L`estetica di Gianvincenzo Gravina

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 L’estetica di Gianvincenzo Gravina Gianvincenzo Gravina
Cosenza 20 gennaio 1664 -Roma 6 gennaio 1718
di Francesco Palladino INDICE
Introduzione
I) Formazione filosofico- letteraria
II) Il Gravina e l'Arcadia
III) L'estetica del Gravina come superamento del Secentismo
IV) Omero e Dante, ovvero due grandi modelli di vera poesia nella concezione graviniana
V) Gravina e Vico
Conclusioni
Bibliografia
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INTRODUZIONE La teoria cinquecentesca dell’arte e della poesia prosegue in Italia durante tutto il Seicento, sia nella forma dell’estetica pedagogica, sia più spesso nella forma dell’estetica edonistica, che meglio risponde alle tendenze intime, se pure incofessate, della sensibilità barocca, al suo culto esclusivo e voluttuoso dell’arte come pure forma e come musica piacevole e grata all’orecchio. Questo concetto edonistico della poesia, già formulato sulle orme degli antichi nel secolo XVI dal Castelvetro e poi da Antonio Riccoboni, costituisce il motivo dominante nelle polemiche letterarie del Cinquecento e del Seicento , che si risolvono in una difesa della poesia in quanto tale, in nome del diletto e contro gli assertori del rigorismo precettistico e dell’estetica moralistica. Contro i suoi denigratori che gli rimproveravano di aver creato col “Pastor fido” un mostro poetico, il Guarini dichiara che la poesia non ha per scopo l’insegnare ma il dilettare e si richiama, come solo giudizio legittimo, al consenso universale del pubblico. Intensificandosi la polemica, si fa strada, così , a poco a poco , il duplice concetto che la poesia consiste in una facoltà a sé, l’ingegno, che è dono della natura, distinta dall’intelletto raziocinante e anteriore alla stessa cognizione dell’arte; e che il giudizio intorno alla poesia appartenga, a sua volta, ad un’altra parallela facoltà, il gusto o sentimento, che, anch’esso, non si risolve nell’ambito del raziocinio ma ha, piuttosto, carattere di immediatezza e si manifesta nel consenso e nell’approvazione dei lettori. Potrebbe essere questa l’affermazione dell’autonomia dell’arte, ma la libertà della fantasia si confonde con il capriccio, l’originalità poetica col desiderio della novità ad ogni costo, il diletto che deriva dall’opera d’arte con il senso della meraviglia e della curiosità stuzzicata per mezzo dello strano e dell’eccitante.Tutta la cultura letteraria e la piccola poesia del Seicento è dominata da questo piacere dell’intelligenza, che gode della sua bravura, delle sue innumerevoli trovate, del suo giocare e scherzare. La poesia, insomma , diventa retorica e questa spadroneggia nelle sue mode caratteristiche del marinismo, o culto della metafora, e del concettismo, o ricerca della acutezza. A questa concezione, tipicamente italiana, eccentrica e capricciosa, fa riscontro quella francese che si ispira al grande filosofo Renato Descartes; il quale con suo culto della verità e delle idee chiare e distinte, col suo odio contro l’immaginazione libera e capricciosa nega, se pure involontariamente, la poesia stessa o tutt’al più s’induce a tollerarla, quando essa accetti di sottomettersi alle regole della fredda regione. Il Bolleau, tipico rappresentante dei letterati francesi, riduce a formula il gusto geometrico del tempo e della nazione e , in nome del vero e del buon senso, giudica severamente i modi della poesia italiana, non solo dei marinisti e concettisti del Seicento ma del Tasso stesso, considerato come il loro capostipite e maestro. Nel Seicento, quindi, alla decadenza dell’entusiasmo morale, all’abbassamento e dissanguamento degli spiriti e delle ambizioni corrisponde la decadenza dell’arte letteraria, che si dibatte tra l’esasperazione artificiosa e stravagante del barocco e l’intransigente razionalismo cartesiano. In particolare l’estetica del sensismo sviluppa sostanzialmente il concetto della negazione del rigido formalismo dei generi, delle regole e dell’imitazione e sostiene che le opere d’arte sono prodotte dal genio, dal gusto e dall’entusiasmo. La polemica, nata in ambiente letterario, si estende nel campo filosofico ed è così che nella prima metà del secolo XVIII Goffredo Guglielmo Leibnitz, alla netta separazione tra materia e spirito, senso ed intelletto, istituita da Cartesio, oppone la teoria per cui senso ed intelletto non sono assolutamente separati ma gradi di una medesima realtà spirituale. L’arte, perciò, che Cartesio ha respinto tra i fatti sensuali, trova la possibilità di porsi come fatto spirituale in un grado intermedio tra il senso e la ragione. Il Muratori , il Conti e il Gravina che sono i maggiori trattatisti dell’estetica della prima metà del secolo, mostrano chiaramente le loro derivazioni dalle dottrine del filosofo tedesco. Il Muratori, infatti, nel suo celebre trattato, “Della perfetta poesia”, avverte, almeno psicologicamente, l’esistenza di una particolare facoltà dell’anima, la fantasia, che egli chiama apprensiva inferiore e distingue dall’apprensiva superiore od intelletto, 3
assegnando alla prima il compito di rappresentare le cose corporee senza cercare se siano vere o false, il che è compito della seconda. Più innanzi in queste articolazioni della fantasia va il Conti, che accetta la distinzione tra senso, fantasia ed intelletto ma, soprattutto, il Gravina, il quale afferma che la poesia è finzione e non rappresentazione oggettiva di verità. E’ merito del Gravina aver criticato i generi fissi in letteratura e di aver intuito la natura dell’arte, che lungi dalla vita dei sensi, ha una propria autonomia in sede spirituale, pur non separandosi dall’unità della mente e del pensiero. E’ suo merito, altresì, aver conciliato gli estremi della polemica letteraria e se da un lato riconosce che l’arte non può prescindere dalla conoscenza del vero, dall’altro sostiene che la sua espressione, il suo intrinseco linguaggio è diverso dalla chiarezza dei concetti in quanto si serve di immagini corpulente e robuste. In un’età di vera decadenza dell’arte letteraria egli è il rappresentante di un sano indirizzo propugnatore della verità e della naturalezza; contro le deformazioni e sofisticazioni dell’arte sente il bisogno di generalizzare il contenuto e la forma nel tentativo di fondare una scienza della poesia. E’ questa un’intuizione notevole che basta già da se stessa a tributare un giustificato riconoscimento all’opera del Gravina, destinata ad essere meditata e sviluppata successivamente. Non è inesatto affermare, dunque che il Gravina già prima del Vico e del Baumgarten scopre la vera indole della poesia e dell’arte, segnando da vero rivoluzionario la linea divisoria tra arte e scienza, tra fantasia e intelletto. E’ somma sua lode aver vagheggiato,in un secolo di sopite energie nazionali, il risveglio degli Italiani, ravvivando il culto di Dante e propugnando il ritorno alle grandiose e gloriose tradizioni latine. FORMAZIONE FILOSOFICO‐LETTERARIA In Rogiano, terra antica e pittoresca della Calabria, nacque Gianvincenzo Gravina il 18 febbraio 1664 da Gennaro e da Anna Lombardi. Nasceva in un secolo di decadenza e di oppressione, perché la Spagna vessava le province italiane soggette al suo dominio; in particolar modo era sfruttato dai vicerè il Regno di Napoli, mentre contribuivano a rendere il quadro più fosco e caotico malfattori, frati e legulei. Sognando ancora l’Impero universale di Carlo V, la Spagna si preoccupava di comprimere lo slancio delle nazionalità, ostacolando la libertà di pensiero coi roghi e con il tribunale dell’Inquisizione, seminando la corruzione nella nostra letteratura, che sempre più rincorreva all’uso delle metafore e abbondava di ampollosità e cattivo gusto. A tutto questo univa una sistematica vessazione che aveva come fine la soppressione del commercio e dell’industria. Ma, nonostante la violenza e i soprusi a cui si fece ricorso per reprimere la riscossa che si preparava in tutte le province e maggiormente a Napoli e nell’Italia Meridionale, il movimento culturale iniziato da Cartesio e Galilei e destinato a segnare la nascita dell’età moderna penetrò proprio in questi paesi. In Rogiano il Gravina fu iniziato alle lettere da suo padre e da lui attinse l’amore indomabile per gli studi. Suo primo grande maestro fu il Calopreso, suo cugino, dalla parola facile e affascinante, che era un seguace della filosofia cartesiana. In arte, però, egli proclamava la vanità e l’inutilità di ogni precettistica e la distinzione tra logica ed arte, collegandosi quest’ultima alla fantasia. È proprio la fantasia a reggere le opere, immergendosi nei particolari e distinguendo le differenze tra il buono e il cattivo. Il Calopreso, lungi dall’intendere la forma letteraria come i cartesiani e secondo retorica, la intende secondo filosofia , come forma non più grammaticale ma spirituale, non più ornamento ma veicolo del pensiero e del sentimento. Fu, dunque, Gregorio Calopreso a temprare l’ingegno del Gravina, guidandolo alla letteratura dei migliori poeti e prosatori italiani ed inculcando nel suo animo il disprezzo delle metafore sonanti e delle immagini nebulose dei secentisti. Parimenti il Gravina si alimentò alle meditazioni filosofiche del Maestro, che , abbandonata la vecchia scuola e il falso Aristotele, andava assimilando la genialità delle idee di Telesio e Cartesio ed avvertiva il mutamento dei tempi, dissolvendosi il dogma della Scolastica e l’essere immobile aristotelico. 4
La città di Napoli, intanto, benchè oppressa dagli Spagnoli, aveva dato prova di fierezza con Tommaso Aniello, che aveva cercato di scacciare il vicerè e con Giordano Bruno, che tra le fiamme del rogo aveva proclamato l’indipendenza del pensiero dalla Scolastica e la libertà della coscienza dal giogo teleologico. Il Calopreso pensò che era venuto il momento di portare con sé a Napoli il giovane Gianvincenzo ma, per motivi di famiglia, dovette affidarlo alle cure di Serafino Biscardi. Questi lo iniziò alla conoscenza delle lettere greche e latine, nonché all’arte della eloquenza, convinto che non si potesse studiare il diritto e le altre scienze senza saper connettere le idee logicamente ed elegantemente. È chiaro che, sin da quel momento, non ci fu bisogno per il Gravina di maestri che lo inducessero allo studio; innamorato delle bellezze classiche entrò con tutta l’anima nel mondo greco e meditò gli stupendi dialoghi di Platone. Rapito dalla grandezza di Omero, di Eschilo e di Pindaro, di cui doveva discorrere con tanta sapienza nella “Della ragion poetica”, si dedicò completamente al mondo antico, temprando e raffinando il suo giovanile intelletto nell’arte serena dei Greci. Ma alla sua formazione non poteva mancare il Cristianesimo: interrompendo, talvolta, le sue meditazioni, sentiva la forza irresistibile del Cristo, considerato più nella sua luce ideale che secondo i dogmi della Chiesa. Fu attratto anche dalla figura di S. Attanasio e, quasi ad immortalare questo suo momento di vita, sbozzò in italiano due tragedie, celebrando nell’una Gesù Cristo, fondatore di una religione che aveva vinto il mondo e glorificando nell’altra il santo, atleta e martire cristiano, grande oppositore di Ario e dei tiranni. Compiuti gli studi letterari e speculativi, il Gravina si rivolse allo studio del diritto a cui fu avviato da Serafino Biscardi ed abbandonò temporaneamente la poesia. Il suo esordio letterario avvenne a Roma, dove si era transferito con l’assenso del Calopreso nel 1689. Ivi aveva conosciuto A. Guidi, col quale si legò in amicizia, che aveva pubblicato l’ “Endimione”, dramma che mostrava l’emancipazione dalle vecchie regole. Traendo spunto da esso, il Gravina scrisse il “Ragionamento sull’Endimione”, difendendo tale dramma e dimostrando la vastità dei propri studi e l’acume della sua critica. In questa opera il Gravina abbozzò i nuovi principi che sarebbero stati svolti nel “ Della ragion poetica” , sfatò la vecchia critica emancipandosi dal falso Aristotele ed inaugurò una salutare rivoluzione nel campo dell’arte. IL GRAVINA E L’ARCADIA Con la pubblicazione del “Ragionamento sull’Endimione”, il Gravina si era attirato le amare invettive del Sergardi, che in alcune satire aveva denigrato le idee innovattrici del calabrese. Questi, però, aveva risposto con alcuni giambi e alcune virulenti declamazioni, accattivandosi la simpatia di uomini insigni, quali Emanuele Martino, il Maestro di Salfi e il canonico fiorentino F.S.Gagliardi. Placate le ire e riconosciuto il Gravina come critico profondo, questi si raccolse di nuovo nei suoi studi maturando nella sua mente l’idea di opporre un’argine alla corruzione del secolo: solo richiamando la gioventù alla meditazione della schietta natura allo studio accurato e severo dei classici ,la poesia italiana si sarebbe potuta svegliare dal torpore in cui era caduta; solo da uno studio delle mutate condizioni civili e non con la stupida e servile adorazione del passato, si sarebbe potuto sperare in tempi più fecondi e più fertili di produzioni veramente originali. Era, intanto, necessario accentrare tutte le forze intelletuali in una robusta e ben ordinata associazione, per evitare la dispersione di quelle che aveva di meglio l’Italia. Audace ed innovatore, il Gravina vagheggiò la magnanima impresa, sicuro che la gioventù sarebbe ritornata a meditare con amore e serietà sul patrimonio della nostra letteratura, procurando ad essa nuova linfa e vigore. Nacque, così, l’Arcadia o Nuova Accademia sul modello dei classici e al Gravina fu affidato il compito di compilarne le leggi. Formulate con eleganza, esse furono sancite nel 1696 ed incise in due grandi tavole di marmo, collocato nel Teatro degli Orti Farnesi a Roma. Al suo esordio, cioè prima della direzione del 5
Gravina, l’Arcadia ottenne notevoli adesioni da ogni parte d’Italia, sì che si può considerare la prima accademia nazionale. Il programma della nuova Accademia è nettamente polemico nei confronti del marinismo e del concettismo secenteschi: essa, infatti, si ripromette di abbattere il cattivo gusto, di restaurare la tradizione classica, di ritrovare la semplicità dell’espressione e del sentimento. Suo fine è la saggezza come il nome del porto ideale che è richiesto dall’intelletto e dalla ragione. Nel poema marinesco la ragione è la gran vinta: vinta dal senso, dalle passioni, dal “genio”, dallo scetticismo. Con L’Arcadia la ragione assume il compito di ordinatrice e di guida, evitando che l’arte possa cadere nel vuoto formale e contenutistico. Ma, soprattutto, la nuova Accademia avverte la necessaria riforma dei costumi, del modo di vivere, perché la poesia non può nascere dalla fiacchezza spirituale, riecheggiando, così, un motivo platonico , che non poteva non concordare con l’ideale graviniano di un’arte vera, genuina e vigorosa. Si cerca, così, di riprodurre l’atmosfera idillica di un’età dell’oro, in cui i costumi erano puri e ingenui, la mente semplice e la poesia schietta e pronta, come diretto linguaggio dell’animo commosso. Il sentimento acquista valore sopra il senso bruto, mentre la misura si impone sulla crassezza verbale e paralogica, riecheggiando, così, l’idillismo bucolico della migliore poesia latina. Alle combinazioni astratte ed arbitrarie dello spirito, tipico carattere del marinismo , che adulterano e falsificano le forme naturali, si costituisce l’adesione spontanea dello spirito alla natura, evitando le lambiccature che adulterano gli oggetti e i sentimenti. Il linguaggio diventa più compiuto ed incisivo in riscontro alle preziosità verbali e alle amplificazioni stilistiche dei marinisti; alcune volte nascono meliche agili e pronte, fresche e sincere in una forma calda e viva. Nascono composizioni che per snellezza e musicalità potrebbero stare accanto alle migliori espressioni dello spirito classico. Il verso stesso diventa ritmo che sfuma in una melodia evanescente, che investe davvero il sentimento. Sembra, insomma, agli inizi che l’Arcadia debba costituire una svolta decisiva nella nostra storia della letteratura e che stia veramente realizzando quello che essa stessa si è proposto, cioè di estromettere il cattivo gusto della poesia e dell’arte; i marinisti, infatti, in quel modo di comporre versi stanno per affossare la genialità e la fertilità, spontanee ad un vero senso poetico. Ma è una pretesa eccessiva pretendere da un’associazione letteraria, nata in un secolo di languidezza spirituale, quando Spagnoli e apparato medioevale menavano alla sfiducia e al pessimismo, che essa realizzasse in pieno il programma formulato nell’entusiasmo di un salutare rinnovamento. Ben presto anche l’Accademia rimase avviluppata nei vizi del secolo che, invadendo l’anima, cominciavano a far sentire i propri effetti anche sui pensieri. A poco a poco l’Accademia incominciò ad assumere un volto prettamente cartesiano e , ispirandosi al grande filosofo francese, diede sempre più importanza nel fatto poetico al motivo razionale, ponendo quello fantastico e sentimentale in una posizione di netta inferiorità. Fu così che l’Arcadia naufragò, avendo intuito per un momento la natura del bello e dell’arte ma essendosene di fatto allontanata successivamente rompendo quel mirabile incanto che è la sintesi poetica. Declinò la fortuna dell’Accademia che, obliando il motivo della sua nascita, evitando la siepe del formalismo marinistico, cadde nell’altra dell’ intellettualismo eccessivo ed intransigente. Si prese gusto per una mascherata che avrebbe dovuto riportare gli Arcadi in un’atmosfera pastorale, dando maggior valore al cerimoniale e al simbolismo piuttosto che alla naturalezza e spontaneità dell’Associazione. Alle parole rotonde e risonanti dell’ eloquenza barocca si sostituiscono figurazioni più lineari, idilliche ma non meno astratte; il sentimento perde la sua naturalezza, diventando affettato e svenevole. Tutte le donne divengono Clori , Filli e Amarallide, pastorelle graziose e belline aggirantesi in paesaggi favolosi, materiate di occhi lucenti e capelli ben curati. Effettivamente tutto sembra risolversi nella superficialità dell’apparenza, in un codice predisposto di buone creanze. Alla retorica del marinismo si aggiunge questa altra forma di retorica che cerca di compensare la pochezza poetica con una falsa semplicità. Il Gravina avvertì il vuoto in cui era caduta la sua tanto sospirata associazione e come fosse rimasta contaminata dal deteriore gusto del tempo. Il suo animo classico non poteva approvare quei componimenti che sapevano di pastorelleria e di superficialità; dall’altra parte, l’invidia, la gelosia e la novità delle idee del Gravina fecero breccia nella natura cavillosa dei Crescimbeni . Questi, insieme al Gravina, era stato uno dei primi quattordici membri dell’Accademia e, quando essa fu costituita, era stato eletto custode generale. Seguace zelante di Cartesio, anche nell’arte riecheggiava i motivi del suo maestro, naturalmente in forma più mite. Era inevitabile che scoppiasse in seno alla nuova Accademia una guerra fiera e accanita tra i 6
sostenitori del Crescimbeni e quelli del Gravina, che in arte difendeva il classicismo umanistico e rinascimentale. D’altra parte lo stesso Crescimbeni brigava ogni anno per essere eletto custode generale e faceva il monopolio di tutti gli uffici dell’Accademia. Questo, naturalmente, non poteva convenire all’anima sdegnosa del Gravina, che, dopo essersi lamentato dello scandalo, denunziò il Crescimbeni al giudizio dell’assemblea. Ma il grande numero degli avversari fu sfavorevole e, pertanto, il 21 luglio 1711 la votazione dell’assemblea diede causa vinta a Crescimbeni. Il Gravina uscì dall’Arcadia sconfitto ma moralmente vincitore in quanto con lui trionfava sul vecchio mondo arcadico lo spirito battagliero del Rinascimento, trionfava la robusta e nazionale poesia di Dante sugli sdolcinati imitatori del Sannazzaro e del Petrarca. L’ESTETICA DEL GRAVINA COME SUPERAMENTO DEL SECENTISMO Dopo la rottura con l’Arcadia, il Gravina, quasi a dimostrare quanto gli stesse a cuore la sorte della poesia italiana, raccolti molti aderenti, fondò una nuova Accademia; ne fu custode il dotto Livio Odescalchi, duca di Bracciano, che generosamente promosse ed aiutò finanziariamente l’associazione. Morto il duca, la nuova Arcadia si chiamò Quirina e il Gravina ne scrisse le leggi; a patrocinarla, questa volta, fu il Cardinale Corsini ma essa durò poco perché dovette lottare con l’Arcadia, potentissima nel numero dei suoi membri e patrocinata dai governi; d’altra parte la giovane Quirina era insufficiente a sostenersi finanziariamente da sé. Il Gravina non si lasciò scoraggiare da queste sconfitte, anzi sempre più si convinceva che, per scuotere il torpore dei suoi contemporanei, c’era bisogno di un’opera edificante che dall’analisi degli elementi poetici facesse scaturire la sintesi mirabile insita in tutti i capolavori artistici. Ad allettarlo in questo progetto contribuiva anche il fatto che, fino ad allora, gli esempi di critica letteraria erano stati ben pochi. Non esisteva un’estetica come scienza del fatto poetico in quanto, nel fervore delle creazioni rinascimentali, l’Italia non si era seriamente ripiegata su sé stesso ad analizzare quel momento spirituale, paga di esserne la creatrice. Una certa critica c’era stata ma solo filologica, intesa ad illustrare le opere greche e latine: servì solo a restaurare su solide basi i capolavori antichi. Solo allora, quando la ragione si liberò dai ceppi della teologia medioevale e si ritrovò nuda e creatrice al centro dell’Universo, la critica da filologica divenne razionale e nel secolo XVII il Caro, il Castelvetro e il Tasso si emanciparono dalla vecchia erudizione filologica.Allargando i concetti critici di Aristotele, essi segnarono il passaggio alla nuova critica in cui dovevano distinguersi il Tassoni, il Boccalini, il Muratori, il Maffei, il Giudici, e tanti altri. Ma anche tale critica aveva i suoi limiti: rimaneva ancora troppo legata ad una forma di positivismo prematuro, non completamente emancipata da Aristotele, che continuava a dettar legge . C’era bisogno di ben altro, per risollevare l’arte, che leggere Catullo, Orazio, Omero con mente superficiale e svanita. Si rendeva necessario analizzare quelle opere sul vivo, cioè là dove nasce la creazione poetica, seguendo un metodo critico e razionale, che individuasse gli elementi di cui consta una capolavoro artistico. Era un’impresa temeraria che soltanto una mente geniale avrebbe potuto portare a termine e il Gravina con tale analisi dimostrò il suo vigore intellettuale e un’intuizione notevole del fatto poetico. Nel 1708 pubblicò “Della ragion poetica”, libro destinato ad essere meditato da poeti insigni, quale il Foscolo, da critici, come il Winkelmann, che dovettero riconoscere l’originalità e l’importanza dell’opera del Gravina. Nel libro “Della ragion poetica” il Gravina ricerca l’origine o, che è lo stesso, la natura della poesia che, a suo giudizio, “nell’origine sua è la scienza delle umane e divine cose convertite in immagine fantastica e armoniosa”II). Tale concetto vale già ad illuminare lo stretto rapporto che, secondo l’insigne critico, sussiste tra fantasia e intelletto. È evidente che qui non si parla di prevalenza dell’uno o dell’altro elemento ma, piuttosto, cosa che sta più a cuore al Gravina, che non può sussistere opera poetica che non comprenda 7
i due motivi dello spirito umano. La poesia è una scienza, certo, che comprende in sé l’esperienza del fatto razionale e religioso, convertiti nella forma ad essa intrinseca, che è fantastica e armoniosa. Egli non presume di dare precetti assoluti e pone in rilievo che altre erano le regole antiche, che convenivano coi costumi greci; altre sono quelle che debbono convenire con la nazione che si introduce nell’opera. In tal modo, reagendo contro gli avari precetti della convenzionalità retorica, commina ai generi fissi, retaggio della poetica aristotelica, una vera sfida. La poesia non può essere schiava di regole, che varrebbero a comprimere l’originalità e, tanto meno, se queste regole vengono da Aristotele, che, certamente volò ben poco sulle ali della fantasia. Ma, d’altra parte, il Gravina avverte l’importanza di disciplinare la fantasia entro un alveo che non sia la strettoia dei generi fissi. Comprende il vuoto in cui cade la fantasia, quando essa sia svincolata dalla completa attività spirituale e come non nasca opera poetica sempre, quando essa si cimenti nel volo. Se nelle sue idee, infatti, egli dimostra di amare profondamente Platone, avverte pure l’importanza del faticoso cammino dell’uomo attraverso la storia. La poesia non può nascere se non quando l’uomo ritorna su se stesso a contemplare la sua fatica quotidiana e per un momento intuisce e raccoglie il frutto del suo travaglio in una sublimazione che fissa nel tempo l’impronta del suo genio. Non si può dire, e forse sarebbe una pretesa eccessiva affermarlo, che l’estetica del Gravina sia quella dell’idealismo critico tuttavia si avverte l’assonanza tra i due motivi critici, intesi a dare valore e centralità all’uomo nel mondo in tutte le sue produzioni spirituali. Il travaglio storico e l’intuizione artistica si avvicinano nel concetto che “le regole mutano col mutare dei tempi e tanto quelle antiche quanto quelle moderne debbono rimanere comprese in un’idea di propria, naturale e convenevole imitazione e trasporto del vero nel finto, che di tutte le opere poetiche è la somma universale e perpetua ragione”(2) Non muta la poesia ma muta la storia e, quindi, le regole che ne constituiscono la parte caduca, il guscio destinato ad essere abbandonato. Non si può pretendere che l’arte si riduca alle regole, se non col rischio di fermare la storia e ,quindi, di sopprimere l’uomo che ne è il protagonista. Si avvicinano, sarebbe eccessivo dire che si fondono, storia e fantasia, imitando questa nella finzione la verità di quella. In tal senso il Gravina condanna apertamente la pseudo poesia del suo tempo, fatta di lambiccamenti formali, ampollosità e belati. In quei componimenti è dato di riscontrare solo il gusto delle parole altisonanti ma vuote, le immagini astratte e nebulose, che non nascondono alcun elemento che faccia pensare a qualcosa di vero e di naturale. Il Gravina, proteso nel raggiungimento del mondo ideale platonico, comprende che tale meta non si raggiuge facendo della poesia e dell’arte, in genere, il mezzo per solleticare l’ orecchio, peggio, per sprofondare la mente nella gioia effimera dei sensi. Lo spirito deve aderire alla natura nella speranza di carpirne la verità, perché “siccome delle cose vere è madre la Natura, così delle finte è madre l’idea tratta dalla mente umana di dentro alla natura istessa, ove è contenuto quanto col pensiero ogni mente, o intendendo, o immaginando, scolpisce” (3). Ancora una volta fa capolino la profonda conoscenza della storia e degli uomini, che attraverso il travaglio di quella si fanno, sollevandosi dal loro stato di precarietà. Gli uomini, siano essi scienziati, filosofi, poeti pensano per idee le verità contenute nella natura e strappano faticosamente ad essa il segreto della loro esistenza. Bisogna rilevare, però, che il Gravina, a questo punto, rimane impelagato in una doppia metafisica che mostra il suo volto oltre l’idea, in quel mondo platonico tanto sospirato dalla Natura, divinizzata fino a contenere la verità di tutte le cose. Il Gravina cerca ci conciliare le due metafisiche ma ondeggia tra la vecchia scuola platonica e la nuova scuola naturalistica iniziata da Telesio e Galilei. Il fatto è che egli, sempre per quell’alto concetto del processo storico, avverte l’eccessiva astrazione del mondo platonico, si appella al concreto della natura e in essa pone le supreme verità che balenano alla mente degli uomini sotto forma di idee. _ ____________________________________________ (I)G.V.GRAVINA,Della Ragion poetica, I.II, intr.pg27 In Biblioteca enciclopedica italiana, Vol.XIII, Milano1831 (2)G.V.GRAVINA, Della ragion poetica, I.I, intr.,pg.2; op.cit. (3)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I, intr.pg.2; op.cit 8
L’idea, in altri termini, è il grado di approssimazione alla vera essenza delle cose e dell’uomo stesso. L’idea è la matrice delle cose finte e, poiché la poesia è finzione, a quella direttamente si collega e vive di essa. “Il poeta per mezzo delle immagini esprimenti il naturale e della rappresentazione viva e somigliante alla vera esistenza e natura delle cose immaginate, commuove ed agita la fantasia nel modo che fanno gli oggetti reali, e produce dentro di noi gli stessi effetti che si destano dai vari successi”(4). La fantasia è intimamente connessa con la conoscenza effettiva delle cose e , poiché quest’ultima si attua mediante il raziocinio in una fase discorsiva, la fantasia stessa vive della verità della ragione e su di essa si modella. È evidente l’alto concetto che il Gravina ha dell’atto poetico: “la poesia è una maga, ma salutare ed un delirio che sgombra le pazzie” (5). Una profonda differenza sussiste tra questo modo di intendere la poesia e quello dei marinisti. Per il Marino la poesia non esprime alcuna serietà e profondità di concetto o di sentimento, nessuna fede in un Contenuto qualsiasi; la fantasia è svincolata dalla vita, che è materializzata e allegorizzata, tutta al di fuori, nei suoi contrasti, accidenti e somiglianze esteriori, e come le somiglianze e i contrasti esteriori sono infiniti, nascono rapporti capricciosi, arbitrari tra le cose, che sono veri quanto a questa o a quella apparenza, ma ridicoli e falsi rispetto alla totalità della vita. La fantasia sembra che abbia conquistato la propria autonomia ma più che di autonomia dovremmo parlare di licenza portata all’assurdo. Lo stesso sentimento della natura viene adulterato e falsificato, correndo la fantasia dietro immagini abnormi e mostruose ,che, a giudizio del Marino, dovrebbero dare l’immagine delle forme naturali. Sembra che la poesia , invece di essere una maga che sgombra le pazzie, abbia come compito proprio quello di far impazzire! L’amore stesso che in Platone è elemento di purificazione, per il Marino è senso che avvolge in tutte le sue sfumature. La fantasia è,insomma, alogicità pura e, se dovessimo fare un accostamento, è leggermente al di sopra del senso con la differenza che, mentre questo segue un arco molto breve, quella ne prolunga la durata in intensità e sfumature: la fantasia vive del senso e con esso muore. Ma il Gravina, che aveva studiato profondamente i classici e ne aveva assimilato la sublime poesia, non poteva assolutamente condividere l’interpretazione data dal Marino. La cultura del tempo non era riuscita ancora a dare un’esatta definizione dell’atto poetico. Cartesio tuonava contro i marinisti, cadendo nell’eccesso opposto e cioè condannando apertamente la poesia e pretendendo che il suo linguaggio non fosse tanto dissimile dalla fredda ragione. Cartesio era poco convinto dell’esistenza di una terza facoltà o momento spirituale, esistente tra il senso e la ragione e , quindi, a parer suo, tutto quanto non fosse chiaro e distinto meritava il più profondo disprezzo. L’accettazione di qualche opera di poesia era sempre relativa al moralismo che in essa si celava e in base ad esso veniva giudicata. Il Gravina comprese il dramma in cui versava quel momento dell’attività spirituale che , ad onta di marinisti e cartesiani, che con i loro estremismi implicitamente sembravano negarlo, pur esisteva come fatto vitale nella sublime realtà. Commisurata la poesia, di cui aveva provato i fremiti nelle sublimi composizioni dei classici, a quelle interpretazioni, trovò che altra era la via da seguire per individuarne l’essenza; unico metodo per l’individuazione della vera poesia era l’analisi filosofica, un’ analitica dell’atto poetico da cui si sarebbe dovuta dedurre una scienza estetica, adatta a qualificare e distinguere la vera dalla falsa arte. Foggiò, allora, il concetto che “i poeti e gli artisti sono i primi incivilitori del mondo: con le favole essi risvegliano i nascosti intendimenti della ragione. La poesia ha, dunque, un compito, ha un valore nell’economia dello spirito: non è ragione, né si disperde tra le brume del senso. Essa parla, servendosi del verosimile e dell’espressione naturale e minuta, a tutti gli uomini: dà corpo alle idee immergendole nella finzione. Mediante le favole il poeta converte in immagini visibili le contemplazioni eccitate della filosofia. È ingiusto accusare il Gravina di voler fare dell’ intellettualismo in arte, quando egli afferma che fine della poesia è il diletto e l’utile insieme. In realtà, simile affermazione dell’utilità dell’arte nasce dall’esigenza di tutelare l’invenzione poetica della vuotaggine, male del secolo, e di annoverarla tra i fatti spirituali più autentici; tra filosofia e arte, in fondo, non esiste l’abisso posto dal Marino e dai suoi seguaci, né l’identità amorfa sostenuta da Cartesio. Per il Gravina l’utile dell’arte non ha, certo, lo stesso valore che oggi si dà a tale termine negli ambienti interessati alle produzioni artistiche più per lucro che per vera passione del bello. Tale termine entra nell’accezione graviniana, onde salvaguardare l’essenza del linguaggio poetico e, quindi, dell’arte, che mira alla conquista dei supremi valori non in senso egoistico e particolare, bensì in senso 9
universale; essa non è limitata a pochi eletti ma investe tutta l’umanità pensante e, quindi, spiritualmente attiva. Il termine è più comprensivo nel suo significato divulgativo, interpretando l’arte come l’amalgama che unisce gli uomini in una coscienza reciproca, il luogo dove tutti si ritrovano per trarre nuove forze dallo scambio di esperienze, di idee, di sentimenti col comune obbiettivo di una vita sempre più attiva e perfetta. Il Gravina è un convinto seguace di Platone e, se , a suo giudizio, la verità si conquista mediante un lavorio spirituale faticoso, che interessa tutta la storia dell’uomo; d’altra parte tale meta è irraggiungibile se gli uomini non uniscono le proprie energie e non si intendano su un piano soprasensibile, che accolga le loro esperienze, plasmandole in un linguaggio universale. E, allora, quale linguaggio è il più adatto e accessibile a tutti, se non quello poetico? In che modo è possibile far comunicare il mondo concettuale con quello sensibile, se non servendosi delle sublimi favole dei poeti?” La poesia è una maga”, dunque, “ma salutare, e un delirio che sgombra le pazzie”(6). Ma l’arte, secondo il Gravina, mira anche al diletto, perché non si può non gioire quando si crea o quando ci si trovi dinanzi ad un capolavoro artistico. Anche questo termine ha una sua originalità e una particolare interpretazione, poiché si potrebbe confondere col diletto erotico, svenevole e sensuale dei marinisti. Quando parla del diletto in arte, il Gravina certamente allude a quella commozione che invade l’anima quando si è di fronte ad un vero capolavoro poetico, sentimento, che penetrando sin nella più intime fibre del nostro essere, vi apporta una salutare rigenerazione liberando la mente e il cuore dai mostri e dai fantasmi che ne ottundono l’attività: allora veramente si giosce ma non per il titillamento dei sensi, bensì per la rinata libertà. Le favole, dunque, hanno il grande merito di sgomberare la mente dal falso e dal brutto e di comunicare in immagini visibili le contemplazioni eccitate della filosofia. Filosofia e poesia sono intimamente connesse tra loro, rappresentando quella la proiezione della mente nell’indagine della realtà delle cose, mentre quest’ultima è la grande trasformatrice e produttrice di quelle idee conquistate discorsivamente. Dalla filosofia la poesia trae i concetti e ad essi dà corpo mediante la favola, che il è il suo mezzo espressivo: infatti “ quante immagini e favole create per forza della poetica invenzione, o che si rappresentassero coi colori, o che si delineassero con la parola o che si esprimessero con gesti muti, riconoscono sempre per madre e nutrice la poesia che infonde lo spirito suo per vari strumenti e, cangiando strumenti, non cangia natura; poiché tanto con le parole, quanto coi marmi intagliati, quanto coi colori, quanto con i gesti muti si riveste la sentenza d’abito sensibile, in modo che corrisponda alle occulte cagioni, collo spirito interno, e all’apparenza corporea, colle membra esteriori(7). Per apprezzare l’estetica del Gravina, bisogna interpretarla come esigenza di reazione al dominante secentismo e di ritorno a quella semplicità e a quella naturalezza” che sono i colori del vero e il sugo della vera eloquenza” (8) e delle quali furono maestri i Greci e i Romani e nelle quali veramente consiste la classicità. Superando nel suo pensiero le istanze del cartesianesimo ed accomodandole all’erudizione, egli le risolve nell’armonico equilibrio di una concezione rivolta ad individuare esattamente la natura e il posto che spettano all’atto poetico. Egli auspica il sorgere della scienza poetica o estetica a cui spetta di rintracciare la ragione intrinseca dei movimenti dei colori e degli effetti poetici. _____________________________________________________ (4)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I,cap.II, intr.pg.2; op.cit (5)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I cap.VII, intr.pg.2; op.cit. (6)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I,cap.VII, intr.pg.5; op.cit. (7)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I,cap.VIII, intr.pg.6; op.cit (8)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I,cap.XV, intr.pg.14; op.cit 10
OMERO E DANTE,OVVERO DUE GRANDI MODELLI DI VERA POESIA NELLA CONCEZIONE GRAVINIANA Nel libro “Della ragion poetica”, alla parte speculativa segue una parte storica: una storia della poesia greca, latina, italiana, concepita come espressione delle singole civiltà. È significativo il fatto che il Gravina si soffermi a lungo su Omero. L’antiomerismo è uno dei caratteri dell’età secentesca: esempi di tale profonda degenerazione del gusto sono la semplicistica formulazione del Beni, che chiama oro il Tasso, argento Virgilio, rame Omero e la non dissimile disposizione del Tassoni, in cui gli atteggiamenti antiomerici sono acuiti dalla convenzione della superiorità dei moderni sugli antichi. Benedetto Fioretti ravvisa nell’Iliade il modello di tutti i vizi poetici in contrasto con ogni arte e accusa Omero di aver ucciso il decoro, di aver corrotto i costumi, vituperandolo come il noioso chieacchieratore, pieno di stravaganze e assurdità. L’eco di tali proteste contro Omero riecheggia anche in Francia col Rapin e col Desmarets. Ma se le predilezioni secentesche sono rivolte verso i giuochi e i fantasmi, aggirantisi nel modo di inventare tutto tranne che il naturale e il consueto, il Gravina assume ad esempio Omero, per contrapporlo, come il poeta che esprime vivamente la sana idea della poesia, a supremo celebratore della facoltà fantastica: “della fantasia Omero è il mago più potente e l’incantatore più sagace, poiché si serve delle parole non tanto a compiacenza degli orecchi, quanto ad uso dell’immaginazione e della cosa, volgendo tutta l’industria all’espressione del naturale”(9). L’unità omerica nasce non dall'impeto del capriccio inventivo ma dall’arte di regolare l’invenzione sulla natura e sugli avvenimenti presenti . I critici del secolo rifiutano di "appagarsi di quella invenzione, parendo loro troppo piana, troppo semplice e troppo nuda; poiché non curano di ravvisare nulla di quanto sulla mirabile tela delineato"(10). La causa di questo pervertimento del gusto, a giudizio del Gravina, è nella medesima inversione che è avvenuta nel concetto di scienza: il processo onde pervenirvi ha subito una fondamentale involuzione, se la scienza, che attinge valore conoscitivo delle cose considerate quali sono in sé, pretende di farsi, invece, sulla norma delle cose quali sono nel'idea e nel desiderio degli uomini, i quali spesso si pascono più del plausibile che del vero. La poesia omerica col Gravina si riscatta dalle incomprensioni e dalle onte secentesche: il naturale di Omero, vero spirito animatore dell'opera graviniana è chiamato a contrapporsi alle aberranti declamazioni che distinguono il Seicento. Secondo il Gravina, i poemi omerici rappresentano tutto il reale impresso sul favoloso e partecipano, analogamente alle altre favole, all'identico lavoro di delineare, quasi su una tela, la vita civile, descrivendo sotto finti nomi gli eventi del mondo. Quel chiamare a gara gli dei nelle contese terrene rientra nel profondo accorgimento di Omero, al fine di adombrare una realtà politica superiore mediante l'intreccio celeste. Omero si propose di "delineare alla sua nazione sopra amplissima tela la ragione tanto del pericolo, qual era la discordia, quanto della salute, qual era l'unione di tutta la Grecia insieme, con la quale poteva ributtare la potenza straniera e asiatica, che le sopra stava: perciò nel tempo che durò la discordia di Achille e di Agamennone, portò tant'oltre le vittorie dei Troiani, e li fè poi rimaner vinti dopo la riconciliazione di coloro" (11). L’Iliade, a giudizio del Gravina, sarebbe una realtà politica adombrata poeticamente. L'esplicazione della favola omerica, infatti, spazia sull'identità delle istituzioni pubbliche, ridisegnate, come lo richiede la spontaneità, perché si dispongano intorno alla tradizione sociale e religiosa. _______________________________________________________ (9)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I,cap.IV, intr.pg.3; op.cit (10)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I,cap.IV, intr.pg.4; op.cit (11)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I,cap.XVI, intr.pg.14; op.cit 11
Omero, svolgendo in quella misteriosa favola tutto il corso della natura e tutto l'operare e il ragionare degli uomini della sua età, all'epoca del Gravina è tuttavia frainteso da buona parte dei critici del tempo e liquidato o con un giudizio negativo sulla sua gloria letteraria o con una servile dichiarazione di acquiescenza verso le opinioni più accreditate. E ciò procede dal fatto che le rare virtù nascoste di Omero, ammirate da tutta l'antichità con meraviglia e stupore, non si rivelano ai critici moderni. La profondità della sapienza che si nasconde sotto quelle favole, che hanno le sembianza di trattenimenti femminili, può essere compresa solo da chi corre con la mente alla dottrina degli antichi fisici e dei primi saggi, tramandata a noi sotto l'oscura e rozza scorza di cifre ed enigmi tenebrosi. L'assenza di tale intendimento spiega perché l'erudizione e le dottrine volgari si dimostrino inadeguate all'alto compito: è concesso di scoprire Omero soltanto a chi si serve di altra via che quella dei poeti. Per questo nell'antichità la maggiore stima di lui nasceva nelle menti dei filosofi e dei saggi. L'esaltazione di Omero come supremo celebratore della facoltà fantastica, quindi, deriva dal fatto che lo stesso Gravina pervenne alla concezione della poesia e della retorica mediante la riflessione filosofica. Egli considera che, nell'ordine gerarchico del sapere, la mente compie un lavoro di sistemazione, che presuppone l'unità delle conoscenze. Chi avrà risalito le cause generali delle cose ed abbia attinto la radice dell'unità, ponendo in luce gli inizi di tutti gli affetti umani, ed abbia distinto il nesso e il vincolo che ricongiungono tra loro le cose singole con le universali potrà comprendere le cause del regime civile e del progresso della società umana. E, soltanto allora, commisurati i costumi umani ed apprese le cose pubbliche come quelle private, nonché quelle comuni, saprà in quale parte di quelle gli è consentita la discussione, per persuadere gli animi alla propria volontà con le parole e le ragioni che egli ha ricercato. L'arte retorica non è altro, come la intende il Gravina, che un fiume che ha le sue scaturigini nella facoltà civile e nella scienza dei costumi e degli affetti. Il perfetto oratore, armonizzando l'illustrazione del tempo presente e il ricordo degli avvenimenti trascorsi col flusso poetico, realizzerà la felice arte del dire. La poesia, dunque, va considerata come un grado della medesima filosofia. Prima ancora che si formassero le scuole filosofiche, infatti, la sapienza era riposta nelle favole e si trasmetteva attraverso i carmi; l'espressione prosastica si produsse in uno stadio successivo a quello poetico, sopravanzando le favole l'insegnamento della filosofia. Successivamente i filosofi attuarono la distinzione della poesia dalla prosa ma quella non si discostò dalla filosofia che nei tempi ulteriori, quando il fiore della sapienza greca e latina già illanguidiva. La modernità, asserisce il Gravina, quantunque con Dante, Petrarca e Boccaccio si celebrasse ancora l'alleanza con la filosofia, ha rotto quel vincolo, privando la poesia della sua essenza, per cui si appaga solo di solleticare gli orecchi. Discorrendo sulla poesia italiana, il Gravina entra a parlare immediatamente della Divina Commedia, che per lui è il modello della più sublime poesia ed è la somma di tutte le verità religiose, politiche e morali del medioevo. Egli ricongiunge idealmente Dante Alighieri con i poeti della più riposta grecità, ascrivendo al poeta dei tempi moderni, come ai solenni vati dell'antichità, l'idea unitaria della poesia, interprete della storia umana nel suo svolgimento. Dante non fu soltanto l'annunciatore di una nuova civiltà ma anche colui che gettò nel crogiuolo della sapienza, della carità e della virtù civile le forme rivelatrici della parola bella, che risuona inalterata e sempre viva nei secoli, specchiando quanto di perpetuo c'è nel dramma umano. In contrasto con la tendenza denigratrice di Dante, propria dei secentisti, il Gravina si fa sostenitore dell'ideale dantesco, inaugurando la rinascita estetica. Sul divino poeta egli dà un giudizio che può gareggiare con quello vichiano, posteriore di qualche decennio, che indica l'esempio più vivo della futura critica dantesca: "Dante rassomiglia non solo i grandi mai mediocri ed i piccoli ed ogni genere di persona, perciò quel poema è riuscito simile a quella di Aristofane ed altri del suo tempo, antica commedia emendatrice di vizi e degli altri costumi dipintrice; da cui Dante così la natura come il nome tolse dal suo 12
poema. Il quale più del drammatico che del narrativo ritiene, perché frequenti sono le persone introdotte a parlare con quelle del poeta medesimo; e perciò ragion maggiore acquista al titolo di commedia che a quello di epica poesia" (12). La critica non ha smentito questo giudizio; anzi assegna all’esegesi dantesca, condotta dal Gravina, un'efficacia esemplare rispetto al medesimo gruppo fiorentino, ai circoli romani, anticipatori dell'Arcadia, superando le dichiarazioni sul poema dantesco, escogitate dal Crescimbeni. Anche l'Arcadia propugnava il ritorno a Dante ma esiste una profonda divergenza tra la sua interpretazione del poema dantesco e quella condotta dal Gravina. Emiliani Giudici rileva la viva opposizione graviniana alla proposta del Lorenzini di seguire e di imitare il poema dantesco senza restrizioni. Al Gravina, infatti, la commedia appariva non come una maniera di frasi belle e di bei modi di dire ma alimento vigoroso e sostanziale delle menti e delle anime, le quali non avrebbero dovuto seguire pedissequamente i modi di Dante ma apprendere da lui la forza, la robustezza, onde rivestire di vivaci forme, soprattutto personali, alti ed elevati concetti. Il convincimento del Gravina si accentra intorno alla significazione della poesia come favola poetica contenente un senso misterioso e allegorico, che cela un insegnamento nascosto. A proposito dell'insegnamento, che deve informare ogni opera d'arte, il termine è già eccessivo per la composizione poetica del Gravina, messa a confronto con quella di Cartesio e Muratori. Nel libro "Della ragion poetica" è chiaro il tentativo di dare autonomia alla facoltà poetica, e se da un lato non può sganciarsi dal complesso dell'attività spirituale, dall’altro è libera nel momento intuitivo, cioè nella sua espressione formale. Il Gravina, infatti, ci tiene a precisare che chi volesse ridurre la favola alla sua più semplice espressione, sarebbe il distruttore della poesia, poiché la sua essenza è proprio in quel senso misterioso e nascosto: egli estinguerebbe lo spirito e la virtù vitale della poesia, riducendo i poemi a meri corpi inanimati. Quasi intuendo le obiezioni che potrebbero nascere da una simile affermazione, il Gravina fa ancora rilevare che allo spirito della poesia nuoce anche considerare solo alcune cose particolari o la scelta di poche sentenze per dimostrare il merito e la dottrina del poeta. L'intelligenza del mondo dantesco presuppone, nella idea graviniana, la sua segreta discendenza dall'antica sapienza. Dante è il solenne erede dei vati che rivestivano il complesso teologico e morale in forma poetica. Il retaggio delle età che simboleggiavano il connubio tra la poesia e la teologia è trasmesso in lui, perché "tai misteri volle Dante nella nostra lingua da luoghi e templi antichissimi trasportare e la sua poesia consacrare con la religione e con la teologia rivelata e celeste, molto più degna della naturale dei filosofi e dei primi poeti. Donde egli prese la sostanza del poetare; ma prendere non poté il numero e il metro e si era in uno con la lingua smarrito e cangiato nella rima del volgare con lo uso rozzo dei versi leonini" (13). La rima compendia, per il Gravina, la doppia barbarie che si è prodotta nelle lettere: di natura e di artificio. La prima e l'espressione spontanea e genuina, più appropriata all'infanzia dell'arte, tuttavia proclive a dirozzarsi con la cultura, alla quale l'ignoranza semplice ed innocente di natura facilmente si piega. La barbarie d'artificio sopravvive alla dottrina quando i perfezionamenti artistici, che hanno a loro carattere la pompa, pretendono di dominare la natura e, andando oltre misura, generano il deforme. Si può dire, pertanto, che l'arte giace al confine del naturale e la rima stessa è l'effetto della barbarie di artificio, nata da quell'imbarbarimento linguistico della romanità, conseguente all'invasione di vandali e Goti. Ma Dante Alighieri vive in un tempo diverso da quello di Orazio, Virgilio e dei classici dell'antichità quando la lingua ha perduto il suo valore quantitativo e ha assunto la mollezza e la svenevolezza della parlata romanza, mentre la rima spadroneggia in tutti i sensi. Farsi capire dai contemporanei significa dover ricorrere a quella mezza cantilena, che ha come fine il titillamento degli orecchi. Per ragioni storiche ed inventive, dunque, egli usò la rima ma adombrò l'affettazione e l'artificio troppo scoperto delle desinenze simili, interponendo a due versi una rima nuova ed interrompendoli con quella, per sfuggire la sazietà delle terzine. Dante si collega ad Omero poiché, come il greco si servì della lingua parlata dei suoi tempi facendo prevalere lo ionico, arricchito di vocaboli da lui inventati a somiglianza delle cose, egli comprese e fuse la _________________________________________________________________ (12)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.II,cap.X, intr.pg.14; pg..35 ; op.cit (I3)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.II,Del divino poema di Dante pg.27; op.cit 13
lingua comunemente intesa ed usata in iscritto per tutta l'Italia, cioè il volgare, con vocaboli e locuzioni dei lombardi, dei romagnoli, dei toscani, il cui dialetto fece prevalere: per questo il Boccaccio disse che Dante aveva scritto in idioma o idiotismo fiorentino, benché, secondo il Castelvetro, egli avesse mescolato tutti gli idiomi. Ma differisce il pubblico di Omero da quello di Dante, poiché questi si rivolge ai dotti e non al volgo, mentre Omero si rivolse proprio al popolo, benché, dice il Gravina, egli parlasse anche ai saggi. Ne consegue che Dante, simile ad Omero per la vivezza della rappresentazione, si distingue da lui per lo stile contorto acuto e penetrante, laddove Omero spazia e ondeggia, per farsi comprendere da tutti i greci, tra i quali i plebei che contavano quanto la classe degli ottimati, con uguale prestigio . Dante, invece, parla ai dotti intenzionalmente, intendendo fare una poesia di scuola più che di teatro. Mediante questo mezzo espressivo egli parla agli uomini responsabili del suo tempo come Omero, presago della rovina della Grecia per la discordia del popolo e per lo stragrande numero dei capi, delineò alla nazione sopra larghissima tela "la ragione tanto del pericolo, qual era la discordia, quanto della salute, qual era l'unione di tutta la Grecia insieme" (14). Così Dante, conscio della ragione politica che travagliava l'Italia, intese con l'orditura della Divina commedia insegnare ai guelfi e all'Italia che era una vana speranza la libertà delle varie città, senza la guida ed il prestigio di un capo. Con questo non si intende dire da parte del Gravina che Dante abbia scritto la sua opera solo per intenti politici, poiché il sentimento morale e religioso che spira nell'opera basterebbe da solo ad indicarne il pregio. Prima che Dante fosse difeso da Gozzi ed esaltato dal Monti, è da ammirare il Gravina per la schietta rivalutazione che egli ha fatto del poema di Dante e il suo giudizio sull'opera è destinato a rimanere come monumento immortale di critica nuova. GRAVINA E VICO Proprio a proposito del Gravina, il Croce in un opuscolo intitolato "Di alcuni giudizi sul Gravina considerato come estetico" scriveva che il merito del Gravina consiste non tanto nella sua opera, quanto nel programma, in ciò che riconobbe che bisognasse fare e non in ciò che fece. Il Gravina, sempre a giudizio del Croce, volle rivendicare la libertà in poesia, riducendo le regole della poetica in un'idea eterna di natura; trovare il fondamento e i principi di pura e semplice ragione dai quali dedurre le regole della poesia antica, moderna e di tutte le nazioni. Tra i meriti che il Croce attribuisce al Gravina è quello di aver intuito il carattere e l'importanza della fantasia nella creazione poetica, ma a lui rimprovera il fatto di non aver analizzato particolarmente quest'elemento per riconoscerne il carattere autonomo. Passando, poi, al confronto tra il Gravina e il Vico, il filosofo di Pescasseroli non ha esitazione ad esprimere la sua predilezione per il Vico, che egli esalta come lo scopritore della scienza estetica, e contrappone alle vecchie idee del Gravina, come quelle della poesia figliuola e rampolla della scienza. In realtà, il Vico nella "Scienza Nuova" afferma l'autonomia dell'atto poetico dalla riflessione, cioè dalla regione o dell'intelletto. Esso non contiene verità intellettuali rivestite o camuffate da immagini giacché è un modo primitivo e autonomo di intendere la verità: la poesia esprime la natura del primitivo mondo umano ed è creazione sublime di immagini corpulente, non come quella divina di cose reali. Con ciò il Vico ha riconosciuto il carattere alogico e intuitivo dell'arte che prescinde da qualsiasi significazione concettuale ed è espressione spontanea e acritica. ______________________________________________________ (I4)G.V.GRAVINA.Della ragion poetica,I.I,cap.XVI, intr.pg.14; op.cit 14
Sembra, pertanto, comprensibile il giudizio dato dal Croce sul Gravina e la sua avversione a considerare il Gravina precursore del Vico: egli, infatti, ha visto nel Vico il suo maestro, potremmo dire, e l'antecedente più diretto che potesse suffragare la sua concezione dell'arte come aurora dello spirito o, meglio, dell'intuizione lirica e della pura alogicità. In effetti, il Vico e il Croce procedono sullo stesso binario, con la differenza che il primo ha fatto dell'arte un momento inferiore, anche se autonomo, alla sfera dell'intelletto, questi, invece, ha inteso lo svolgersi dell'attività spirituale con un'eterna poesia. Non stupisce, dunque, il Croce se non condivide un accostamento tra il Vico e il Gravina, che, come appunto egli scrive, "precursore sarà stato in quanto il Vico, riprendendo le stesse questioni, le risolve in modo perfettamente opposte" (15). Ma, intanto, il Croce dovette avere tra le mani un'opera di Bruno Barillari,”Gianvincenzo Gravina come precursore del Vico", in cui l'autore, oltre a porre il confronto sul piano filosofico e, più strettamente, giuridico, si sofferma a discorrere dei motivi poetici comuni ai due critici. In particolare il Barillari fa rilevare l'ingiusto rimprovero che si muove al Gravina, accusandolo di intellettualismo e quasi tacciandolo di avere screditato la fantasia, mentre ne era stato l'esaltatore. A convalidare, anzi, la grande importanza che il Gravina dà alla fantasia, egli cita la correzione che quegli apportò alla convenzionalità dei generi fissi, dottrina superiore al secolo e presupposto dell'opera "Della ragion poetica". Se, poi, il Vico ha inteso il valore e l'importanza dell'intuizione nella creazione poetica, non significa che il Gravina non abbia compreso l'autonomia della fantasia o che non abbia portato alcuna idea nuova che potesse illuminare i posteri. Anzi, un altro critico, lo Stefanini, anticipando il Barillari nel tempo, avvertiva che alcune riflessioni della "Scienza Nuova" sono ripetute o sembrano copiate letteralmente dall'opera del Gravina. Per esempio, è comune al Gravina il concetto vichiano che la fantasia dà corpo allo spirito e si adopera per indurre gli uomini del volgo ad operare secondo il vero. Un'altra prova di tale conformità, sempre secondo lo Stefanini, sono i tanti tipi didascalici, rimproverati al Gravina, laddove il Vico dice che compito della poesia è quello di trarre favole sublimi, confacenti all'intendimento popolaresco, per conseguire il fine di insegnare al volgo ad agire virtuosamente. Il Toffanin, che del Gravina pose in bella luce agli atteggiamenti letterari compenetrati con l'ultima battaglia per il nostro primato letterario del mondo, volle, invece, esaltare il Gravina in nome del valore storico, più che scientifico che le sue dottrine rappresentano. In definitiva i giudizi intorno all'estetica del Gravina subiscono le varie disavventure del pensiero, riflettendo le tendenze che si succedono nella direzione culturale dei tempi. Ma il tentato ripudio dell'estetica del Gravina non ha giovato ad altro che a farci scorgere in lui il rinnovatore dell'umanesimo tradizionale, al contatto della nascente estetica della fantasia e del gusto, che egli tradusse nel libro "Della ragione poetica ", miracolo critico per il tempo in cui fu scritto. Se il Gravina, pertanto, merita di essere rivalutato in relazione alla storia dell'estetica, è necessario liberarlo dalla critica del Croce e del De Sanctis, dal peso morto dei preconcetti interessati: primo tra essi, la preoccupazione di attribuire ad altro autore che non sia il Vico il merito della scoperta della scienza estetica. Ma, quando il critico si libera dalle precostituite suggestioni dell'esclusivismo dottrinario, si rende disponibile a riconoscere con perfetta serenità di giudizio che il Gravina, prima del Vico, poneva in evidenza nell'opera "Della ragion poetica" l'involucro immaginoso ed ornamentale di cui bisogna che si rivesta il vero, per acquistare sembianza d'arte e di bellezza. Già col Gravina la fantasia assurge al suo alto valore, liberandosi dalle strettoie dei generi fissi della ragione, dagli adombramenti e dalle contaminazioni dei sensi. La distinzione tra l'estetica del Gravina e quella del Vico, pur rinvenendosi nel Gravina tutti i termini della concezione vichiana, consiste nel fatto che dal Gravina è considerata opera intenzionale d'arte o artificio quel rivestimento dei concetti che per Vico sarà, invece, spontaneo atto della fantasia, ignara ancora di ogni riflessione concettuale. ___________________________________________________________________ 15 B.CROCE, Di alcuni giudizi sul Gravina considerato come estetico, Firenze 1901 15
Non è dissimile da quello del Vico il concetto graviniano che il conoscere si traduce nelle due forme, delle immagini e dei concetti, per cui, da una parte c'è l'uomo del volgo, scarso di intelletto ma ricco di fantasia, dall'altra c'è il filosofo, uomo colto, più robusto di intelletto e di fantasia. Se l'uomo del volgo è tutto mente nel suo primo grado o mente bambina, il filosofo è la mente pervenuta a compiutezza razionale o mente adulta. Le menti volgari, che sono avvolte tra le caligini della fantasia, per loro stessa natura non comprendono gli eccitamenti del vero e delle cognizioni universali. Per il Vico, però, la poesia è proprio espressione di questo stadio della mente umana, mentre per il Gravina essa è mediatrice del pensiero, contenendo in forma fantastica preconcetti, che altrimenti, rimarrebbero localizzati alle menti elevate e mai giungerebbero al volgo, destinato ad una fatale ignoranza. Il poeta, a giudizio del Gravina è anche filosofo, pure se il suo linguaggio, il suo modo di esprimersi è diverso da quello filosofico, con l'arricchimento di una fantasia che colora i suoi pensieri e i suoi sentimenti, offrendoli in immagine corpulenza e simile al vero. Il poeta è un saggio, a giudizio del Gravina, ed esempio di tale identificazione è l'esaltazione che egli fa di Omero e di Dante, in cui si traduce tutta la sapienza riposta della loro epoca. Per il Vico, invece, il poeta è una specie di profeta, che invece di affidarsi ad elementi precisi, segue il suo estro, fatto di intuizioni e divinazioni, svincolato da ogni remora sensistica o razionale: è la barbarie che torna ad ogni piè sospinto nei secoli. Sempre per il Vico, Omero è l'espressione anonima e collettiva del popolo greco, quando gli uomini erano poeti per la robustezza della loro fantasia ed esprimevano nei miti e nei racconti favolosi le verità che erano incapaci di chiarire con la riflessione filosofica. Se il Vico, quindi, traduce un carattere proclive a conferire fantastico e grandioso rilievo al mondo delle idee, concepito da una mente fervida di intuizioni e divinazioni più che di assestamenti compresi nella sistematicità dei fatti, nel Gravina, invece, si afferma una natura positiva esente da slanci lirici, misuratamente disposta ad oggettivare col metodo severo il nesso di dottrine pienamente identificate e precisate, produzione entusiastica di un intelletto che costruisce con stringatezza logica quello che elabora convalidandolo mediante prove e deduzioni razionalmente poste ad elevate attività di principi assoluti. CONCLUSIONE La critica si è sbizzarrita nella valutazione dell’ opera del Gravina e, se il coro degli elogiatori sovrasta quello dei suoi detrattori, non pochi sono gli spunti polemici offerti ai critici per accendere una discussione in sede estetica, a volte pacata, molto spessa infervorata dalla fede nelle proprie posizioni, al punto da minacciare una frattura e, quindi, una crisi nello sviluppo dell'idea dell'arte. Il Foscolo proclamò l'opera "Della ragion poetica" la più bella arte poetica che abbia il mondo, mentre il Winkelmann, prima del Foscolo, diceva di preferire l'opera del Gravina a tutti gli altri trattati di estetica. L'opera "Della ragion poetica", in due libri con dedica a Madama Colbert, nel 1754 venne tradotta in francese dal Ragnièr, mentre in Spagna il Luzàn sentiva il bisogno di combatterne qualche idea fondamentale. Di recente il nome del Gravina è stato ravvivato in Germania nel libro del Von Stein e nella speciale dissertazione del Reich. Al coro dei suoi elogiatori, però, non mancano le voci dei suoi detrattori, a cominciare dal Sulzer nel secolo passato. Il De Sanctis racconta la poco lieta accoglienza che egli stesso fece, da giovane, all'opera del Gravina, che il marchese Puoti gli aveva consigliato: il Gravina gli riuscì antipatico, giudicandolo pesante e pedante,anche se spesso più acuto e vero. Ma, forse, non è inesatto affermare che, se ha suscitato tanti giudizi e tanto interesse a quasi tre generazioni di critici, l'opera del Gravina ha una sua intima validità e verità e che è destinata ad essere posta nel suo giusto rilievo nel futuro. 16
Bisogna rilevare, infatti, che oggi è ancora accreditata la tesi che "scopritore" della scienza estetica è il Vico; opinione che risulta eccessiva, se si considera che, a maggior ragione, potrebbe essere considerato proprio il Gravina, che al Vico offrì diversi spunti, colui che intuì per la prima volta il carattere della poesia e ne difese la validità in sede filosofica. L'atteggiamento del Gravina rispetto alla vecchia poetica è rivoluzionario e non come afferma il Croce di tacita acquiescenza. Lo svincolo netto dell'espressione poetica dalle regole fisse è un'innovazione che non è certamente ossequio alla vecchia precettistica. Al Gravina si rimprovera di aver fatto dell'intellettualismo in arte, ma , intanto, potremmo riversare la polemica anche sul Vico e sostenere l'eccessivo infantilismo dell'intuizione prelogica o, come dice il Croce che sembra aver accolto tutto il retaggio dei detrattori del Gravina, della intuizione lirica. Potremmo affermare, a tal proposito, che una simile interpretazione, anche se chiarisce il tenore del fatto poetico, non riesce a giustificare e ad identificare la natura dell'arte e anche questa tesi rivelerebbe lo spirito di parte e non della verità, per non riconoscere che, nonostante le necessarie riserve, al Vico fa capo gran parte dell'estetica moderna e, se non tutto, un fondo di verità c'è nella sua concezione estetica. È inesatto, però, farne lo scopritore assoluto della scienza estetica e disconoscere al Gravina la genialità della sua intuizione e il contributo che egli ha apportato alla ricerca di una scienza, ai suoi tempi non ancora intensa o costituita. Storicamente, infatti, a nostro modo di intendere, ci sembra di intravedere un filo invisibile che segna la continuità dal Gravina al Vico, al Baumgarten, fino agli studiosi dei giorni nostri, nella storia dell'estetica alla ricerca di una definizione precisa del fatto poetico. Bisogna riconoscere che Il Vico scoprì qualcosa di essenzialmente intrinseco alla forma poetica, qualcosa che entra per la prima volta in una definizione estetica e a cui dovrà essere dato il riconoscimento della posterità: in realtà l'importanza dell'intuizione, come elemento essenziale in poesia, è notevole ai fini di una comprensione generale dell'arte. Ma non bisogna esagerare facendo nascere e perire l'estetica solo nel Vico, il quale dietro di sé, nel tempo, ha il Gravina e davanti il Baumgarten, prime pietre miliari insieme di una ricerca che non può estinguersi in essi e destinata ad alimentare la critica dei moderni. Se è vero, infatti, che il Vico scopre in poesia il valore dell’ intuizione , il Gravina ci chiarisce che quella stessa intuizione non può corrispondere all'aurora dello spirito, come dovette intenderla il Vico e come l'ha interpretata il Croce. È merito del Gravina aver compreso che l'opera d'arte non nasce in una fase prelogica della mente, bensì essa raccoglie in una mirabile sintesi, che non è ancora l'intuizione sopra discorsiva dell'idealismo critico, tutti gli sparsi motivi della mente. Il genio di Dante sta proprio in quel mirabile artificio, come il Gravina intende il fatto poetico, mediante il quale i poeti comunicano col volgo, che altrimenti sarebbe inesorabilmente condannato a rimanere tra le caligini dei sensi e di una fantasia e a rincorrere vuote chimere. Se è vero, infatti, come dice il Vico, che il linguaggio dei poeti è diverso da quello dei filosofi e che quelli intuiscono ciò che questi apprendono in forma discorsiva e logica, bisogna riconoscere che tale intuizione non può verificarsi se non dopo la proiezione del pensiero in una fase discorsiva, momento in cui il poeta è uomo tra uomini, intuizione che raccoglie tutto il passato calandolo in una forma assolutamente originale e spontanea che sublima la stessa esperienza umana. In tal senso l'arte non è il balbettio dell'infante o la turgida manifestazione fantastica dell'adolescente bensì la compiutezza di una mente matura, che fonde in poetica intuizione tutto il suo passato. La comunanza di idee e l'affinità, al di fuori di un sistema filosofico, tra il Gravina e l'idealismo critico, che oggi ha in Cleto Carbonara il suo massimo esponente, è proprio sintetizzata nel concetto di una pregnanza contenutistica e una maturità del fatto poetico che include in sé la logicità sublimandola in una forma irriconoscibile a se stessa e assolutamente originale. Ma troppo lontano nei secoli è il genio del Gravina per poter identificare la sua concezione estetica con quella dell'idealismo critico che ha dietro di sé il retaggio di due generazioni di ricerca. In questo lasso di tempo la storia dell'estetica ha conosciuto l'altro genio, quello del Vico, che ha scoperto il valore dell'intuizione, poi il Baumgarten che ha definito più esattamente le scoperte dei suoi predecessori, infine tutto il movimento romantico con cui l'arte ha trovato la sua definizione misurata e conclusiva. Forte delle idee già acquisite, oggi che l'estetica è in una fase di maturità, ci sembra di scorgere la nascita di una nuova critica, la quale non solo mira a dissolvere, o meglio, a ridimensionare la concezione crociana 17
riecheggiante in alcuni tratti i punti negativi del Vico, ma che si propone anche di impostare il valore dell'arte su criteri contenutistici appellandosi all'esperienza degli insigni predecessori, più volte citati e posti accanto al nome del Gravina. 18
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