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Editoriale
2
"Musicateneo magazine" cambia veste con una
nuova grafica, una nuova linea editoriale e nuovi
collaboratori, a parte qualche presenza "storica"
della redazione. Altra novità: da otto si passa a
dodici, tante sono le pagine che fanno di questo
un numero che potremmo definire "pilota"; un
punto di partenza, meno autoreferenziale e sicuramente più proiettato sulla realtà musicale (e
non solo) esterna alla nostra associazione. Il
magazine si apre con un'intervista al percussionista Zohar Fresco, il quale, durante lo scorso mese
di dicembre, ha tenuto un interessante seminario
su "i tamburi a cornice", organizzato dalla nostra
associazione. Si tratta di un artista dallo stile originale che ha assorbito diverse tradizioni culturali suonando, lungo la sua carriera, con musicisti arabi, ebrei e turchi. Si prosegue con un servizio sull'evento Complete Masada, tenutosi a
Roma, basato sullo storico progetto Masada dell'artista John Zorn che fonde elementi della tradizione musicale ebraica con il free-jazz. Una “tre
giorni” di concerti, svoltasi presso l'Auditorium
della città capitolina, che hanno, a dir poco, entusiasmato il cronista autore dell'articolo che vi
presentiamo. Troviamo un'intervista ai responsabili di Unis@und, la web-radio sorta quest'anno,
in via sperimentale, all'interno del nostro Ateneo,
oltre ad un servizio su quello che si presenta come
un vero e proprio laboratorio didattico nel quale
quanti desiderano inserirsi in un ambito lavorativo radiofonico potranno acquisire competenze ed
accumulare le esperienze. E' poi il turno di un'approfondita analisi critica riguardante le musiche
e le danze popolari dell'Italia meridionale, dalle
origini alla ri-scoperta dei giorni nostri. Il servizio, fra le altre cose, concentra la sua attenzione
su quella che è stata definita "come l'espressione
culturale ed emblema del sud intero": la tarantella. Proseguendo nella lettura si scoprirà, ad
esempio, che pizzica-pizzica, pastorale, tammurriate vesuviane e tarantella del Gargano altro
non sono che sotto-gruppi stilistici dello stesso
genere, appunto la travolgente tarantella. Tra le
rubriche risalta quella "Semiseria su liuteria &
contorni", come la definisce scherzosamente il
suo autore, uno spazio di tipo tecnico che fornisce
utili indicazioni e consigli pratici ai provetti chitarristi. L'altra rubrica, "Rock heaven", il cui
oggetto è la recensione dei "Tesori del passato",
in questo numero propone una critica non completamente positiva riguardo al gruppo progmetal dei Dream Theater. Il recensore ripercorre
la loro carriera mettendo in risalto "un certo inaridimento attuale della vena creativa", ma, al
contempo, riconosce al quintetto statunitense di
aver prodotto grande musica. In particolare in
"Scenes from a memory", il lavoro qui recensito,
essi "raggiungono un perfetto equilibrio fra tecnica ed emozioni". La terza rubrica,
"Fuori/Fuoco", compone un ritratto del leggendario, e per tanti aspetti controverso, fondatore
dei Pink Floyd, il "diamante pazzo" Syd Barrett.
Spazio anche al teatro con un'intervista a
Maurizio Igor Meta, autore del monologo "Il
Rivoluzionario", lavoro per il quale è stato insignito del titolo di miglior attore, nella sezione
nuova drammaturgia, della seconda edizione del
"Rota in festival". Infine "GenomArt", lo spazio
dedicato all'arte digitale contemporanea.
Insomma, ce n'è davvero per tutti i gusti!
Auguriamo a tutti buona lettura.
Rosa Santomauro
Zohar Fresco, seminario all’Università
Nostra intervista al percussionista israeliano
di Mirko Salvati
22 anni, studente di Lettere
Classiche presso l'Università
degli Studi di Salerno.
Appassionato di Letteratura e
di Musica, è cantante e chitarrista nella band Shevil,
attiva nell'underground con
diversi dischi autoprodotti.
Conclusasi la tre giorni di seminario e musica
voluta dal maestro Paolo Cimmino, direttore del
“Percussion Ensemble”, ed organizzata da
Musicateneo, l'artista israeliano Zohar Fresco,
prima del ritorno a casa, ha scambiato due parole
con il sottoscritto per il nostro magazine.
Percussionista di fama internazionale, maestro di
tamburi a cornice, con all'attivo numerose collaborazioni negli ambiti più alti del jazz contemporaneo, nonché organizzatore del “Peimont
Festival” di Gerusalemme, Zohar Fresco è giunto
all'Università di Salerno per un incontro didattico
di due giorni più un concerto conclusivo, accompagnato dal Musicateneo Percussion Ensemble,
tenutosi nel Teatro di Ateneo.
Vincendo in extremis i numerosi impegni, ma
soprattutto la timidezza e la riservatezza dell'artista, riesco a porgergli alcune domande, che potrete leggere qui di seguito, con le relative risposte,
in "libera" traduzione dall'inglese all'italiano.
Zohar, come stai? Come ti è sembrata l’esperienza qui a Salerno?
Bene, grazie! É stato un piacere per me incontrare Paolo e tutti questi studenti. Sono rimasto piacevolmente sorpreso dall'interesse che ho trovato
qui per le percussioni del Medio Oriente.
Stai per tornare a casa. Dove vivi attualmente?
Vivo in Israele.
Quali sono i tuoi progetti musicali attuali e
prossimi?
In questo periodo sto lavorando al mio disco solista, accompagnato dal mio trio jazz, e presto
approderò in India per alcuni concerti! La cosa mi
eccita davvero molto.
C'è qualcuna, tra le tante collaborazioni musicali che hai avuto (Glen Velez, Zakir Hossian,
Ahmet Misirli, Philip Glass, Ross Daly, Arto
Tuncboyaciyan, Hariprasad Chaurasia e Noa),
che ti ha soddisfatto maggiormente?
Davvero non saprei scegliere, mi sono divertito in
quasi tutte le collaborazioni allo stesso modo.
Lo stile percussivo della musica popolare del
sud Italia, come taranta e tammorra, ha in
qualche modo influenzato i tuoi lavori?
Sì, direi che apparteniamo tutti alla stessa grande
famiglia, quella dei tamburi a cornice. È stato un
onore per me rappresentare questo strumento in
Italia. Il sud Italia poi sembra così pieno di gioia:
ogni volta che ascolto la vostra musica popolare
mi sento felice.
L'incontro tra cultura israeliana e araba ha
influenzato la tua crescita spirituale e musicale?
Certamente. Dalle mie parti viviamo tutti insieme,
persone di etnia diversa. La nostra cultura è molto
vicina a quella araba, così come è simile nella
musica.
Sembra che in Occidente ci si stia abituando ai
continui scontri nell'area del Medio Oriente, in
particolare tra Israele e la Jihad. Vuoi dirci
qualcosa a riguardo?
Io cerco solo di essere un musicista. Tutto quello
che posso fare è pregare, pregare per una sola
cosa: la Pace!
Cosa vuoi dirci del “Peimont Festival” di
Gerusalemme?
É un festival interamente dedicato alle percussioni. "Peimont" significa "che pulsa". Quest'anno ho
avuto qualche problema nell'organizzazione, ma
sono molto fiducioso, spero di ricominciare l'anno
prossimo e di continuare per molto tempo.
Domanda di rito. Tornerai qui a Salerno per
Paolo e per Musicateneo?
Certamente! Sono in continuo contatto con Paolo
per organizzare nuovi incontri e portare avanti
questi progetti.
Ritratto dell’artista
Zohar Fresco è nato in
Israele nel 1969. Si è
appassionato fin da piccolo alla musica, in particolare alle percussioni,
facendo sue le ricche e
diverse tradizioni culturali
che lo circondano. Exmembro dell’ensemble Bustan Abraham, formazione in cui collaborano musicisti arabi ed
ebrei, ha suonato anche con l’ensemble
Ziryab, che si dedica alla musica classica
turca ed araba, sotto la direzione artistica del
noto suonatore di oud Taiseer Elias. Con il
tempo Zohar Fresco ha sviluppato il proprio
inimitabile stile, affermandosi sulla scena
internazionale. Ha collaborato con musicisti
del calibro di Glen Velez, Zakir Hossian,
Ahmet Misirli, Philip Glass, Ross Daly, Arto
Tuncboyaciyan, Hariprasad Chaurasia e Noa.
Registrazione Tribunale di Salerno n.1138 del 08/04/2003
Direttore responsabile
Rosa Santomauro
Progetto comunicativo-editoriale
Maria Siano
Redazione
Emmanuel Granatello, Alessandro Inglima,
Giuseppe Morrone, Barbara Ruggiero, Mirko
Salvati, Antonio Santomauro
Grafica
Alessandro Inglima
Impaginazione
Barbara Ruggiero
Stampa
Arti Grafiche Sud
[email protected]
Da Zorn a Ribot: demoni e avanguardia
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The Book of Angels. L’evento Complete Masada a Roma
di Alessandro Inglima
Laureato in Scienze della
Comunicazione, suona basso e
synth nei gruppi Kazum, Fakta
framedada e Rupert & the Synth
Bassolino. Appassionato di sound
e video editing lavora come
sound designer per il teatro e per
i progetti Sound Barrier, Matto e
Marinaio e vunderscoreF.
PER LE FOTO PROTETTE DA COPYRIGHT DI CUI NON SIAMO RIUSCITI
A RINTRACCIARE GLI INTESTATARI SI PREGA DI CONTATTARE LA REDAZIONE
Fonti foto: www.sydbarrett.net, www.scandiccicultura.it,
www.paolosoriani.com, noasite.net,
ww.zoharfresco.com,www.repubblica.it, www.cauboi.it,
www.ilcorallo1.com, www.atlantedl.org, www.liverock.it,
www.sydbarrett.biz, www.teatrionline.com
Complete Masada. Questo il nome col quale
è stata presentata nello scorso mese di luglio
all'Auditorium di Roma la tre giorni di concerti che ha visto alternarsi sul palco quindici dei migliori (e tra i più eclettici) musicisti
al mondo.
Tre giorni, tre concerti al giorno. Un evento
per John Zorn secondo solo all'intero mese di
concerti al Tonic di New York in occasione
del suo cinquantesimo compleanno. La differenza sta, inoltre, nel fatto che l'evento romano si è concentrato sul suo storico progetto,
Masada, che dai primi anni ‘90 fonde elementi della tradizione musicale ebraica col
free-jazz, e in particolare sulla seconda serie
di brani composti da Zorn (la prima serie ne
conta circa 200), ovvero il "Masada
Songbook Two - The Book of Angels", dove
i titoli dei brani sono ispirati dalla demonologia ebraica e cristiana.
Zorn lo si sentirà suonare solo due volte,
mentre dirigerà in altre tre occasioni.
L'impressione è quella di aver avuto la fortuna di assistere a qualcosa di veramente speciale ed irripetibile. Nove, dico nove, concerti di eccezionale portata. Un evento jazzistico
importantissimo. A Roma.
Personalmente sono rimasto folgorato da tre
delle nove formazioni. Innanzitutto i Bar
Kokhba, sestetto con sezione ritmica (batteria e percussioni) e sezione d'archi (contrabbasso, violoncello e l'impressionante Mark
Feldman al violino) spezzate, è il caso di
dirlo, dall'inimitabile suono della chitarra di
Marc Ribot. John Zorn dirige. L'impatto è
stato devastante. Ho visto Ribot sette volte e
in sei differenti formazioni, ma la sensazione
che hai quando lo ascolti in questo gruppo,
quando senti le prime note perfettamente dissonanti crescere d'intensità, e sei in un auditorium dove il suono è perfetto, è indescrivibile. Un fatto fisico, di stomaco. Una formazione geniale, perfettamente amalgamata,
freneticamente energica e silenziosamente
sensuale al contempo. Il bello del free-jazz:
le dinamiche. E poi gli scambi tra violoncello e violino che ti portano immediatamente
ad un immaginario etnico e cinematografico
che va dal migliore Kusturica a qualcosa di
morriconiano stile Clan dei Siciliani.
Il violinista, Mark Feldman, lo ritrovo il giorno seguente in
duo
con
la
moglie, Silvye
C o u r v o i s i e r,
pianista. Non
pensavo che un
violino potesse
produrre quei
suoni. Ed è
anche stato particolare vedere
due compagni di
vita così affiatati
nella musica. Li
ho immaginati a casa che provano, tutti e due
ad accanirsi sullo strumento... Lei passa
buona parte del concerto a pizzicare direttamente le corde dall'apertura del pianoforte a
coda, lui le fa un applauso alla fine di ogni
brano. Impressionanti e precisissimi.
Il concerto che chiude i tre giorni è quello
degli Electric Masada. Li ho già visti, sempre
a Roma, circa quattro anni fa, ed ho, da allora, affermato che sono la cosa migliore a cui
abbia mai assistito dal vivo. Dopo questi tre
giorni lo riconfermo. La formazione rispetto
a quattro anni fa si è allargata. Si sono
aggiunti Joey Baron come seconda batteria
(!) e Ikue Mori all'elettronica. E poi i soliti
Ribot alla chitarra, Jamie Saft alla tastiera,
Cyro Baptista alle percussioni, Kenny
Wollesen alla batteria, Trevor Dunn al basso
(sì, proprio lui, già bassista dei Mr. Bungle e
dei Fantomas). E poi Zorn al sassofono. Ma
non solo. Si diverte, infatti, anche a dirigere
le improvvisazioni degli altri sette che passano gran parte del concerto ad osservarlo ed a
seguire affannosamente le improvvise direttive impartite dal suo dito. Sì, perchè Zorn
comunica soprattutto attraverso il suo indice.
Già quattro anni fa da questi musicisti ho
capito che esiste un modo diverso di concepire e suonare la musica. Al di là della superiorità tecnica e della perfezione sonora. Questa
è gente a cui piace suonare, gente che si
diverte, che ti
coinvolge del
tutto e che a
fine concerto si
ferma anche a
scambiare due
chiacchiere con
te prima di salire tutti insieme
sul furgoncino
che li porterà in
albergo. Certo,
tu poi stai là e
cerchi con il tuo
stentato inglese di dirgli quanto per te siano
stati bravi e ti abbiano colpito, come se loro
non lo sapessero già.
E pensare che su Wikipedia trovo queste
deprimenti descrizioni:
“Sebbene poco noto al grande pubblico,
Zorn è un musicista estremamente attivo, con
più di cento album a suo nome e un'attività
che spazia tra svariati generi musicali”.
e ancora:
[Marc Ribot è] “noto per aver suonato la chitarra in alcuni album di Tom Waits e di
Vinicio Capossela. È anche compositore e,
occasionalmente, cantante”.
“Paesaggi Diversi”, il cd della Camerata Strumentale dell’Università di Salerno
“Il paesaggio del Campus è diverso quando c’è musica”
Un progetto ambizioso e da ri-scoprire nel suo particolare fascino. Traslitterare in componimenti dal gusto classico, non solo
opere di Maurice Ravel o Astor Piazzolla la cui compatibilità originale con l'intento è certamente alta, ma soprattutto pezzi della
tradizione pop quali "The great gig in the sky", dei Pink Floyd, o
"Michelle", elegiaca struttura melodica, risalente all'epopea dei
Beatles. E' stato questo l'intento della Camerata Strumentale
dell'Università di Salerno, sotto la direzione del maestro, e violista, Danilo Rossi, e mettendo in pratica gli arrangiamenti e le
orchestrazioni di Stefano Nanni, compositore, e Giuseppe Mirra,
contrabbassista e compositore anch'egli. Il suggestivo titolo del
lavoro venutone fuori è "Paesaggi diversi".
Puoi trovare il cd/dvd al Campus di Fisciano, alla Cues nell'atrio di Ingegneria ed alla Cusl (ex bar giallo). A Salerno è
invece in distrbuzione da Disclan e alla Ricordi Media Store.
E ’
a r r i v a t a
Passione ed entusiasmo: i segreti di Unis@und
La voce di chi lavora dietro le quinte: Eugenio, Gianluca e Sante
di Barbara Ruggiero
Laureata in Scienze
della Comunicazione
presso l’Università degli
Studi di Salerno, giornalista pubblicista da 5
anni, collabora a
“Cronache del mezzogiorno” e a “Datasport”.
Animati da un grande entusiasmo per la radio si
sono tuffati a capofitto in una nuova avventura.
Gianluca, Sante ed Eugenio sono tre ragazzi
che incontriamo alla web radio. Diversi nell'accento, nell'aspetto e nel ruolo che ricoprono ad
Unis@und, sono uniti da un’unica grande passione: la radio.
Gianluca Durante studia Scienze della
Comunicazione; Sante Farnararo è assegnista
presso la Facoltà di Lingue e Letterature
Straniere mentre Eugenio Apicella è collaboratore a contratto dell'Università.
Sante e Gianluca si occupano del palinsesto e
sono le voci della radio, Eugenio invece si
occupa dell'area musicale. All'interno della
Radio, quella con la R maiuscola, loro ci sono
già stati, ci hanno lavorato ed ora sfruttano le
esperienze passate mettendole a disposizione di
quanti hanno intenzione di fare radio a
Fisciano.
"La passione per questo mezzo di comunicazione è tanta: per noi è un vero e proprio hobby che
ci accomuna e che ci spinge a trascorrere assieme ore anche di sera" - spiega immediatamente
Sante.
"Trasmettiamo all'interno del Centro Ict dove
c'è uno studio di registrazione nuovo di zecca"
- aggiunge Gianluca.
Cosa rappresenta per voi questo progetto?
Eugenio: "E' una sfida in itinere: ogni giorno
cresciamo"
Gianluca: "Per me rappresenta una bella soddisfazione veder crescere questo progetto e osser-
Lo staff della webradio
vare persone interessate alla radio che si avvicinano per la prima volta a questo mezzo di
comunicazione".
Sante: "E' l'incontro di persone appassionate
dello stesso mezzo comunicativo. Il progetto è
partito in tempi piuttosto rapidi. Pensate che in
due mesi abbiamo messo su le trasmissioni…".
Siete soddisfatti del prodotto che state proponendo al vostro pubblico?
Eugenio: "Stiamo migliorando man mano"
Gianluca: "Il limite è che si tratta di una webradio: ci può seguire solo chi ha il computer. Da
poco tempo è possibile ascoltarci anche dalla
mensa universitaria".
Sante: "Diventerà un buon prodotto al più presto".
Come definireste questa esperienza?
Eugenio: "Siamo andati avanti con ritmi particolarmente sostenuti, specie all'inizio del progetto; ma adesso - dice scherzoso - possiamo
dire di essere allenati. Siamo partiti da sotto
zero e stiamo andando avanti. Poi è ovvio che
nel frattempo acquisiamo anche esperienza e
capacità".
Gianluca: "Stiamo migliorando pian piano
anche dal punto di vista della logistica e delle
infrastrutture che sono a nostra disposizione".
Sante: "Un'esperienza eccitante. E' sempre
bello veder nascere un mezzo di comunicazione. Certo, ci sono momenti in cui la stanchezza
prende il sopravvento; ma la passione ha sempre la meglio su tutto il resto".
Quanto spazio dedicate all'interno del vostro
palinsesto alle band universitarie emergenti?
Sante: "Moltissimo: offriamo ad una band ben
dodici passaggi al giorno dei loro brani per
un'intera settimana; questo vuol dire che una
loro canzone può essere ascoltata ogni ora per
tutto il giorno".
"Inoltre - aggiunge Gianluca - i loro brani
entrano nella classifica della settimana".
Eugenio: "Diciamo che siamo alla ricerca
ossessiva e costante di nuovi gruppi a cui dare
spazio nel nostro palinsesto".
Che tipo di musica viene proposta a
Unis@und?
Sante: "C'è di tutto, specie rock, seguito da pop,
blues, jazz. Fino ad ora, però, non ci è arrivato
ancora nessun brano dance prodotto dai ragazzi, cosa che sarebbe già capitata se fossimo a
fine anni '80".
Secondo voi c'è qualche band che ha l'opportunità di sfondare?
Ci pensa Eugenio a rispondere, anticipando
tutti sul tempo: "Secondo me sì. Come dicevo,
siamo proprio alla ricerca di qualcuno che sia in
grado di sfondare".
E le associazioni? Hanno un ruolo nell'organizzazione della radio?
"Le associazioni - raccontano - hanno chiesto di
partecipare e siamo in attesa delle loro proposte".
Da sin.: Sante Farnararo, Rocco Curcio, Massimo
De Santo, Gianluca Durante, Eugenio Apicella,
Paolo Rocca
Il progetto che ha portato alla costituzione
della web radio si concluderà a maggio. Che
ne sarà di Unis@und?
"Sarà il rettore, che è anche l'editore della radio,
a decidere se portare avanti il progetto" - spiegano.
Come si può far parte della radio?
Sante: "Basta collegarsi al nostro sito, compilare il form ed attendere di essere contattati"
Eugenio: "Aggiungiamo solo che abbiamo
bisogno di tecnici: sono preziosissimi, servono
sempre".
In che modo gli studenti partecipano alle
attività quotidiane della radio?
Gianluca: "I ragazzi ci seguono in tutte le attività: dall'organizzazione del palinsesto fino alla
realizzazione della trasmissione. Si tratta di persone particolarmente motivate; sono in pochi ad
avere esperienze radiofoniche ma riescono a
calarsi nella realtà e a regalarci belle soddisfazioni"
Quanti ragazzi ci sono attualmente nell'organizzazione?
"Una cinquantina - spiegano - inizialmente
abbiamo ricevuto circa quattrocento richieste di
partecipazione. Gestirle è stato abbastanza
complicato. Come accade in questi casi, c'è
stata una selezione naturale".
Testi raccolti con la collaborazione
di Maria Siano
l a
w e b r a d i o
Suoni e voci dell’Università di Salerno
5
Da “Bellavista a Zivago” a “The living Chart”: ecco il palinsesto
di Maria Siano
p
Pubblica amministrazione,
terzo settore ed eventi
culturali: la comunicazione
è il mio pane quotidiano;
e il magazine ne è una
fetta...
Suoni e voci dell'università. Questo il claim
che accompagna tra un programma e l'altro
gli ascoltatori della web radio dell'Università
di Salerno.
In onda dal 10 settembre 2007, Unis@und,
questo il nome della web radio, ha l'obiettivo
di dotare la comunità universitaria di un
nuovo mezzo comunicativo aperto e creativo
che accompagni nella loro quotidianità studenti, docenti, personale tecnico del Campus.
Insieme ad altre 39 università italiane
l'Università degli Studi di Salerno è stata selezionata per partecipare al progetto
"UnyOnAir". Il progetto ideato da Radio 24
aiuta le realtà universitarie ad avere una propria web radio, l'iniziativa vede la collaborazione con Il Sole 24 Ore, con il network Job
24 e il supporto di aziende come Heineken,
Renault e Microsoft.
Tante le radio che sono nate in questo ultimo
anno, oltre a Salerno ci sono: la Luiss di
Roma, Urbino, Torino, Bicocca di Milano ed
altre.
La radio è un vero e proprio laboratorio didattico dove i partecipanti acquisiscono competenze editoriali, tecniche e manageriali per
lavorare nel mondo radiofonico.
Unis@und è aperta a: studenti, associazioni,
docenti e personale tecnico amministrativo
che vogliono provare l'emozione di passare
dall'altro capo della radio, tra microfoni e cuffie, musica e parole e che intendono cimentarsi nella programmazione del palinsesto e
degli stessi programmi, cosa non da poco. O
entrare nel team dei tecnici di regia e di montaggio per chi vuole conoscere con quali strumentazioni tecniche passa la voce dello speaker.
Il progetto della web radio è curato dall'ICT
guidato dal professore Massimo De Santo e
dall'Ufficio stampa di
Ateneo diretto dal dottore
Francesco Colucci.
Tanti i programmi che si
rincorrono durante la giornata intervallati dalle note
informative. Per essere sempre informati su ciò che succede nel mondo, dal globo
al campus di Fisciano, ogni
Primo quarto e Ultimo quarto di ora, va in
onda l'informazione.
Al trentesimo minuto di ogni ora c'è la “PIU”,
che letta così sembra lontana parente del
CFU, invece è l'acronimo di Pillola
Informativa Universitaria, il programma che
dà notizie utili agli studenti e aggiorna gli
ascoltatori sulle novità del campus.
I poeti universitari possono invece spedire i
propri versi alla radio, dove in un apposito
spazio, “Da Bellavista a Zivago”, saranno
letti in onda. Dalle righe di un foglio alla web
radio. La poesia non ha confini.
Tra un brano e l'altro il programma “Radio
Nettuno” propone massime relative alla materia del giorno, disponibili anche nell'archivio.
E sì perché Unis@und ha anche un archivio
dove si possono riascoltare i propri programmi preferiti.
Come ogni radio che si rispetti non poteva
mancare la mitica “50s@unds-The Living
Chart”, ogni giorno è possibile, infatti, ascoltare dieci brani della play list ufficiale della
radio, che il sabato viene trasmessa per intero.
Pubblicizzata con uno spot
radiofonico, fatto in casa
Unis@und; c'è la “Personal
Play list -PP”, le dieci canzoni che ognuno vorrebbe
ascoltare di fila e che tra le
loro parole e note nascondono i momenti più importanti
della propria vita. Tutti possono comporre la
propria lista di canzoni e spedirla, ovviamente via e-mail. Il resto lo fa la radio. A noi
basta solo un click sul pulsante che compare
sul monitor: ed ecco la musica!
C’erano una volta i pionieri... E ci sono ancora. A Siena
L’esperienza di “Facoltà di Frequenza”, prima radio universitaria italiana
Nel variegato mosaico delle esperienze culturali
sviluppate all'interno dell'ambiente universitario
italiano, una di quelle che si può considerare
come capostipite ed esperimento meglio riuscito,
in quanto collaudato nel tempo, è la stazione
radio "Facoltà di Frequenza" (trasmettente via
etere sui 99.450 Mhz e via web su
www.radio.unisi.it), originatasi e maturata a
Siena a partire dal settembre
2000, secondo un progetto
ideato dall'Università degli
Studi di Siena su impulso, e
realizzazione, del dinamico
dipartimento di Scienze della
Comunicazione.
Il punto forte dell'emittente universitaria senese consiste nell'abbinare ad una selezionata
proposta di programmi prettamente musicali,
quasi tutti concentrati sulla qualità della creazione artistica a scapito della commerciabilità del
prodotto-canzone, un'ampia panoramica riguardante problematiche politiche e sociali generali
(ancorate alla realtà tramite le indispensabili
rubriche d'informazione), senza trascurare una
copertura sistematica degli eventi culturali (cine-
ma, arte contemporanea, teatro, rassegne, convegni) aventi luogo intorno alla comunità senese, e
non (basti pensare alle interviste realizzate alle
più svariate realtà musicali, emergenti ed affermate). La ricchezza dei contenuti, e la contaminazione delle tematiche, costituiscono, quindi, il
tratto distintivo per il micro-cosmo di “Facoltà di
Frequenza”. Altra circostanza dirimente, per non
dire fondamentale, è la assoluta gratuità di prestazione, e
contrapposta libertà d'espressione (cosa che, in certi contesti comunicativi, è soltanto
apparente), che le persone
impegnate (oltre 300 finora per
un centinaio di programmi,
alcuni longevi altri effimeri)
nel dar vita ai palinsesti della
radio garantiscono con continuità e ricambio.
Inutile stare a specificare che si tratta di studenti
provenienti da diverse facoltà dell'ateneo senese,
in special modo "Lettere e Filosofia". Il metodo
è semplice e partecipato: progettare un'idea intrigante, proporla ai responsabili che coordinano la
radio a tempo pieno (studenti, magari specializzati, anch'essi), eseguirla avendo fornito un ade-
guato supporto tecnico (che può essere anche
auto-gestito qualora le capacità lo consentano).
Tranne che non si tratti di evidenti cadute di stile,
nel senso di deplorevoli smancerie o scimmiottature di spazzature mediatiche, la possibilità di
esprimersi è garantita. Non manca la leggerezza,
ma velata d'ironia ed intelligenza. Per concludere, vanno segnalati tre primati di cui "Facoltà di
Frequenza" può andare fiera: come accennato, è
stata la prima, e per tanto tempo unica, radio universitaria nazionale; sull'onda del suo positivo
esempio, tanti riconoscimenti ufficiali ed un'ottima audience, è stato ideato un corso di laurea
specialistica in "Radiofonia e Linguaggi dello
spettacolo e del multimediale", chiaramente attivato a Siena presso il dipartimento di Scienze
della Comunicazione: pratica e teoria, quindi; è
stato, infine, pubblicato un libro ("Facoltà di
Frequenza" di Romeo Perrotta, Carocci editore,
2005) che racconta, dall'interno, delle vicissitudini di questa comunità universitaria particolare,
variabile ed interconnessa. Se siete a Siena, passate per i locali del rettorato che ospitano
"Facoltà di Frequenza", bussate e vi sarà aperto:
forse, potreste avere da dire qualcosa anche voi...
Giuseppe Morrone
F
o
Viaggio intorno ai sentieri della tradizione
La riscoperta delle musiche e delle danze popolari in Italia
di Giuseppe Morrone
Laureato in Scienze della
Comunicazione presso
l’Università degli Studi di
Siena. Ha pubblicato un
romanzo dal titolo “Lo sguardo stuprato” (Aletti Editore,
2007). Collabora con
Liberazione e Girodivite.it.
Con riferimento bibliografico e sitografico a:
"La terra del rimorso", Ernesto De Martino, Ed. Net, 2002
"La tarantella dei pastori", G.M. Gala, Ed. Taranta, 1999
www.ilsuonodelsalento.it, www.taranta.it/pizzica.
Un paragone inappropriato
Come per ogni definizione che ci apprestiamo a
circoscrivere, è bene chiarire, anzitutto, gli
equivoci semantici, e significanti, disseminati
dal senso comune, dalle semplificazioni dei
media, da un modo di procedere non razionalmente informato. E' il caso della cosiddetta
musica popolare. Ad affrontare la questione si
nota, immediatamente, un caso di omonimia
piuttosto bizzarro. Basti pensare alla musica
pop. Questa caratterizzazione non è altro che
l'abbreviazione di un genere coniato, ed esportato con enorme successo in tutto il mondo, a
partire dai paesi anglosassoni verso la fine degli
anni '50: la popular music, appunto. Genere
che, in tutti i sensi, non c'entra assolutamente
nulla con quello che è l'orizzonte, artistico,
dimensionale ed antropologico, della musica
popolare per come si è sviluppato storicamente
e per come ci è stato tramandato. Almeno nel
nostro paese…
L'Italia sommersa...
Scontato questo necessario chiarimento, proviamo a tracciare un essenziale ritratto genealogico di ciò che s'intende per musica popolare in
Italia, con un riferimento inevitabile alle varie
forme di danza che vi sono, quasi naturalmente,
connesse. Immediatamente, c'è da registrare un
frazionamento su scala locale: quasi in ogni
regione, e non soltanto in quelle del
Mezzogiorno (lo testimoniano le tradizioni folkloriche toscane, venete, sarde, laziali, ecc…),
troviamo specifici, a volte interconnessi,
modelli tradizionali di linguaggi musicali frutto
del contributo delle collettività passate, i quali
vengono tramandati oralmente di generazione
in generazione. Allo stesso modo, gli strumenti
(e tra questi, va inserita a pieno titolo la voce)
usati per darvi corpo sono costruiti secondo tecniche rimaste praticamente immutate nel corso
dei decenni, o perfino dei secoli. Tale schema,
di composizione ed espressione, giungeva a
concretarsi, non sempre (basti pensare al rituale
della danza di corteggiamento simboleggiato
dalla pizzica-pizzica), durante un momento
riconosciuto come fondamentale per la vita di
una data comunità: lo spazio della festa, prevalentemente religiosa. A scanso di equivoci, concentreremo la nostra attenzione sull'Italia meridionale, dapprima in generale, e poi descrivendo due casi particolari.
Lo sterminato humus
delle tarantelle
Prima di procedere, e
per evitare confusioni,
inquadreremo quella che
è stata definita come
"l'espressione culturale
che può essere assunta
quale migliore e più profondo emblema del sud
intero": la tarantella.
Essa rappresenta un'ampia, e diversificata, famiglia di danze tradizionali
distribuite in tutte le
regioni dell'Italia meri-
dionale (dal Molise alla Sicilia). Soltanto alcune aree però conservano, al giorno d'oggi, una
tradizione viva, assidua ed autentica del ballo,
e, in ogni caso, modificata rispetto alle forme ed
alle movenze originarie. La maggior parte dei
repertori consiste in balli di coppia (non necessariamente uomo-donna), ma esistono forme a
quattro persone, in cerchio o processionali. Vi
sono aree in cui i danzatori fanno uso di castagnole nelle mani. Il termine tarantella è il semplice diminutivo con suffisso in -ella di taranta,
lemma che in quasi tutti i dialetti meridionali
indica la tarantola. Ma della taranta come
danza rituale specifica parleremo meglio in
seguito. Nell'ambito delle tarantelle possiamo
individuare, invece, diversi sottogruppi stilistici, ciascuno con propria denominazione (pizzica-pizzica, zumpareddu, pastorale, tarascone,
viddhanedda, ballarella, zumparella, tammurriate vesuviane, tarantelle lucane e calabresi,
tarantella del Gargano), così come vari repertori musicali (in 2/4, 6/8, 4/4, 12/8, ecc…) e
strumenti usati per suonarli (canto, tamburo,
zampogna, ciaramella, organetto, fisarmonica,
chitarra battente, violino, mandolino, flauto,
marranzano, tammorra, ecc…). Forniti questi
spunti sommari, possiamo passare ad analizzare uno dei molteplici contesti accennati, quello
pugliese, salentino in particolare: le realtà della
pizzica-pizzica e della già citata taranta, quindi.
Questo perché si tratta delle forme che stanno
riscuotendo, ormai da qualche tempo a questa
parte, un portentoso successo di pubblico, grazie ad un'astuta commercializzazione, i cui
risvolti parzialmente negativi affronteremo
dopo. Ci è, quindi, sembrato opportuno indagare, senza pretese di esaustività, le loro origini.
"Il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di ‘vita insieme’, un impegno ad uscire dall'isolamento nevrotico per partecipare ad
un sistema di fedeltà culturali e ad un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso: un ethos che, per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto ‘minore’ nel quadro della vita culturale dell'Italia
meridionale, consente di qualificare il tarantismo come ‘religione del rimorso’ e come
‘terra del rimorso’ la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione ‘minore’
vide per alcuni secoli il suo giorno."
Ernesto De Martino
c
u
s
Amore, trance, catarsi: pizzica e taranta in Salento
L'espressione più caratteristica della tradizione
popolare salentina è rappresentata da un crescendo armonioso ed invasato di tamburelli,
onnipresenti ed ossessivi, coniugato ad altri
strumenti, quali mandolini, nacchere, violini,
chitarre o armoniche. Ad esso è consustanziale una particolare danza di corteggiamento
durante la quale i due danzatori si avvicinano,
senza toccarsi mai. La scena si svolge con uno
scambio di sguardi, più o meno provocatori,
una serie di gesti che rivelano da una parte il
desiderio dell'uomo di godere delle grazie
della donna, e dall'altra quello della donna di
essere corteggiata dall'uomo, al quale, però,
sfugge se questi prova ad avvicinarsi. Un elemento importante, durante la danza, è il fazzoletto rosso, simbolo della passione, che la
donna sventola in segno di elegante provocazione agli occhi dell'uomo, il quale
però non può afferrarlo se non con l'esplicito consenso della donna. Ma non sempre è presente questa funzione d'attrazione: infatti, ci si può semplicemente scatenare sull'onda travolgente, e catartica,
della musica, anche da soli, seppur
mescolati tra la folla, e con l'unica ambizione di cedere all'estasi del ritmo.
L'intero complesso d'interazioni appena
descritto, sia in un caso che nell'altro,
prende il nome di pizzica-pizzica.
Strettamente connesso, almeno dal punto
di vista musicale, è il fenomeno della
taranta, da inserirsi primariamente nel-
l'ambito delle credenze popolari, esattamente
quella riguardante il tarantismo. Esso era considerato una vera e propria malattia, originata
dal morso della tarantola (un velenoso ragno),
il quale provocava uno stato di malessere
generale (catalessi, palpitazioni, dolori addominali) alla persona che ne era stata vittima. In
questo contesto, la musica e la danza erano
percepiti come gli elementi fondamentali della
terapia da mettere in atto. La scena del rituale
si presentava in questa maniera: atmosfera
mistica e melodie del tipo di quelle richiamate
nel caso della pizzica-pizzica. La tarantata
(cioè la persona morsa dalla tarantola), stesa al
letto, ascoltando i suonatori cominciava a
muovere la testa e le gambe, strisciava sul
dorso, non riusciva a mantenere l'equilibrio e,
7
scesa dal giaciglio, si poneva aderente al
suolo, immedesimandosi con la posizione del
suo carnefice, cioè la tarantola stessa.
Successivamente, rialzatasi, batteva i piedi a
tempo di musica, come per schiacciare il ragno
e compiva svariati giri su se stessa o movimenti acrobatici, finché, stremata dagli sforzi, crollava a terra, priva di sensi. Con le parole riassuntive di Diego Carpitella, etnomusicologo:
"Si trattava quindi di un ciclo coreutico
(riguardante l'arte della danza, ndr) bipartito,
indefinitamente iterato nel corso del rito sino
al momento della guarigione: tale ciclo si articola in due fasi conseguenti, la prima al suolo,
orizzontale, orientata prevalentemente verso
la identificazione mimica con l'animale mitico
(cioè la tarantola), e la seconda in piedi, verticale, prevalentemente orientata verso
una risoluzione agonistica della possessione". A questo punto, la tarantata,
secondo la leggenda graziata per intercessione di San Paolo (il santo celebrato
il 29 giugno a Galatina, provincia di
Lecce e centro operativo del fondamentale studio etnografico, "La terra del
rimorso", compiuto da Ernesto De
Martino, lo stesso Carpitella ed altri a
proposito del fenomeno), veniva condotta presso la cappella del santo, qui beveva l'acqua sacra dal pozzo adiacente e
ripeteva, simbolicamente, un rito di
danza. Il processo poteva, allora, considerarsi concluso. (g.m.)
L’attuale tendenza commerciale: spunti per una discussione
Negli ultimi anni si è assistito, un po' in tutto il
territorio nazionale, ad una entusiastica riscoperta del valore della musica e delle danze popolari,
specie salentine: sono fioriti come funghi, o forse
sono stati soltanto illuminati dalla luce abbagliante della moda di turno, artisti, complessi, festival,
manifestazioni, prodotti discografici attinenti ai
temi, e ai luoghi, che abbiamo appena affrontato.
E la risposta del pubblico a questa dettagliatissima offerta è stata, a dir poco, portentosa. Posto
questo come dato di fatto incontrovertibile, la
domanda che ci, e vi, vogliamo porre è la seguente: si è trattato, e continua a trattarsi, di un genuino (e positivo in quanto si rischiava l'oblio) afflato verso le tradizioni e le espressioni popolari
oppure dell'ennesimo colpo assestato dall'onnivora industria culturale ad un mercato in asfissia
ed in cerca di false legittimazioni? Noi non abbiamo la presunzione di potervi fornire una risposta
certificata, però vorremmo proporvi una riflessione critica che assume, e pone a confronto, la tesi
e l'antitesi ipotizzate. Essa è stata sviluppata dall'associazione culturale di tradizioni popolari,
"Taranta". Eccola: "Il vivace ritorno negli ultimi
anni del dibattito culturale sul tarantismo pugliese ha innescato un inatteso processo di valorizzazione di alcune espressioni del patrimonio tradi-
zionale salentino che rischiavano la definitiva
estinzione: in modo particolare la musica e la
danza tradizionale sono diventate un segno di
riconoscimento e di recuperata identità dei giovani salentini sino a propagarsi in tutta l'Italia e
oltre i confini nazionali negli ambienti legati alla
world music. La pizzica non è oggi solo un ballo,
è un emblema, un forte richiamo, una griffe, una
sorta di nuovo mito culturale che crea moda,
spettacolo, turismo, mercato editoriale e musicale. Il Salento si configura in Italia come un
importante laboratorio antropologico, nel quale
si misurano ed interconnettono bisogni identitari
(smantellati con troppa fretta dalle generazioni
precedenti) e strade diverse dalla globalizzazione
culturale in atto (basti pensare al fatto che la stessa pizzica-pizzica è stata considerata da una
parte, specie impegnata, delle giovani generazioni come uno degli emblemi ideologici dell'antiglobalizzazione, ndr); un laboratorio nel quale si
gioca una scommessa sul ruolo che la tradizione
potrà avere nella società post-industriale e multimediale e nei futuri processi di turismo di massa
e di sincretismi culturali interetnici."
Per quanto riguarda la contrapposizione, spesso
frontale quanto stucchevole, fra "puristi" e
"modernisti", su quello che prevede il canovaccio
classico rispetto alle trasformazioni intervenute, a
livello stilistico, terminologico, coreutico ed attoriale, si potrebbe ribattere che i processi di innovazione o di rottura col passato sono sempre esistiti nella storia delle tradizioni popolari. Ma è,
infine, opportuno auspicare che le odierne superficialità con cui spesso si affrontano, e si snaturano quasi sino a renderle irriconoscibili, talune
delle tradizioni popolari in oggetto, si tramutino
in percorsi di studio, teorici e metodologici, di
ampio respiro e di forte serietà culturale, con
l'ambizione, neppure tanto trascendentale, di
scandagliare autenticamente il passato per poterlo, prima preservare, e poi adattare con misura al
presente. Tale necessità richiama il ruolo, talora
passivo o soltanto accademico, che dovrebbero
esercitare antropologi, operatori culturali e musicisti a livello di massa e di comprensione diffusa.
E' bene, comunque, non assumere questa ultima
considerazione come complessiva, riconoscendo
a quelle realtà, o a quei singoli artisti pur presenti (Eugenio Bennato potrebbe rappresentarne un
buon paradigma), l'impegno mediante il quale
provano, faticosamente perché la frenesia della
competizione raramente concede tregue di qualità, a percorrere un orizzonte del genere appena
richiamato. (g.m.)
ROCK HEAVEN: TREASURES FROM THE PAST
Dream Theater. "Metropolis Pt 2: Scenes From A Memory"
di Antonio Santomauro
Per i miei amici sono come un
"piccolo Bignami" della musica
Hard & Heavy. Per voi lettori
mi auguro di essere solo un
discreto recensore, che sia
capace di comunicarvi le emozioni che possono suscitare
alcuni dei più bei dischi della
storia del Rock.
I Dream Theater, sulla scena da quasi vent'anni, sono entrati a far parte di quella
categoria di gruppi musicali che dividono il
pubblico, ed i critici, ad ogni nuovo disco
pubblicato. C'è chi li considera la band
Prog Metal per eccellenza, affrettandosi ad
incensare anche lavori spesso non all'altezza del loro illustre passato e chi lamenta
ormai una certa ripetitività ed inaridimento
della vena compositiva dei cinque, non a
torto, se ci si sofferma sulle ultime prove in
studio giudicate insufficienti da appassionati e critica. Saliti alla ribalta, nel 1992,
con l'album-capolavoro "Images And
Words", e consolidato un crescente successo di pubblico col successivo ed ultra-tecnico "Awake", del 1994, i nostri in realtà avevano già segnato una battuta a vuoto con
"Falling Into Infinity", datato 1997. Un
lavoro più easy listening, e quindi deludente per quei fans che dai Dream Theater si
aspettano un certo sound fatto di composizioni impregnate di tecnicismi e virtuosismi strumentali spinti ai massimi livelli, sui
quali può stagliarsi la splendida voce del
vocalist James La Brie. Accantonata la
parentesi di "Falling", nel 1999, i Dream
Theater danno alle stampe quello che viene
unanimemente riconosciuto come il secondo masterpiece della loro discografia; quello "Scenes From A Memory" che risollevò
brillantemente le quotazioni della band statunitense, aggiudicandosi meritatamente la
palma di Prog Metal album dell'anno.
Siamo di fronte al disco più completo del
"Teatro Del Sogno", forse il migliore sotto
tutti i punti di vista, superante splendidamente la prova del tempo. Non basterebbero dieci pagine per descrivere accuratamente questo gioiello musicale, quindi ci limiteremo a metterne in risalto gli aspetti più
importanti. Anzitutto, l'originale concept
attorno al quale ruota l'album, una storia
(ambientata tra presente e passato ed avente tutte le caratteristiche di un vero e proprio giallo) che tratta il tema della reincarnazione, sorretta da partiture strumentali da
brivido e da un'intensità tale da far vivere
all'ascoltatore in prima persona i fatti narrati dai testi. Per poi passare alla musica,
potente, melodica ed emozionante, con
continui rimandi musicali e lirici ad "Image
And Words", di cui "Scenes" è considerato
il seguito già a partire dal titolo. La prima
parte dell'album (suddiviso in due atti)
prende il via con le dolci note di
"Regression", scandite da una chitarra acustica e dalla voce emozionante di La Brie.
La strumentale "Overture 1928" vede la
band al massimo della forma, con una struttura caratterizzata da molteplici intrecci
strumentali tra chitarra e tastiera, continui
cambi di tempo ed aperture melodiche di
un'altra dimensione. Comporre un brano
così non è da tutti e si sente! Non è necessario essere dei critici musicali o appassionati dell'Hard & Heavy e del Progressive
per rendersi conto della bellezza, ed allo
stesso tempo, dell'orecchiabilità di un simile pezzo da novanta! Grande musica, senza
nessuna etichetta. Caratteristica di tutto
"Scenes" è il perfetto equilibrio tra la tecnica e le emozioni che fa scorrere liscio l'album per tutti i suoi 77 minuti di durata
(come un'unica grande canzone), senza
risultare eccessivamente ostico. "Strange
Deja Vu" prosegue il viaggio nell'inconscio
plessità sonora. "Through Her Eyes", è una
dolce ballad che termina il primo atto del
disco ed è impreziosita dai vocalizzi della
cantante Theresa Thomason. "Home" apre
il secondo atto attraverso decise ed affascinanti influenze orientali, dettate dal sitar e
dal wah wah di Petrucci. Strofe ossessive,
pesantissime e metalliche (con numerosi
richiami a "Metropolis Pt 1", brano di
"Images And Words") che, come al solito,
si aprono in uno splendido ritornello nel
quale la voce di La Brie è protagonista.
"The Dance Of Eternity", seconda traccia
strumentale del lavoro, dopo un attacco
martellante passa in rassegna tutte le caratteristiche finora ascoltate: contro-tempi,
assoli al fulmicotone, tempi dispari, stacchi
tecnicamente impossibili da eseguire (come
quello creato, in questo stesso pezzo, da
John Myung col suo basso distorto) tanta
potenza metal, velocità ed una grande perizia strumentale. Con "One Last Time" e
"The Spirit Carries On" ci si avvia al termine di questo entusiasmante viaggio musicale per il mezzo di due pregevoli ballate che
richiamano, a livello strumentale e vocale,
rispettivamente "Overture 1928" e
"Regression", vedendo numerosi interventi
d'impronta blues di Petrucci, il quale nel
corso della seconda canzone (impreziosita
dalla presenza di cori gospel) regala anche
un bel solo melodico. Siamo alla conclusione e "Finally Free" in dodici minuti racconterà il finale della storia, e dei suoi personaggi, alternando atmosfere tranquille ad
improvvisi colpi di scena. Lavoro consigliato agli amanti della buona musica, indipendentemente dai generi preferiti. Un concentrato di emozioni irripetibili! Buon
ascolto.
attraverso un'atmosfera oscura che si stempera in un ritornello dolcissimo. "Through
My Words" è un breve intermezzo pianistico che introduce "Fatal Tragedy", canzone
cupa e misteriosa caratterizzata da una ritmica trita-sassi in mid-tempo del chitarrista
John Petrucci, cui segue una seconda parte
caratterizzata da un repentino cambio di
tempo che velocizza la canzone, e durante
il quale lo stesso Petrucci ed il tastierista
Jordan Ruddess si esibiscono nei consueti,
e funambolici, "duelli" chitarra-tastiera.
Altro pezzo da incorniciare. La prestazione
di Ruddess in questo album (il primo con i
Dream Theater) è davvero notevole, con
uno stile tastieristico che adotta soluzioni
blues, jazz, classiche, fusion e addirittura
ragtime. "Beyond This Life", introdotta da
un riff quasi hardcore, continua la corsa
dell'album come un fiume in piena tra la
doppia cassa del batterista Mike Portnoy, la
ritmica pulsante del bassista John Myung,
ed assoli velocissimi che precedono un
deciso stacco. Ennesimo brano (caratterizzato da un ritornello inquietante ed efficace) che lascia a bocca aperta quanto a com-
LA TRAMA DEL CONCEPT
Un uomo, Nicholas si reca in uno studio psichiatrico per cercare di liberarsi dagli incubi
che lo tormentano durante la notte e gli fanno
vedere immagini della vita passata di una
ragazza, di nome Victoria, che fu assassinata
insieme al suo fidanzato Julian. Visto lo stile
di vita di quest'ultimo, caduto in disgrazia e
dedito al gioco d'azzardo, Victoria è costretta
ad abbandonarlo per rifugiarsi tra le braccia
del fratello-gemello Edward, un potente senatore che si innamora di lei.
Victoria però sente di amare ancora Julian e
così i due decidono di vedersi segretamente.
Edward sospetta di Victoria e si reca a casa di
Julian dove trova i due innamorati. Spara ai
due e lascia una lettera in tasca al fratello che
farebbe pensare prima all'omicidio di Victoria
e poi al suo suicidio. Dopo circa 40 anni l'anima di Victoria si è reincarnata in Nicholas. Lo
psichiatra lo ipnotizza e gli permette di ricordare tutto, tranne che dell'omicidio. Nicholas,
alla fine della seduta, durante il tragitto che lo
riporta a casa, improvvisamente si ricorda
tutto…
TRIPS AND TRICKS
RUBRICA SEMISERIA DI LIUTERIA & CONTORNI...
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Settaggi e manutenzione: oltre la meccanica ondulatoria...
di Emmanuel Granatello
Studente di Ingegneria Elettronica, è un grande
appassionato di musica rock, metal e progressive.
Polistrumentista, è esperto di liuteria e sound
engineering.
Chitarristi e curiosi, quante volte vi sarà capitato di cambiare le corde
alla vostra "donna", di cercare di tirare fuori il meglio di lei attraverso settaggi, "manovraggi", "aggiustaggi", "truccaggi", per poi scoprire che avete fatto solo danneggi?
A me, un sacco di volte, fin quando ho deciso di mettermi l'anima in
pace e sono andato dal liutaio a farmi spiegare un po' di cose, spendendo anche qualche soldo (soldi spesi bene, direi).
Mi sono fatto una piccola cultura di settaggio e manutenzione dello
strumento che ho deciso di condividere con i lettori del magazine, per
evitare errori che ho commesso, i quali, sommati, vi porterebbero a
comprare una nuova chitarra, perché la vecchia è diventata "'na
mazza 'e scopa".
In questo numero parleremo dell’operazione più comune nel settaggio, ossia il famigerato cambio delle corde. A molti potrà sembrare un
lavoro di banale importanza, ma ricordiamoci che sono le corde a
suonare per prime, poi i pick up (i "microfoni" della chitarra elettrica), poi il ponte, e poi il corpo, infine anche il manico gioca un ruolo
decisivo. A questo, però, ci arriveremo piano piano nei prossimi
numeri.
Veniamo al dunque. Prima di iniziare guardiamo il gioiellino e ci
chiediamo: che ponte ha la mia chitarra? A questo punto, armiamoci
degli attrezzi del mestiere....
Sdraiate la chitarra su un piano per avere la situazione sotto controllo e rialzate il manico appoggiandolo su un piedistallo (o una pila di
libri).
"Scordiamo" la corda che ci interessa cambiare, oppure, se vogliamo
cambiarle tutte, iniziamo dal Mi basso. Tagliamo la corda non appena si trova ad una tensione tale da garantire l'incolumità della nostra
faccia, srotoliamola dalla chiavetta (quel "pirulino" che gira quando
accordiamo, per chiarirci), e sfiliamola dal ponte… e mo’ come si fa?
[1] Togliamo il coperchio del vano. Se spingiamo la corda, posta
sopra il ponte, la vedremo
comparire magicamente dal
foro corrispondente della parte
inferiore di questo.
[2] Il floyd ha un sistema di
bloccaggio a vite, ossia con la
corda stretta ad un capo da un
morsetto. Quindi, bisogna
allentare la vite con il chiavino
esagonale da 3 mm e, molto
semplicemente, togliere la corda. Al sistema Floyd Rose dobbiamo
dedicare un'attenzione particolare poiché è basato sul bilanciamento
della tensione corde-molle. Per evitare che il floyd "scenda" quando
togliamo le corde (mi raccomando: una alla volta!), basta bloccarlo
con uno spessore da inserire sotto le viti dei morsetti.
Inoltre, sul capotasto non è difficile notare un bloccacorde: è questa
la genialata che ci permette di mantenere l'accordatura anche dopo usi
e abusi violenti della leva-vibrato. Questo pezzo va tolto con la chiave esagonale da 3 mm per permettere alle corde vecchie di lasciare il
posto alle nuove.
[3] E' simile al Fender, con in più la comodità di non usare il cacciavite come un bisturi sulla schiena dalla nostra “amica”, perché le
corde non attraversano il corpo, ma sono fissate al ponte (allo stoptail).
Ora che la corda vecchia è stata buttata (mi raccomando, non fate
come me, che a volte me le ritrovo nel letto….) accingiamoci ad
osservare alcuni accorgimenti per allungare la vita dell'hardware.
Bisogna, inoltre, assolutamente stringere le boccole delle meccaniche
con la chiave da 10 mm e le viti delle chiavette, come in figura.
Fatta questa ramanzina, passiamo ad inserire la nuova corda con un
procedimento che può essere approssimato all'inverso dell'operazione precedente… e di nuovo abbiamo 3 casi:
[1] Passare la corda dal lato senza pallino, in modo che questo la
bloccherà una volta passata tutta dal foro corrispondente del ponte.
Successivamente bisogna infilarla nel foro della chiavetta corrispondente, mettendola sotto l'abbassacorde. Prima di fissarla, bisogna
"dare un po' di corda alla corda" (è brutto dirlo così, ma non saprei
spiegarmi altrimenti), facendo in modo da formare un triangolo, la
cui base è la chitarra e i due lati uguali sono le due metà della corda,
che ha un'altezza di almeno 15 cm (non preoccupatevi, non c'è bisogno di usare la squadretta: è una misura indicativa). Attenzione!
Questo procedimento è importantissimo e vale per qualunque tipo di
chitarra, poichè avvolgendo più corda attorno alla chiavetta, l'accordatura si mantiene più stabile; non è un arcano: questo fenomeno è
basato sulla teoria della meccanica ondulatoria, che in questo
momento però non ci interessa…. Avvolgiamo la corda tenendola
sempre tesa verso l'alto senza dare strattoni, così quest’ultima si stira
piano piano.
[2] Dopo aver letto quanto segue - imprecherete su chi vi ha fatto
comprare la vostra chitarra da shredder! - si comincia dalla paletta,
contrariamente a quanto detto prima… Eh lo so: è complicato ma,
diversamente da quello che dice la maggior parte dei chitarristi, io lo
trovo molto più ricco di vantaggi che di svantaggi. Dipende, come
sempre, dai gusti musicali. Dopo aver passato completamente la
corda dal foro della chiavetta dal lato senza pallino, bisogna stirarla
sul manico e fare in modo di formare il triangolo come per il caso precedente, con la difficoltà in più che la corda non deve essere fissata
al morsetto del ponte, ma essere mantenuta all'altezza del morsetto…
Vedrete che vi avanza corda, e quindi, zac!, la tagliate con i tronchesini. Ora è il momento di fissarla e avvolgerla, come detto sopra.
[3] Dopo la disavventura Floyd Rose, rilassiamoci un attimo: per questo sistema il discorso è uguale a quello fatto per il Fender, con la differenza che i fori dove si blocca il pallino sono sul ponte, che è fissato al top (Evviva!)
E adesso? Accordiamo e suoniamoci una “granta” “Smoke on the
water”...
Fuori/Fuoco La memoria che scava nell’oblìo
10
a cura di Giuseppe Morrone
Syd Barrett. Il Genio Tragico
Appunti per una ri-costruzione musicale e d'esperienza
Syd Barrett. Un folle visionario, un genio incompreso, un artista maledetto. Quando negli
ambienti musicali, o fra i sinceri appassionati, si
pronuncia il nome del fondatore dei Pink Floyd i
visi si rigano di lacrime, o di cinico disprezzo, e
gli occhi si illuminano, o si insospettiscono; le
alternative dipendono dai casi, "di coscienza"
sarebbe opportuno aggiungere. Dileggiato come
sballato cronico od esaltato in quanto agitatore
psichedelico, la sua arte, spontanea e viscerale
come un quadro dai colori carichi, non è mai
sfuggita alla doppiezza dei giudizi. L'incoerenza
domina sovrana e le stesse, puerili, pretese di
rappresentarlo soltanto come una sorta di relitto
evaporato dalle nebbie fumose della Londra fine
anni '60, si scontrano con la musica, ed i testi, che
ci ha lasciato in consegna. Andiamo a conoscerlo da vicino.
Roger Keith Barrett nacque il 6 gennaio 1946, a
Cambridge. L'appellativo Syd, mediante il quale
diventerà popolare, gli fu attribuito da alcuni
compagni di scuola. Dal 1962 al 1965, Barrett,
chitarrista elettrico e poi anche cantante, fu promotore, o coinvolto, in una discreta sequela di
complessi, tutti progenitori dei Pink Floyd. La
prima formazione del leggendario gruppo sorse,
in seguito, fra la fine del 1965 e l'inizio del 1966.
In questo periodo, e fino al 1967 (anno della pubblicazione del disco d'esordio "The Piper at the
gates of dawn"), i Pink Floyd, e Barrett in particolare (ormai assurto a leader indiscusso), dopo gli
esordi venati di folk e blues, si misero in luce fra
concerti eccentrici, suoni spaziali, abiti sgargianti
e sperimentazioni avanzate di droghe allucinogene. In sintesi, crearono la scena psichedelica
inglese. E Barrett ne costituiva il faro: magnetico,
idealista, sarcastico e completamente fuori dagli
schemi. Idolatrato perfino dai Beatles. Ma, come
in una favola dal finale amaro, a seguito dell'enorme impressione suscitata da "The Piper", gemma
acida e strabiliante creatura partorita dalla genialità squassante di Syd, cominciarono i guai. Gli
abusi di Lsd e Mandrax, l'estrema fragilità caratteriale, la voglia di ardire oltre il limite, le sparizioni improvvise, le turbe mentali ed i comportamenti astrusi sempre più evidenti (i quali, a dire il
vero, dettero vita ad una fortunata, quanto deplorevole, serie di leggende metropolitane), che
ormai contraddistinguevano Barrett, costrinsero il
resto dei Pink Floyd a prendere contatto con la
cruda realtà. Venne convocato in tutta fretta
David Gilmour, buon chitarrista e vecchio amico
di Syd, nel tentativo di dar vita ad una sorta di formazione "a 5", con Barrett relegato nel ruolo di
autore dei testi stanti la sua incapacità persino di
accordare lo strumento ed i lunghissimi silenzi
regalati agli astanti (atteggiamenti che compromisero tourneè, interviste televisive o anche semplici discussioni fra amici), forse carichi di osservazioni e domande inevase. L'esperimento durò
poco, giusto qualche mese, in quanto Syd, forse
indispettito dalla presenza di Gilmour e dai calcoli di bottega compiuti a danno delle sue sventure,
prese a provocare il suo sostituto, sempre per il
tramite dei suoi sguardi assenti e persistenti.
Ormai non ci si preoccupava più di recuperarlo o
di andarlo a cercare, era semplicemente sorvolato
"in un'altra dimensione". Nel marzo del 1968,
come recitarono le cronache dell'epoca, Syd
Barrett fu "ufficialmente allontanato" dai Pink
Floyd. Il suo celebre epitaffio, posto in chiusura
del secondo disco dei Floyd ("A Saucerful of
Secrets", 1968), s'intitolava "Jugband Blues" (per
la cui registrazione Syd aveva cooptato la banda
dell'Esercito della Salvezza, intimandogli di suonare "assolutamente a caso"!) e recitava, quasi per
il tramite di un lucidissimo atto di coscienza schizofrenica, in questa maniera: "è tremendamente
cortese da parte vostra pensarmi qui. E vi sono
molto obbligato per aver chiarito... che non ci
sono". Esaurita la fase floydiana, la carriera solistica di Syd Barrett fu ostacolata dai gravi problemi mentali richiamati, ma, è bene chiarire, che
proseguì, seppure a singhiozzo, fino ad interrompersi, definitivamente, soltanto nel febbraio del
1972 (quando ebbe luogo, nella natia Cambridge,
la sua ultima esibizione "dal vivo", con un complesso chiamato "Stars"). Syd registrò e pubblicò,
fra mille difficoltà, due dischi ("The Madcap
Laughs" e "Barrett", entrambi nel 1970), metafore reali delle sue enormi qualità artistiche mescolate ai travagli psichici che lo stavano disintegrando. Ritratti fedeli, e sofferti (anche per chi li ascolta), di una perla in de/composizione. Syd rimase
a Londra, dove fu oggetto di numerose chiacchiere da parte della stampa, sciacalla come sempre,
e di migliaia di cosiddetti "Syd sightings" (avvistamenti), data la sostanziale irreperibilità delle
sue tracce. Ormai il mito era in irrefrenabile ascesa, condito dalle minuziose, e spesso fantasiose,
descrizioni di episodi che lo avrebbero colto
come folle protagonista. L'unico dato certo era
che la sua salute continuava a non destare segni di
miglioramento. Nel 1975, e questo episodio è
confermato da più testimonianze, durante le sessioni di registrazione che i Pink Floyd tennero per
"Wish you were here" accadde una circostanza
quasi mistica. Mentre la band era intenta a finalizzare i dettagli di "Shine on your crazy diamond",
la superba suite giusto a Syd dedicata, di fronte ai
musicisti si materializzò un'inquietante sagoma,
sovrappreso, sghignazzante e con i capelli cortissimi. Tutti pensarono che fosse un custode. In
realtà era un irriconoscibile Barrett, il quale, dopo
aver pronunciato qualche strascicata parola, se ne
andò mestamente. Sul finire degli anni '70, Syd si
ritirò a Cambridge presso la casa abitata dalla
madre e dalla sorella, dove continuò a vivere in
isolamento, spesso segregandosi in soffitta, passando la maggior parte del tempo a dipingere.
Degli ultimi 25 anni, trascorsi sempre a
Cambridge, non si sa nulla con certezza, se non
aneddoti ingigantiti, foto rubate (e fatte circolare)
alla quotidianità di un soggetto in privato, sporadiche uscite in bicicletta, ulteriori tracolli e parziali riprese, perfino un paio di interviste, piuttosto
stralunate, concesse ad alcune riviste musicali. E,
parallelamente, la crescita esponenziale delle
dicerie di contorno, della smania di collocare il
Personaggio/Syd
nelle
fattezze
del
Pazzo/Drogato, del simboleggiare una trasgressione ideologicamente bollata come negativa.
Atteggiamenti stereotipati ed irrispettosi della
stessa volontà, espressa pur sempre da una persona in carne ed ossa, di voler, magari, trascorrere
un lasso di umana esperienza in penombra, autonomia e tranquillità, nonostante i propri interiori
squilibri. A spezzare tale catena di sofferenze,
concrete ed astratte, per Syd Barrett, il 7 luglio
2006, è giunta la serena morte, all'età di 60 anni.
A noi profani posteri resterà il frutto delle sue percezioni distorte, della sua immaginazione colorata, dei suoi accordi cosmici, del suo sguardo penetrante. Potrà bastarci per imbastire sogni e viaggi
futuri. Il sensazionalismo, ed il qualunquismo,
lasciamoli a chi se ne occupa di mestiere...
Per concludere, vi propongo un'interpretazione
arguta, e giustamente complicata, concernente le
probabili cause della deriva di Syd. E' stata elaborata da un tizio che assomma in sé molte analogie
con Barrett, quindi probabilmente in grado di carpire la sua sensibilità. Si tratta di Julian Cope, cantautore inglese dal cervello fluido e dalla lirica
straniante.
"Syd Barrett è stato il primo autore a forte impatto psichico della musica pop a competere con
John Lennon... Le limitazioni paralizzanti delle
dinamiche commerciali, a cui fu costretto prematuramente, causarono a Barrett un'insostenibile
sofferenza: è quasi impossibile per un artista,
infatti, limitarsi al perseguimento del raggiungibile, ma era proprio questo che pretendevano da
lui gli altri componenti dei Pink Floyd. Credo che
quando Barrett se ne rese conto, la sua sottile
aderenza alla realtà venne meno ed egli cadde nel
vuoto. E' stata come una Morte Artistica ed una
tragedia dalle proporzioni leggendarie."
Ex-cursus
Navigando ad arte...
11
L’incomprensibile teatro delle immagini sociali
“Il Rivoluzionario”, monologo di Maurizio Igor Meta
Maurizio Igor Meta si è formato studiando con
numerosi professionisti del teatro e del cinema,
perfezionandosi all'Accademia Nazionale
d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" di Roma.
La Compagnia "Teatro Novecento", di cui è
socio fondatore unitamente a Cinzia Sità, si
occupa di teatro, danza e cinema e nasce dalla
necessità di raccontare persone, vite, fatti,
suoni, parole, immagini, gesti, sorrisi, amarezze e silenzi del nostro tempo. L'intervista che ci
ha concesso concerne una discussione a proposito della sua ultima creazione teatrale, "Il
Rivoluzionario", regia di Cinzia Sità, di cui è
autore ed interprete. Il monologo è stato oggetto di una tourneè che ha toccato, nel corso del
2007, varie zone d'Italia.
La forma del monologo, nel teatro, esprime
una volontà d'indagare riflessivamente le
tematiche che si vanno a trattare. Era questa la tua intenzione quando la hai scelta
oppure credi che le sofferenze, le criticità si
possano amalgamare anche in una sceneggiatura corale, mantenendo la stessa profondità d'approccio?
Si è trattato di una scelta istintiva, necessaria e
obbligata. In questo momento del mio percorso artistico non potrei esprimermi in maniera
diversa, ma credo che una drammaturgia con
più interpreti possa trattare le contraddizioni
sociali e i drammi interiori alla stessa stregua
del monologo. Per quanto riguarda me, ripeto,
è stata una scelta istintiva perché nata spontaneamente, non decisa a priori, per l'urgenza
che io avevo di affrontare certi temi.
Necessaria perché ad un certo punto del mio
percorso artistico ho sentito l'esigenza di mettermi alla prova. Obbligata perché ad un certo
punto della mia vita ho capito che non avrei
potuto fare altro se non l'attore. Ma se aspetti
che ti chiamino puoi attendere anche tutta la
vita, almeno per me è stato così, e così ho
dovuto trovare la strada per fare ciò che ho
sempre voluto, ed è stato difficilissimo.
Le quattro figure da te individuate, per tramite della riflessione permanente di uno
scrittore, nella ripartizione del monologo "Il
Rivoluzionario" (un commerciante avido di
ricchezza, un giovane idealista e senzatetto,
un pugile prima famoso e poi dimenticato,
un tifoso fanatico e violento) potrebbero
corrispondere ad altrettanti ambiti di contraddizione sociale (l'invadente mercato, le
difficoltà pratiche e quasi lo schernimento
nel tenere un comportamento eticamente
corretto, i valori dell'ambizione e dell'agonismo e/o la conseguente caducità di questi, la
violenza ingiustificata come valvola di
sfogo) intimamente connessi alle crisi di
civiltà, cultura e politica attuali. Almeno,
questa è la interpretazione che ne ho dato.
Raccontaci, per sommi capi, la struttura
dell'evento.
I personaggi sono cinque e il monologo è
unico. Lo scrittore, che fa da collante, non fa
altro che osservare e rappresentare
la realtà sociale, affidandosi anche
agli altri personaggi. Inizia seduto
su di una panchina abbracciato alla
sua valigia chiusa con una cordicella, dove è custodito tutto ciò che è la
sua essenza, tutto ciò che pensa.
Aprendola ci regala i suoi pensieri
più intimi, per bocca degli altri personaggi: un venditore che è disposto
a smerciare improbabili oggetti pur
di diventare "normale", cioè ricco;
un senzatetto che riflette sul significato di felicità che per lui è un caffè,
un panino con la salsiccia, qualcosa
da leggere e un posto dove dormire; un pugile
sognatore che raggiunge il successo arrivando
a disputare l'incontro per il titolo mondiale, ma
che poi, finito sul lastrico, continua a sognare;
un tifoso teppista che fa della violenza uno
stile di vita che non rinnega nemmeno di fronte al verificarsi di un evento drammatico.
Infine, prima dell'epilogo, lo scrittore provvede a richiudere la valigia.
Come appena rammentato, sullo sfondo, e
nella narrazione in apertura e chiusura di
scena, compare, la figura di uno scrittore
sovversivo, severo osservatore della realtà
che gli scorre accanto, il quale per tenere
fede alla sua irreprensibilità, e per non farsi
fagocitare dal sistema, giunge a smettere di
scrivere. E' davvero l'astrazione assoluta
dalla realtà, anche tramite gesti apparentemente illogici e disperanti, quello che ci consente di osservare con lucidità lo squallore
circostante?
Per rispondere a questo bisogna, esattamente,
focalizzare il momento in cui lo scrittore
riprende coscienza di sé e decide di smettere di
scrivere perché dice: "se sapessero quello che
penso sarei già appeso al muro". In questo
senso, lo scrittore assolutamente non si astrae
dalla realtà, ma è un uomo arrabbiato che rifiuta un sistema al quale, suo malgrado, non può
sottrarsi. E il cappello che, alla fine, rimane
appeso al muro sta ad indicare proprio questo.
In principio d'intervista ci confessavi che il
viatico per esprimersi liberamente, e secondo le proprie capacità e interessi, continua
ad essere irto di ostacoli. Credo che questo
vada assunto, purtroppo, come fenomeno
generale, considerata la precarietà d'occupazione, e d'esistenza, che contraddistingue
questa fase storico/politica. Sarebbe utile, e
forse catartico, poter ascoltare un granello
della tua esperienza rispetto alla preparazione, anche autoriale, ed alla messa in
scena de "Il Rivoluzionario".
Provare a scrivere, capire di poterlo fare e poi
raccontare quello che hai scritto, mettere su lo
spettacolo e pensare praticamente a tutto, dall'aspetto artistico (scene, costumi, etc.) a quello gestionale (produzione, promozione, distribuzione, etc.), e poi restare in scena da solo per
quasi un'ora, sono tutte prove che ho dovuto
affrontare contemporaneamente, e avevo e
ancora ho, anche se in maniera diversa, timore
di non farcela, ma allo stesso tempo la grandissima forza di sapere di non poter fare altro, e,
cioè, raccontare a chi ha voglia di ascoltare, e
ascoltare i silenzi e i sorrisi di chi ha voglia di
starmi di fronte…o di lato…o magari seduto
sul palco come piace a me, vicino a me, come
è successo a Padova.
E' tutto merito tuo o hai da elargire qualche
riconoscimento particolare?
Voglio ringraziare la regista Cinzia Sità, che mi
ha seguito passo dopo passo in questo difficile
percorso ed è stata autrice di un disegno drammatico semplice ed efficace, Michele Demaria,
che col suo disegno luci ha dato un altissimo
contributo di qualità a questo spettacolo,
Alfonsina Malanga che è il nostro temerario
addetto stampa, Antonio Sirica autore della
locandina e delle foto di scena, e tutti quelli
che credono ne "Il Rivoluzionario" richiedendone la rappresentazione.
Giuseppe Morrone
La premiazione al “Rota in Festival”
Maurizio Igor Meta è stato insignito del
titolo di miglior attore nella sezione
“nuova drammaturgia” del “Rota in
Festival”. La rassegna si è svolta a
Mercato San Severino tra i mesi di ottobre e novembre 2007 ed è stata organizzata dalla Compagnia Stabile Città di
Mercato San Severino. Sei gli spettacoli
che hanno animato la manifestazione. La
serata di premiazione ha avuto luogo
presso il Centro Sociale “Biagi” il 25
novembre scorso.
In precedenza, "Il Rivoluzionario" è stato
selezionato nella rosa dei nove spettacoli più originali tra i centoventi lavori teatrali pervenuti alle selezioni del Festival
"Parlami di me... In viaggio attraverso le
diversità", tenutosi a Padova durante il
mese di dicembre 2006.
GenomART
12
Arte Digitale Contemporanea
www.genomart.org | www.genomart.eu
Marco Coraggio (direttore responsabile)
[email protected]
Carlo Quadrino (responsabile comunicazione)
[email protected]
GenomART è membro del comitato promotore di:
SCIENCE & ART ENTANGLEMENT
Comunità virtuale internazionale di ricerca tra
SCIENZA ed ARTE per una Miglior Qualità della
Vita
OPEN NETWORK FOR SCIENCE AND ART
www.exibart.com/blog/blog.asp?idutente=42470
powered by Media/Art/Cologne - www.mediaartcologne.org
in the framework of [NewMediaArtProjectNetwork]||:cologne www.nmartproject.net
directed and curated by Wilfried Agricola de Cologne
Il video People! prodotto da GenomART, è stato selezionato
per partecipare a “Cinemateque 2007”, rassegna dedicata alle
opere di videoarte fruibili con tecnologia QuickTime
dal titolo Cinema C - Slowtime 2007 - Quicktime as an artistic
medium. L'evento è inserito nel contesto più ampio del
NewMediaFest2007 www.newmediafest.org, primo festival
internazionale dedicato all'arte & new media, svolto in cooperazione con 3rd Digital Art Festival Rosario/Argentina,
november 2007. Il video è visionabile e scaricabile su
www.genomart.org
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