Cinema e ricerca etnografica

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Note di lettura da
Paul Henley
Film-making and Ethnographic Research, in Jon Prosser (edr.), Image-based Research. A
Sourcebook for Qualitative Researchers, London and New York, RoutledgeFalmer, 2003 (ed. or.
1998), pp. 42-59.
Cinema e ricerca etnografica
Abstract
Fino agli anni ’50 la maggior parte degli etnografi considerava il film solo un mezzo di
documentazione obiettiva. Il cinema (il filmare) nella ricerca etnografica restava quindi separato dal
lavoro generale di documentazione, spesso definito convenzionalmente “il trattamento creativo
della realtà”. La sintesi seguente fra documentazione e approcci documentari è stata resa possibile
da numerose innovazioni tecniche e stilistiche, così come ad una crescente mole di produzioni. Ma
solo di recente essa si è adeguata ai paradigmi dominanti in antropologia, rafforzata da un’ulteriore
affinamento tecnico, aprendosi infine ad un autentico avvicinamento fra etnografia scritta ed
etnografia filmica.
Rivendicare il reale: lo status del film etnografico
Sin da quando le macchine da presa cinematografiche divennero accessibili, quasi un secolo fa,
esse ebbero ferventi ammiratori fra gli etnografi. In ogni modo, da quei primi tempi, le idee sul
ruolo preciso delle immagini in movimento nella ricerca etnografica sono cambiate di molto, sia per
gli esiti dello sviluppo tecnico, sia, in modo più importante, a causa dei cambiamenti nei paradigmi
teorici dell’antropologia sociale e culturale. Eppure, lungo tutta la storia del film etnografico, certi
problemi sono stati oggetto di un dibattito ricorrente. Fra questi, uno dei più centrali è lo status della
“istanza sulla realtà” che è implicito in un documento filmico etnografico (Winston 1995).
Basilare in questo problema è l’ambiguità ontologica abilmente descritta da Marcus Banks
(1995):“mentre il film, il video e la fotografia danno corpo ad una relazione indessicale con ciò che
rappresentano, essi danno nondimeno rappresentazioni della realtà, non codificazioni dirette di
essa”. Oppure, detto in modo meno elegante, sebbene quella particolare rappresentazione sia basata
su una registrazione chimica o magnetica delle caratteristiche fisiche oggettive delle cose
rappresentate, la loro realizzazione è influenzata da fattori sia soggettivi sia culturali. Infatti,
secondo alcuni autori perfino l’obiettività stessa dell’immagine fisica è in discussione: dopo tutto,
un fotogramma non è una riproduzione letterale, ma solo un oggetto fisico bidimensionale che
pretende di rappresentare una realtà tridimensionale, e che – se si deve credere a tutti i racconti dei
viaggiatori sulle prime reazioni dei popoli primitivi – non richiede molto tempo per essere decifrata.
Si è anche asserito che la struttura della normale macchina da presa e delle sue lenti riproduce il
mondo secondo una prospettiva convenzionale basata su un singolo e unificato punto di vista.
Questa non è una prospettiva universale, (p. 43) né una obiettiva, è stato sostenuto, ma piuttosto il
prodotto di una certa tradizione culturale nata in Europa nel Rinascimento (Comolli 1985: 43,
Morris 1994: 15, 27).
Ci sono ovviamente anche considerazioni più prosaiche sulle circostanze per cui il filmare si
porta dietro e impone limiti palesi all’obiettività delle immagini cinematografiche. Ogni produzione
di film etnografico esige dall’autore una serie di scelte su quando, dove, come e per quanto tempo
filmare, dove collocare la cinepresa, come fare l’inquadratura, quanto tempo farla durare. Tutte
queste decisioni, e molte altre riguardanti la selezione dei materiali e le sedute di montaggio, sono
inevitabilmente influenzate da condizionamenti culturali o da idiosincrasie personali di genere, di
età, di relazione col soggetto, di posizioni politiche, di gusto estetico ecc.
Alcuni etnografi cineasti hanno affrontato queste contingenze produttive mettendo a punto
procedure tendenti a minimizzare la corruzione del film come registrazione attendibile della realtà.
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Tipicamente esse contemplano l’elaborazione di regole per rendere massima la cancellazione della
presenza fisica del cineasta durante le riprese (così che la vita si svolga “come se la cinepresa non
fosse lì”) e per minimizzare la sua impronta autoriale nelle riprese (nessuna drammatizzazione
stilistica). Così assume troppa enfasi un problema di tipicità, che sarà assicurata con strategie di
casualità e /o con adeguati ragguagli sulle circostanze di produzione forniti in un testo di
accompagnamento. Per gli assertori di questo approccio, la cinepresa deve potersi comparare agli
strumenti delle scienze naturali – la cinepresa come telescopio, la cinepresa come microscopio –
neutrali, impersonali, distaccati, distanti (Sorensen e Jablonko 1995; Fuchs 1988).
Ma per altri, tutte queste strategie per raggiungere l’obiettività della immagine cinematografica
sono votate al fallimento. Anche se ciò fosse possibile, mediante artifici sufficientemente ingegnosi
capaci di produrre sequenze definibili come registrazioni obiettive di un evento, rimarrebbe ancora
il problema del significato di tale evento, in primo luogo per i protagonisti, in secondo luogo per
l’etnografo cineasta. Questo significato, essi direbbero, può essere definito solo grazie ad un’attiva
interazione del cineasta con i protagonisti del film e ciò comporta la presenza di una certa misura di
soggettività. Per gli etnografi cineasti di questo orientamento, la cinepresa funziona come un
catalizzatore, provocando eventi, situazioni e forme di contatto che sono rivelate con precisione a
causa della loro atipicità. Qualcuno ha anche sostenuto che la cinepresa può agire come il medium
di una trance, in modo tale che il cineasta diventi completamente coinvolto nelle vite dei
protagonisti del film e raggiunga un livello di comprensione inaccessibile a quelli che persistono
nella neutralità e nella distanza (Rouch 1995: 89-9), La teoria implicita della conoscenza che
sottende a questo approccio è che la vera realtà sociale non si trova nei dettagli superficiali
osservabili della vita quotidiana, ma piuttosto nelle sottostanti relazioni, sentimenti e attitudini che
li sostengono. Queste, si afferma, diventano visibili solo in circostanze straordinarie. Il corretto
processo di costruzione di un film serve a creare queste “epifanie” rivelatrici (Denzin 1989: 15-18).
Se questi significati sottostanti non emergono durante le riprese, essi si paleseranno nella fase del
montaggio, laddove la giustapposizione delle sequenze darà ad esse un nuovo significato.
In effetti, questi due approcci così differenti non sono molto più che la manifestazione nello
specifico dominio del film etnografico della vecchia contesa nelle scienze sociali fra l’approccio
positivo, associato all’aspirazione a sviluppare una scienza naturale della società basata sulle
osservazioni controllate di un osservatore distaccato, e l’insieme dei vari approcci ermeneuticointerpretativi in cui a società è concepita come un testo o un linguaggio il cui significato deve essere
spiegato da un analista che (p. 44) ha acquisito adeguata “competenza comunicativa” nelle basilari
norme e pratiche culturali. In antropologia, almeno dalla fine dell’ultimo secolo, è comunemente
accettato che tale competenza si possa acquisire solo attraverso il coinvolgimento personale con i
protagonisti dello studio nel corso del lavoro di campo (Giddens 1976, Hastrup e Hervik 1994).
Malgrado le loro differenze i due approcci, il positivo e l’interpretativo, non sono, nella pratica
reale, reciprocamente esclusivi, almeno non in antropologia. Sebbene in questi ultimi anni
l’approccio positivo sia stato in declino, mentre quello interpretativo sia diventato più influente
(Marcus e Fischer 1986).
Questo spostamento di fortuna si può rintracciare anche nei recenti sviluppi del cinema
etnografico. Uno degli indicatori più significativi è il mutamento di attitudini verso le convenzioni
narrative. Per quelli che adottano un approccio positivo, la produzione di un film deve mirare solo
alla documentazione, ad esempio: la collezione dei dati visuali nel modo più obiettivo possibile. Il
materiale girato deve essere in seguito rielaborato in modo che sia usato come prova in supporto di
un ragionamento verbale. Esso tenderà ad essere sempre fatto da fonte esterna (cioè: mai svolto
direttamente dai protagonisti stessi) e sarà presentato sotto forma di voce fuori campo. Ma nessuna
rielaborazione dovrebbe essere strettamente controllata, apertamente rivolta e subordinata alle
esigenze del ragionamento verbale.
Invece gli etnologi cineasti vicini all’approccio interpretativo sono inclini a strutturare i loro film
introno a una linea narrativa che emerge dall’azione stessa poiché in tal modo essi hanno la
possibilità di comunicare il senso degli eventi filmati dei protagonisti. Inoltre essi spesso si
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preparano a montare le linee narrative seguendo delle convenzioni già ben presenti nel cinema
documentario. (Nichols 1983, de Bromhead 1996). Tali manipolazioni della ripresa filmica
farebbero gridare al sacrilegio quelli che pensano che la cinepresa sia uno strumento obiettivo di
registrazione. Ma gli etnografi cineasti che attingono alle convenzioni narrative del documentario
sanno che essi non distorcono tanto il materiale, quanto usano il medium al meglio delle sue
possibilità per evocare la loro comprensione delle situazioni descritte. In tal senso, essi sostengono,
non c’è differenza fra gli autori delle monografie etnografiche che, è sempre più riconosciuto, fanno
costantemente appello alle loro capacità di scrittura e alle convenzioni della comunicazione testuale
per presentare le loro conoscenze (Hammersley e Atkinson 1995: 239-262).
Documentazione versus documentario
L’immagine filmica in movimento fu inizialmente concepita solo come mezzo per ritenere una
supposta immagine obiettiva del mondo in vista di una successiva dettagliata analisi. Per la maggior
parte del secolo in cui le immagini filmiche sono state usate nella ricerca etnografica, il campo è
stato dominato da quelli che hanno operato in questa prospettiva. Questo è stato di certo il proposito
di pionieri come Regnault in Francia, Haddon in Gran Bretagna, e Boas in Nord America (de
Brigard 1995, Long e Laughreen 1993, Morris 1994: 55-66). Esso fu anche il primario obiettivo di
Margaret Mead e Gregory Bateson (primi discepoli di Boas e Haddon rispettivamente), i cui filmati
in 16 mm e le cui foto formato Leica a Bali nel 1936-9 rappresentano quello che è di gran lunga il
più significativo esempio di uso di media visivi nella ricerca etnografica della prima parte del XX
secolo (Mead e Bateson 1942: 49-54). Nessuno dei primi tre pionieri fece mai il montaggio dei loro
materiali in film strutturati sul piano narrativo. Sebbene Mead abbia montato il materiale girato a
Bali in una forma filmica coerente (p. 45), ciò accadde solo quindici anni dopo e anche allora solo
per un uso strettamente didattico, per poter dare prova visiva a una voce fuori campo che procedeva
nell’analisi.
Di conseguenza il primo uso del film da parte degli etnografi restò del tutto separato non solo da
tutti i principali sviluppi nel campo del cinema documentario che si verificrono prima, durante e
subito dopo la II guerra mondiale (Barnouw 1983), ma anche dal più specialistico genere del
“documentario etnografico”, la cui nascita si fa convenzionalmente risalire al lavoro di Robert
Flaherty presso gli Inuit negli anni ’20. Infatti, fu solo negli anni ’50 che i cineasti, di concerto col
mondo universitario, iniziarono a fare film che combinavano un intento accademico di
documentazione etnografica con i dispositivi narrativi del cinema documentario in senso ampio.
Questa separazione fra gli interessati alla documentazione e gli interessati al documentario è
stata gravata e intersecata da un’altra, se possibile ancora più significativa, non solo in rapporto al
filmare, ma anche all’attività etnografica in genere. Si tratta della differenza fra coloro che
intendono rappresentare il mondo così com’è e quelli il cui scopo è fare una “etnografia di
salvataggio”, ad esempio: la registrazione di modi di vita “tradizionali” al limite dell’estinzione a
causa del contatto col più ampio universo sociale. Quest’ultima tendenza ha dato luogo a volte a
forme di ricostruzione in scala o di riattivazione di modi di vita prima che influenze esterne si
facessero sentire. Ma spesso questa attitudine testamentaria colpisce il cinema etnografico in modi
difficili da cogliere: come ad esempio in quelle fasi di produzione o di montaggio in cui le prove
evidenti del contatto sono eliminate, mentre il punto di vista dei tradizionalisti (spesso i protagonisti
anziani del film) è favorito a discapito di quelli che auspicano il mutamento. I concreti temi scelti
come materiale soggettivo del film, le specifiche comunità, i dispositivi narrativi – tutto congiura a
enfatizzare una certa nozione idealizzata del passato a spese della realtà del presente. Comunque
negli anni più prossimi è cresciuto il sospetto verso tutto ciò che ricordi “l’etnografia di
salvataggio”, sia nei film che nei saggi scritti e nelle collezioni museali. C’è un crescente e
corrispondente interesse a mostrare i modi attraverso cui comunità un tempo largamente autonome
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abbiano sviluppato forme culturali ibride in modo da realizzare un’integrazione nel sistema sociale
economico mondiale (Clifford 1986, Morris 1994).
Il film di Haddon e di Boas erano motivati da un vivo impulso di salvataggio etnografico ed
erano basati sulla riattivazione di eventi cerimoniali abbandonati, eseguiti dietro richiesta dei
cineasti. Nel caso di Mead e Bateson, d’altro canto, i cineasti si erano proposti piuttosto di
minimizzare gli effetti della presenza della cinepresa con l’uso di un mirino a periscopio e di altre
tecniche. I soli eventi che essi allestirono appositamente per la ripresa furono alcune performance
teatrali che furono eseguite forzatamente alla luce del giorno, dal momento che erano sprovvisti del
parco luci per le riprese notturne (Mead e Bateson 1942: 49, de Brigard: 27). Ma in tutto il lavoro di
Mead si avverte una grande sensibilità per l’etnografia di salvataggio, come risulta evidente nella
sua celebre introduzione al fondamentale Principles of Visual Anthropology (1995: 9-10).
Forse la più elaborata ricostruzione etnografica è The Netslik Eskimo, una serie di nove film sugli
Inuit delle coste nord-occidentali della Baia di Hudson. Girato nel 1962 sotto la direzione
antropologica di Asen Balikci, un ex-allievo di Mead, questi film trattano per lo più delle pratiche
migratorie di sussistenza così come erano quarant’anni prima, quando non era ancora arrivato il
fucile, che avrebbe mutato grandemente le strategie di caccia, e quando non era ancora arrivata la
missione cattolica, che avrebbe modificato i modelli di insediamento. Inoltre, sebbene Balikci
volesse espressamente rifuggire dal “modello del classico documentario con la sua struttura
narrativa lineare, la sua trama evolutiva e le sue ferme asserzioni finali” (Balikci 1989: 6) (p. 46), le
riprese e il montaggio del film aderirono nondimeno a determinati codici del film documentario.
Ciò si nota in particolare negli ultimi film della serie, girati dall’eccellente operatore Robert Young.
Poi, i film sono costruiti intorno a Itimanguerk, un uomo di cinquantacinque anni che, “nella
tradizione di Flaherty”, Balikci ha scelto come “attore principale”, collegando la maggior parte
delle attività comunitarie a lui e alla sua piccola famiglia (Balicki 1995: 187). In tal modo, sebbene
il film fosse concepito all’origine come un documento neutro, esso acquistò nel corso della concreta
realizzazione molti dei tratti della forma documentaria.
La sintesi più ricercata fra documentazione e documentario nel cinema etnografico comparve più
o meno allo stesso tempo in varie parti del mondo negli anni ’50. Forse il primo a intraprendere
questa strada in modo sistematico fu il cineasta francese Jean Rouch. A partire dagli anni ’40 egli ha
realizzato più di cento film etnografici, basati per lo più sulle sue ricerche in Africa occidentale.
Contrariamente alla maggior parte dei cineasti etnografi che l’avevano preceduto, egli non era
spaventato dall’uso degli artifici di montaggio del documentario classico e anche, all’occorrenza,
dal fare film che egli stesso definiva “finzioni etnografiche”. Questi erano sviluppati in
collaborazione con i protagonisti e recitati al confine non solo fra fatto e finzione e fra osservatore e
osservato, ma anche al confine ambiguo fra tradizione e modernità (Stoller 1992).
Rouch fu molto influenzato da Flaherty e Dziga Vertov, il cineasta polacco che lavorò in Unione
Sovietica far le due guerre. Fu Vertov a elaborare per primo l’idea della kinopravda, più tardi
assimilata nella lingua francese come cinéma verité. Il significato di questa definizione è
notoriamente sfuggente ed oggi è spesso usata in riferimento allo stile documentario detto “fly-onthe-wall” (mosca sul muro), in cui l’interferenza del cineasta nel film è minima. Il presupposto di
tale scelta è che minimizzando la mediazione del cineasta questo tipo di film produca una fedele
riproduzione della realtà. Ma nella sua accezione originale kinopravda ha un significato del tutto
differente: si riferisce non alla realtà di ogni giorno ma piuttosto alla particolare verità del cinema,
che è completamente diversa e, implicitamente, ben più profonda. Invece delle osservazioni da un
punto fisso, come è normale nell’occhio umano, Vertov crede che la cinepresa debba essere in
costante movimento, entrando dove vuole, “cogliendo al vita sul fatto”.
Rouch ha definito Flaherty e Vertov come i “precursori ispirati” del cinema etnografico “è a
questi due cineasti che dobbiamo tutto quello che cerchiamo di fare oggi” (Rouch 1995: 81-84).
Tuttavia l’esatta natura di ciò che lo stesso Rouch deve ai due autori, le cui opere sono così diverse
fra loro, non può essere facilmente identificata in una certa caratteristica del loro stile. C’è infatti un
abisso fra i film di Rouch che, anche se pervasi da un certo grado di fiction, sono realisti nello
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stretto senso del termine e i tagli di montaggio surrealisti del più celebre film di Vertov, L’uomo con
la macchina da presa. Il debito sembra risiedere piuttosto al livello dell’approccio e dell’attitudine
generale: con Flaherty Rouch condivide un impegno di attiva partecipazione con i protagonisti nella
creazione del film, fino al punto di mettere mano alla invenzione (fictionalization) delle loro vite;
con Vertov egli condivide la fede nella cinepresa come mezzo per capire a fondo oltre i tratti
superficiali della realtà quotidiana osservabile. A queste caratteristiche Rouch ha aggiunto una
dimensione ulteriore, cioè l’uso dell’improvvisazione e della fantasia come mezzo per esplorare la
vita della gente, un metodo che si armonizza col suo interesse per la trance e la possessione in
Africa occidentale (Loizos 1993: 45-49).
Non molto tempo dopo che Rouch aveva iniziato a importare nella documentazione etnografica
gli stilemi del documentario, sintesi simili erano sperimentate da altri cineasti in (p. 47) Nord
America e in Australia. Particolarmente importanti fra questi sono stati Ian Dunlop e Roger Sandall,
entrambi all’inizio coinvolti in progetti finanziati da agenzie governative. Furono chiamati a
documentare le tradizioni aborigene prima della loro scomparsa, e spesso a riattivarle. Ma in seguito
essi iniziarono a produrre film che erano documentari veri e propri sul modo in cui gli aborigeni
stavano continuando a sviluppare le loro identità culturali nel quadro dell’Australia moderna. Il film
di Sandall Camels and Pitjantjara (1969) è un buon esempio di questo indirizzo. Comunque anche
in questo tipo di lavoro ci sono spesso forti elementi di documentazione. Ciò è vero in particolare
nell’opera di Ian Dunlop, i cui film sono spesso di durata assai lunga. Vedi Towards Baruya
Manhood (1972), sulla iniziazione maschile negli altopiani della Nuova Guinea, e Djungguwam at
Gurka’wuy (1990), su una cerimonia aborigena di sepoltura secondaria. Questi film durano
rispettivamente 395 e 233 minuti e sono con ogni probabilità due fra i più lunghi documentari
etnografici mai girati.
I film sui Netslik furono in parte ispirati da una serie precedente sui boscimani “San”. Questi
film furono girati da John Marshall che andò per la prima volta nell’Africa meridionale nel 1951
ancora ragazzo, in accompagnamento dei suoi genitori in una spedizione etnografica in cui il suo
ruolo era quello di fare la documentazione cinematografica. Né Marshall né i genitori avevano
avuto una formazione antropologica, ma questi erano molti amici di Margaret Mead e, ispirati da
lei, avevano fortemente raccomandato al figlio di realizzare “un documento, non un film”. E ciò egli
fece negli anni seguenti, producendo più di 250 ore di materiale, girato in stile rigorosamente
osservazionale, ma con una vivacità e un senso di intimità dovute alla lunga coabitazione e
familiarità con i protagonisti. I primi film furono girati in bianco e nero e senza sonoro sincrono, ma
dalla fine degli anni ’50, Marshall ha girato a colori e in sincrono (Loizos 1993: 21-22).
Diversamente dalla serie sui Netslik, i film sui San di Marshall non comportarono forme consce
di ricostruzione. Ma il lavoro di Edwin Wilmsen, un antropologo specializzato sui popoli del
gruppo linguistico Khoisan (di cui i San fanno parte), suggerisce che se i film di Marshall si
considerano come una documentazione obiettiva della cose come stanno, essa sarebbe inattendibile.
I San e altri gruppi boscimani sono stati spesso rappresentati nella letteratura antropologica come
delle “finestre sul Pleistocene”, vale a dire come sopravvivenze rappresentative dello stadio delle
società di caccia e raccolta nella evoluzione sociale umana. Mentre, afferma Wilmsen, il modo di
vita dei San non è qualcosa che rimanda alla preistoria, ma bensì a un presente di marginalità ai
bordi del deserto del Kalahari, in cui sono stati spinti dall’invasione delle loro terre d’elezione,
prima da parte di popoli Bantu provenienti da nord e poi dagli europei. Dal momento che i primi
film di Marshall non dicono nulla su questo contesto sociale ed economico più ampio, essi aiutano a
diffondere l’illusione di primordialità nella letteratura antropologica (Wilmsen 1989).
C’è comunque una certa somiglianza fra i film sui Netslik e quelli sui San, poiché sebbene il
cineasta possa aver avuto la sincera intenzione di creare documenti filmici e non documentari, la
loro concreta realizzazione ha avuto un risultato che contemplava la maggior parte delle
caratteristiche del genere documentario. Il miglior esempio di questo esito è forse il più celebre film
di Marshall, The Hunters (1958). Come narrazione, esso si discosta poco dall’opera classica di
Flaherty, perché riguarda una lotta epica dell’uomo contro la natura (in questo caso una giraffa
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cacciata da uomini in pericolo di carestia armati solo di arco e frecce), c’è una sceneggiatura
realistica (quattro vere cacce alla giraffa sono state fuse in una, la troupe di ripresa su fuoristrada ha
seguito i cacciatori, abbondanti viveri e acqua sono stati usati e non dichiarati) e c’è una
caratterizzazione allegorica del protagonista principale. Questa manipolazione dei materiali girati ha
attirato le critiche (p. 48) sia degli antropologi che dei cineasti, ma esso ciononostante è stato uno
dei film etnografici che ha avuto più circolazione per almeno vent’anni dopo la sua uscita (Heider
1976: 31-32; Weinberger 1994: 8).
Nel montaggio dei suoi primi materiali Marshall collaborò con altri due cineasti che avrebbero
avuto grande importanza nel cinema etnografico. Uno era Robert Gardner, che avrebbe dato vita ad
una serie di celebri documentari, di cui forse i più conosciuti sono il primo, Dead Birds (1963), su
una forma di guerra ritualizzata negli altopiani occidentali della Nuova Guinea (adesso Irian Jaya),
e uno degli ultimi, Forest of Bliss (1985), una descrizione delle pratiche funerarie a Benares. Un
tema importante lega questi due film, e ricorre in molti degli altri, ed è la contemplazione della
mortalità. In questi film l’interesse etnografico per la documentazione in sé stessa è del tutto
trascurata in favore di una interpretazione metaforica e poetica che cerca il legame fra un particolare
fenomeno culturale e i tratti generali della condizione umana (Loizos 1993: 139-168).
L’altro collaboratore di Marshall fu Timothy Asch, con cui egli sviluppò il cosiddetto “eventosequenza” o “reportage” tecnico. Essi si persuasero che grazie ad una permanenza sul campo
prolungata gli antropologi avrebbero potuto individuare quali erano, in particolari eventi, gli aspetti
più significativi per i loro ospiti e ciò avrebbero dato loro le indicazioni più opportune su come
filmarli. Ciò significa che la rappresentazione di un evento può non coincidere con la durata
dell’evento stesso, e può includere tutte le sue fasi (preparatorie e successive). Teoricamente essa
dovrebbe comprendere tutto il materiale di contesto considerato significativo dai partecipanti. Se
esso non venisse incluso nel montaggio finale, dovrebbe essere fornito a parte in un testo di
accompagnamento. Tali sequenze potrebbero operare come film completi, oppure potrebbero essere
montate insieme in serie, per creare un film più lungo. Nel secondo caso il materiale richiederà
qualche manipolazione, ma le sequenze originarie dovranno essere conservate in archivio nella loro
forma originale (Asch, Marshall e Spier 1973, Marshall e de Brigard 1995).
Allo scopo di mettere in pratica queste idee sul filmare in sequenza, Asch collaborò da ultimo
con Napoleon Chagnon nella produzione di una serie di quaranta film di vario metraggio sugli
Yanomamo della Amazzonia venezuelana (Chagnon 1974: 260-266). Questi film introdussero
anche alcune innovazioni tecniche, come l’uso del sonoro sincrono e dei sottotitoli nel montaggio. I
due film più conosciuti di questa serie sono The Feast (1970), una cerimonia collettiva con cui due
gruppi in precedenza ostili suggellano un'alleanza politica, e The Ax Fight (1975), che descrive uno
stesso evento da tre diversi punti di vista: il girato con un commento in diretta di Chagnon, una
versione in montaggio cronologico basata sull’analisi dei rapporti e le strutture di parentela fra i
partecipanti, con diagrammi genealogici, e infine una versione montata in modo da esaltare la
dinamicità e la scioltezza dell’azione.
In un certo senso l’approccio detto “evento-sequenza”può essere inteso come un tentativo di
eludere la dicotomia fra l’atteggiamento positivistico e quello ermeneutico nelle scienze sociali.
D’altro canto la documentazione deve essere rigorosa e obiettiva: la cinepresa deve essere «ciò che
il telescopio era per l’astronomo o il microscopio era per il biologo» (Asch, Marshall e Spier 1973).
Però il rigore deve trovarsi all’interno dei termini culturali definiti dai protagonisti, in modo da
fornire nello stesso tempo una descrizione significativa di quegli eventi. Ma come ha notato Loizos,
ci sono diversi tipi di problemi che circondano questo approccio, collegati con l’assunzione
implicita che ci sia sempre qualcosa come un evento tipico che abbia un significato stabilito e
condiviso da tutti i suoi protagonisti. Inoltre, anche se il senso di (p. 49) alcuni processi tecnici
elementari può essere relativamente chiaro, il significato degli eventi sociali più complessi, sia per i
partecipanti sia per gli antropologi, è destinato in varia misura ad essere oggetto di contesa.
Nella sua attività successiva Asch divenne più scettico sull’obiettività della documentazione
filmica. Nel suo ultimo lavoro su un guaritore balinese condotto con sua moglie Patsy e con
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l’antropologa Linda Connor, malgrado mantenesse ferma l’importanza del lavoro di campo e della
competenza antropologica, egli nondimeno attribuì grande valore alla esegesi indigena e alla
collaborazione nella realizzazione dei film etnografici. Oltre al valore dei film etnografici nella
ricerca, Asch fu assai interessato al loro ruolo nell’insegnamento e alla loro interpretazione da parte
degli studenti o degli altri spettatori occidentali (Condor, Asch e Asch 1986, Loizos 1993: 39-42,
Asch e Asch 1995, Martinez 1995).
Come ha osservato Loizos, malgrado ora ci sia nel mondo accademico un diffuso scetticismo
sulla capacità dell’immagine filmica di produrre in alcun modo documentazione etnografica
oggettiva, è improbabile che questi studiosi si possano mai lamentare che tali documenti siano stati
prodotti. Così come uno storico che consideri dei documenti testuali, l’antropologo dovrebbe
pensare a questi film come a delle fonti di prove più che di fatti o, ancor meno, di verità. Ci si
dovrebbe sempre chiedere quali interessi stanno alla base del loro farsi, quanto siano completi,
quanti documenti attendibili della stessa fonte ci siano stati (Loizos 1993: 20). Le fotografie
antropologiche sono da lungo tempo sottoposte a questa forma di trattamento critico e si spera che
grazie alle nuove tecnologie per rendere più accessibili le cineteche, gli ostacoli ad un uguale
trattamento critico dei film etnografici siano rimossi.
Film e teoria antropologica
Con l’avanzare degli anni ‘60, gli sviluppi tecnologici portarono alla produzione di documentari
etnografici sempre più sofisticati: il sonoro sincrono e i sottotitoli diedero ai protagonisti una voce
che non avevano mai avuto, mentre gli apparecchi leggeri e il materiale sensibile a colori rapido
permise ai cineasti di lavorare in località remote col minimo intralcio per quelli che venivano
filmati. Alla luce delle possibilità che questi progressi tecnologici offrivano, usare l’immagine
filmica solo per documentare apparve sempre più limitativo. E infatti gli ultimi venticinque anni nel
cinema etnografico sono stati un periodo di grande innovazione sia tecnica che stilistica, oltre che di
grande aumento della produzione, in parte grazie alla televisione (Loizos 1993, Henley 1985,
Ginsburg 1995, Ichioka 1995).
Comunque la collocazione teorica del film in antropologia è rimasta problematica. La maggior
parte delle innovazioni nel film “etnografico” sono venute da figure marginali dell’antropologia
accademica o da chi era del tutto estraneo ad essa. Costoro, mentre rigettavano l’interpretazione
positivista del film come mezzo di documentazione oggettiva, tuttavia non esposero le loro idee in
termini tali da produrre un effetto istantaneo di rottura con i paradigmi teorici allora dominanti in
antropologia. Emblematici di queste nuove idee furono i tre articoli di Jean Rouch, Colin Young e
David MacDougall apparsi insieme nella prima edizione di Principles of Visual Anthropology. In
stridente contrasto con l’orientamento generale dei saggi della raccolta, questi autori sostenevano
che (p. 50) lungi dall’essere usata solo come un mezzo passivo di registrazione di dati visuali, la
cinepresa doveva essere uno strumento attivo e catalizzatore nel triangolo delle relazioni fra
cineasta, protagonisti del film e pubblico, e doveva essere adoperata per creare eventi significativi e
interpretazioni. Ciascuno di essi parlava da posizioni lievemente diverse all’interno della
costellazione di approcci collegati alla tradizione del cinéma-vérité: mentre Rouch enfatizzava il
ruolo del cineasta nel provocare l’azione del film, Young sottolineava l’importanza di mettere in
condizioni gli spettatori di costruire da soli i significati del film, e MacDougall affermava
l’importanza di coinvolgere i protagonisti nella costruzione del significato dell’opera. Ma le
differenze fra loro sono più una questione di sfumature che di qualità ed essi sono unanimi del loro
rifiuto dell’idea che un film possa essere obiettivo in alcun senso. Inoltre, più che limitare la
soggettività implicita nel film, essi la considerano come uno dei punti di forza del processo filmico
(Rouch 1975, MacDougall 1975, Young 1975, vedi anche MacDougall 1978).
Coloro che dentro l’accademia cercavano allora di teorizzare un ruolo per il film etnografico
erano più cauti. I primi tentativi sono rappresentati dagli scritti di Ruby (1975), Heider (1976) e, in
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seguito ma sulla stessa linea, da quelli di Rollwagen (1988). Sebbene ci fossero accenti diversi, tutti
condividevano un’idea di modello di cinema (pratica cinematografica o filmica) che fosse conforme
ai canoni della esposizione scritta. Di conseguenza, in vario modo, essi affermavano che per essere
legittimato antropologicamente un film si dovesse basare su una lunga permanenza sul campo e
sulla familiarità con l’approccio specificamente antropologico nello studio della cultura e della vita
sociale, che le ipotesi teoriche e le procedure metodologiche che impostavano il film dovessero
essere esplicitate, e che l’azione rappresentata nel film dovesse essere contestualizzata nel più
ampio quadro sociale ed economico di referenza. Se queste condizioni non erano soddisfatte nel
film stesso, allora dovevano essere inserite in un testo di accompagnamento.
Il problema di queste prescrizioni è che era molto difficile osservarle, data la natura del film
come medium di comunicazione. Il punto cruciale era il fondamentale rigetto che si creava fra le
ambizioni teoriche generali dell’antropologia e il tipo di conoscenza che un film etnografico poteva
offrire. Fino agli anni ’80, tutti i paradigmi teorici erano basati sui principi generali di astrazione e
di generalizzazione. Invece il film, per sua natura, è decisamente concreto e particolare. Esso è
grandemente efficace nel rappresentare gli aspetti performativi di una cultura definiti nel senso più
ampio – eventi politici, riti religiosi, diversi tipi di manifestazioni estetiche, aspetti simbolici della
vita quotidiana. Esso è inoltre assai efficace nel restituire delle idee su cosa tali esperienze
significano per coloro che vi sono implicati. Il film lo fa mostrando l’impatto emozionale e
psicologico che queste esperienze procurano ai protagonisti o dando ad essi la opportunità di dare la
loro interpretazione su di esse. Ma all’interno di un paradigma teorico generalizzante, questi aspetti
performativi o emozionali della vita sociale e culturale sono visti semplicemente come epifenomeni
di principi o strutture soggiacenti, mentre le interpretazioni fornite dai protagonisti stessi non sono
prese in considerazione per sé, ma sono invece considerate come parte del dato da spiegare.
Purtroppo ogni volta che si fa un tentativo per inserire in un film un qualche supporto esplicativo
teorico, in genere con la voce fuori campo, ne risulta sempre, quando va bene, un film assai sciatto,
in cui le immagini sono inondate di parole. Al peggio si otterrà l’effetto di sminuire le convinzioni e
i comportamenti dei protagonisti. Anche se il commento (p. 51) non dovesse sembrare pretenzioso
nel momento in cui è stilato, è molto facile che lo sia dopo, nulla invecchia così velocemente in un
documentario come il suo commento fuori campo. In tutti i casi tutto ciò di norma non ha esito,
poiché la colonna sonora di un film non ha spazio sufficiente per ospitare tutti i significati
sociologici degli eventi descritti.
Comunque, in seguito ai mutamenti recenti nel clima intellettuale dell’antropologia, si è ora più
facilmente portati a teorizzare per il cinema etnografico un ruolo che giochi sulle sue possibilità. Gli
aspetti più importanti di questo cambiamento sono rappresentati dall’emergere degli approcci
interpretativi come ortodossia dominante in antropologia, a spese della tradizione positivista. Come
scrivono Marcus e Fischer (1986: 26), ciò ha comportato una spostamento dell’attenzione “dal
comportamento e dalla struttura sociale, implicante la costruzione di una ‘scienza naturale della
società’, ai significati, ai simboli, al linguaggio. E a un rinnovato riconoscimento … che la vita
sociale deve essere fondamentalmente concepita come negoziazione di significati”. In questo
paradigma, la vita sociale non è considerata la semplice espressione di strutture soggiacenti, ma
piuttosto come una materia in trasformazione, che dipende da una base quotidiana di performance
sociali di molti tipi differenti. La descrizione etnografica diventa così un processo di descrizione e
di chiarificazione di queste performance piuttosto che di dimostrazione delle loro funzioni o del loro
ruolo in uno schema astratto. Nello stesso tempo, c’è ora un diffuso disincanto riguardo alle grandi
teorie generalizzanti e una grande attenzione alla descrizione di casi etnografici particolari.
Questo cambiamento favorisce l’uso del film dentro l’antropologia in svariati modi. Il mettere in
evidenza la negoziazione dei significati a spese della ricerca delle strutture soggiacenti valorizza il
film in quanto mezzo di descrizione e di analisi etnografica. Ci sono già molti film etnografici,
spesso costruiti su rituali critici o eventi politici, che dimostrano il valore del film come modalità di
descrizione etnografica di questo tipo: due fra questi che vengono immediatamente in mente sono
The Wedding Camels (1976), un film di David e Judith MacDougall sui negoziati che precedono un
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matrimonio presso i Turkana, e il film di Kim McKenzie e Les Hiatt su un rituale di sepoltura
secondaria aborigeno, Waiting for Harry (1980). Entrambi dimostrano come i contenuti dei
principali eventi rituali di una comunità siano materia di una costante negoziazione che è
profondamente imbricata nelle dispute politiche locali. Nello stesso tempo i due film illuminano i
tratti del più ampio contesto sociale di cui questi eventi sono solo una rete.
Allo stesso modo, lo spostamento dell’attenzione dalla elaborazione di schemi generali alla
comprensione di specifici casi etnografici restringe il gap fra ciò che è considerata una buona
pratica di scrittura antropologica e il fare film etnografici. Nei film i contesti teorici generali e gli
esempi comparativi devono necessariamente essere introdotti da un commento ‘esterno’, con tutti
gli svantaggi estetici a cui si è già accennato, di generale insoddisfazione. Ma quando è uno
specifico caso etnografico è il focus principale del film, la contestualizzazione può emergere
dall’interno del film, spesso nella forma di commenti espressi dagli stessi protagonisti. In
prospettiva questi commenti manterranno la loro integrità culturale e saranno meno vulnerabili alle
fluttuazioni delle mode teoriche.
La distanza fra lo scrivere un testo e fare un film antropologico si è venuta restringendo grazie
anche alla crescente consapevolezza dell’influenza delle convenzioni di stile realiste nella scrittura
delle monografie etnografiche. Tutti gli etnografi cineasti sono profondamente consapevoli del
paradosso che nasce dalla necessità di manipolare il materiale girato in fase di montaggio fino al
punto di togliere ad esso ogni possibilità di riportare in modo letterale la realtà, e allo stesso tempo
mantenendo l’illusione di realismo. Comunque, come risulta dalle analisi di Geertz (1988), Marcus
e Cushman (1982) e altri, oggi si riconosce da più parti che (p. 52) i testi etnografici sono
influenzati da convenzioni di stile realiste per buona parte assai simili fra loro.
Comunque questi recenti cambiamenti nel clima generale dell’antropologia non si sono limitati
solo al campo delle questioni epistemologiche. Ci sono state ripercussioni istituzionali e politiche.
Nella letteratura antropologica si è affermata la tendenza alla ‘dispersione’ dell’autorità del testo
grazie all’integrazione elle voci native in resoconti ‘polifonici’ o ‘dialogici’ (Clifford e Marcus
1986), e anche nei film etnografici è nato l’interesse per progetti di realizzazioni collaborative con
quelli che prima erano confinati nel mero ruolo di attori protagonisti: gente del Terzo e del Quarto
mondo, i poveri e i gli espropriati (MacDougall 1994).
Di fatto nel cinema etnografico c’è una lunga tradizione di coinvolgimento dei protagonisti che
risale almeno agli anni ’60 quando gli antropologi dell’Università di Filadelfia misero in mano ai
pellerossa Navajo e agli adolescenti cittadini, oltre che ai propri studenti, delle cineprese 16 mm. e
cercarono di individuare le forme e i contenuti dei film specifici delle condizioni culturali e sociali
dei cineasti improvvisati (Worth e Adair 1972, Chalfen 1992). Comunque questi originali
esperimenti erano motivati unicamente da interessi di ricerca accademica, laddove assai più recenti
incontri collaborativi fra etnografi e cineasti ‘indigeni’ hanno assunto un più marcato significato
politico, che ha incluso la rivendicazione di un risarcimento culturale per le ingiustizie passate e di
una serie di diritti, su tutti quelli sui territori tradizionali. In ogni caso questi film hanno continuato
a suscitare l’interesse dei ricercatori accademici per molti aspetti (Michaels 1986, Turner 1991,
Ginsburg 1994).
Ancora, per alcuni ricercatori, questi progetti di collaborazione con indigeni che si traducono
oggi nella loro attiva partecipazione allo sviluppo del film o direttamente nel ruolo loro attribuito di
cineasti, appaiono politicamente sospetti. Per essi questi progetti sono dei tentativi di superare la
cosiddetta “crisi rappresentazionale” fingendo che agli indigeni “sia data voce”, mentre di fatto essi
sono solo chiamati in soccorso come comparse nella perpetuazione delle rappresentazioni in senso
occidentale del mondo (Faris 1992, Moore 1994). Infatti, dal punto di vista delle più radicali
posizioni critiche, l’intera tradizione della ricerca etnografica, sia in film o in testi scritti,
contribuisce né più né meno al generale controllo e regimentazione dei popolo del Terzo e Quarto
mondo. Le convenzioni di stile realiste che caratterizzano le narrative etnografiche sono viste, nella
migliore delle ipotesi, come esempi del ragionamento gramsciano sulla egemonia, cioè un costrutto
specificamente culturale che intende mostrarsi come naturale, universale e storicamente inevitabile
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(Morris 1994: 22-38). Al peggio, esse sono anche una forma specializzata di pornografia, che
condivide con film e libri più convenzionalmente classificati una combinazione di sguardo
voyeuristico sugli aspetti intimi della vita di altri popoli con il mantenimento del distacco e, in una
disperata ricerca di Eden perduto, e della feticistica appropriazione dell’Altro. Per questi critici
radicali l’avventura etnografica è al di fuori di ogni possibile redenzione, se non come forma di
auto-etnografia da parte di quegli Altri che in Occidente vivono in varie periferiche e marginali
condizioni, o che sono stati usualmente finora i meri oggetti di studio dell’antropologia (Chen e
Trinh 1994, Nichols 1994).
Chi ha difeso l’antropologia da questo tipo di attacchi ha sostenuto che spesso essi sono fondati
su un vuoto parallelismo formale e/o su datate e semplicistiche descrizioni di pratiche etnografiche
e soprattutto, su una iper-semplificazione e anche su una sovrastima del rapporto fra l’antropologia
come disciplina accademica e i veri centri del potere nella società occidentale (Turner 1992, Loizos
1993: 206-7, Moore 1994, vedi anche Ruby 1991). Riguardo alle implicazioni derivanti (p. 53) dalle
premesse delle teorie filmiche psicoanalitiche usate in queste critiche, ci sono inoltre delle difficoltà
a comprendere cosa si sia voluto dire parlando della «origine fallocentrica e culturalmente
conseguente» di quelle idee (Morris 1994: 53-55: 77).
Film come etnografia: la promessa del futuro
Dopo un secolo di cinema etnografico, l’ambiente intellettuale dell’antropologia sembra
finalmente favorevole all’accettazione dell’immagine filmica come risorsa importante nella ricerca
sociale. Queste condizioni intellettuali favorevoli sono ulteriormente rafforzate dai più recenti
sviluppi tecnologici. Le videocamere sono diventate sensibilmente più facili ed economiche da
usare, mentre i nuovi sistemi digitali hanno permesso ai dipartimenti universitari, con le loro
limitate possibilità di budget, di dotarsi di sistemi tecnici di qualità professionale. Una volta
catturate le immagini sono ora più facili ed economiche da manipolare, grazie a sistemi di
montaggio non lineari, sia per la destinazione in ambienti CD-rom, sia per semplici proiezioni, che
sono aumentate moltissimo in questi ultimi anni.
Rimangono alcuni grossi problemi pratici da risolvere. L’acquisizione delle abilità
cinematografiche continuano ad essere sia essenziali, sia onerose da apprendere. Le conoscenze
tecniche richieste per fare un film sono oggi molte meno di quanto fosse un tempo, ma le abilità
registiche e di montaggio rimangono importanti così come era prima. La domanda di occasioni per
acquisire queste abilità è oggi molto più grande dell’offerta. Un altro grande problema è che al
presente non ci sono soddisfacenti sistemi di archiviazione per i nastri video. Secondo alcuni esperti
il deterioramento può iniziare anche dopo un solo anno, e riguarderà tutti i video dopo dieci anni.
Sembra molto improbabile che un video girato adesso possa essere vedibile fra cinquant’anni, a
meno che la tecnologia del playback non cambi in modo radicale. Ma ora già la tecnologia digitale
si dimostra più soddisfacente del sistema video analogico che sta iniziando a rimpiazzare.
A parte questi due problemi, che sembrano superabili nel prossimo futuro, non ci sono ora
maggiori ostacoli pratici all’uso delle cineprese nella ricerca etnografica. Le attuali circostanze ci
spingono a considerare la varietà degli usi possibili. Posta la consapevolezza della inevitabile
selettività che comporta ogni atto di filmare, non c’è ragione per la quale oggi non si debba usare la
cinepresa per lo scopo per la quale era stata originariamente concepita, cioè la semplice
registrazione del sensibile. C’è un ampia gamma di situazioni per questo uso, anche se
l’antropologia della performance, della musica e della danza in special modo, sono le più scontate.
(vedi Baily 1989).
Tuttavia il cinema offre le sue migliori promesse per il futuro come strumento con cui produrre
resoconti etnografici generali a partire da ricerche di campo primarie. Il lavoro di campo rimane al
centro dell’antropologia come disciplina accademica e il filmare avrà importanza se esso diventa
uno dei campi di competenza pratica di cui l’antropologo si è equipaggiato prima di andare sul
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campo. Nel passato molti tendevano a considerare il film solo come “resoconto di secondo ordine”,
cioè qualcosa che riproduceva semplicemente le risultanze o le interpretazioni acquisite con mezzi
diversi (Ball e Smith 1992: 4). Sebbene questo sia spesso l’uso corrente, il filmare può anche
svolgere un ruolo importante nella concreta produzione di conoscenza etnografica.
Uno dei primi aspetti da considerare qui è il problema dell’approccio filmico appropriato. Esso
dipenderà da molte circostanze, inclusi il tema da affrontare, le relazioni fra il cineasta e i
protagonisti, il tempo e le altre (p. 54) risorse disponibili. Ma in molti casi, per le esigenze di un
resoconto etnografico generale, l’approccio a cui si richiamano i praticanti del cinéma-vérité, prima
definito, è quello che si raccomanda. Come Banks (1992) ha fatto notare, ci sono molte
«sorprendenti» similarità fra i canoni di metodo pratico dei vari approcci tipo cinéma-vérité, e «le
caratteristiche che distinguono la ricerca e la scrittura antropologica da ogni altro tipo di
osservazione umana». Forse la più importante fra queste è la comune assunzione che il materiale
prodotto (note scritte in un caso, pellicola girata nell’altro), con le intuizioni che contiene, riporti a
una approfondita conoscenza personale dei protagonisti. Antropologi e cineasti “-vérité”
differiscono nella relativa importanza che assegnano da un lato alla partecipazione e dall’altro
all’osservazione. Ma quale che sia il giusto mix, c’è una comune fiducia sul fatto che la
comprensione si debba acquisire con un graduale processo di scoperta, che si ottiene condividendo
la vita con i protagonisti per un periodo di tempo prolungato.
Comunque una strategia tipo cinéma-vérité non richiede il suo uso in esclusiva. Proprio come un
etnografo generico combina l’osservazione partecipante informale con procedure basate su
interviste formalizzate, anche il cineasta può alternare riprese stile vérité a camera libera, con
interviste del tipo “testa parlante”, meticolosamente costruite. Affinché questo materiale con
interviste sia in seguito tagliato per eliminare ridondanze e cose superflue, e /o sia usato poi in
combinazione con materiali d’archivio o girato in sincrono, è consigliabile fare ricorso a particolari
tecniche. Le più importanti di queste sono il posizionamento dell’intervistato e dell’intervistatore, il
posizionamento della cinepresa e il movimento dell’obiettivo, così come anche l'inquadratura e la
successione corretta delle domande (Rabiger 1987: 57-68).
Un aspetto della pratica del film etnografico, riferito da molti esperti è l’effetto catalizzatore che
si produce nel rapporto protagonista-osservatore. Anche nell’era del video c’è un limite oltre il
quale non si può continuare a filmare. Ciò è utile per concentrare la mente del cineasta, mentre
ancora è nel campo, su cosa è veramente importante per lui della comunità ospitante. E nemmeno
c’è solo una persona che riflette sulla la presenza della cinepresa. Su essa si concentrano anche i
pensieri dei protagonisti, e in particolare su cosa intendono presentare delle loro vite al cineasta. La
cinepresa serve inoltra a dare all’antropologo una rasion d’être che sia intelligibile dai suoi ospiti.
Qualcuno che filma sta con ogni evidenza lavorando: un tizio che prende appunti di tanto in tanto
desta più sospetti. Inoltre, controllando il girato, il cineasta antropologo può dare ai suoi ospiti una
nuova opportunità per capire se provano comprensione per quello che sta facendo. Non si tratta di
una nuova tecnica. Flaherty l’ha usata con i suoi ospiti Inuit più di settant’anni fa. Ma uno studente
di dottorato di Manchester, Carlos Flores ha fatto un passo in avanti in questa direzione, nel suo
studio etnografico su un villaggio Q’echi Mayan. In quanto latino –guatemalcheco che lavora in una
comunità che ha vissuto terribili sofferenze a causa della controguerriglia dei militari negli anni
recenti, Flores ha ritenuto di basilare importanza che il suo lavoro fosse il più trasparente possibile.
Quindi ora sta lavorando con una equipe formata da membri di una comunità locale finanziata dalla
chiesa cattolica, per realizzare dei film sulle tradizioni locali. I cineasti della comunità imparano
con lui e lui impara con loro mentre collaborano insieme a questi progetti congiunti.
Il mutuo controllo del girato non serve solo per stabilire relazioni più strette con gli ospiti. I
commenti dei protagonisti possono far nascere in vari modi nuove intuizioni su fatti che prima non
sembravano meritevoli di commento. La visione del girato e quindi l’esperienza della
oggettivazione delle tradizioni, a cui prima i protagonisti partecipavano forse senza una riflessione,
può portali a fare osservazioni e creare connessioni che prima non avevano mai fatto. Alcuni
cineasti si fanno un dovere di chiedere (p. 55) ai protagonisti di raggiungerli in sala di montaggio e
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di proseguire insieme questo processo di commento e di discussione del materiale girato in tutte la
fasi che portano al completamento del film (Morphy 1994). Tuttavia il montaggio del film può
essere una parte del processo di chiarificazione anche senza la presenza di un protagonista. In
analogia al processo di setacciamento delle note di campo, il taglio e la organizzazione dei materiali
girati può produrre nuove intuizioni, solo attraverso un confronto serrato e intenso col materiale.
Infine, la necessità di creare un film con una coerente struttura narrativa può portare a contrapporre
piani e sequenze che generano fra loro nuovi significati per ciascuno di essi. Perfino i modi delle
rifiniture finali del film, come la messa a punto del commento definitivo, o la traduzione dei
sottotitoli può far concentrare l’attenzione su aspetti importanti prima trascurati.
In tal modo la conoscenza non deve necessariamente essere trasfusa nel film stesso. Essa può
essere veicolata da un testo di accompagnamento o anche da qualche altro testo sullo stesso tema,
non specificamente dipendente dal film. Il punto da chiarire qui è che non si deve pensare al film
come a un prodotto finale, ma come mezzo per un resoconto etnografico generale che includerà
pure testi scritti. Sembra davvero assai improbabile che i film possano mai interamente sostituire i
testi nell’avventura antropologica. Il cinema è solo un mezzo alternativo di rappresentazione di certi
aspetti della realtà sociale, che in certe situazioni può risultare più efficace che scrivere un testo,
mentre in altri lo è sicuramente meno. Si dovrebbe dunque trovare dei modi di uso del film
complementari con i testi, così da arricchire il processo di ricerca antropologico nel suo complesso.
Qui la tecnologia CD-rom e i software ipermediali sembrano offrire un mezzo pratico per
esplorare la gamma delle possibili relazioni fra testi e immagini nella post-produzione di resoconti
etnografici. Ma come hanno avvertito Seaman e Williams (1992), i costi finali per la produzione di
questi CD, in particolare l’investimento di tempo, sono molto alti. Comunque, per trarre vantaggio
dalle possibilità tecniche, non solo i realizzatori (inclusi i cineasti) ma anche gli utenti di CD-rom
devono apprendere nuove abilità. Da punto di vista dei primi, la maggiore difficoltà consiste nel
fatto che gli utenti possono spostarsi agevolmente indietro, avanti e attraverso grandi masse di
informazioni in un raggio d’azione che comprende diversi media (testi, disegni, diagrammi, schemi,
immagini fisse, filmati ecc.) . Anziché seguire un unico filo di pensiero, come succede nel medium
lineare testuale, «l’etnografo dovrà costruire una struttura che contempli molteplici punti di accesso
ma conservando un punto di vista consistente» (Seaman e Williams 1992: 310).
Ciò solleva un problema assai importante, sul ruolo della autorità e della narrazione nei resoconti
etnografici ipermediali. Come abbiamo visto prima, la storia recente del cinema etnografico ha
conosciuto un allontanamento da un approccio basato solo su una strategia di documentazione
presumibilmente obiettiva, verso un altro che presuppone la produzione eventuale di un
documentario che comporterà inevitabilmente nel suo farsi qualche grado di soggettività, sia nelle
relazioni stabilite fra il cineasta e i protagonisti durante le riprese, sia nella fase finale di montaggio
e post-produzione. Ma l’ideologia associata alla nuova tecnologia CD-rom va contro questa
inclinazione. C’è una tendenza a presentare i CD-rom come una anonimo aggregato di informazioni
obiettive in cui l’utente può peregrinare a proprio piacimento, costruendo il suo proprio filo
narrativo. In tal senso i CD sono più simili alle enciclopedie che ad un testo etnografico autoriale.
Di fatto, in questa ideologia c’è una eco misteriosa nell’entusiasmo ingenuo che prendeva quelli
che, un secolo fa, celebravano l’uso della cinepresa come un mezzo di documentazione obiettiva. Se
la tecnologia ora in sviluppo sarà utilizzata in accordo alle più recenti tendenze di uso del film nella
ricerca etnografica, (p. 56), sarà di fondamentale importanza che il ruolo della autorialità e della
narrazione in queste produzioni di CD sia stabilito con maggiore chiarezza.
Note
l This chapter was written at a time when I held a Leverhulme Research Fellowship and I am very gratefu1 to the Trust for it support.
2 In this article, unless otherwise specified, I shall refer genericaIly both to the medium of moving image representation and to the
final edited artefact as 'film', though in many particular instances the medium actuaIly used may have been magnetic videotape
rather than celluloid. Although the differences between the two media can have significant consequences both in terms of style as
13
weIl as in relation to production strategies, a discussion of these lies beyond the scope of this chapter.
3 Flaherty's film Nanook of the North, conceming an Inuit family living around Hudson's Bay and shot in 1921, is regarded by many
as the originaI 'ethnographic' documentary, though it is predated by some seven years by Edward C. Curtis' In the Land of the
Headhunters. Less well known than Flaherty's work, the latter is set amongst the Kwakiutl and Curtis was advised by George
Hunt, the part-English, part-Tlingit assistant who also acted as Franz Boas' principal ethnographic rapporteur (Holm and QuinIby,
1980).
4 Loizos has suggested that one should distinguish between 're-enactment' when the protagonists are asked to perform a task which
they themselves have previously customarily performed, even if they now no longer do so and 'reconstruction', when protagonists
are asked to recreate an activity in which their ancestors may have engaged but which is something which they themselves have
never done (1993, p. 30).
5 In Haddon's case, the sense of a need for salvage ethnography appears to have been particularly strong (Edwards, in press). The
men's dances shown in the opening sequences of his 4-minute Torres Straits film originally formed part of a male initiation
ceremony closely connected with head-hunting practices abandoned some twenty-five years before when the islanders converted
to Christianity. The masks wom by the dancers, originally featuring the jaw bones of captured enemy heads, had to be
refashioned from cardboard supplied by Haddon himself (Haddon,
1901, pp. 47-9). Sirnilarly, in his 1930 film ofthe Kwakiutl, Boas filmed traditional dances and potlatch oratory in front of an
artificial backdrop set up in the front yard of a non-Indian house (Jacknis, 1996, p. 199, see also Ruby, 1983).
6 Much later, after a number of years working with the Leacock-Pennebaker direct cinema documentary group, Marshall was to
make N!ai: The Story of a !Kung Woman (1980). This provided a much less romantically allegorical portrait of San life and
foregrounded the contacts that they have with the outside world and their consequences: alcoholism, prostitution and military
conscription (Wilmsen, in press).
7 See the chapter in this volume by Marcus Banks, in which he discusses both the criticaI assessment of anthropological photographs
as objects that are the product of a particu1ar social history, and HADDON, the online computerlzed catalogue of archival
ethnographic film documents which he himself has created.
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