L`anti-islamismo spiegato agli italiani

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PREMESSA
Premessa
Sadi Marhaba
Anti-islamismo, cioè…
L’anti-islamismo, cioè l’ostilità o l’odio contro l’islàm e gli islamici
— soprattutto «perché sono fanatici e terroristi, schiavizzano le donne,
vengono da noi per delinquere» —, spiegato (così speriamo) in termini
di pregiudizio-razzismo agli italiani da parte di due autori anch’essi
italiani, malgrado i loro nomi e i cognomi. Questo, vuol essere il libro.
Uno dei due autori, quello che scrive questa premessa, è un professore universitario di psicologia (a Padova, da circa trent’anni), ed è figlio
di madre italiana (marchigiana) e di padre libanese musulmano; è vissuto sempre a cavallo tra i due mondi, Occidente e Oriente. Coautrice, è
una palestinese musulmana, naturalizzata italiana da venticinque anni,
pedagogista, che si confronta ogni giorno con i problemi degli alunni
musulmani (ma anche con quelli dei loro genitori e insegnanti) nelle
scuole di Padova, e con i problemi di adulti immigrati, in contesti di
prima assistenza. Autore e autrice sono uniti da matrimonio musulmano, effettuato all’estero e trascritto in Italia.
Particolari difficoltà linguistiche nel parlare dell’islàm
Che vi siano ostilità e odio contro l’islàm, nel mondo occidentale,
è innegabile. Addirittura, si può parlare, in molti casi, di una vera
«islamofobia» (vedi per esempio L, Conway, a cura di, 1997), con punte
massime dopo l’11 settembre 2001, il giorno dell’attacco terroristico
contro le Due torri di New York.
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Lo si vede fin dal linguaggio con cui si parla dell’islàm, che già in
partenza, mentre dovrebbe essere neutro, viene «piegato» in direzione
anti-islamica. L’esempio più clamoroso è il termine «islamismo», e l’altro
affine «islamista». In passato, quando l’islamofobia non era così forte,
«islamismo» era intercambiabile con «islàm», oppure indicava la cultura
e la tradizione islamica, più che la religione in senso stretto; e «islamista»
era lo studioso dell’islamismo o dell’islàm. Si diceva e si scriveva, per
esempio: «Il dialogo fra cristianesimo e islamismo…». Mio padre, per
fare un altro esempio, era un islamista, e da lui, nel Libano, venivano
dalla Francia e dall’Italia per studiare il pensiero islamico.
Ma oggi, mio padre, potrebbe avere dei guai se dicesse di essere un
islamista in presenza di un poco erudito poliziotto dell’Interpol o di un
agente della CIA in incognito. Come minimo, gli metterebbero il telefono sotto controllo. E questo, perché i Signori dell’informazione globalizzata hanno deciso, di recente, che «islamismo» significa tout court
«integralismo-terrorismo», e «islamista» significa tout court «integralista-terrorista».
Gli altri «ismi» delle religioni sono rimasti neutri (ebraismo, buddismo, induismo, eccetera), solo per «islamismo» si fa un’eccezione.
Insomma, hanno criminalizzato i termini di base di un qualsiasi discorso
sull’islàm. E se uno vuole parlare di «cose islamiche» senza parlare di
integralismo-terrorismo, deve cavarsela con sottigliezze linguistiche (per
esempio, deve dire «islamologo» invece di «islamista»).
Ma i libri, anche scolastici, le enciclopedie delle religioni, eccetera,
sono pieni di «islamismo» e «islamisti» nel senso neutro tradizionale, non
criminale, e le persone sensate che per una vita li hanno usati così,
continuano a farlo, mentre i giornalisti alla moda li usano in senso
criminale. Un giorno, in televisione, si tenne un dibattito sull’islàm (uno
dei tanti), e uno degli ospiti usava «islamismo» e «islamista» nel senso
neutro tradizionale, mentre l’altro li usava in senso criminale. Nessuno
rilevò l’anomalia, e gli spettatori non capirono niente del dibattito.
Ma non basta. Da «islamista» a «islamico» il passo è breve, e infatti
radio, televisione e giornali ormai dicono tranquillamente: «È stata
individuata una cellula islamica». Troppo lungo dire: «È stata individuata una cellula integralista o islamista (anche questo termine sarebbe il
male minore!). No, islamica e basta. Che è l’equivalente di cristiana o
ebraica. Provate a dire: «La violenza ebraica dei coloni israeliani colpisce
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i palestinesi», e il giorno dopo vi arriverà, giustamente, un avviso di reato
per razzismo. Se invece dite: «La violenza islamica colpisce gli israeliani»,
non vi succederà niente.
Cosa rimane da criminalizzare? Rimane il termine «islàm», però ci
stanno già pensando gli integralisti cristiani statunitensi, lo «zoccolo
duro» dell’elettorato di Bush (in base alla par condicio, bisognerebbe
chiamarli «cristianisti»), che hanno definito l’islàm «la religione del
Male».
Per i giornalisti scrupolosi, che cercano di distinguere, e si preoccupano per i lettori, non è facile esprimersi. Così, qualcuno di loro gioca sui
due termini, in realtà perfettamente equivalenti, «musulmano» e «islamico»: «musulmani» sono i buoni, quelli che pregano e basta, e «islamici» (o «islamisti», dipende dal giornalista e dalla giornata) sono i cattivi,
quelli che mettono le bombe. Come se ci fosse una differenza fra gli
«interisti» e i «tifosi dell’Inter».
Anche noi abbiamo avuto problemi terminologici nello scrivere
questo libro. In particolare, nel capitolo secondo dovevamo parlare a
lungo dell’integralismo religioso, che è da condannare; ma volevamo
distinguerlo dalla vera religione islamica, che non fa del male a nessuno. Come fare? Avremmo potuto usare le virgolette, e scrivere: l’integralismo religioso «islamico», così come si mettono le virgolette alla
parola «cristiano», nella frase: «Costantino, il primo imperatore “cristiano”, uccise sua madre e i suoi figli», per indicare che in lui di
cristiano c’era ben poco. Tuttavia, le virgolette si vedono solo nello
scritto, non si sentono nel parlato, mentre la lingua italiana ci offre un
ottimo prefisso: «pseudo», cioè «falso», che si può utilizzare per tutte le
religioni. Così, gli integralisti e terroristi che dicono di operare in
nome della religione islamica, mentre ciò è falso, diventano «pseudoislamici»; gli integralisti e terroristi che dicono di operare in nome della
religione cristiana, mentre ciò è falso, diventano «pseudocristiani»; gli
integralisti e terroristi che dicono di operare in nome della religione
ebraica, mentre ciò è falso, diventano «pseudoebraici»; e così via.
Islamismo, nel senso criminale, diventa «pseudoislamismo». «Trovata
una cellula islamica o islamista» diventa: «Trovata una cellula pseudoislamica».
Quest’uso dovrebbe togliere ambiguità e veleno nella comunicazione su temi così delicati.
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L’anti-islamismo nel contesto italiano
E nel contesto specificamente italiano, quanto pesano l’ostilità e
l’odio contro l’islàm?
Non poco, se si pensa a certi episodi riferiti dai giornali, e ai molti
altri identici, che accadono ogni giorno senza che nessuno li riferisca, in
relazione agli immigrati islamici. Come nel caso di quel sindaco di una
piccola e ricca città del nord-est, il quale ha dichiarato (per scherzare, ha
poi detto, ma sono scherzi di cattivo gusto) che lui chiuderebbe gli
immigrati nei vagoni piombati; oppure che, per fare esercitare i cacciatori, si potrebbero vestire gli immigrati da leprotti, e poi «tin, tin, tin». E
un ministro della Repubblica voleva nominare questa persona sovraintendente ai rapporti con gli immigrati…
L’ostilità e l’odio pesano non poco, se si fa una visita nelle carceri
italiane, o si parla con gli assistenti sociali della condizione in cui si
trovano gli immigrati islamici reclusi.
E sui muri di parecchie città italiane si possono leggere scritte
violentemente anti-islamiche, e molte persone della Milano-bene dicono con disinvoltura, fra un drink e l’altro, che i musulmani «bisognerebbe bruciarli tutti».
E ci sono i testi di storia che insegnano che nel Corano c’è la guerra
santa, mentre non c’è, ma nessuno si sogna di correggerli.
E c’è un testo di studio di mio figlio, 14 anni, in cui è scritto che gli
uomini islamici, obbedendo al Corano, convivono con molte donne,
sebbene le donne siano impure come i maiali; ma che bisogna ugualmente rispettare l’islàm, perché esprime un’altra cultura (io, invece, se
l’islàm dicesse veramente queste cose, non lo rispetterei affatto).
Oppure, più semplicemente, in televisione, tutti possono parlare
dell’islàm e dire sciocchezze in libertà, parlare dei contenuti del Corano
senza neppure sapere com’è fatto.
La grande maggioranza degli italiani è in balìa della disinformazione e della diffamazione sull’islàm. I veri conoscitori dell’islàm ci sono, ma
sono persone serie che se ne stanno chiuse nei loro studi, per cui in
televisione ne parlano quasi soltanto i tuttologi. Ci sono eccezioni, come
Franco Cardini o Stefano Allievi, e ci sono intellettuali come Giulio
Giorello, il quale dichiara alla radio che l’Europa ha tre identità storiche:
quella cristiana, quella ebraica e quella islamica.
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Ma sono poche eccezioni, troppo poche. Mentre la Francia, che
per via delle colonie ha con sé i musulmani da molte generazioni, ha
direttori di case editrici prestigiose e dozzine di professori universitari che
sono musulmani (qui da noi ce ne sono solo due o tre); e grandi
intellettuali molto vicini o convertiti all’islàm come i Massignon, i
Rodinson, i Garaudy.
Tuttavia, gli italiani hanno un buon senso radicato in una lunga
tradizione di civiltà (mentre i razzisti in genere non hanno molto buon
senso). In Italia, non c’è una «vera» cultura razzista annidata nel profondo delle menti e diffusa, e non vi sono stati italiani (mentre vi sono stati
francesi, tedeschi e inglesi, come Houston Stewart Chamberlain) fra i
teorici del razzismo. Quello vero.
E poi, come si fa a prendere troppo sul serio il campione «celtico»
del razzismo nostrano e anche dell’antimeridionalismo, che ha i tratti
facciali di un beduino (a me, personalmente, simpatici), ammicca come
un napoletano e gesticola come un siculo? Basterebbe doppiarne la voce
in dialetto siciliano, e il gioco sarebbe fatto. Provate invece a doppiare
Joerg Haider, il politico austriaco nostalgico del nazismo, quello che
minimizza il genocidio degli ebrei e dice che gli SS erano «ragazzi di
carattere», e vedrete che proprio non funziona…
Persino molti extracomunitari, dopo un po’ che stanno qui, sorridono dell’italico razzismo; mentre non sorridono affatto quando parlano dei ghetti di altre città europee, dove sono stati prima di venire in
Italia. Lì, il razzismo reale è duro, anche se i sindaci non dicono che
bisognerebbe impallinare gli immigrati.
E poi, in Italia, ci sono anche migliaia di iniziative pubbliche e
private, cattoliche e laiche, a favore degli immigrati, e anche nella città di
quel sindaco «impallinatore» ci sono centri di accoglienza e di formazione, dove si cerca di farli sentire anzitutto come persone, e non solo come
forza-lavoro necessaria all’industria italiana. E c’è una robusta cultura e
formazione universitaria all’interculturalità (basti pensare ad alcuni professori dell’Università di Bologna come Andrea Canevaro, direttore della
rivista «Educazione interculturale», Antonio Genovese, Giulio Hasan
Soravia). E c’è una Chiesa cattolica che è capace di chiedere perdono per
gli errori del passato, con documenti pubblici straordinari e lungimiranti, che dovrebbero essere presi a modello da tutti, anche al di fuori delle
religioni.
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Il quadro generale, insomma, è complesso, come sono complesse
e polivalenti tutte le cose italiane. Il razzismo c’è, e fa male a chi lo subisce;
anche molto male. Ma è un razzismo all’italiana, e penso faccia meno
male del razzismo di altri Paesi (mi viene in mente il razzismo dei coloni
israeliani verso i palestinesi; credo che sia inimmaginabile, per un italiano, anche per il più razzista degli italiani).
Il silenzio dell’islàm
L’islàm non contribuisce, né in Italia, né altrove in Occidente, a
chiarire le cose, a differenziarsi dalla propria galoppante caricatura; dallo
«pseudoislàm». L’islàm non cura la propria immagine, né promuove la
conoscenza di se stesso in Occidente.
Parlano solo gli integralisti, che non sono l’islàm, come i mafiosi
non sono gli italiani.
Accade come se, fra gli italiani, parlassero solo i mafiosi, e tutti gli
altri italiani tacessero.
L’islàm, quello vero, è paziente, o indifferente, o assente.
Neppure si difende. Quando viene attaccato l’ebraismo o una
qualsiasi delle sue espressioni, anche solo con una scritta offensiva su un
muro, i miei amici delle comunità ebraiche italiane sporgono querele e
mobilitano la stampa e la televisione, o persino chiedono e ottengono le
scuse del capo dello Stato. Certo, gli ebrei hanno avuto un passato molto
difficile in Italia, e i musulmani no, qualunque cosa si pensi del presente
che stanno vivendo; ma è anche vero che i musulmani in Italia sono
centinaia di migliaia, mentre gli ebrei sono circa trentamila. E se è vero
che gli ebrei in Italia sono italiani da sempre, è anche vero che un numero
crescente di stranieri musulmani diventano cittadini italiani, per naturalizzazione, analogamente a quanto è avvenuto in Gran Bretagna e in
Francia; per non parlare dei matrimoni misti e dei cittadini italiani
(pochi) che si convertono ogni anno alla religione islamica.
Ma, malgrado queste presenze islamiche, poco si muove in difesa
del vero islàm.
Se ne chiedeva il perché, parlando con me tempo fa a Parigi,
Michel Dousse, che allo studio dell’islàm ha dedicato tutta la vita. Senza
trovare una risposta certa.
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Forse, l’islàm — se proviamo a «personificarlo» — non vuole
forzare le cose, aspetta che ciò che deve accadere accada. Non sarebbe
«fatalismo», ma un modo di fare in antitesi con la frenesia occidentale,
che vuole accelerare, anticipare e controllare tutto.
Oppure, c’è nell’islàm una sorta di paralisi di fronte all’enormità
del compito, cioè far cambiare l’idea che sull’islàm stesso hanno centinaia di milioni di persone. Cosa farebbe un cristiano, in un contesto in cui
tutti fossero convinti che il concetto di «Emanuele», cioè «Dio è con
noi», fosse efficacemente espresso da «Gott mit uns» scritto sui cinturoni
degli SS nazisti? Proverebbe ad aprire bocca, a spiegare la differenza, ma
ci sarebbe un tuttologo che gli direbbe imperiosamente: «Eh no, Lei non
può negare l’evidenza, è chiaro che le parole sono le stesse!». Forse, quel
cristiano non avrebbe la voglia o la forza di replicare.
Oppure, nell’islàm manca semplicemente un’efficace organizzazione della comunicazione.
Oppure, gli islamici più consapevoli sono spaventati dalle differenze oggettive fra le due culture: per esempio, come rendere efficacemente
per gli occidentali i diversi significati che può avere una parola della
lingua araba?
O ancora, forse gli intellettuali arabi (e islamici in genere) vogliono
consapevolmente perdere le loro origini islamiche, e occidentalizzarsi del
tutto.
In ogni caso, quali che siano le cause (e probabilmente sono varie
e fra loro intrecciate), il risultato è lo stesso: l’islàm resta un gigante
sconosciuto. Così vicino geograficamente all’Occidente, inserito nel
cuore stesso dell’Europa, eppure così ignoto non solo all’occidentale
medio, ma anche ai cristiani praticanti e alle classi colte dell’Occidente.
La conoscenza dell’islàm è quindi lasciata all’iniziativa degli occidentali che hanno una particolare sensibilità, che vogliono vedere e
capire al di là delle contingenze/emergenze politiche e sociali, come il
fenomeno dell’integralismo religioso o le immigrazioni in Europa degli
extracomunitari.
Degli occidentali che, veramente moderni, avvertono anche la crisi
in atto della modernità occidentale, e il bisogno di attingere o riscoprire,
in altre culture e stili di vita, certi valori di pietas quotidiana, di rapporto
umano caldo, di appartenenza e solidarietà, di ospitalità, come antidoto
contro la disumanizzazione, la tecnicizzazione, la schiavitù ai ritmi del
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lavoro, l’individualismo e l’indifferentismo che sono presenti, soprattutto fra i giovani, nei nostri Paesi.
Degli occidentali, infine, che sono attratti dal forte senso della
Trascendenza, che caratterizza l’islàm, e dalla sua particolare via mistica
chiamata sufismo.
La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci
Che i musulmani non avrebbero reagito, e che quindi lei avrebbe
potuto criminalizzarli in blocco, senza problemi o conseguenze, lo sapeva bene la signora Oriana Fallaci, autrice del best-seller del 2001-2002
La rabbia e l’orgoglio (Milano, Rizzoli).
Si tratta di un libercolo in cui un razzismo idiota e duro —
influenzato dall’integralismo pseudocristiano assai cresciuto recentemente negli Stati Uniti, dove l’autrice vive — si combina con un’abnorme smania protagonistica e con le visioni sconnesse di una persona che
da anni vive da sola, chiusa in un grattacielo di New York.
Nel libercolo c’è una sequela di banalità che sembrano tratte da una
parodia, di quelle gustose che fanno alla radio: i politici italiani sono dei
voltagabbana, c’è tanta divisione nei partiti politici, sulle strade ci sono
le prostitute, l’Unione Europea serve solo a scipparci del parmigiano e
del gorgonzola, i giovani di oggi sono dei somari che non si impegnano,
Parigi è più moderna di Teheran, lei da anni non vota per nessuno perché
non si fida di nessuno, i fascisti restano per sempre fascisti e i comunisti
per sempre comunisti, ai ladri che ti sparano non puoi sparare, eccetera.
Le frasi più «forti», naturalmente, riguardano l’islàm: i musulmani
sono «i fottuti figli di Allàh» (p. 35), «nove Imam su dieci sono Guide
Spirituali del terrorismo» (p. 32), «il Corano ammette la menzogna, la
calunnia, l’ipocrisia» (p. 31), «il Corano ordina di compiere abusi sulle
donne» (p. 104), il Dio dei musulmani è «misericordioso-e-iracondo»
(p. 28), in Afghanistan non cambia niente, dopo i Talebani, «perché gli
attuali vincitori pregano Allah quanto gli attuali sconfitti» (p. 26), «le
moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni» (p.
84); e credo di aver detto l’essenziale.
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C APITOLO PRIMO
Tre parole chiave:
islàm, arabi, pregiudizio
La prima parola chiave: islàm. I suoi due significati
La prima parola chiave per il nostro discorso è «islàm» (si
pronuncia «islàm» con l’accento sulla «a», non «ìslam» con l’accento
sulla «i»).
La radice della parola «islàm» è la stessa della parola araba «salàm»,
e della parola ebraica «shalòm», che significano «pace». Ebraismo, cristianesimo e islàm appartengono alla stessa famiglia abramitica, cioè fanno
tutte e tre riferimento al patriarca Abramo, citato come «capostipite»
nella Toràh, il Libro sacro degli ebrei, nei due Testamenti (Bibbia e
Vangelo) dei cristiani, e nel Corano (vedi SCHEDA N. 1) dei musulmani, rivelato da Dio-Allàh al Profeta Muhàmmad (vedi SCHEDA N. 2)
circa 1400 anni fa. Queste tre religioni obbediscono alle stesse Tavole dei
Dieci Comandamenti e adorano lo stesso Dio. Infatti, la parola «Allàh»
altro non è se non l’esatto corrispettivo, nella lingua araba, della parola
«Dio» per gli italiani, «God» per gli inglesi, «Gott» per i tedeschi, «Dieu»
per i francesi, eccetera. Gli arabi cattolici chiamano Dio «Allàh», esattamente come i musulmani, e i sacerdoti arabi usano la parola «Allàh» nella
Messa e nelle omelie.
Oggi l’islàm è una grande religione, seguita da circa un miliardo e
duecento milioni di persone in tutti i continenti, ma soprattutto in Asia
e in Africa (vedi SCHEDA N. 3).
È la seconda religione al mondo, quanto al numero dei suoi
seguaci, e viene subito dopo il cristianesimo, che fra cattolici, protestanti,
ortodossi e altre Chiese raggiunge circa un miliardo e ottocento milioni.
I seguaci dell’islàm si chiamano islamici, oppure musulmani che è
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assolutamente la stessa cosa. Quindi, dire che uno è musulmano o che è
islamico è lo stesso.
Però… e qui le cose si complicano, la parola «islàm» indica anche
la comunità mondiale (in arabo umma) di tutte le persone che seguono
questa religione. Quando diciamo «cristiani», indichiamo una religione e basta. È vero che tutti i cristiani del mondo formano una sorta di
«popolo cristiano», però normalmente nessuno si presenta dicendo «io
sono cristiano»; piuttosto, si dice «io sono italiano, o francese, o
europeo, o americano», e il fatto di dire «io sono cristiano» viene
considerato una cosa personale che viene dichiarata quando c’è un
motivo particolare per farlo. Per esempio, uno dice «io sono cristiano»
per sottolineare che la sua religione è diversa da quella degli altri, in un
determinato luogo o circostanza, oppure per spiegare perché egli è
contrario all’aborto.
Nel caso dell’islàm, è un po’ diverso. Se uno dice «io sono islamico
(o musulmano)», si riferisce non solo alla religione che egli professa, ma
anche a una comunità sovranazionale, costituita da quel miliardo e
duecento milioni di persone, alla quale egli sente di appartenere. Insomma, l’islàm conferisce ai musulmani non solo un’identità religiosa personale, ma anche un’«identità per appartenenza», che va al di là dei singoli
Paesi in cui essi vivono. Per esempio, in Palestina vivono molti musulmani, i quali, oltre a sentirsi palestinesi come i palestinesi cristiani, sentono
anche di costituire una specie di altro «Paese» sovranazionale con i
musulmani che vivono in Marocco, o in Albania, o nel Senegal, o nella
Malesia.
Oggi, questa «sovranazionalità a base religiosa» può sorprendere
un po’ gli occidentali, ma non avrebbe sorpreso un cristiano europeo del
medioevo. I cristiani europei del medioevo erano simili ai musulmani di
oggi, perché si sentivano tutti parte di quella che veniva chiamata la
«cristianità», e coincideva sostanzialmente con l’Europa. La cristianità
era sovranazionale, proprio come l’islàm. Il cristianesimo indicava una
religione ma anche una comunità concreta di persone, al di là dei Paesi
in cui esse erano nate (Italia, Francia, Germania, Spagna, eccetera).
Il senso di appartenenza all’umma, nei musulmani di tutto il
mondo, non è facilmente definibile. Ma è qualcosa di concreto, di
«palpabile», più di quanto sembri esserlo il senso di appartenenza alla
cristianità nei cristiani di tutto il mondo.
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L’islàm non ha un’autorità centrale
Facciamo un passo più in là. I cattolici hanno un’autorità religiosa
centrale, che è il papa. Le altre Chiese cristiane, come gli ortodossi e i
protestanti, hanno anch’esse le loro autorità religiose centrali, anche se in
maniera meno netta rispetto ai cattolici. Quindi i cattolici, e coloro che
dialogano con loro, hanno una bussola ben precisa, che è chiamata il
Magistero della Chiesa, esercitato dal papa e dai suoi rappresentanti, che
sono soprattutto i vescovi e i parroci. Una persona non può essere un
buon cattolico se difende un’idea (di quelle importanti) che è condannata dal papa, o se è contraria a un’idea che invece è sostenuta dal papa. Per
esempio, una persona non può dire: «Io sono un buon cattolico, però
difendo il diritto all’aborto», perché è noto che il papa, e tutta la Chiesa
cattolica con lui, sono contrari all’aborto.
Ebbene: nel caso dell’islàm le cose non stanno così. Nell’islàm non
esiste un’autorità religiosa centrale riconosciuta da tutti i musulmani del
mondo, come il papa per i cattolici. Non esiste un’autorità unica cui potersi
riferire per avere l’opinione «ufficiale», certa e indubitabile dell’islàm.
L’islàm ha dei princìpi generali (vedi SCHEDA N. 4) e una pratica
religiosa (vedi SCHEDA N. 5) in cui tutti i musulmani del mondo
sostanzialmente si riconoscono, ma quando si tratta di questioni non di
Fede o di culto, bensì di questioni etiche, sociali, politiche, giuridiche,
eccetera, vi sono fra di loro posizioni diverse e anche contrastanti, che
dipendono in gran parte dalle specifiche tradizioni culturali dei loro Paesi.
Nell’islàm ci sono luoghi particolari dove le autorità religiose locali
hanno molto prestigio, come la città della Mecca in Arabia Saudita (dove
l’islàm è nato), o la città di Gerusalemme (che in arabo è chiamata «la
città santa»), o l’Università di Al-Azhar del Cairo, in Egitto, dove ci sono
forse i migliori teologi del mondo islamico. Ma altri centri islamici di
eccellenza si trovano in Paesi come la Turchia, l’Iran, il Pakistan, eccetera,
e ciascuno di questi centri esercita un’autorità, in ambito religioso e
generale, sui fedeli del posto.
Equivoci semantici nei rapporti fra non musulmani e musulmani
Questa mancanza di riferimenti certi e indubitabili complica i
rapporti dei non musulmani (come la stragrande maggioranza degli
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italiani) con i musulmani e con l’islàm; rapporti che già sono complicati
dal fatto che, come abbiamo detto, l’islàm non è solo una religione, ma
è anche una comunità sovranazionale di persone che vivono nei più
diversi Paesi del mondo, o si trasferiscono in altri Paesi (come l’Italia) per
motivi di lavoro o per altri motivi.
Per esempio, tre musulmani che vivono in Italia possono avere tre
concezioni abbastanza o molto diverse su una questione importante
come il rapporto fra la loro religione e lo Stato che li ospita; ma è
impossibile dire chi di loro sia il «vero» musulmano.
Nascono, così, degli equivoci, fin dall’inizio dei rapporti, quando
per esempio si dice una frase come: «Dobbiamo migliorare la conoscenza
fra italiani e musulmani». La prima parte di questa frase è sicuramente
giusta, perché è sempre bene migliorare la conoscenza fra gli esseri
umani, quali che essi siano. Ma cosa significa «fra italiani e musulmani»?
Gli italiani sono un popolo, non sono i fedeli di una religione. Ci sono
italiani cattolici, protestanti, ebrei, eccetera, e persino un piccolo numero di italiani musulmani (ne parleremo più in là); e ci sono molti italiani
che non seguono alcuna religione, oltre a quelli che sono contrari a tutte
le religioni. Invece, i musulmani sono i fedeli di una religione. Quindi,
il rapporto «italiani-musulmani» è un rapporto fra due categorie non
confrontabili, o meglio «incommensurabili».
Cosa risponderemmo, se ci chiedessero qual è il rapporto fra gli
abitanti del Veneto e le chiese del Lazio? Sarebbe una domanda strana,
cui non potremmo rispondere, perché gli abitanti del Veneto e le chiese
del Lazio non hanno fra loro un rapporto naturale. Invece, non sarebbe
strano chiedere quali sono i rapporti fra gli abitanti del Veneto e gli
abitanti del Lazio, perché appartengono tutti e due alla categoria degli
«abitanti»; o quali sono i rapporti fra le chiese del Veneto e le chiese del
Lazio, perché appartengono tutte e due alla categoria delle «chiese».
Si potrebbe obiettare che è lecito riferirsi ai «musulmani» in quanto
«comunità sovranazionale di persone», e quindi si avrebbero due categorie confrontabili: la comunità sovranazionale dei musulmani e la comunità nazionale degli italiani. Già. Ma non possiamo ridurre i musulmani
a una comunità sovranazionale, trascurando il fatto che essi sono anche
e soprattutto i fedeli di una religione.
Si potrebbe, allora, proporre quest’altra soluzione: mettiamo da
parte la parola «musulmani», e parliamo solo dei rapporti fra italiani e
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marocchini, italiani e iraniani, italiani e pakistani, eccetera. Qui il discorso sembra filare, perché stiamo confrontando fra loro diverse nazionalità, non una nazionalità e una religione. Tuttavia, il nostro confronto in
questo caso è piuttosto limitato e limitante, perché non tiene conto del
fatto che i marocchini, gli iraniani, i pakistani, eccetera, sono tutti
ugualmente musulmani non solo in termini di scelta religiosa personale,
ma anche in termini di appartenenza alla comunità sovranazionale
dell’islàm. E hanno in comune fra loro, quando si relazionano con gli
italiani, anche questo duplice modo di essere musulmani.
Se poi aggiungiamo che possono legittimamente avere idee diverse
o contrastanti su molte questioni importanti, perché non sono «legati»
fra loro al di là della Fede e del culto, riusciamo a capire perché, «fra
italiani e musulmani», possano nascere degli equivoci…
In realtà, poi, non è che le cose siano molto complesse, una volta
comprese, purché vi sia la voglia di comprenderle. Esiste, sì, un certo
grado di complessità, come del resto avviene in molti tipi di rapporti fra
gli esseri umani. Ma spesso pensiamo che solo noi abbiamo il diritto di
essere complessi, e stentiamo a riconoscere la complessità nell’altro,
soprattutto se egli si presenta con un’etichetta apparentemente semplice
come «musulmano» (o qualunque altra).
La seconda parola chiave: arabi
La seconda parola chiave per il nostro discorso è «arabi». Gli arabi
sono una popolazione originaria della penisola arabica, che si trova in
Asia, e nel corso della storia si sono diffusi in tutto il Vicino Oriente (oggi
Libano, Siria, Giordania, Palestina) e nell’Africa settentrionale (oggi
Egitto, Libia, Marocco, Mauritania, Tunisia, Algeria).
Gli arabi sono molto importanti, se si vuole parlare dell’islàm,
perché esso è nato fra di loro ed è l’arabo (vedi SCHEDA N. 6) la lingua
in cui è scritto il Corano. Per questo motivo, la diffusione nel mondo
dell’islàm, perlomeno nei primi secoli, si è intrecciata con un processo di
arabizzazione (vedi SCHEDA N. 7).
Tuttavia, le due equazioni «arabi = musulmani» e «musulmani =
arabi», che spesso vengono fatte, sono sbagliate. Infatti, esistono, fin da
tempi antichi, arabi che non sono musulmani, ma sono per esempio
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cristiani, come gli iracheni di rito caldeo; ed esistono moltissimi musulmani che non sono arabi, ma per esempio sono indonesiani, o pakistani,
o senegalesi o bosniaci (e quindi europei).
Addirittura, e questo è un dato per molti sorprendente, la grande
maggioranza dei musulmani nel mondo non è araba e non conosce la
lingua araba.
I musulmani di tutti i ventuno Paesi arabi dell’Asia e dell’Africa, in
cui vivono anche significative minoranze di arabi cristiani (cattolici, ortodossi, protestanti), sono soltanto 249 milioni (vedi SCHEDA N. 8).
Quindi, solo il 20,8% dei musulmani di tutto il mondo è costituito da arabi, che hanno in comune la lingua scritta (con non lievi
differenze fra le lingue parlate), e parecchie usanze e tradizioni. Queste
ultime non tanto a causa della «omologazione» operata dall’islàm, quanto e soprattutto a causa della vicinanza geografica, come nel caso dei Paesi
del cosiddetto Màghreb (che in arabo significa «Occidente») o Africa
settentrionale.
D’altro canto, vi sono ben 913 milioni di musulmani non arabi
(vedi SCHEDA N. 9), pari al 76% dei musulmani di tutto il mondo,
che vivono in sessantuno Paesi dell’Asia e dell’Africa. Essi parlano e
scrivono lingue diverse dall’arabo, anche se nelle loro preghiere usano
qualche parola araba del Corano, e anche se molti di loro hanno nomi
arabi come Muhàmmad o Ali.
I sei Paesi del mondo più popolati dai musulmani non sono Paesi
arabi: Indonesia, Pakistan, India (in cui i musulmani sono solo una
minoranza), Bangladesh, Iran, Turchia. Il primo Paese arabo, l’Egitto,
viene solo al settimo posto. La popolazione complessiva (308 milioni) di
due soli grandi Paesi musulmani non arabi, l’Indonesia e il Pakistan,
supera la popolazione complessiva (249 milioni) dei musulmani di tutti
i ventuno Paesi arabi.
La terza parola chiave: pregiudizio
La terza parola chiave è «pregiudizio», e qui entriamo nel vivo del
nostro discorso.
In parte a causa degli equivoci di cui abbiamo parlato, ma
soprattutto a causa di importanti fattori di carattere storico e psico30
logico, di cui parleremo, spesso nascono incomprensioni e ostilità
nei rapporti fra italiani e cittadini di religione musulmana. Incomprensioni e ostilità «a distanza», cioè verso i musulmani che vivono
nei loro Paesi, e incomprensioni e ostilità nel contatto diretto con
loro in Italia; queste ultime più delle prime gravide di conseguenze,
che vanno chiaramente più a danno dei musulmani, che in Italia
sono una piccola minoranza.
Può succedere la stessa cosa, ma in senso inverso e per fattori
diversi, quando gli italiani o altri occidentali sono una piccola minoranza
in un Paese islamico, perché la predisposizione al pregiudizio è una di
quelle caratteristiche che rendono fratelli tutti gli uomini della Terra. Per
esempio, in un ambiente islamico chiuso e portato all’incomprensione,
tutti potrebbero essere ostili verso un italiano che affermasse di non
essere cattolico. Gli potrebbero dire: «Ma come, non ti vergogni? Tutti
sanno che il papa vive in Italia e che gli italiani sono cattolici e vanno in
chiesa tutte le domeniche».
Tuttavia, noi dobbiamo parlare dei musulmani in Italia, non degli
italiani nei Paesi islamici (questo può essere magari l’oggetto di un altro
libro). Il fatto è che i musulmani in Italia sono ormai una realtà non
trascurabile, perché costituiscono circa un terzo del totale dei cittadini
immigrati («extracomunitari»), che in Italia, e in tutti gli altri Paesi
europei, giungono spinti soprattutto dalla necessità di trovare un lavoro,
o comunque una vita migliore di quella che è possibile nei loro Paesi
d’origine.
E allora… ecco un nuovo elemento per il pregiudizio: alle incomprensioni e ostilità specifiche verso i musulmani in quanto tali, si aggiungono le incomprensioni e ostilità generali verso la totalità degli immigrati, di cui i musulmani fanno parte (vedi capitolo quinto).
Tutte le ricerche sociologiche degli ultimi anni, anche prima dell’11
settembre 2001, indicano che verso gli immigrati musulmani, spesso
definiti uniformemente «marocchini», si coagula il maggior numero di
incomprensioni e ostilità, talora molto accentuate. Contro di loro si
sommano tutti i pregiudizi legati alla diversità fisica e culturale dell’immigrato in generale e tutti i pregiudizi legati alla diversità religiosa del
musulmano in particolare.
I pregiudizi di tipo religioso sembrano più forti dei pregiudizi di
tipo fisico e culturale.
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Ecco in proposito un dato significativo. Le coppie italiane senza
figli, che vogliono adottare un bambino straniero, preferiscono, oltre ai
bambini dell’est europeo, i bambini cristiani dell’Africa nera, piuttosto
che i bambini musulmani, anche se sono di pelle chiara uguale a quella
degli italiani, come nel caso dei bambini albanesi e di moltissimi bambini del Vicino Oriente. Cioè il fattore «religione musulmana, religione
diversa», allontana più del fattore «pelle nera, pelle diversa».
Dopo l’11 settembre 2001, anche in Italia la diffidenza e l’ostilità
verso i musulmani sono aumentate. La televisione e i giornali hanno
riferito in proposito molti episodi, anche con la testimonianza dei diretti
interessati, cioè persone musulmane che sono state insultate o discriminate (per esempio in autobus, mentre, non in Italia, sono state addirittura fatte scendere da aerei prima del decollo), solo per il fatto di essere
musulmane. Inoltre, la ricerca di un appartamento o di una camera in
affitto, che per queste persone è spesso molto difficile, anche quando
esibiscono la garanzia scritta dei loro datori di lavoro italiani, dopo l’11
settembre 2001 è diventata ancora più difficile.
Come se tutti i musulmani avessero la responsabilità degli attentati
contro le due Torri di New York, in cui fra l’altro sono morti centinaia di
musulmani di cui quasi nessuno ha parlato, o come se tutti i musulmani,
perlomeno, approvassero quegli attentati.
Una nostra amica ci ha raccontato questo episodio. In una classe
elementare del Veneto (ma la regione non ha importanza), l’insegnante
ha commentato quegli atti terroristici, giustamente condannandoli con
molta forza, e ha chiesto ai bambini tre minuti di silenzio per commemorarne le vittime. Poi, si è avvicinata all’unico bambino straniero e musulmano della classe (un marocchino), e gli ha chiesto davanti a tutti i
compagni: «I tuoi genitori, invece, sono stati contenti di questi attentati,
vero?». Possiamo immaginare come deve essersi sentito «diverso» quel
bambino, e per quanto tempo si porterà addosso questo stigma, forse
cacciandolo nell’inconscio…
Tra l’altro, è molto probabile che quell’insegnante non abbia agito
così per «cattiveria», ma solo per incoscienza o ignoranza. Che però a
volte sono quasi peggio della cattiveria.
Quell’insegnante ha attribuito ai genitori del bambino marocchino
certe idee che in realtà lei non poteva conoscere, perché quei genitori non le
avevano detto niente. Cioè ha pensato e parlato sulla base di un pregiudizio.
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