Ex oriente lux, ma sarà poi vero? (prima parte)

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Di Fabio Calabrese
Sarà che dal punto di vista geografico l’oriente è la direzione che si individua come quella in cui
sorge il sole, ma noi sappiamo che esiste una radicata tendenza a ritenere che “la luce” anche in
senso spirituale provenga da oriente per andare a illuminare un’Europa che si ritiene senza questi
apporti sarebbe una terra culturalmente e spiritualmente arida. Non c’è dubbio che questo mito (ma
forse – pensiero eretico – sarebbe piuttosto il caso di parlare di favola, di fola) è stato riproposto in
innumerevoli chiavi di lettura fino a diventare “una verità” che nessuno ha il coraggio di mettere in
dubbio.
Prendiamo quel che ci racconta un qualsiasi libro di storia: La civiltà si accende per la prima
volta nella storia umana in Medio Oriente, da qualche parte fra l’Egitto e la Mezzaluna Fertile
mesopotamica, e solo lentamente passa dagli Egizi e dagli Assiri e Babilonesi a Fenici, Ebrei e
Persiani, da questi ultimi ai Cretesi (forse agli Egizi), poi ai Greci, infine ai Romani e sulle punte dei
gladi e delle lance di questi ultimi arriva infine nel cuore dell’Europa, sulla riva del Reno e sulle
coste del Mare del Nord all’epoca di Cristo o appena un po’ prima.
Dal Medio Oriente sono venute “le tre grandi” religioni: ebraismo, cristianesimo islam; del resto
le altre religioni importanti di questo pianeta: induismo, buddismo, taoismo, confucianesimo, sono
pure esse religioni asiatiche.
Fabio Calabrese
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Sarebbe molto interessante riuscire a capire in base a quale criterio l’ebraismo è considerato
una “grande” religione e, ad esempio l’induismo con ottocento milioni di seguaci invece no;
certamente non in base al criterio numerico, una fede “minore” come lo scintoismo conta almeno
otto adepti per ogni ebreo che calca il suolo di questo pianeta (per prevenire fin troppo facili accuse
di antisemitismo, preciso, sebbene la cosa sia ovvia che non sto parlando del “popolo ebraico”,
ammesso che una tale entità esista, ma unicamente dell’ebraismo in quanto religione).
Il motivo in realtà è chiaro, ma ha senso solo in un’ottica abramitica (cristiano-giudaicoislamica), l’ebraismo è il tronco da cui derivano sia il cristianesimo sia l’islam.
Quando si attribuisce agli ebrei il merito (ammesso che sia tale!) di aver inventato il
monoteismo, si fa loro davvero troppo onore. Geova o Javhè è il dio totemico di Israele come Baal
quello dei Fenici o Allah quello degli Arabi (già molto prima di Maometto), Marduk quello dei
Babilonesi, e via dicendo. Questo dio totemico non riflette altro che lo sciovinismo etnico degli
antichi Ebrei, come si vede molto bene dai passi della bibbia nei quali “Dio” esorta i suoi seguaci a
sterminare altri popoli e si mette alla loro testa nel macello.
Dalla bibbia, Geova non appare proprio “Quel che è padre di tutte le genti” (per dirla con
Manzoni). Questo aspetto sanguinario del “libro sacro” ha sconcertato un cattolico intelligente come
Maurizio Blondet al punto che in un articolo di non moltissimo tempo addietro era giunto a definirlo
un “residuo dell’Età del Ferro”, anche se io personalmente ritengo che sia proprio questo “residuo
dell’Età del Ferro” che spiega l’attrattiva persistente che la bibbia continua ad avere presso gli
yankee, “un popolo” (facciamo finta che lo siano) in possesso di mezzi tecnologici in grado di
dominare il nostro sfortunato pianeta, ma che il sistema mediatico ha rimbambito fino a farne
mentalmente dei trogloditi.
Naturalmente, nel momento in cui il dio totemico di Israele viene promosso a Dio universale, gli
Ebrei stessi diventano “il popolo eletto” e, a questo riguardo vorrei citare un passo di Principi di
formazione del carattere, un bel brano di Rudolf Steiner:
“La fantasia che esista un popolo scelto da un dio, superiore a ogni altro, e che ad esso ci si
debba inchinare con deferenza. Questa idea è falsa ed offende le grandi civiltà che dimostrarono la
loro grandezza con i frutti e con gli effetti, non con l’arroganza di una pretesa” (1).
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L’ebraismo è il tronco da cui si sono originati cristianesimo e islam. Se il tronco è marcio,
potranno i rami essere sani?
Dal punto di vista spirituale, le propaggini cristiana e islamica dell’ebraismo non sono state altro
che un’immensa forza distruttiva che ha sradicato e soppiantato, assai più con la violenza che con la
predicazione, la religiosità nativa e la cultura dei popoli che malauguratamente sono caduti nella
loro orbita.
I progressi dello spirito europeo nell’ultimo mezzo millennio sono stati il risultato di una lotta
costante per liberarsi dal peso dell’ortodossia biblica e dall’ingerenza culturale delle Chiese.
Copernico e Galileo hanno liberato dal peso dell’ortodossia biblica l’astronomia e le scienze fisiche,
Darwin la biologia. Nel campo delle scienze storiche, invece, una tale rivoluzione non è avvenuta; noi
abbiamo, noi troviamo sui libri di testo una prospettiva storica che è biblica, centrata sul Medio
Oriente, ed è soltanto questo a creare la prospettiva illusoria della “luce da oriente”.
Filosofi e storici della scienza hanno più volte chiarito che l’accumulo di nuovi dati, di per sé, è
del tutto insufficiente a dar luogo a una rivoluzione scientifica, occorre che emerga uno sguardo
nuovo capace di vedere le cose in maniera diversa. I fatti, i nudi fatti che contraddicono l’immagine
della storia antica centrata sul Medio Oriente ce ne sono a pacchi, e veramente bisogna chiedersi
come mai coloro che hanno la pretesa di insegnare la storia ai nostri giovani siano tanto ciechi da
ignorarli, ma non dobbiamo dimenticare che spesso, molto più spesso di quanto non si pensi, la
difesa di certe concezioni è legata al mantenimento del prestigio, delle posizioni, del potere
accademico di coloro che se ne sono fatti portatori. In questi casi, la verità diventa un nemico da
combattere con ogni mezzo.
Vogliamo provare a citare qualcuno di questi fatti “scomodi” ed “eretici” che dimostrano in
maniera lampante la falsità della presunta centralità mediorientale e il fatto che la nostra negletta
Europa ha avuto da sempre un ruolo cardine nell’incivilimento umano?
I complessi megalitici di età neolitica, di cui i più noti sono quelli delle Isole Britanniche
(Stonehenge, Avebury), ma che si trovano sparsi su di un’area enorme che va da Malta alle isole
Orcadi.
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La priorità dell’Europa in alcune scoperte fondamentali e di solito attribuite all’area
mediorientale: l’agricoltura, l’allevamento di animali, i metalli, la scrittura.
La presenza sul suolo europeo di culture civili e autoctone che non sembrano dovere nulla a
influssi mediorientali di una qualche specie, come quella celtica e quella etrusca (la cui supposta
origine mediorientale è un’illazione non provata da nulla).
Cominciamo dal primo punto, la cultura megalitica. E’ un fatto indiscutibile che questi
monumenti non possono essere stati eretti da comunità di cacciatori-raccoglitori che erano costrette
a impegnare tutte le energie disponibili nelle necessità immediate della sopravvivenza, ma devono
essere stati il prodotto di società già agricole e a un buon livello di tecnologia e controllo
dell’ambiente senza i quali l’esistenza di classi di lavoratori specializzati in attività diverse dalla
produzione di cibo non è possibile. In più, tuttora misteriose restano sia le tecniche che hanno
consentito di trasportare e di erigere blocchi di pietra pesanti decine di tonnellate, sia le conoscenze
astronomiche, matematiche e ingegneristiche che hanno permesso di costruire ad esempio
Stonehenge con perfetti allineamenti astronomici rispetto ai solstizi, agli equinozi, alle eclissi,
permettendone la previsione e funzionando come un astrolabio di pietra.
L’edificio, ancora oggi praticamente intatto, giunto fino a noi più antico al modo, è la tomba
megalitica di Newgrange in Irlanda, più antica di otto-novecento anni delle piramidi egizie di Giza.
Non è ancora tutto, perché queste costruzioni non possono essere state il prodotto di isole di civiltà
sperdute in un mare di barbarie, hanno richiesto trasporti, viaggi, commerci: le “pietre blu” del
secondo cerchio di Stonehenge, ad esempio, vengono dalle Praseli Hills nel Galles a centinaia di
chilometri di distanza.
Ma tutto questo è ancora nulla: le vere sorprese sono venute fuori negli ultimi dieci anni, quando
si sono cominciate a esaminare le sepolture adiacenti all’area di Stonehenge e i resti umani in esse
contenuti. Le più rivelatrici si sono dimostrate due: quella dell’Arciere di Amesbury e quella del
ragazzo con la collana di ambra. In entrambi i casi, si trattava di due forestieri. Esiste un modo
preciso per stabilire il luogo d’origine di qualcuno attraverso l’esame della dentatura: lo smalto dei
denti conserva tracce di atomi di stronzio e di isotopi di ossigeno che dipendono dalla frutta
masticata e la vegetazione di ogni località ha la sua “firma” caratteristica che consente di stabilire
dove una persona ha prevalentemente vissuto. “L’Arciere” (così denominato dall’abbondanza di
punte di freccia del suo corredo funebre) le cui ossa sono state studiate nel 2003, proveniva dall’arco
alpino, e il suo corredo funebre lo ricollega alla Cultura del Bicchiere Campaniforme, ma ancor più
sorprendenti si sono rivelati i resti del ragazzo con la collana, esumati nel 2005: si trattava di un
adolescente, quindicenne: sempre l’analisi dello smalto dentario ha permesso di stabilire che
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proveniva dal Mediterraneo. Data la giovanissima età, non è probabile che si fosse avventurato da
solo fino in Britannia, è più credibile che facesse parte di un gruppo familiare venuto a visitare
Stonehenge in veste di pellegrini o turisti. La collana che portava al collo, poi, è di ambra di origine
nordica.
Il quadro che costoro ci consentono di intravedere è quello di un’Europa molto più civile di quel
che avevamo immaginato, un’Europa percorsa da viaggi e commerci dove le persone (non isolati
avventurieri, ma gruppi familiari con figli minori) e le merci si spostano su grandi distanze.
Non vi sono prove dirette che la scoperta dell’agricoltura sia avvenuta in Europa piuttosto che in
Medio Oriente (o in qualsiasi altro luogo) ma esistono delle prove indirette piuttosto convincenti
date dalla priorità europea nell’introduzione dell’allevamento e della tecnologia dei metalli.
La capacità di assimilare il latte in età adulta non è uniformemente diffusa in tutti i gruppi
umani: massima nelle popolazioni che vivono fra la Scandinavia e l’arco alpino, decresce man mano
che ci si sposta verso il sud e l’est, fino praticamente a sparire fra le popolazioni dell’Africa
subsahariana e in Estremo Oriente; ora, è piuttosto chiaro che questo è un adattamento darwiniano
legato all’utilizzo di una nuova fonte alimentare, il latte vaccino, anche se è probabile che la
domesticazione dei bovini sia stata preceduta nell’Europa del nord da quella della renna.
Riguardo all’utilizzo dei metalli e al legame metalli-agricoltura, occorre fare un discorso
preliminare: a noi uomini moderni, uomini delle leghe cromate e della plastica, l’idea dello
strumento in pietra fa pensare a qualcosa di rozzo, di primitivo, e non potremmo sbagliarci di più,
perché non solo gli strumenti in pietra scheggiata erano perfettamente adeguati alle necessità dei
cacciatori nomadi vissuti in quella che è di gran lunga la più ampia fase della storia umana e che
conosciamo come paleolitico, ma alcuni di questi oggetti come le bifacciali magdaleniane o le punte
folsom degli indiani nordamericani, erano giunti a un notevole livello di perfezione estetica, in più lo
strumento di pietra non arrugginisce, non perde il filo, si rompe più difficilmente, si produce con
materiale più facilmente reperibile.
Il paleolitico termina con il mesolitico, caratterizzato dalla produzione di microliti, dentelli di
pietra che immanicati su un ramo curvo consentivano di formare una falce, e dunque con la prima
comparsa dell’agricoltura.
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Il neolitico è caratterizzato da un nuovo strumento, l’ascia in pietra levigata, che non è un
perfezionamento dell’ascia in pietra scheggiata dei cacciatori paleolitici, ma ha una funzione diversa,
serve ad abbattere alberi. Le comunità di agricoltori si stavano espandendo e cominciavano a
ricavare nuova terra da coltivare abbattendo le foreste.
Perché, se ha gli svantaggi sopra ricordati, a un certo punto è iniziata la produzione di strumenti
di metallo? Il fatto è che la produzione di strumenti litici non teneva più il passo con l’incremento
della popolazione, non c’erano attrezzi a sufficienza per far lavorare tutte le braccia disponibili.
Produrre un crogiolo, uno stampo dove colare il metallo fuso richiedeva anche più tempo che
realizzare un attrezzo di pietra, ma una volta fatto, esso poteva essere riutilizzato quasi all’infinito
per produrre nuovi attrezzi. Incremento demografico significa diffusione dell’agricoltura, perché le
popolazioni di cacciatori nomadi erano costrette entro limiti ecologici e demografici molto stretti.
Possiamo considerare assodata l’associazione metalli-agricoltura.
Dove è stato ritrovato il più antico oggetto metallico conosciuto? Esso è la lama di rameantimonio dell’ascia di Oetzi, l’uomo del Similaun (questo non significa che Oetzi non fosse un
cacciatore, come suggerisce il resto del suo corredo, ma apparteneva a una società già agricola),
antica di almeno cinque secoli più di analoghi attrezzi mediorientali. Sapete dove si trova la miniera
conosciuta che reca i più antichi segni di attività estrattiva? A Rudna Glava, nella ex Jugoslavia.
Se io vi domandassi chi ha inventato l’alfabeto, suppongo che la maggior parte di voi
risponderebbe “I Fenici”, così come si trova sui libri di testo. Ebbene, questa non è esattamente la
verità. I Fenici si limitarono a semplificare la scrittura demotica egizia creando un “alfabeto” di sole
consonanti e senza suddivisioni fra le parole. Nprtcfncscrvvncsvchr: In pratica i Fenici scrivevano
così, vi è chiaro? La vera invenzione dell’alfabeto, con le vocali e la divisione fra le parole, la
dobbiamo ai Greci.
Ma c’è di più, l’alfabeto, come sappiamo, è stato preceduto da una serie di scritture ideografiche
e sillabiche. Dove è nata la scrittura? Anche in questo caso la storia ufficiale ci dice (guarda un po’!)
in Medio Oriente, in Egitto o in Mesopotamia, a seconda che si considerino più antichi i primi
geroglifici egizi o i primi ideogrammi sumerici.
Bene, nel 1962 un archeologo romeno, Nicolae Vlassa, studiando un sito appartenente alla
cultura Vinca nei pressi di Turda (Romania), trovò delle tavolette che riportavano ideogrammi simili
alla scrittura ideografica cretese (disco di Festo), che furono dette tavolette di Tartaria (anche se coi
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Tartari non hanno nulla a che fare), e che risultarono essere di almeno mille anni più antichi dei più
antichi ideogrammi sumerici conosciuti. In seguito si identificarono altri ideogrammi, che erano stati
ritenuti solo motivi decorativi, su altri manufatti.
Una scoperta rivoluzionaria che secondo ogni logica avrebbe dovuto aprire la strada ad altre
scoperte, suscettibili di riscrivere l’idea che ci facciamo della storia antica. Invece, un bel niente,
silenzio completo, una cappa di censura, mentre da mezzo secolo si continuano a raccontare sui libri
di testo le solite favole mediorientali.
Certamente la difesa di esse tramite una censura orwelliana delle informazioni risponde
all’esigenza di mantenere il prestigio e il privilegio di posizioni accademiche acquisite e consolidate
attorno a questi longevi errori, ma c’è il peso persistente della bibbia e delle Chiese, e anche il fatto
che si preferisce che non si diffondano informazioni che potrebbero servire a risvegliare negli
Europei l’orgoglio di se stessi e delle loro origini.
Noi stentiamo a renderci conto fino a che punto l’impronta biblica condizioni ancora la nostra
percezione della storia nell’ambito di una cultura che si pretende laica. Ad esempio, non è
sorprendente il gran numero di popolazioni “non indoeuropee” né d’altra parte semitiche o
camitiche che compaiono nella storia dell’Europa antica (una vaga definizione che potrebbe andare
altrettanto bene per gli esquimesi o i papua). I tre gruppi etnico-linguistici “ufficiali” in cui sono
suddivise le lingue e popolazioni caucasiche (“bianche”), sono semitico, camitico e indoeuropeo.
Semiti, lo sappiamo, sono Ebrei e Arabi, lo erano i Fenici, gli Assiri e i Babilonesi. Camiti sono i
popoli bianchi del Nordafrica: Berberi, Tuareg, Copti non arabizzati dell’Egitto; lo erano gli antichi
Numidi, gli Egizi e in Asia i Cananei. Indoeuropei sono Latini, Germani, Celti, Greci, Slavi, Indiani,
Iranici.
Le popolazioni antiche “non imparentate” formano un vasto gruppo di popoli culturalmente
affini: Etruschi, Minoici, Iberici, Pelasgi, Liguri (che nell’antichità popolavano vaste aree di quella
che oggi è la Francia meridionale) Quale difficoltà c’è nell’ammettere l’esistenza di un quarto
gruppo, “mediterraneo” delle popolazioni caucasiche? E’ molto semplice, la bibbia ci racconta la
storia dei tre figli di Noè: Sem (supposto antenato dei semiti), Cam (camiti) e Jafet (indoeuropei), e la
bibbia non può essere riscritta per aggiungere un quarto figlio di Noè. E le popolazioni non
caucasiche? Poiché tutta l’umanità eccetto la famiglia di Noè si sarebbe estinta nel diluvio
universale, dobbiamo supporre che i loro antenati siano giunti sul nostro pianeta a bordo di UFO?
Fabio Calabrese
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Capita che a volte un uomo si trovi di fronte alla scoperta di una vocazione che rappresenta una
svolta (in grado maggiore o minore) nella sua vita o almeno lo obbliga ad approfondire una strada
già intrapresa in maniera quasi improvvisa. A tutti è noto l’episodio di Saul di Tarso, “san” Paolo, e
della sua caduta di cavallo sulla via di Damasco. Io non sono caduto da cavallo, ma c’entravano le
staffe e un’arrabbiatura che non me le ha fatte perdere ma trovare.
Anni fa mi trovai coinvolto in una discussione con una collega, insegnante di storia dell’arte e
appassionata “orientalista”. In quell’occasione il vivace scontro verbale che ebbi con lei divenne per
me il punto di partenza di una ricerca che si è sviluppata nel corso degli anni, perché non mi bastava
averla spuntata dialetticamente sulla mia antagonista, ma volevo essere sicuro di aver ragione, di
sapere, di non contrabbandare un pregiudizio con un altro, e poco per volta ho finito per scoprire
una visione della nostra storia molto diversa da quella che ci viene comunemente ammannita.
L’invenzione delle staffe, che hanno rappresentato un progresso sostanziale nella tecnica
equestre, compare per la prima volta nell’alto medioevo presso i Franchi in epoca carolingia. Fu essa
a trasformare la cavalleria franca in una delle più formidabili macchine belliche che il mondo avesse
fin allora conosciuto. Fin allora, il cavaliere doveva tenersi stretto con le gambe al tronco del cavallo
e tenere almeno una mano sui finimenti. Le staffe, scaricando verticalmente il peso del cavaliere, gli
offrono una piattaforma molto più stabile e gli consentono di impugnare le armi (ad esempio lancia e
scudo) con entrambe le mani.
A dire di questa mia collega, sebbene non esistesse nessunissima ombra di indizio in tal senso,
anche le staffe dovevano essere un’invenzione orientale, perché “noi Europei non avevamo mai
inventato nulla”.
MI sentii offeso, profondamente offeso nel mio patriottismo europeo e scattai: credo di averle
buttato in faccia un po’ di tutto, da Stonehenge alle cattedrali gotiche, ai progressi della navigazione
che nel XV secolo aprirono la strada alle esplorazioni transoceaniche. Ma quand’anche, le dissi,
all’Europa fosse possibile attribuire soltanto l’invenzione delle staffe, quest’ultima non sarebbe stata
una cosa così da poco. Ricordai Poitiers e l’incredibile battaglia sostenuta dai cavalieri di Carlo
Martello per fermare l’ondata di piena islamica che minacciava di travolgere l’Europa, che i Franchi
respinsero combattendo con un accanimento incredibile nel corso di una lotta durata tre giorni e due
notti: era come se attraverso di loro si fosse materializzato lo spirito dell’Europa che non accettava
di trasformarsi in una propaggine dell’impero islamico.
Fabio Calabrese
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E’ anche respingendo le continue invasioni da oriente che l’Europa ha modellato la sua identità:
le Termopili, Poitiers, Lepanto, Kossovo Polje.
Le Termopili e Kossovo Polje forse più di Poitiers e Lepanto, perché il valore sfortunato risplende
di una luce più pura e più nobile di quella che aureola i vincitori.
Le invenzioni materiali sono importanti, ma è soprattutto sul terreno dello spirito che risulta
netta la differenza fra Europa e Oriente, e ci rendiamo conto che la “luce da oriente” in realtà non ha
illuminato un bel nulla.
L’aspetto più caratteristico del pensiero europeo è forse la filosofia greca, con il suo approccio
razionale alla visone del mondo, in contrasto con il magismo e misticismo orientale.
Giovanni Reale e Dario Antiseri hanno riassunto in maniera ottima i motivi per i quali la
leggenda di una derivazione della filosofia da oriente o di una qualche influenza orientale sulla
filosofia va nettamente rigettata:
“Naturalmente non sono mancati, specialmente presso gli orientalisti, tentativi di far derivare la
filosofia dall’Oriente, soprattutto sulla base di generiche analogie constatabili tra le concezioni dei
primi filosofi greci e certe idee proprie della sapienza orientale. Tuttavia, nessuno è riuscito in
questo intento, e la critica rigorosa, già a partire dalla fine del secolo scorso, ha adunato una serie di
prove veramente schiaccianti contro la tesi della derivazione della filosofia dei Greci dall’Oriente.
a) In epoca classica nessuno dei filosofi né degli storici greci fa il ben che minimo accenno ad
una presunta derivazione della filosofia dall’Oriente.
b) È storicamente dimostrato che i popoli orientali con i quali i Greci vennero a contatto
possedevano, sì, una forma di “sapienza” fatta di convinzioni religiose, miti teologici e
“cosmogonici”, ma non una scienza filosofica basata sulla pura ragione (sul logos come dicono i
Greci). Possedevano cioè un tipo di sapienza analogo a quello che i Greci stessi possedevano prima
di creare la filosofia.
Fabio Calabrese
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c) In ogni caso, noi non siamo a conoscenza di qualche utilizzazione da parte dei Greci di scritti
orientali, né di traduzioni dei medesimi. Prima di Alessandro, non ci risulta che abbiano potuto
giungere in Grecia dottrine degli Indiani o di altri popoli dell’Asia, né che all’epoca in cui sorse la
filosofia in Grecia esistessero Greci in grado di capire un discorso di un sacerdote egiziano o di
tradurre libri egiziani.
d) Posto anche (ma è da dimostrare) che qualche idea dei filosofi greci abbia precisi antecedenti
nella sapienza orientale, e che da questa sia potuta derivare, non cambierebbe la sostanza del
problema che stiamo discutendo. Infatti, dal momento in cui la filosofia nacque in Grecia,
rappresentò una nuova forma di espressione spirituale, tale che, nell’istante stesso in cui accoglieva
i frutti di altre forme di vita spirituale, li trasformava strutturalmente, dando loro una forma
rigorosamente logica” (2).
Queste affermazioni, tuttavia, a mio parere non vanno sottoscritte in toto, ma valutate con una
certa attenzione. Tra Europa e Medio Oriente, tra mondo (indo)europeo e mondo semitico non c’è
nessuna affinità, abbiamo una frattura esistenziale, due modi antitetici di concepire l’uomo, il suo
posto nel mondo, il suo rapporto con il sacro. Dal Medio Oriente all’Europa non è mai arrivato nulla
tranne minacce esterne (le aggressioni islamiche) e fattori di dissoluzione (cristianesimo in primis),
ma per quanto riguarda l’Asia ulteriore (potremmo dire), il discorso è più complesso: la lontananza
geografica e la frapposizione fra l’una e l’altra del Medio Oriente semitico rendono difficile
ipotizzare un’influenza diretta dell’una sull’altra, ma esistono, oltre a delle innegabili differenze
anche somiglianze fra Europa e mondo indo-iranico, delle consonanze che fanno pensare a un
comune fondo indoeuropeo, ad esempio fra la più antica filosofia greca e l’induismo vedico, ma non
solo.
Un argomento cui riserveremo la seconda parte di questo scritto.
Note:
1.
Rudolf Steiner: Principi di formazione del carattere
2.
Giovanni Reale, Dario Antiseri: La filosofia nel suo sviluppo storico, vol. 1, La Scuola,
Fabio Calabrese
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Brescia 1988, pag. 4-5.
Fabio Calabrese
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