393-bis, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio
(quotate e con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante ex art. 2325-bis cc). Per la
disciplina speciale, tuttavia, si richiede l'iscrizione da almeno sei mesi nel libro dei soci al fine
del promovimento dell'azione di specie. Quanto alla legge tedesca, che spesso ha funzionato
da volano per la riscrittura degli articoli del codice civile (si pensi al nuovo modello di
amministrazione e controllo dualistico e alle disposizioni interessanti i gruppi), si specifica,
all'interno del paragrafo 147, che il tribunale, su istanza di tanti azionisti che rappresentino
almeno il 5% del capitale sociale, convoca l'assemblea qualora vi sia fondato sospetto che la
società abbia subito un danno a causa di gestione infedele (Unredlichkeiten, che integri
comunque gravi violazioni riconducibili al principio di correttezza e buona fede).
In via statutaria sarà pur sempre possibile prevedere una percentuale ridotta di capitale ai fini
dell'azione di specie (tuttavia mai superiore al terzo), ciò che apre a un significativo
potenziamento dei poteri di soci di minoranza.
Una scelta indubbiamente delicata, da valutare con attenzione in sede di adeguamento (art.
223-bis disp. att.). Sembra equo infatti concedere a tanti soci che rappresentino il 20% del
capitale sociale l'accesso a tale iniziativa. Tale percentuale rappresenta il giusto punto di
equilibrio che, se rivisto in melius (per la minoranza), potrebbe aprire al limite delle finestre
dal sapore ricattatorio e rivelarsi foriero di atteggiamenti pretestuosi da parte di uno sparuto
manipolo di soci. Il 20% del capitale sociale rappresenta dunque il giusto punto di equilibrio
trovato dal legislatore al fine di contemperare al meglio gli interessi in gioco. Del che se ne
ritrae precisa consapevolezza nella relazione governativa, nella parte in cui si afferma che la
percentuale prevista sembra idonea a evitare l'eccessiva insorgenza di conflittualità tra i soci.
Come procedere
Fissata la percentuale, la minoranza attrice avrà modo di chiamare in causa l'amministratore,
responsabile secondo i parametri dettati dall'art. 2392 cc. Come detto, si tratta di una vistosa
deroga alla maggioranza richiesta dall'art. 2393 cc.
La stessa azione a impulso della maggioranza, del resto, ha avuto sempre scarsa applicazione
pratica posto che i soci, i quali in prima battuta avevano provveduto alla nomina degli
amministratori, raramente se ne sono serviti contro i propri rappresentanti in consiglio.
Praticamente, la minoranza attrice si pone come sostituto processuale (art. 81 cpc).
L'introduzione del giudizio richiederà quindi l'atto di citazione, notificato alla società indicando a
norma degli artt. 163 e 164 cpc e a pena di nullità ´la determinazione della cosa oggetto della
domanda e l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della stessa'.
È prevista pertanto la vocatio in ius della società mediante notifica dell'atto di citazione.
Eventuali convenuti sono:
- gli amministratori;
- i sindaci;
- i consiglieri di gestione;
- i liquidatori;
- i direttori generali nominati dall'assemblea o per disposizione dello statuto, in relazione ai
compiti loro affidati.
Quanto alle modalità, specifica l'art. 2393-bis che questa deve essere fatta anche in persona
del collegio sindacale. La notifica dovrà essere consegnata, in primis, nelle mani del legale
rappresentante della società, in quanto questa è necessariamente parte del giudizio in
ossequio del principio del contraddittorio. La notifica al presidente del collegio si rende invece
necessaria per dare impulso ai controlli del caso.
Qualora l'azione interessi gli stessi sindaci, sarà inevitabile la nomina di un curatore speciale ex
art. 78 cpc da parte del giudice. Posto che l'azione va a esclusivo vantaggio della società,
questa sarà tenuta, in caso di accoglimento della domanda, a rimborsare ai soci attori le spese
del giudizio e quelle sopportate nell'accertamento dei fatti che il giudice non abbia posto a
carico dei soccombenti e che non sia possibile recuperare a seguito della loro escussione. È
data tuttavia facoltà alla minoranza di rinunciare o transigere in ordine all'ammontare del
risarcimento.
S'intende che in tal caso il corrispettivo della rinuncia o della transazione debba anch'esso
andare a vantaggio della società quale, per l'appunto, potenziale diretta destinataria del danno
(si è rilevato che la norma introduce, nel campo della sostituzione processuale un potere che,
di norma, non può riconoscersi al sostituto e che la sua previsione derivi da esigenze di ordine
pratico, la quale tuttavia può accettarsi solo se la si interpreti nel senso che essa non esclude il
diritto della società di rifiutare gli effetti della rinuncia o della transazione: V. Salaria,
Amministrazione e controllo delle società di capitali nella recente riforma societaria, in Soc., n.
12/2002, p. 1470).
La stessa azione di rinuncia o transazione è esercitabile dalla società purché non vi sia il voto
contrario di una minoranza di soci che rappresentino il quinto del capitale sociale (per quelle
che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio almeno un ventesimo) o la minore misura
prevista in via statutaria.
L'azione sociale di responsabilità per gli amministratori dei nuovi modelli di amministrazione e
controllo
Uno degli interventi più incisivi della riforma, almeno sulla carta, è la previsione, oltre al
modello tradizionale italiano, dei due nuovi modelli di amministrazione e controllo cosiddetti
dualistico o monistico.
Il primo, di derivazione tedesca, prevede un consiglio di gestione e un consiglio di
sorveglianza; il secondo, di matrice anglosassone (Stati Uniti e Inghilterra), si distingue per la
sola presenza del consiglio di amministrazione, all'interno del quale saranno nominati i membri
del comitato per il controllo sulla gestione.
A parte il funzionamento interno dei nuovi modelli, e la questione sottostante, che tuttora
infervora gli interpreti, per il consiglio di gestione è fatto rinvio a molte delle disposizioni
dettate per il consiglio di amministrazione di cui al modello standard (l'art. 2409-undecies).
Parimenti, per il sistema monistico occorre rifars i a quanto previsto dall'art. 2409-noviesdecies
(Norme applicabili e controllo contabile).
Le azioni di cui agli artt. 2393 e 2393-bis nel sistema dualisticoÉ
Sebbene in un primo tempo il rinvio alla disciplina dettata per le azioni di responsabilità di cui
agli artt. 2393 e 2393-bis fosse contenuta nell'art. 2409-undecies, nella versione definitiva del
dlgs il richiamo a tali articoli è fatta, in via diretta, dall'art. 2409-decies (azione sociale di
responsabilità). Si afferma dunque, al primo comma, che l'azione di responsabilità contro i
consiglieri di gestione è promossa dalla società o dai soci, ai sensi degli articoli 2393 e 2393bis.
La particolarità del sistema dualistico risiede tuttavia nel fatto che legittimato all'azione è
anche il consiglio di sorveglianza.
È quindi (anche) legittimato a rinunziare all'azione di responsabilità o a transigerla purché:
- la rinunzia o la transazione siano approvate dalla maggioranza assoluta dei componenti del
consiglio di sorveglianza;
- non si opponga la percentuale di soci indicata nell'ultimo comma dell'art. 2393, e, dunque,
almeno il quinto del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio, almeno un ventesimo del capitale sociale, ovvero la misura prevista nello statuto per
l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità ai sensi dei commi primo e secondo dell'articolo
2393-bis.
Ancorché sia intervenuta la rinuncia all'azione da parte della società o del consiglio di
sorveglianza, resta ferma, tuttavia, la possibilità di esercitare le azioni di cui agli artt. 2393bis, 2394 e 2394-bis (riferiti, rispettivamente, all'azione dei soci, dei creditori sociali e degli
organi fallimentari).
Il rinvio all'art. 2395, contenuto nel successivo art. 2409-undecies, consente infine al singolo
socio ovvero al terzo, direttamente danneggiato dall'attività dolosa o colposa del consigliere di
gestione, di agire nei suoi confronti per ottenere il risarcimento del danno.
... e nel sistema monistico
Il sistema monistico si avvicina, per alcuni aspetti, al sistema tradizionale italiano. Non a caso
si rendono applicabili, in quanto perfettamente compatibili, le disposizioni che regolano le
responsabilità degli amministratori. L'art. 2409-noviesdecies rinvia così agli artt. 2392 e
seguenti.
Occorre tuttavia tenere presente che appartengono al consiglio di amministrazione anche i
membri del comitato per il controllo. E che, comunque, un terzo dei membri del consiglio di
amministrazione deve possedere i requisiti di indipendenza previsti dall'a rt. 2399, primo
comma.
Di ciò non potrà non tenersene conto, imponendosi in via statutaria di differenziare il regime di
responsabilità degli indipendenti rispetto a quello richiesto per gli altri amministratori.
Natura della responsabilità
La responsabilità dell'amministratore verso la società è di indiscussa fonte contrattuale. Si
fonda cioè su un inadempimento specifico, che l'assemblea può imputargli a seguito di una
violazione di un obbligo previsto dalla legge.
L'onere probatorio è semplice per l'assemblea (si tratta, infatti, di provare l'inadempimento).
Più arduo per gli amministratori, chiamati a portare in loro discolpa i fatti che possano
escludere la loro responsabilità.
L'impostazione di fondo è dunque diversa dall'azione dei creditori sociali, per cui la
responsabilità dell'amministratore deriva da un fatto illecito. Solo in tal caso trova applicazione
la regola imposta dall'art. 2043 cc. Qui si tratta di dimostrare il danno ingiusto patito dai
creditori sociali, derivante dall'atto pregiudizievole sul patrimonio sociale, fonte di garanzia
suprema per i creditori sociali.
La responsabilità degli amministratori verso i creditori, di chiara origine extracontrattuale, si
pone in maniera differente rispetto a quella contemplata dall'art. 2392 cc. In tal caso, l'attore
sarà chiamato a dimostrare la colpa dell'amministratore se vuole ottenerne la condanna, e,
quindi, la tutela delle proprie ragioni di credito. Qui si ha riguardo non alla lesione dei doveri
imposti dalla legge e dallo statuto, ma all'inosservanza degli obblighi inerenti alla
conservazione del patrimonio sociale.
Responsabilità verso i creditori sociali
La disciplina relativa alla responsabilità verso i creditori sociali resiste alla riforma. Il
riferimento è dunque ´all'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità
del patrimonio sociale'. Unico intervento, formale, è quello che sottrae l'attuale terzo comma
dall'art. 2394 cc, trasposto nell'articolo 2394-bis, interessante le azioni di responsabilità nelle
procedure concorsuali. L'esercizio dell'azione de qua è subordinata all'insufficienza del
patrimonio per il soddisfacimento dei creditori sociali. Resta immutato, a tal fine, quanto
prescritto attualmente all'interno del secondo comma dell'art. 2394 cc: ´l'azione può essere
proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei
loro crediti'. I creditori non potranno invece intentare alcuna azione se il patrimonio, ancorché
diminuito, risulti capiente, o, medio temp ore, sia stato reintegrato. Potrebbe accadere, in
sostanza, che, se l'azione sociale di responsabilità abbia sortito gli effetti voluti, ovvero la
reintegrazione patrimoniale, tanto nel caso di condanna degli amministratori, quanto in quello
in cui la società abbia transatto con questi ultimi, i creditori non potranno più dirsi legittimati
all'esercizio dell'azione che loro compete.
La giurisprudenza ha tentato, nel tempo, di dare un significato a quanto si intende per
insufficienza del patrimonio. Deve trattarsi, in sostanza, di una situazione di sbilancio
patrimoniale, che importa una differenza negativa tra passività ed attività. Situazione che,
tuttavia, non necessariamente coincide con l'insolvenza. È noto infatti che uno sbilancio
patrimoniale può rappresentare una fase transeunte della vita dell'impresa, che non importa a
tutti i costi l'impossibilità di eseguire con regolarità i pagamenti. È fuori dubbio, tuttavia, che
l'insufficienza patrimoniale è spesso situazione prodromica allo stato di insolvenza. L'esercizio
dell'azione di specie, non a caso, ha sempre trovato applicazione all'interno del fallimento, a
impulso del curatore. Il termine di prescrizione è regolato dall'art. 2949 cc, che, dopo aver
fissato in cinque anni il termine di prescrizione per i rapporti che derivano da rapporti sociali,
specifica, al secondo comma, che ´nello stesso termine si prescrive l'azione di responsabilità
che spetta ai creditori sociali verso gli amministratori nei casi stabiliti dalla legge'. Il dies a quo
da cui decorre il termine di prescrizione coincide con il momento in cui risulta insufficiente il
patrimonio sociale, che si manifesta, verso l'esterno, ai creditori. Non quindi, dal momento in
cui si verifica lo sbilancio patrimoniale. Giurisprudenza pacifica: ex multis, Cass., sez. un. 6
ottobre 1981, n. 5241, in Giur. comm., 1982, II, 768. Si stabilisce, infine, che la rinunzia
all'azione da parte della società non impedisce l'esercizio dell'azione da parte dei creditori
sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l'azione
revocatoria quando ne ricorrano i presupposti (art. 2394, quarto comma). Ciò in quanto se la
società abbia transatto, e il patrimonio sia stato reintegrato, i creditori non potranno più
esercitare l'azione che loro compete. Non potranno dunque eccepire alcunché, una volta che il
danno patrimoniale sia stato ristorato. L'unico rimedio, nel caso in cui l'ammontare della
transazione si sia rivelato inidoneo a coprire il pregiudizio patrimoniale, è l'impugnazione
mediante l'azione revocatoria. Un vivace dibattito ha animato, a tutt'oggi, l'azione dei creditori
sociali. Cambiano difatti considerevolmente gli effetti se la si considera come:
- un'azione diretta dei creditori sociali, ovvero
- la stessa azione sociale di responsabilità, qui esercitata, in via surrogatoria, dai creditori.
Nella prima ipotesi, infatti, l'azione avvantaggia i creditori, ai quali spetterà il risarcimento del
danno, mentre nel secondo ai creditori non competerà alcunché, posto che i frutti derivanti
dall'azione andranno a esclusivo vantaggio della società. I creditori ne riceveranno dunque un
beneficio, ma solo di riflesso, per via dell'incremento del patrimonio sociale.
La questione perde tuttavia di significato pratico se si pensa che l'azione, nel fallimento, e,
quindi, nella stragrande maggioranza dei casi, compete al curatore. In tal caso, l'azione è
dunque fatta valere per incrementare la massa passiva fallimentare.
In dottrina non si rilevano, sul punto, uniformità di vedute. Taluni accolgono la tesi
dell'autonomia dell'azione: rilievi decisivi, in tal caso:
- l'art. 2394, primo comma, a mente del quale gli amministratori rispondono verso i creditori
sociali, mentre la responsabilità sarebbe pur sempre, se si trattasse di esercizio surrogatorio
dell'azione sociale, una responsabilità verso la società;
- l'art. 2394, quarto comma, per il quale la rinuncia dell'azione da parte della società non
impedisce l'esercizio dell'azione da parte dei creditori sociali: per effetto della rinuncia, l'azione
sociale di responsabilità si estingue; i creditori non potrebbero esercitarla se fosse loro
conosciuta, anziché un'azione autonoma, una mera legittimazione surrogatoria all'esercizio
dell'azione sociale di responsabilità;
- l'artt. 2494-bis e 146 legge fall., i quali consentono al curatore, in caso di fallimento della
società, di agire contro gli amministratori ´a norma degli artt. 2393 e 2394 cc, confermando
così la persistenza, durante la procedura concorsuale, della duplicità di azioni: contrattuale
l'una, extracontrattuale l'altra; duplice possibilità di azione che non avrebbe alcun senso in
capo al curatore fallimentare se si trattasse dell'esercizio diretto e di quello surrogatorio di una
medesima azione (F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale, vol.
XXIX, Cedam, Padova, 2003, 284). Altri, sposando la natura contrattuale della responsabilità
degli amministratori, lo fanno argomentando che l'azione in questione presenta le stesse
caratteristiche che contraddistinguono la responsabilità contrattuale, infatti:
- deriva da una preesistente obbligazione (anche se posta dalla legge) e non dal mero
compimento di un atto dannoso;
- viene in considerazione perché vi è violazione di un precedente vincolo (derivi esso
dall'autonomia contrattuale o dalla legge) e come mezzo succedaneo per ristabilirne la forza
effettuale (cioè per soddisfare l'interesse dedotto in obbligazione), non già quale semplice
mezzo di accollo di un danno ingiusto (F. Bonelli, op. cit., p. 303).
Azioni individuali di responsabilità
Quanto previsto dall'attuale art. 2395 cc, interessante le azioni individuali del socio e del terzo,
non è stato oggetto di modifiche sostanziali. L'unico intervento riformatore riguarda il secondo
comma, per cui si specifica che ´l'azione può essere esercitata entro cinque anni dal
compimento dell'atto che ha pregiudicato il socio o il terzo'.
Tutto ruota (ancora) attorno al pregiudizio, di natura patrimoniale, ´direttamente' sofferto dal
socio o dal terzo dall'atto di disposizione dell'amministratore. È in ciò che va letta la distinzione
tra l'azione di specie e quelle a impulso della maggioranza, della minoranza dei soci ovvero,
ove sussistano i presupposti, dei creditori. La causa sottostante di queste risiede nel danno
arrecato al patrimonio della società, che i singoli soci e il terzo subiscono soltanto di riflesso.
Presupposto indefettibile per esperire l'azione ex art. 2395 cc, interessante gli atti colposi o
dolosi degli amministratori, è che gli stessi abbiano inciso, per l'appunto, in via diretta sul
patrimonio del socio e del terzo. Uno dei casi ricorrenti, in ordine al quale la giurisprudenza
non ha mancato di far ascoltare la propria voce, è quello inerente all'acquisto delle azioni a
prezzo eccessivo. In tale ipotesi l'acquirente delle azioni, indotto dalle risultanze di un bilancio
falso, può senza dubbio esperire l'azione individuale di responsabilità, colpendo
l'amministratore a titolo di risarcimento danni (App. Milano, 8/7/1997, in Giur. comm., 1998,
II, p. 532). In modo eguale si è affermata l'applicazione dell'art. 2395 cc nei confronti dei
liquidatori di società cooperative, che avevano stornato, a copertura del debito di un socio
inadempiente, il versamento effettuato da un altro socio per il pagamento di una propria rata
del mutuo stipulato dalla stessa cooperativa, ma già frazionato nei rapporti interni fra gli
assegnatari degli alloggi (Cass. civ., 17/11/1982, n. 6154, in Giur. comm., 1983, II, p. 873).
Esempi simili, senza alcuna pretesa di completezza, sono comunque riferibili a fatti di
risultanze di bilancio artefatte. È il caso dell'amministratore che richiede alla banca un fido, o
che induce a contrattare un importante fornitore con la società, non indicando al passivo
l'esposizione debitoria complessiva. Si ricorda infine il caso dell'amministratore che, una volta
ricevute dai soci le somme dovute per la sottoscrizione di aumento del capitale sociale, intesti
a se stesso le azioni sottoscritte. È destinata a rimanere isolata la posizione di chi, sulla scorta
dell'interpretazione letterale da darsi all'avverbio ´direttamente', intende riferire la
responsabilità dell'amministratore alla sola sfera individuale del terzo o del socio danneggiato.
Pertanto, occorrerà guardare, concorde la dottrina e la giurisprudenza dominante, agli abusi
dell'amministratore derivanti dalla gestione sociale. Si richiede inoltre la sussistenza di un
preciso nesso causale tra condotta ed evento lesivo (per cui si impone all'attore di fornire le
prove che la condotta degli amministratori lo ha indotto a compiere un atto di disposizione del
proprio patrimonio che altrimenti si sarebbe astenuto dal compiere, se gli amministratori non
avessero tenuto quel comportamento colposo o doloso: trib. Milano, 21/4/ 1986). Quanto alla
natura della responsabilità, è ormai assodato che la stessa è da identificarsi con quella
extracontrattuale, per cui sorge in capo al socio al terzo l'onere di provare il dolo o la colpa
degli amministratori. Non manca tuttavia chi ha sostenuto la tesi contraria, per cui si afferma
la natura contrattuale, allorquando la stessa abbia origine dall'inadempimento di obblighi
preesistenti che l'atto costitutivo o la legge impongono all'amministratore per il corretto
esercizio delle sue funzioni. Unico intervento riformatore è quello contenuto nel secondo
comma dell'art. 2395 cc, per cui ´l'azione può essere esercitata entro cinque anni dal
compimento dell'atto che ha pregiudicato il socio o il terzo'. Tale soluzione non sembra
pertanto accogliere le indicazioni offerte dalla giurisprudenza, per cui ´la prescrizione
quinquennale decorre da quando il socio ha avuto concreta percezione dell'effettiva esistenza e
gravità del danno, o che comunque avrebbe potuto averla usando l'ordinaria diligenza' (trib.
Milano, 21/10/1999; Cass., 9/5/2000, n. 5913). Ciò per evitare un eccessivo affievolimento
della tutela riservata al danneggiato, nel caso in cui tra il fatto e il danno trascorra un lasso di
tempo superiore ai cinque anni. Discostandosi dunque dall'indicato orientamento, per la
disposizione di riforma occorre riferirsi a un momento antecedente a quello dell'effettiva
insorgenza del danno.
Azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali
La disposizione interessante le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, contenuta
nell'art. 2394-bis, assomma in sé alcune norme contenute in leggi speciali. Si afferma infatti
che ´in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria
le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli spettano al curatore del fallimento, al
commissario liquidatore e al commissario straordinario'. A ben guardare, dunque, si tratta di
ciò che prevedono gli artt. 146 e 206 della legge fallimentare. L'art. 146 legge fall. afferma che
l'azione di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e i liquidatori, a
norma degli artt. 2393 e 2394 cc è esercitata dal curatore. In modo analogo, nella liquidazione
coatta amministrativa, l'art. 206 dispone che, l'azione contro gli amministratori e i componenti
degli organi di controllo, è esercitata dal commissario liquidatore. Per la disciplina
dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (dlgs 8 luglio 1999, n. 270),
meglio nota come Prodi-bis, l'art. 36 stabilisce che ´si applicano alla procedura di
amministrazione straordinaria, in quanto compatibili, le disposizioni sulla liquidazione coatta
amministrativa, sostituito al commissario liquidatore il commissario straordinario'. Si tratta
dunque di un rinvio all'art. 206 legge fall., con attribuzione al commissario straordinario della
legittimazione all'esercizio delle azioni ex art. 2393 e 2394. La disposizione dettata nell'attuale
art. 2394, terzo comma, per cui ´in caso di fallimento o di l.c.a. della società, l'azione spetta al
curatore del fallimento o al commissario liquidatore', viene sviluppata dunque all'interno di un
autonomo articolo.
Il diritto concorsuale, come noto, tende alla reintegrazione del patrimonio, e, pertanto,
l'articolo non può che riferirsi alle azioni che abbiano a oggetto atti di disposizioni che
importino un pregiudizio all'interesse della collettività. La curatela potrà dunque far valere tutte
le azioni sociali di responsabilità. Restano escluse invece dalla disposizione le azioni individuali
di cui all'art. 2395, interessante gli atti colposi o dolosi degli amministratori, che abbiano inciso
in via diretta sul patrimonio del singolo.
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