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Antisemitismo
di
Stefano Levi Della Torre
(per il “Dizionario Storico Treccani”)
20 gennaio 2010
1 - Nel XIX secolo il termine “semita” riguardava la linguistica e distingueva il ceppo dell’ebraico,
dell’arabo o del maltese da quello “indo-europeo”. Ma “antisemitismo”, termine inventato nel 1879
da un giornalista tedesco ostile agli ebrei, Wilhelm Marr, non designa un’ostilità contro i “semiti” in
genere, bensì un odio specifico per gli ebrei. Oggi il termine “antisemitismo” ne richiama l’esito
estremo: lo sterminio di sei milioni di ebrei sotto il dominio nazista in Europa (in ebraico Shoà,
“catastrofe”). E’ la forma moderna di un odio antico. Il politeismo vedeva come insidiosa la ripulsa
ebraica degli dei, il rifiuto ebraico di integrare la propria divinità nel pantheon dei “gentili” e le
proprie leggi ed usi nei canoni maggioritari; i monoteismi cristiani e islamici vedevano come
sovversiva la ripulsa ebraica alla conversione. Forse si può riassumere l’antigiudaismo antico con
l’accusa di sovversione potenziale lanciata contro gli ebrei da Haman, ministro dell’impero persiano
(nel libro biblico di Ester, 3, 8): “Vi è un popolo disperso in tutte le province, che vive appartato
dagli altri, ha leggi diverse dagli altri popoli e disattende gli ordini del re. Ora, non conviene che il
re lo lasci in pace…”
A partire dalla fine del ‘700, con la rivoluzione francese, i codici di Napoleone e l’affermarsi delle
idee illuministiche sulla libertà e sui diritti civili, cambia la condizione degli ebrei dopo secoli di
discriminazione e segregazione nell’ Europa cristiana. Cadono le mura dei ghetti, ma le riforme
democratico-borghesi e la rivoluzione industriale non sono solo la fortuna, ma anche la condanna
moderna degli ebrei che in quel contesto si emancipano. Quei rivolgimenti dissolvono il vecchio
ordine sociale e agli occhi della massa sradicata e atomizzata gli ebrei appaiono, o sono indicati,
quali profittatori di quella dissoluzione. In quanto capitalisti (come Rothschild) o in quanto
rivoluzionari (come Marx), essi appaiono operare dall’alto e dal basso per lo sradicamento delle
strutture sociali e delle identità tradizionali e confessionali. E poiché gli ebrei come figura
emblematica dell’emancipazione civile e religiosa sembrano trarre il più grande vantaggio dal
cambiamento, ciò sembra dimostrare che ne sono i promotori e gli artefici; e se possono cambiare il
mondo a loro vantaggio, ciò dimostrerebbe che il loro potere è immenso, e tanto più pauroso quanto
più indimostrabile: è la leggenda del “complotto mondiale ebraico”. La diaspora, ossia la
dispersione degli ebrei in ogni paese, il loro “mondialismo apolide”, ha acceso l’immaginazione
antisemita secondo cui la sofferta diffusione planetaria degli ebrei sarebbe spinta da una volontà di
potenza dello stesso ordine di quella che ha animato gli espansionismi delle religioni e degli imperi:
vi ha visto l’immagine speculare della propria volontà di espansione e se ne è sentita vittima
potenziale.
L’antigiudaismo cristiano che designava gli ebrei come portatori di generazione in generazione del
peccato estremo di “deicidio”, della responsabilità della crocefissione del Cristo, si secolarizza
nell’antisemitismo laico: nell’immaginario, la straordinaria potenza teologica negativa attribuita
agli ebrei dalla tradizione cristiana si secolarizza nella loro presunta potenza storica. L’accusa
teologica si trasfigura in accusa politica. Gli stereotipi dell’ “antigiudaismo” cristiano si travasano
negli stereotipi politici e culturali dell’antisemitismo: “persecutori del Cristo”, gli ebrei sono i
persecutori per antonomasia. Solo se immaginato così potente, all’ebreo si possono ascrivere le più
tremende responsabilità: la straordinaria potenza negativa immaginata negli ebrei, prima presunti
capaci cioè di uccidere Dio nel Cristo, poi di conformare a sé la storia e la società, conferisce
all’antisemitismo un tipico tratto vittimistico: l’antisemita si proclama perseguitato dall’ esigua
minoranza ebraica immaginata ultra-potente, e per “legittima difesa” la perseguita. Qui poggia
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l’aggressiva autocommiserazione del nazismo, del fascismo e infine dello stalinismo: “gli ebrei
complottano contro di noi, contro i nostri valori e i nostri popoli”. L’autocommiserazione della
massa si rispecchia nell’autocommiserazione del potere, animando il cortocircuito demagogico tra
massa e potere. Il narcisismo nazionalistico (“noi siamo il popolo eletto”) entra in competizione
simbolica e pratica con l’idea biblica di “popolo eletto”. Così Hitler riassumeva questa
competizione mortale (in un’intervista a Rauschning): “Non possono coesistere due popoli eletti.
Noi siamo il popolo di Dio. Queste poche parole definiscono tutto”.
2 - Nell’epoca dei nazionalismi e della formazione degli Stati moderni, l’antisemitismo è una
funzione della “nazionalizzazione delle masse”. La differenza ebraica, interna da secoli alle società
europee, è immaginata come un ostacolo all’unificazione della nazione in un corpo omogeneo.
Ricorre contro gli ebrei l’accusa di “doppia fedeltà”, alla propria nazione senza Stato e allo Stato
che bene o male li tollera. La denuncia dell’ebreo come straniero interno, alieno infiltrato e
pericoloso, cosmopolita dissolutore di una pretesa omogeneità nazionale, catalizza la coesione
nazionalistica, così come l’ostilità verso gli ebrei in quanto avversari teologici ha favorito la
coesione confessionale nella cristianità. In questa logica, la coalizione tra integralismi cattolici,
protestanti e ortodossi e integralismo nazionalistico è sistematica, dall’ Affare Dreyfus nella Francia
di fine ‘800 alle stragi populistico-religiose di massa (pogrom), fino al Nazi-fascismo. Ne Il disagio
della civiltà (1929), Sigmund Freud esponeva sinteticamente questo punto: “E’ sempre possibile –
scriveva – riunire un numero anche rilevante di uomini che si amino l’un l’altro, fin tanto che ne
restino altri su cui indirizzare l’aggressività”. E proseguiva con ironia sofferta: “Il popolo ebraico,
disperso per ogni dove, si è acquistato in questo modo meriti altissimi nei confronti dei popoli che
lo hanno ospitato”. Con ciò Freud pone tutta la complessità del problema in cui si imbatte chi
voglia affrontare gli abomini persecutori: essi non sono declinabili solo come manifestazione
dell’odio, ma anche come funzione dell’amore “fraterno” che i fomentatori dell’ odio tentano di
instaurare reciprocamente. E’ questo doppio registro, di odio e di amore, a rendere ogni forma di
ostilità verso l’ “altro” particolarmente tenace. E’ la logica del branco in senso lato, che concorda e
si coalizza grazie alla vittima sacrificale; è la funzione socializzante del “capro espiatorio”, figura
antropomorfa del negativo, su cui si concentra e si scarica l’accusa e la punizione sociale.
3 - Nelle società tradizionali gli ebrei erano generalmente costretti in ambiti territoriali e
professionali limitati (il ghetto; il prestito di denaro e il riciclaggio dell’usato, funzioni esecrate
eppure necessarie). Con la fine della segregazione, gli ebrei si diffondono in altri spazi e altre
attività. L’antisemitismo demonizza l’irruzione concorrenziale degli ebrei in tutti gli ambiti
lavorativi e nell’uso del territorio come un’invadenza aliena. L’antisemitismo è una reazione
all’emancipazione e all’assimilazione ebraica. L’ebreo assimilato suscita l’ossessione dell’ebreo
assimilante: non si assimila al mondo, ma assimila il mondo a sé. Per l’antisemita l’assimilazione è
un travestimento subdolo, volto a nascondere un’essenza immutabile. Se nell’immaginazione
dell’epoca prende forma teorica l’idea di una “razza ebraica”, è perché si cerca di delineare con
criterio “scientifico”, “zoologico”, quanto stava svanendo della riconoscibilità esterna dell’ebreo.
Il razzismo europeo del XIX e del XX secolo svolgeva due funzioni ideologiche: verso i popoli
colonizzati il razzismo giustificava l’invadere territori altrui per “civilizzarli”, mentre
l’antisemitismo esprimeva la paura di essere invasi dagli ebrei, che, rotto l’involucro dei ghetti e
acquisiti i diritti di cittadinanza, si espandevano “come per metastasi” nella società civile, con tanta
più intraprendenza e concorrenzialità quanto più erano state le limitazioni imposte nei secoli della
loro segregazione.
Tuttavia, il luogo comune che definisce l’antisemitismo come “ostilità al diverso” ne coglie sì
l’aspetto generico che lo accomuna alla xenofobia e al razzismo, ma non la peculiarità. Se il
razzismo è ostilità al diverso, l’antisemitismo è più propriamente ostilità al simile, o meglio alla
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contiguità deviante: deviante dalla norma comune, sociale e religiosa. E la devianza, percepita come
somiglianza corrotta, è della pura diversità tanto più conturbante, specie se contigua: contiguità
fisica; contiguità e concorrenza nell’eredità biblica dal punto di vista religioso; contiguità e
concorrenza nella sfera economica e culturale, nella vita sociale e politica. L’accumulo simbolico
proiettato nel corso dei secoli sull’ebreo come figura di una contiguità deviante e corruttrice
conferisce all’antisemitismo il doppio registro del disprezzo e del timore. Soprattutto del timore:
rispetto al razzismo in genere, animato dal disprezzo, specifica dell’antisemitismo è, come si è
detto, l’idea dell’ebreo come figura dotata di un’ oscura e immane potenza.
4 - Sullo sfondo scientistico dell’ epoca in cui si è affermato, l’antisemitismo “laico” teorizzava
un’essenza ebraica immodificabile perché “razziale”, “biologica”. Oggi, per ciò che ancora resta del
tabù conseguente alla II Guerra Mondiale sul razzismo conclamato, il criterio più diffuso per
definire le differenze tra gruppi umani si è spostato dalla “natura” alla “cultura” . In questo senso la
giudeofobia post-moderna ha maggiori affinità con quella pre-moderna di stampo religioso, che
non con quella dell’antisemitismo moderno. La differenza culturale presenta infatti caratteri più
affini alla differenza religiosa che non a quella “naturalistica”del razzismo classico.
Dopo lo sterminio nazifascista, nasce lo Stato di Israele nel 1948: le tragedie che lo precedono
spiega la solidarietà verso di esso radicata tra gli ebrei del mondo, ma non esime moralmente lo
Stato e la sua politica dalla critica, al pari di qualunque altro Stato o entità politica. Tuttavia, come
ogni entità storica, Israele ha un a sua specificità.
Nei fatti e nell’immaginario, lo Stato di Israele rappresenta in forma esplicita uno slittamento nella
sfera politica dell’ebraismo in quanto tale. E’ una necessità della storia.
Ora, abbiamo visto, il terreno politico è l’ambito dell’accusa antisemita. L’antisemitismo ha sempre
fantasticato di un preminente carattere politico dell’ebraismo (l’idea paranoica del “complotto
ebraico per il dominio sul mondo”). E come l’emancipazione ebraica e la conquista politica dei
diritti di cittadinanza si trovò di fronte alla reazione antisemita fino allo sterminio, così la conquista
politica dell’autodeterminazione nazionale degli ebrei si trova ad affrontare oggi una reazione
antisemita di nuovo crescente. Ciò indipendentemente dai torti e dalle ragioni di Israele, ma per il
fatto stesso di percepire l’ebraismo in quanto tale come entità politica. Cosa che un tempo non era,
se non nell’immaginario antisemita, e che ora in gran parte lo è di fatto per via di Israele. Ma se un
tempo dall’antisemitismo scendevano sugli ebrei improprie imputazioni politiche, ora dalla
legittima critica politica ad Israele spesso ri-salgono improprie imputazioni antisemite verso gli
ebrei in quanto tali.
Da molti decenni, la propaganda contro Israele nei Paesi islamici trascende appunto i criteri politici
per diventare agitazione anti-ebraica. Si diffondono a larga tiratura testi classici dell’antisemitismo
europeo, tra cui I protocolli dei saggi anziani di Sion, libello antisemita zarista, caro poi al
nazifascismo e all’integralismo cattolico (di G. Preziosi, di padre Gemelli e della dittatura cattolica
croata di Ante Pavelic). Nell’attuale agitazione “islamista” si incrociano la condanna della
prevaricazione di Israele sui palestinesi e la reazione antimoderna e antidemocratica, la xenofobia e
l’oltranzismo religioso, il vittimismo demagogico di regimi che sollecitano il consenso con
l’indicare un nemico comune di fronte al quale masse e potere devono coalizzarsi: l’antigiudaismo
nei Paesi islamici sembra svolgere una funzione di nazionalizzazione e islamizzazione delle masse,
analoga a quella svolta nei secoli scorsi nell’Europa cristiana.
5 - Consideriamo due “complessi” che fanno da sfondo alla riflessione dell’Occidente su se stesso e
polarizzano il confronto tra destra e sinistra: l’uno è la responsabilità del colonialismo e
dell’imperialismo, l’ altro è Auschwitz e il razzismo teorizzato. Sono gli esiti barbarici della civiltà
occidentale verso l’ “altro” esterno, e l’ “altro” interno, gli ebrei o gli zingari). Ora, Israele si trova,
di fatto e simbolicamente, all’incrocio di questi due complessi. Da un lato rappresenta il riscatto da
Auschwitz, dall’altro il punto di impatto tra Occidente ricco e popoli già coloniali, sulla linea di
faglia tra civiltà “biblica” e civiltà “coranica”. Tramite gli ebrei e la loro storia tragica, Israele è
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percepito nell’ambito simbolico delle vittime; tramite Israele e la prevaricazione sul popolo
palestinese gli ebrei sono percepiti nell’ambito simbolico dei vincitori e del retaggio colonialistico.
Così, la configurazione diaspora/Israele è presa nel vortice tra la commiserazione simpatetica
dovuta ai deboli e ai perseguitati, e la severità e il risentimento dovuti ai forti e ai prevaricatori. E in
questo groviglio destra e sinistra, e gli ebrei stessi, si inviluppano.
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