Il nesso tra fede e ragione in John Henry Newman «DIECIMILA

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Il nesso tra fede e ragione in John Henry Newman
«DIECIMILA DIFFICOLTÀ NON FANNO UN SOLO DUBBIO»
di Fortunato Morrone
Il tema che mi è stato affidato è di bruciante attualità; pensiamo solo brevemente
agli interrogativi posti dalle biotecnologie all'intelligenza della fede o alle sollecitazioni critiche rivolte al credente dalle scienze cosiddette esatte o dalle scienze sociali. Nel corso di quest'anno in cui si celebra il bicentenario di Darwin l'intelligenza
dei credenti, e le esigenze che ne derivano per il discorso teologico, è ancora una
volta provocata positivamente a dire la fede nel Creatore dialogando con chi non
professa la nostra speranza. Pur mutando i tempi e le stagioni, il rapporto tra fede e
ragione non è mai stato pacifico o scontato per quella pretesa tutta cristiana che
confessa in Gesù il Logos del Padre fatto uomo. Per questa ragione propria della fede che ama la terra, fin dal tempo dei Padri, ha ricordato Benedetto XVI nel Convegno della Chiesa italiana a Verona, c'è stato un umanesimo cristiano capace di ammirare e promuovere ciò che di vero, di bello e di giusto è presente in ogni cultura e
di cogliere attraverso l'alfabeto delle scienze la corrispondenza fra ragione e Logos,
una corrispondenza ancora più radicale nell'annuncio cristiano del Logos incarnato
culmine della rivelazione del Dio della vita, un Dio per gli uomini.
La fede non può tradursi in storia senza fare appello, anzi allearsi alla ragione. D'altra parte il filosofo tedesco Jürgen Habermas, epigono della Scuola di Francoforte,
negli ultimi anni è tornato più volte a richiamare l'attenzione sulla necessità di un
dialogo etico tra credenti e laici, svolto tra l'altro con l'allora cardinale Joseph Ratzinger.
I problemi e i drammi del nostro villaggio globale d'altra parte incrociano direttamente gli interrogativi centrali circa la condizione della fede oggi, in un contesto
culturale a dir poco complesso segnato da un diffuso relativismo espresso dal cosiddetto "pensiero debole" post-moderno che predica l'irrilevanza della ricerca di
risposte definitive contestando fortemente la possibilità dell'uomo di accedere alla
realtà, alla verità, se mai ne esista una. Se fino a qualche decennio fa almeno in Italia qualcuno affermava che culturalmente non possiamo non dirci cristiani (Croce),
oggi "gran parte dell'umanità ha imparato a vivere senza Dio". Il cristianesimo, con
la sua proposta forte di umanesimo, è ormai divenuto estraneo agli uomini e alle
donne del nostro tempo. Da qui nella complessa e variegata cultura odierna il cui
orizzonte comune rimane il nichilismo, la negazione di ogni verità oggettiva è diventato il pilastro dogmatico del nuovo pensiero che come ha ammonito Giovanni
Paolo II nella Fides et Ratio si risolve inesorabilmente in "negazione dell'umanità
dell'uomo e della sua stessa identità". Il rifiuto sistematico del possibile accesso alla
verità ha, infatti, ricadute antropologiche negative. Il rapporto fede e ragione non è
perciò un problema accademico, quanto piuttosto e anzitutto una questione pratica
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della speranza annunciata dai credenti in questo mondo e per questo mondo. Ebbene ciò che oggi sembra essere posto in discussione è il legame profondo che unisce la persona con la realtà, un legame che fa parte dell'intimità della persona in
quanto tale e che investe la sua coscienza. Posta di fronte alla realtà la persona interagisce con la sua razionalità facendola entrare nel suo orizzonte cosciente e in questo incontro con la realtà, la ragione stabilisce nessi di significato in relazione a tutti
quei fattori che la riguardano. Il soggetto è così posto di fronte all'oggettività del reale interferendo mediante quella ragionevolezza che accoglie e si sottomette all'esperienza. Riconoscere che l'essere non dipende dal soggetto, che è parte integrante
dell'essere persona, permette al singolo di essere leale con la realtà che si offre
all'intelligenza evitando la trappola del soggettivismo.
Di fronte all'odierna deriva del nichilismo o dello scientismo, ecco come Newman
replicherebbe a una tale visione riduttiva del reale e del soggetto. Siamo nella
Grammatica: "Ci troviamo immersi in un mondo di fatti che noi usiamo continuamente perché non c'è nient'altro da usare (...) Io sono quello che sono oppure non
sono niente... non posso evitare di bastare a me stesso perché non posso fare di me
qualcos'altro, e cambiarmi significa distruggermi. Se non uso l'io che sono, non ho
altro da usare".
La ragione va colta nella concretezza dell'esperienza umana dei singoli, fatta di relazioni, di immaginazione, di sentimenti, di puntuali e limitate contingenze storiche. Questa preziosa facoltà umana possiede una sua dinamica che tende inevitabilmente alla verità. Ora questa tensione è incomprensibile al di fuori dell'atto creativo di Dio il quale costituendo l'uomo come spirito incarnato, lo rende capace di
Sé. Perciò la complessità dell'uomo non può essere ridotta alla capacità di raccogliere dati sensibili e di catalogarli secondo lo schema razionalistico. A Locke Newman
rimprovera che "gli stessi modi di ragionare e convincimenti che per me sono naturali e legittimi per lui sono irrazionali, emotivi, spuri ed immorali; e ciò, credo, perché egli si richiama ad un suo ideale di come la mente dovrebbe agire, anziché indagare la natura reale della mente umana". È una filosofia della scienza che, pur riconoscendo una sua dignità alla religione, la relega nell'angolo del sentimento privato che non fa "fede" in termini di conoscenza certa. A ben vedere, rileva Newman, l'ambito della ragione empirica è, tutto sommato, ristretto rispetto all'intera
realtà che non è riducibile né mossa da questa "ragione", ma da altre ragioni non
meno reali. In fondo la stessa tradizione empirica ammette dei limiti alla ragione: è
il buon senso dello "spirito filosofico" che con umiltà cerca di interpretare i fatti secondo la lezione iniziata da Bacone. Nel rispetto di tali limiti si può giungere a risultati validi nel campo della conoscenza.
Ma separare la razionalità dalla totalità del soggetto, posto di fronte alla realtà con
cui inferisce, con la capacità di giudicare e di concludere, fa intendere Newman, è
contro la struttura stessa della mente umana. Si tratta invece di avere una visione
della razionalità ben più ampia rispetto a questa tradizione filosofica. Certo Ne2
wman non si trova a dialogare con un pensiero debole, ma il problema di fondo per
un credente rimane il medesimo: come rendere ragione della speranza ad ogni generazione che ne chiede conto. E soprattutto come mostrare che l'atto del credere in
quanto è compiuto dal medesimo soggetto che nel suo relazionarsi con la realtà
impiega una razionalità implicita, è il medesimo che utilizza un procedimento razionale esplicito simile al procedere argomentativo della scienza. Entrambi i movimenti razionali sono frutto della mente umana che non può essere assente nell'assenso che la fede richiede.
Quando nel processo mentale che conduce alla certezza personale viene posta una
dicotomia tra ragione e fede, il semplice credente - sul terreno delle ragioni da esibire - è banalmente ritenuto un minus habens, un credulone, un tranquillo uomo religioso la cui fede è una semplice opinione ridotta a credenza. D'altra parte chi intendesse difendere la ragionevolezza della fede alla stregua dell'argomentazione
scientifica con prove chiare e distinte, ridurrebbe i misteri della fede ad un'articolata esposizione di dati sillogisticamente controllabili, mentre il sottrarsi alla provocazione se pur arrogante della ragione relegherebbe i credenti in un intimismo religioso stucchevole e astorico. La difesa della fede non può prescindere dall'essere atto intellettuale dell'uomo che nella sua interezza si apre al mondo. Confortato dalla
Scrittura Newman nel decimo sermone universitario ribadisce che "è chiaramente
impossibile che la fede sia indipendente dalla ragione, che sia un nuovo modo di
raggiungere la verità: il Vangelo non altera la costituzione della nostra natura, non
fa che integrarla e perfezionarla; ogni conoscenza comincia con la vista e si completa con l'esercizio della ragione... (tuttavia) la ragione non è necessariamente l'origine della fede quale essa esiste nel credente, per quanto la controlli e la verifichi".
In sostanza Newman si è trovato da una parte con una visione di una fede concepita come il classico "salto nel buio", con il conseguente abbandono di ogni pretesa di
razionalità umana e fondata unicamente sul sentimento del cuore, tipico della confessione evangelical e, dall'altra, si è dovuto misurare con l'altezzosità di una certa
razionalità scientista e positivista che, presente anche in una parte della teologia liberale del tempo, proponeva una lettura esclusivamente razionale della Rivelazione
isolando la fede in un immanentismo chiuso al Trascendente, secondo la moda
dell'esaltazione della ragione e della libertà di pensiero. In questo clima, così succintamente delineato, Newman, appellandosi alla ragionevolezza dell'atto di fede
del credente, rivendicherà al cristianesimo "piena dignità culturale e filosofica",
come ha ben argomentato Michele Marchetto nella sua ponderosa monografia introduttiva agli scritti filosofici di Newman.
"Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio, come concepisco io la questione:
difficoltà e dubbio non possono assolutamente essere poste a confronto"; in questo
famoso passaggio dell'Apologia Newman parla di sé, della sua esperienza credente,
non razionalizzabile secondo le misure della ragione illuministica, ma ragionevole e
sensata secondo la misura del cuore, lì dove la ragione è intimamente legata alla libertà e la persona è coinvolta totalmente, è interpellata ad offrire una risposta con3
creta, esistenziale con tutto il suo carico di rischio. Quest'ordine di idee fa da substrato, di conseguenza, al confronto che Newman ha sostenuto con le scienze naturali in piena fioritura nell'epoca vittoriana.
Negli anni dell'insegnamento ad Oxford il futuro cardinale annotava: "Il cristianesimo è stato descritto come un sistema che sbarra la via al progresso, in campo politico come in campo educativo o scientifico ... Il sentire sospetto e mostrare timidezza (da parte dei cristiani), nell'assistere all'ampliamento del sapere scientifico, equivale a riconoscere che tra esso e la rivelazione possa sussistere qualche contraddizione". Se la scienza è ricerca di verità, un possibile conflitto con la fede è frutto o di
equivoci, o è una conseguenza della perdita dell'orizzonte veritativo dell'annuncio
cristiano: solo l'arroganza della ragione o la miopia di una fede chiusa al dialogo
possono creare quel terreno di ostilità o di contrapposizione che non poche volte ha
caratterizzato, almeno dopo l'illuminismo, i rapporti tra il cristianesimo e le scienze.
In questa via Newman forte della sua esperienza oxoniana, si impegnerà al progetto dell'Università di Dublino immaginata quale luogo del dialogo e del confronto
tra le scienze e la teologia, scienza della fede, senza minimizzare il dato della conflittualità tra la scienza e le fede. Perciò Newman riteneva indispensabile un'università attrezzata teologicamente e culturalmente per non cadere da una parte nelle
trappole del bieco dogmatismo religioso e dall'altra nei riduzionismi dello scientismo razionalistico, tipico dello spirito del tempo.
(©L'Osservatore Romano - 27 marzo 2009)
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