1. PRIMA UNITÀ NEL LABIRINTO DEFINIZIONI E CLASSIFICAZIONI, APPROCCI METODOLOGICI Il Problema della Definizione e Classificazione HANDICAP SVANTAGGIO Verso una definizione dei concetti di: DISADATTAMENTO DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO DISTURBI DI APPRENDIMENTO PREMESSA Il ragazzo «con problemi» Handicap, disabilità, disturbi dell’apprendimento, svantaggio socio-culturale, disadattamento, non sono problemi nuovi, ma suscitano un interesse ed una attenzione particolari proprio oggi, molto più che un tempo, non solo perché compito istituzionale della scuola, e delle altre agenzie educative e riabilitative, è quello di affrontarli con procedimenti e metodologie pedagogicamente, psicologicamente, scientificamente corrette, ma anche perché i fenomeni sembrano in via di diffusione. Il “portfolio” del ragazzo «con problemi» si apre con due questioni di fondo. La prima è costituita dal rapporto tra condizioni di normalità e condizioni di anormalità, comunque essa venga a presentarsi, sia dal punto di vista intellettivo, sia dal punto di vista sociale o affettivo. È sempre difficile stabilire la soglia tra l'una o l'altra manifestazione, ma è necessario farlo per poter prevedere gli adattamenti operativi più opportuni, per una personalizzazione degli apprendimenti contestualizzata alla realtà di ogni singolo caso, e la predisposizione degli interventi riabilitativi e rieducativi più adeguati. La seconda si riferisce ai criteri sui quali la diagnosi di “anormalità” viene condotta. Alcune scuole di pensiero, sostengono che il soggetto «diverso» è tale perché viene giudicato facendo ricorso a criteri di efficientismo sociale e produttivo, originati da quella ideologia tecnologica, progressista e consumista che oggi condiziona pesantemente la vita di tutti, inquinando gli stessi rapporti interpersonali e privati. Chiunque però abbia una pur minima esperienza di insegnamento sa che, accanto a ragazzi attenti, motivati, capaci di impegno continuato, collaborativi sono presenti ragazzi disattenti, che si distraggono con facilità, che si impegnano pochissimo, che manifestano comportamenti imprevisti, talvolta molto aggressivi (fenomeno in crescita in tutti gli ordini di scuola), che incontrano difficoltà accentuate di apprendimento, di linguaggio, di ragionamento, di numerazione, o che, addirittura, rifiutano le regole di vita civile e di rispetto reciproco e tutto questo difficilmente può venir attribuito semplicisticamente ad un'ottica interpretativa efficientistica della società. Un altro grosso problema, da non sottovalutare, è che non sempre il bambino o ragazzo “con problemi” viene tempestivamente individuato e certificato secondo chiari parametri di disabilità e handicap che permetterebbero un intervento mirato, tanto più valido quanto più precoce. Di fronte al ragazzo «con problemi» l'atteggiamento serio non può riferirsi semplicemente ad una diagnostica generale o a generalizzazioni aprioristiche di alcune difficoltà, ma deve invece accertare le situazioni caso per caso, evitando formulari interpretativi rigidi, o ricette metodologico-didattiche miracolistiche. L'impegno osservativo e di analisi iniziale delle manifestazioni complessive del soggetto, in ogni situazione di vita, non solo quella scolastica, sarà seguito da interventi a breve e a lungo termine, utilizzando nel miglior modo possibile le conoscenze psico-pedagogiche e riabilitative che oggi abbiamo a disposizione, per rilevare l'insieme dei problemi che il soggetto pone, definirli nella loro natura, individuarne, per quanto è possibile, le cause, e poi procedere verso una attività programmatoria che prenda in esame tutti gli aspetti della personalità e del comportamento del soggetto in osservazione. Le diversità Premesso che, la filosofia di fondo su cui si impernia questo lavoro, è che la “diversità” è una risorsa e che una scuola senza allievi diversi non è una scuola “normale”, si assume anche il principio secondo cui se un ragazzo “diverso”, ammesso ad una scuola, non produce alcun cambiamento nel contesto generale (organizzazione, programmazione, clima, relazioni, tempi, spazi….) ed individuale (atteggiamenti, comportamenti, modi di pensare ed agire…), si potrà parlare solo di assimilazione. Si potrà parlare di integrazione nel momento in cui si avranno cambiamenti oggettivi da entrambe le parti (handicappato/ svantaggiato e scuola) con conseguenti adattamenti reciproci. Occorre ricordare, poiché su questo si gioca la professionalità del docente di sostegno, che condizioni di handicap e svantaggio socio-culturale non sono la stessa cosa. Mentre l'handicap è da considerare una disabilità di natura fisica o psichica o intellettiva, clinicamente accertabile, lo svantaggio è da considerare una condizione più propriamente legata a carenze familiari ed affettive, a situazioni di disagio economico e sociale, a deficienze culturali e linguistiche dovute a scarsità di stimolazioni intellettuali in situazioni deprivate. Come vedremo in dettaglio più avanti, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) riferisce l'handicap a cause organiche, fisiologiche o neurologiche e, da questo punto di vista, l'handicappato è anche uno svantaggiato, mentre lo «svantaggiato» non è di per sé un handicappato. È utile però distinguere anche tra svantaggio socio-culturale e disadattamento, tenendo conto che per disadattamento si intende comunemente l'incapacità di un determinato soggetto di far proprie le norme di un gruppo sociale, quale esso sia: gruppo-classe, gruppo giovanile o gruppo familiare. In altre parole lo svantaggiato socio-culturale può essere un adattato nel gruppo coetaneo e un disadattato in classe. D’altra parte, se è di aiuto precisare distinzioni e differenze tra questi tre aspetti della «diversità», bisogna anche ricordare che spesso la fenomenologia di ognuno di essi si intreccia, dando origine, in tal modo, a quadri molto complessi. Le condizioni di handicap, ad esempio, sono spesso aggravate da situazioni ambientali e familiari di emarginazione o di vero e proprio abbandono. Esiste un’ampia letteratura su casi di deprivati affettivi che si comportano come soggetti affetti da handicap organici; così come bambini gravemente carenti sul piano affettivo possono presentare gli stessi comportamenti anomali di soggetti cerebrolesi. Questi soggetti però, sottoposti ad esame elettroencefalografico, non hanno rivelato lesioni di sorta. Sono, in verità, casi particolari, che tuttavia sono illuminanti per la nostra tematica. Accade inoltre, talvolta, che condizioni di handicap motorio, percettivo o sensoriale affrontate in modo inadeguato, in classe, portino a forme più o meno “importanti” di disadattamento scolastico; analogamente, che forme di disadattamento familiare influiscano sul profitto scolastico del soggetto, anche se egli proviene da una famiglia socialmente elevata. A questo proposito è utile riportare, in modo assai conciso e schematico, un primo tentativo di fare chiarezza sul problema della terminologia adeguata e condivisa, offerto da R.Vianello (1999), che suggerisce di distinguere le diversità in quattro grandi categorie: 1. DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO Terminologia usata prevalentemente in ambito scolastico per riferirsi a carenze nell'apprendimento della lettura e/o della scrittura, della matematica e/o nell'acquisizione di nozioni logiche, scientifiche, storiche e geografiche. Ci sono alcune caratteristiche frequentemente associate a queste difficoltà Interazione sociale Incapacità di stare insieme ad altri, di inviare e ricevere messaggi Percezione sociale Incapacità di capire ciò che gli altri pensano o desiderano, di comprendere messaggi anche non verbali Autoregolazione Incapacità di controllare il proprio comportamento tenendo conto dei segnali provenienti dall'esterno 2. DIFFICOLTÁ RELAZIONALI Terminologia usata anche in ambito non scolastico per riferirsi a difficoltà riscontrate a livello emotivo, affettivo e sociale. 3. SVANTAGGIO SOCIO - CULTURALE Terminologia riferita a possibili cause di difficoltà, mentre con il termine difficoltà relazionali ci si riferisce agli effetti. 4. SITUAZIONI DI HANDICAP Terminologia usata per riferirsi a situazioni di una certa gravità, regolarmente certificate, richiedenti particolari risorse ed investimenti (ad esempio, in ambito scolastico, essere seguiti dall'insegnante di sostegno ). Rispetto alla complessità dell’intreccio tra queste quattro categorie di soggetti, R.Vianello offre anche una casistica di possibilità con cui concretamente potremmo aver a che fare nella quotidianità del lavoro scolastico. L’allievo handicappato Alle origini, il termine handicap indicava negli ippodromi inglesi la penalizzazione che veniva data al fantino per evitare che la corsa gli fosse troppo favorevole. In senso traslato, il sostantivo ha finito con il significare un impedimento (fisico, psichico, motorio, percettivo o mentale) che causa ritardi più o meno gravi di sviluppo, oppure toglie al soggetto alcune delle sue possibilità funzionali. Ormai questo termine viene largamente usato, sia nel discorso corrente, sia in quello specialistico e legislativo, sebbene sia sempre presente il timore che questa denominazione generi nell'insegnante un atteggiamento negativo, di latente rifiuto e, nella classe, forme negative di emarginazione. Si utilizzano, comunque, come sinonimi, per allievi portatori di anomalie, carenze o ritardi di sviluppo, anche espressioni come: «soggetti in difficoltà», «diversi», «ritardati» e, di fronte ai problemi della diagnosi precoce, si parla anche di «bambini, a rischio». Questo quando si tenta di prevedere anticipatamente le difficoltà che potrebbero insorgere durante il successivo sviluppo, che sarebbe bene prevenire subito anziché attendere che esse si siano manifestate per iniziare, solo allora, un'azione di ricupero. La nuova terminologia che si è evoluta in questi anni, di pari passo con gli studi psicopedagogici e riabilitativi, comprende anche la definizione di «diversamente abili» che già comincia a comparire in alcuni documenti legislativi ufficiali. Essa è dovuta non solo ad una diversa attenzione rivolta al problema e ad una nuova sensibilità con cui esso viene affrontato, ma anche al fatto che ormai i criteri di classificazione usati nel passato sono ritenuti superati e con essi il linguaggio che tali criteri comportavano. Alle origini delle classificazioni Obsolete, e quasi completamente abbandonate, risultano le classificazioni rigide fondate sui risultati ottenuti mediante i test Q.I. (Quoziente d'intelligenza), per mezzo dei quali venivano stabilite delle graduatorie, e delle casistiche. Le forme di classificazione accettate erano diverse l'una dall'altra sia per i criteri, sia per la terminologia adottata per cui i risultati erano difficilmente comparabili. La Scala di Terman, ad esempio, indicava sette livelli di abilità: idiozia (0-25), imbecillità (25-50), debilità grave (50-60), debilità lieve (60-70), campo limite (70-80), campo di latenza (80-90), campo di normalità (90-100). Altre scale invece erano suddivise in cinque livelli e distribuivano il punteggio in maniera diversa; per esempio, l 'OMS suggeriva di utilizzare la scala Stanford-Binet, articolata su cinque livelli di insufficienza mentale con valori Q.I. da 20 a 85. Il linguaggio utilizzato in queste scale, inizialmente di natura scientifica, ha assunto col tempo una forte connotazione dispregiativa, quasi gergale (idiota, imbecille, cretino), e nasconde i problemi reali del soggetto invece di spiegarli; per non parlare di altre distinzioni, su base prognostica, che venivano fatte tra soggetti «recuperabili» e soggetti «irrecuperabili», o tra soggetti «dipendenti», «addestrabili» e «irrecuperabili», per cui venivano formulate diagnosi di irrecuperabilità che giustificavano un atteggiamento di passiva rassegnazione e di non attiva programmazione di modalità consone a stimolare adeguatamente e competentemente i soggetti “inseriti” in classe. Da più di un ventennio, l'illusione psicometrica, e cioè la speranza di valutare e schedare il bambino con problemi di sviluppo per mezzo di batterie sempre più ricche e complicate di test mentali, è aspramente criticata e giudicata negativamente. Fra i numerosi motivi di questo rifiuto si citano alcuni dei fattori che hanno determinato questa tendenza generalizzata, soprattutto da parte della scuola: ◆ il modo di intendere l'intelligenza infantile, che gli studi sempre più approfonditi, inerenti il suo sviluppo e funzionamento, hanno dimostrato essere estremamente complessi e non riducibili agli aspetti puramente quantitativi e di efficienza che erano oggetto di valutazione dei test Q.I. ◆ il collegamento tra lo sviluppo cognitivo e fattori diversi, di natura ambientale, affettiva e relazionale, per cui i problemi dello sviluppo intellettivo si intrecciano con quelli dei rapporti sociali, in particolare con le relazioni tra madre e bambino, cosa che rende ancora più debole la possibilità di valutare l'intelligenza in termini di efficienza formale. ◆il fatto che, come rileva lo psicologo Hunt, mentre un tempo l'intelligenza era ritenuta come un qualche cosa di fisso e immutabile e il suo sviluppo predeterminato, che la funzione del cervello fosse di natura statica e che l'esperienza dei primi anni di vita, in particolare quella precedente 1o sviluppo del linguaggio, non avesse importanza, oggi si pensa esattamente il contrario. Ormai, il concetto di intelligenza risulta radicalmente modificato in senso più ampio, più pragmatico, maggiormente rapportato all'apprendimento ed al comportamento umano e viene meglio definito in termini di rendimento, di adattamento ai modelli culturali, di capacità ideativa e di soluzione di problemi. Con Gardner si parla di più intelligenze, con caratteristiche distintive, e si apre la strada alla definizione degli stili cognitivi e degli stili attributivi. Oltre che sul piano dei principi, i risultati dei test Q.I. sono stati contestati anche sul piano pratico, in quanto è stato osservato che il punteggio ottenuto dai singoli soggetti non era legato al loro presumibile grado intellettuale, ma alle conoscenze che essi avevano acquisito dal loro ambiente, e per mezzo delle quali erano riusciti a dare un numero maggiore di risposte esatte. Vennero creati allora dei test di nuova impostazione, i cosiddetti test cultur free, vale a dire test liberati da fattori culturali, dalle conoscenze e dalla preparazione del soggetto, che potessero cogliere 1'intelligenza come forma pura, senza cioè le influenze ambientali. Questo tentativo dimostrò come nessun test possa essere impostato senza fare ricorso ad elementi culturali poiché le prove risentono sempre, in qualche misura, dell'ambiente culturale in cui vive il soggetto. Anche classificazioni di origine neuropsichiatrica sono state abbandonate, come quella avanzata da H. Zulliger, il quale classificava i «ragazzi che non si lasciano influenzare da alcun metodo», nel seguente modo: - oligofrenici (deboli di mente): mongoloidi, cretini, idioti, imbecilli, deboli; - anormali psichici: psicopatici, psicotici, deboli morali, epilettici, neurotici; - esseri antisociali: criminali, traviati, asociali, dissociali; - ragazzi «difficili». Questo tipo di classificazione risulta essere addirittura un ostacolo alla conoscenza del soggetto in difficoltà poiché un debole mentale potrebbe essere contemporaneamente un «debole morale» e un «dissociale», inoltre, il criterio di distinzione risulta essere artificialmente costruito. Definizioni e classificazioni oggi Spesso, il problema della corretta definizione, e successiva classificazione, di concetti quali: handicap, disabilità, menomazione, se non adeguatamente affrontato crea confusione e difficoltà di comunicazione tra le varie parti (docenti, operatori socio-sanitari, legislatori…). Occorre tener presente che queste definizioni, naturalmente, sono frutto ed espressione della ricerca e della cultura di un determinato contesto storico ed ambientale, per cui sono soggette a variazioni e cambiamenti che via via meglio rispecchiano il dibattito socio-culturale del momento. Si sceglie, con questo lavoro, di proporre la classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap, poiché rappresenta il sistema di riferimento più frequentemente utilizzato in numerosi paesi europei e nordamericani. A questo proposito varie nazioni europee, compresa l’Italia, investite della necessità di omologare i vari linguaggi, hanno sottoscritto un accordo volto a promuovere iniziative «tendenti a diffondere l'uso della classificazione [...] sia ai fini della valutazione e del controllo dei trattamenti di riabilitazione, sia in vista di una più approfondita conoscenza del fenomeno sotto il profilo statistico» (Foschi e Serio 1990,3)” Si cercherà inoltre di estrapolare, dai diversi documenti legislativi rivolti al sistema educativo nazionale italiano, secondo un’analisi diacronica e sincronica del fenomeno, quanto di queste espressioni siano entrate a far parte del linguaggio corrente degli addetti ai lavori, e come ciò abbia prodotto un cambiamento di mentalità, più generalizzato, nell’ambito sociale allargato dei “non addetti ai lavori” (famiglie, territorio…), Nei documenti ufficiali dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le espressioni quali: menomazione, disabilità ed handicap hanno significati ben precisi, poiché ogni definizione ha una “funzione di segnale esplicito e non eludibile” (Giobbi 1980,7) che deve emergere ogni volta che viene adoperata. L’attenzione dunque dei docenti, soprattutto se specializzati, e degli operatori sociosanitari, dovrà fare riferimento a tali definizioni e classificazioni, senza utilizzarle in modo inappropriato e confuso, nella pianificazione della riabilitazione e dell'attività programmatoria per l’integrazione. L’OMS, in una assemblea tenutasi nel 1975, decise che era necessario definire, oltre che le classificazioni delle malattie (Intemational Classification of Diseases [ICD] ), anche le «conseguenze» delle stesse (International Classification of Impairement, Disabilities and Handicaps [ICIDHI]), poiché si era preso coscienza dei seguenti fattori: - le persone si rivolgono ai servizi sociosanitari non tanto dopo la formulazione della diagnosi, ma solo quando le conseguenze delle malattie diventano un problema per svolgere le normali attività inerenti i loro ruoli sociali; - la consueta classificazione delle malattie non era sufficiente a codificare adeguatamente le diverse forme morbose; - era necessario migliorare la qualitià dei servizi descrivendo anche le interrelazioni esistenti tra i diversi possibili eventi diagnosticati da un punto di vista medico e quelli definibili in termini di «conseguenze delle malattie». Una sequenza di fenomeni connessi alla malattia, più estesa di quella contenuta nell'ICD, avrebbe dovuto essere la seguente: Malattia Infortunio Malformazione Menomazioni (Impairment) Disabilità (Disability) Svantaggi (Handicaps) Considerare anche le menomazioni (Impairment)1, le disabilità e gli svantaggi, sia nella fase della diagnosi, sia in quella della riabilitazione e dell’insegnamento, costituisce un momento rilevante per migliorare le condizioni di vita delle persone colpite da particolari malattie. Tali classificazioni furono successivamente (1980) diffuse tra i professionisti dell'assistenza e della riabilitazione e divennero di patrimonio comune anche nell’insegnamento. Definizione e classificazione delle menomazioni Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, “una menomazione si riferisce a perdite o anormalità che possono essere transitorie o permanenti e comprendere l'esistenza o l'evenienza di anomalie, difetti o perdite a carico di arti, organi, tessuti o altre strutture del corpo, incluso il sistema delle funzioni mentali. La menomazione rappresenta l'esteriorizzazione di uno stato patologico, e in linea di principio riflette i disturbi a livello d'organo.” Le classificazioni internazionali delle menomazioni 2 includono: 1. Menomazioni delle capacità intellettive (intelligenza, memoria, pensiero, altre intellettive, 2. Altre menomazioni psicologiche (coscienza e vigilanza, percezione, attenzione, funzioni emotive e volitive, comportamentali) 3. Menomazioni del linguaggio (funzioni del linguaggio, voce) 4. Menomazioni dell’udito (sensibilità uditiva, altre) 5. Menomazioni visive (acutezza visiva, altre) 6. Menomazioni viscerali (organi interni, altre funzioni particolari) 7. Menomazioni scheletriche (capo, tronco, arti-meccaniche e motorie, malformazioni) 8. Menomazioni deturpanti (capo, tronco, corpo, arti, altre 9. Menomazioni generalizzate, sensoriali e di altro tipo Definizione e classificazione delle disabilità 1 In termine inglese «impairment» è stato sempre tradotto con il corrispondente italiano di «menomazione» anche quando la terminologia corrente ricorre ad altre espressioni di uso più frequente come disturbo, deficit, insufficienza, ecc. Il termine menomazione viene generalmente considerato più comprensivo di disturbo, poiché riguarda anche le perdite, come ad esempio quella di una gamba, che rappresenta una menomazione, ma non certamente un disturbo o un deficit.(Nota Soresi,1998) 2 Vedi, per approfondimenti, SORESI S., Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Il Mulino, Bologna, 1998, Quadro 1.1 pagg.20-24 L’OMS definisce le disabilità nell’ambito delle conoscenze e delle esperienze sanitarie, come: “qualsiasi restrizione o carenza (conseguente a una menomazione) della capacità di svolgere un'attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un essere umano.” e, più precisamente (ICIDH) si tratterebbe di: “scostamenti, per eccesso o per difetto, nella realizzazione dei compiti e nella espressione dei comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso [...1, possono avere carattere transitorio o permanente ed essere reversibili o irreversibili, progressive o regressive [...], possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o come reazione di un soggetto, specialmente da un punto di vista psicologico, ad una menomazione fisica, sensoriale o di altra natura. La disabilità si riferisce a capacità funzionali estrinsecate attraverso atti e comportamenti che per generale consenso costituiscono aspetti essenziali della vita di ogni giorno. Ne costituiscono esempio i disturbi nella adozione di comportamenti appropriati; nella cura della propria persona (come il controllo della funzione escretoria e la capacità di lavarsi e alimentarsi); nell'esecuzione delle altre attività quotidiane e nella funzione locomotoria (come la capacità di camminare)” Questa definizione di disabilità aiuta, in sede di diagnosi, «cosa privilegiare» per una rilevazione corretta da un punto di vista metodologico e «come» procedere per l'attivazione di programmi di riabilitazione. Per quanto riguarda il «cosa rilevare», andrebbe innanzi tutto posta particolare attenzione sull'analisi dei comportamenti che le persone manifestano mentre si trovano impegnate a svolgere attività di tipo «quotidiano», privilegiando «il dire e il fare» delle persone in contesti di vita reale e non «artificiali»; perciò la modalità corretta, in fase di diagnosi e valutazione, dovrebbe essere quella di un osservatore in possesso di un «atteggiamento situazionistico»3 che metta in atto procedure di osservazione diretta volte a precisare abilità contestuali all'ambiente di vita della persona, e non a particolari e artificiali ambiente appositamente strutturato e predisposto dagli «specialisti» della riabilitazione. Per quanto concerne il «come procedere», nelle operazioni di diagnosi e di valutazione, si ricorrerà, vista la definizione, a operazioni diagnostiche di tipo normativo (con riferimento a valori normativi e a stime attendibili della presenza di queste abilità nella popolazione di riferimento dei soggetti analizzati), che rilevino «scostamenti, per eccesso o per difetto» in modo da misurare la quantità di scostamento considerata necessaria affinchè si possa parlare di disabilità (tendenza centrale, da un lato - moda, media, mediana- e di variabilità -varianza). Purtroppo, a livello nazionale, esistono poche scale di valutazione delle disabilità tarate sulla popolazione italiana e mancano i parametri di riferimento relativi a repertori di abilità dei «non disabili» Le classificazioni internazionali delle disabilità4 includono: • 3 4 Disabilità nel comportamento (consapevolezza, relazioni) (Soresi 1995), Op.citata Soresi, 1998, pagg.28-31 • Disabilità nella comunicazione (parlare, ascoltare, vedere, altre) • Disabilità nella cura della propria persona (escretorie, igiene personale, vestirsi, alimentarsi e altre) • Disabilità motorie (deambulazione, “da costrizionzione” per menomazioni, altre) • Disabilità inerenti la propria sussistenza (domestiche, nei movimenti, altre) • Disabilità nella destrezza (attività quotidiane, attività manuali, destrezza) • Disabilità "circostanziali" (da dipendenza e scarsa capacità di resistenza, ambientali, altre) • Disabilità in particolari capacità • Altre limitazioni all' attività Naturalmente, oltre alla rilevazione delle disabilità, è importante quantificare il livello di gravità delle stesse, e le abilità residuali possedute dalla persona per avere indicazioni indispensabili nel programmare i trattamenti riabilitativi e la sua integrazione scolastica e/o lavorativa. Occorre tener presente che non necessariamente le menomazioni comportano disabilità o inabilità, basti pensare a quanto una semplice protesi possa diminuirne le conseguenze invalidanti. Si riporta, per chiarezza, la definizione dei concetti di abilità e inabilità proposte da Fallani et al.(1992,52): “L'abilità di qualsiasi soggetto animato consiste nella capacità di realizzare un'azione, di compiere un «lavoro» nell'accezione fisica del termine, di portare a termine un programma o un progetto predeterminato. L'abilità dipende dal possesso di una o più capacità e, fatta eccezione per alcune azioni di estrema semplicità, di solito sono più funzioni integrate a determinare l'abilità complessiva o specifica individuale.” L'impossibilità o l'incapacità di attivare comportamenti in grado di consentire la realizzazione dei suddetti programmi determina invece: “L’inabilità rispetto all'azione considerata e in riferimento alle capacità ritenute normali in un campione di popolazione omogenea. L'inabilità consiste dunque nell'assoluta incapacità a svolgere un'azione, sia nel caso che questa capacità non sia stata mai posseduta che in quello, invece, in cui sia andata perduta. L'incapacità di portare a compimento l'azione, ma con risultati più o meno soddisfacenti, realizza la condizione di disabilità, riconoscibile per l'anomalia del risultato, causalmente riconducibile ad una menomazione.” (ibidem,53). La disabilità, dunque, per essere precisa e ben definita, richiede operazioni di stima che evidenzino la “quantità di discrepanza” dalla prestazione “abile”. I soggetti disabili, non sarebbero perciò inabili, ma solo meno o diversamente abili. Definizione degli handicap L'OMS propone, nella terza parte dell'ICIDH (1980), una sua definizione: “Nell'ambito delle evenienze inerenti alla salute si intende per l'handicap una condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona in relazione all'età, al sesso e ai fattori socioculturali.” e si precisa inoltre che “esso è caratterizzato dalla discrepanza tra l'efficenza o lo stato del soggetto e le aspettative di efficenza e di stato sia dello stesso soggetto che del particolare gruppo di cui egli fa parte. L'handicap rappresenta pertanto la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e come tale rif1ette le conseguenze - culturali, sociali, economiche e ambientali - che per l'individuo derivano dalla presenza della menomazione e della disabilità. Lo svantaggio proviene dalla diminuzione o dalla perdita della capacità di conformarsi alle aspettative o alle norme proprie all'universo che circonda l'individuo.” (ibidem, 1980,177). Perciò, solo in presenza di soggetti con disabilità o menomazioni si può parlare di handicap; tale svantaggio, realmente “vissuto” dalla persona, riguarda l’ambito dei ruoli e delle attività del suo contesto socioculturale e si caratterizza in termini di discrepanza tra efficienza e aspettative di efficienza. Correttamente dunque dicesi «handicappato» colui che manifesta livelli non soddisfacenti di abilità o inabilità a causa di menomazioni che gli impediscono di rispondere a specifiche aspettative di efficienza. Per questo, variando il livello di efficienza richiesto dalle prestazioni, può anche diminuire o sparire la situazione di handicap e cambiare anche notevolmente l'intensità dello svantaggio percepito e provocato. Non tutte le menomazioni provocano di fatto disabilità; queste ultime sono «attive» solamente in precisi contesti; il soggetto può manifestare abilità diverse in contesti diversi; da ciò l’importanza di ampliare le possibilità di realizzazione personale ed esplicazione delle proprie abilità residuali, in ambienti d’apprendimento e/o relazionali e di lavoro diversificati poiché così la persona può essere o non essere handicappata. Altresì non tutte le menomazioni provocano disabilità e non tutte le difficoltà che le persone possono incontrare sono determinate da menomazioni. Ci può essere handicap anche in assenza di disabilità (ad esempio in presenza di «menomazioni deturpanti», ustioni, con vissuti di svantaggio associati soprattutto al contesto interpersonale). Esso si manifesta solamente quando si attendono o pretendono livelli di prestazione standard a prescindere dalle effettive possibilità della persona in questione. Gli handicap si riferiscono, in modo specifico, a quelle che sono definite le «funzioni della sopravvivenza» Per quanto sopraddetto, occorre allora ben distinguere l’Handicap dalle: • • • • difficoltà d' apprendimento difficoltà relazionali svantaggi socio-culturali ritardi mentali a eziologia ambientale Le classificazione degli handicap, come lo stesso ICIDH precisa, non può essere considerata una tassonomia dello svantaggio, né una guida per la classificazione di persone disabili, ma unicamente una serie di “circostanze che pongono queste persone in condizione di svantaggio nei confronti dei loro simili considerati sulla base delle convenzioni sociali” (ibidem). La proposta evidenzia le dimensioni e gli ambiti in cui il soggetto portatore di menomazioni disabilitanti incontra difficoltà o ostacoli - di qualsivoglia natura - in situazioni necessarie alla sua partecipazione sociale, situazioni reali, della quotidianità. Le «funzioni della sopravvivenza» considerate sono le seguenti:5 • Handicap nell'orientamento; • Handicap nell'indipendenza fisica; • Handicap nella mobilità; • Handicap nell'occupazione; • Handicap ne1l' integrazione sociale; • Handicap nell'autosufficienza economica; • Altri handicap. Lo schema complessivo risulta essere il seguente: . Malattia Infortunio Malformazione Menomazioni (Impairment) Menomazioni delle capacità intellettive Disabilità nel comportamento Altre menomazioni psicologiche Disabilità nella comunicazione Menomazioni del linguaggio Disabilità nella cura della propria persona Menomazioni dell’udito 5 Disabilità (Disability) Disabilità motorie Menomazioni visive Disabilità inerenti la propria sussistenza Menomazioni viscerali Disabilità nella destrezza Menomazioni scheletriche Disabilità "circostanziali" Menomazioni deturpanti Disabilità in particolari capacità Menomazioni generalizzate, sensoriali e di altro tipo Altre limitazioni alla attività Op.citata Soresi, 1998, Quadro 1.3, , pagg.42-49 Svantaggi (Handicaps) Handicap nello orientamento; Handicap nell'indipendenza fisica Handicap nella mobilità Handicap nell'occupazione Handicap nella integrazione sociale Handicap nell'autosufficienza economica Altri handicap. Disturbi dell’apprendimento Fra i più dibattuti e controversi problemi che investono la scuola e tutto il settore della società ad essa collegata (famiglie, enti, ricercatori, educatori, operatori sociosanitari..), e su cui molto si è investito come settore di ricerca psicopedagogica, è quello riferentesi ai “disturbi dell’apprendimento”. In questo ambito molta è la confusione ancor oggi dilagante proprio per una mancanza di un riferimento chiaro ed univoco ad un concetto che scientificamente definisca il fenomeno. Purtroppo, anche da parte degli operatori scolatici e non, spesso corre l’abitudine a riferirsi ad un “imprecisato disturbo d’apprendimento” ogniqualvolta un ragazzo presenti una qualsiasi difficoltà a svolgere un compito secondo canoni considerati “normali”. Questo tipo di disturbi invece è stato ampiamente studiato a partire dagli anni ’60, ed ha attualmente una specificità scientificamente testata sulla quale sono stati elaborati anche modelli riabilitativi efficaci. Occorre dunque far chiarezza a livello di definizione e classificazione. La prima definizione che fa riferimento al termine learning disability viene proposta da Kirk nel 1962 e si riferisce: “a un ritardo, disordine, o ritardato sviluppo in uno o più dei processi della parola, linguaggio, lettura, scrittura, aritmetica, o altre aree scolastiche che risultano da un handicap psicologico causato da una possibile disfunzione cerebrale e/o da disturbi emotivi o comportamentali. Non è il risultato di ritardo mentale, deprivazione sensoriale o fattori culturali e di istruzione” (Hammill 1990, 75)6. Sempre in ambito nordamericano, a livello di istituzioni pubbliche, la definizione più accolta, e che ha influenzato le scelte operative dei servizi, è quella offerta dall'U.S. Office of Education (USOE) nel1977 che dice che: “il termine specific learning disability si riferisce ad un disordine in uno o più dei processi psicologici di base implicati nella comprensione o nell'uso del linguaggio, parlato o scritto, che si può manifestare in una insufficiente capacità di ascoltare, parlare, leggere, esprimersi correttamente e adeguatamente per iscritto, o fare calcoli matematici. Il termine include condizioni quali gli handicap percettivi, il danno cerebrale, la disfunzione cerebrale minima, la dislessia e l'afasia evolutiva. Il termine non include bambini che hanno learning disabilities che sono principalmente il risultato di handicap visivo, uditivo, motorio o mentale, o di disturbo emotivo, o di svantaggio ambientale, culturale o economico” (Hammill 1990,77)7 E’ da dire che, comunque, risulta molto difficile delimitare una volta per tutte gli ambiti in cui un soggetto manifesta disturbo di apprendimento, tanto più che esiste una stretta relazione fra ambiti distinti. Lo stesso Comitato Scientifico del Council for Learning Disabilities (BTCLD,1986), contro l'uso di formule di discrepanza e di procedure di identificazione e diagnosi riferite a singoli specifici ambiti di apprendimento, raccomandava di compiere «ampie valutazioni diagnostiche condotte da gruppi interdisciplinari» e relative a «tutte le aree di disturbo di apprendimento» previste dalla legislazione; 6 7 C.CORNOLDI, I disturbi dell’apprendimento, Il Mulino,Bologna,1991 Op.cit C.Cornoldi inoltre tali aree non possono essere identificate una volta per tutte e valere per diversi contesti e livelli di età. L’attenzione a determinate abilità, ritenute fondamentali in una preciso contesto socio culturale e storico (negli ultimi secoli, la nostra società ha mostrato di attribuire particolare peso all' apprendimento di lettura, scrittura e calcolo, perciò ha rivolto particolare attenzione ai casi che non riuscivano a raggiungere quegli apprendimenti), può variare nel tempo ed è strettamente legata allo progresso della ricerca scientifica e tecnologica. In base a queste considerazioni, C. Cornoldi (1991) osserva come “il termine «disturbo dell'apprendimento» sia una espressione-ombrello che raccoglie una gamma diversificata di problematiche nello sviluppo cognitivo e nell'apprendimento scolastico, non imputabili primariamente a fattori di handicap grave, e definibili in base al mancato raggiungimento di taluni criteri rilevanti di apprendimento per i quali esiste un largo consenso.”8 Cassificazione dei disturbi di apprendimento Fletcher e Morris [1986,60] osservano che «l'assunzione fondamentale di una ricerca sulla classificazione è che esistano soggetti che presentano somiglianze/differenze in una serie di attributi che identificano una tassonomia. L'obiettivo della ricerca sulla classificazione è quello di sviluppare una serie di criteri oggettivi in base ai quali i soggetti possano essere esaminati in gruppi omogenei». Come abbiamo già ribadito, l’operazione classificatoria viene incontro non solo ad esigenze della ricerca e della semplificazione delle procedure diagnostiche e prognostiche, ma anche di chiarificazione concettuale. Fletcher e Morris, propongono tre criteri per una classificazione nel campo dei disturbi dell'apprendimento basati: - sulla prestazione sull'analisi dei processi sull'esame dello sviluppo e sembrano soprattutto favorevoli a classificazioni che si fondano su una formulazione teorica chiaramente definita e sulla ricerca di validità interna (individuando precisi criteri operazionali, controllando replicabilità su altri campioni, attendibilità sullo stesso campione, capacità esplicativa) e di validità esterna. Occorre ricordare che ogni classificazione fa riferimento a precisi modelli su cui non tutti concordano, per questo motivo, tradizionalmente, si è dato maggior peso alle classificazioni rivolte all’identificazione delle prestazioni deficitarie. Si presentano qui di seguito alcune tipologie classiche di classificazioni, riferite alla prestazione, distinte in base: g al riferimento agli apprendimenti scolastici in senso stretto g allo sviluppo neuropsicologico Classificazioni classiche di ispirazione psichiatrica9 TAB. 1.3. Tipi classici di psicopatologia del bambino descritti dalla neuropsichiatria infantile italiana aventi implicazione per i disturbi dell' apprendimento Instabilità psicomotoria o sindrome ipercinetica Disordini del linguaggio e della parola Ritardo semplice del linguaggio Afasia congenita o disfasia di sviluppo 1. Afasia da deficit prassici 2. Afasia da deficit gnosici Altri disordini specifici dell' apprendimento Dislessia e disgrafia Discalculia e acalculia Impaccio motorio e dlsprassia dello sviluppo Impaccio motorio Paratonia Sincinesie Disprassia dello sviluppo Disprassia motoria o aprassia afferente o cinestesica Disprassia apratto-somatognosica - Aprassia obiettiva - Aprassia posturale • Aprassia costruttiva Balbuzie 1. Tonica 2. Clonica 3. Palilalica 4. Paralitica 5. (Fonte:Guareschi Cazzullo,1972J). TAB. 1.4. Tipi fondamentali di psicopatologie del bambino secondo la classificazione esposta da Ajuriaguerra e Marcelli (1989) aventi implicazioni per i disturbi dell'apprendimento Tipi fondamentali di psicopatologia del bambino Psicopatologia delle condotte motorie Alterazioni della lateralizzazione Disgrafia Impaccio motorio Disprassie 8 9 Op.Citata, pag25 Op.Cit.,pagg.31,32 Instabilità psicomotoria Psicopatologia del linguaggio Alterazioni dell'articolazione Ritardo della parola Ritardo semplice del linguaggio Audiomutismi Afasia Dislessia-disortografia Balbuzie Psicopatologia delle funzioni cognitive Insufficienza mentale profonda (QI < 25), severa (QI < 40), moderata (QI < 55), lieve (QI < 70) Bambini superdotati (Fonte Ajuriaguerra e Marcelli,1989). Si propone inoltre il conosciutissimo, e ormai di largo uso anche in Europa, Manuale degli psichiatri nordamericani, (DSM-III-R, 1989), che è oggetto di costante revisione, riassunto nella tabella 1.5. Esso è così diffuso proprio perché garantisce almeno alcuni elementi minimali di linguaggio comune. Un confronto fra le tavole può permettere di evidenziare talune differenze cospicue che pure riguardano elaborazioni provenienti dallo stesso ambito psichiatrico. Possiamo distinguere tre tipi fondamentali legati all'apprendimento scolastico (calcolo, scrittura, lettura), tre tipi legati al linguaggio (articolazione, espressione, ricezione e - inoltre - i disturbi dell'eloquio) e il disturbo di sviluppo della coordinazione motoria. Classificazioni basate sui processi Esistono altre proposte di classificazione basate prevalentemente sulla ricerca ispirata dalla teoria, piuttosto che sull'indagine descrittivo-tassonomica, che hanno soprattutto matrice psicometrica, cognitivista, neuropsicologica, neurologica o evo1utiva. Molti modelli specifici, desunti dall’attuale avanzata ricerca teorica sull'apprendimento, soprattutto nell'ambito cognitivista, sono in grado di fornire diversificazioni e spiegazioni adattate ad una vastissima gamma di problemi di apprendimento. Questi modelli studiano il funzionamento normale e pato1ogico dei vari processi cognitivi e sono volti all’individuazione di fattori critici presenti nel disturbo. Essi hanno evidenziato il ruo1o di numerosissimi, e parzialmente diversificati processi, all’interno della vasta, complessa e variegata area dei disturbi dell'apprendimento (ad esempio problemi di memoria, elaborazione linguistica, denominazione, ripetizione mentale, attenzione…). Da ricordare, in particolare, le ricerche sulla «memoria di lavoro», sulla «consapevolezza fonologica», sulla metacognizione e la velocità di elaborazione. Teorie dell’intelligenza e della differenziazione psicologica. Esistono due ipotesi nelle analisi cognitiviste, l’una basata sulla generalizzazione dei meccanismi cognitivi, uguali per tutti gli individui (ipotesi globale), che perciò non implica necessariamente una classificazione dei disturbi dell'apprendimento, l’altra che presuppone la differenziazione fra tipi diversi che fa invece riferimento a modelli di differenziazione psicologica generalmente associati a molti, ma non a tutti i modelli di intelligenza (ipotesi specifica al compito). Si ritiene importante riportare, fra i numerosi altri approcci che sono stati utilizzati con riferimento diretto ai disturbi dell'apprendimento, i lavori di Sternberg (1987) che affrontato il problema sottolineandone le implicazioni educative. Nella sua teoria delle «Componenti», egli analizza le relazioni fra l'intelligenza e il mondo interno o mentale di un individuo e riconosce il ruolo interattivo delle strutture mentali, dell'esperienza e del contesto. Indica tre tipi di Componenti: - metacomponenti, - componenti di prestazione - componenti di acquisizione di conoscenza. “Le metacomponenti riguardano il funzionamento di un sistema esecutivo centrale di pianificazione (come decisioni, scelte, monitoraggio) e diversificano dai soggetti normali quelli con ritardo mentale o grande talento generalizzato. Le Componenti di prestazione sono utilizzate nella esecuzione di varie strategie richieste nell'azione concreta specifica e si organizzano in fasi di soluzione del compito (codifica degli stimoli, combinazione e confronto fra stimoli, risposta); esse sono deficitarie nel ritardo mentale e, per quanto riguarda i disturbi dell'apprendimento, sono deficitarie in quelle che sono di «classe», [... ovvero che sono comuni a classi di compiti, ma non attraverso domini multipli di conoscenza, ad esempio i disturbi nella matematica potrebbero sorgere da difficoltà di esecuzione di componenti di prestazione relative ad abilità algebriche o geometriche. Nel dominio verbale.. i disturbi della lettura risultano, in parte, da deficit nel riconoscimento e decodifica della parola e nella codifica fonetica nella memoria a breve termine (Sternberg 1987,148-149)]. Le componenti di acquisizione di conoscenza sono invece processi usati nell'acquisire nuova conoscenza: esse presentano notevole variabilità nei soggetti con disturbi dell' apprendimento, soprattutto per il fatto che tali soggetti possono presentare, vuoi per mancanza delle altre abilità, vuoi per limitate specifiche esperienze, variabili livelli di conoscenza dei domini specifici. Sternberg accenna comunque a generali difficoltà, presenti nei disturbi dell'apprendimento, a utilizzare le proprie conoscenze, risultanti ad esempio in compiti di priming semantico o di organizzazione di materiale mnestico.”10 Riteniamo importante qui citare un altro modello di funzionamento mentale, che ha avuto grande influenza in ambito neuropsicologico e che ha influito anche, indirettamente, sulle modalità di affrontare l’insegnamento e l’apprendimento delle discipline, in ambito scolastico, che è quello modulare teorizzato da Fodor [1983]. Secondo tale modello, “si assume, oltre ad un sistema centrale non modulare, l'esistenza di sistemi cognitivi di elaborazione dell'input, chiamati moduli, fra 1oro perfettamente indipendenti. Tali moduli si caratterizzano per il fatto di interessare un singolo dominio cognitivo, di essere predeterminati geneticamente, di avere una ben precisa struttura neurologica, di non essere il risultato della composizione di abilità più semplici, di essere autonomi, di dare avvio automatico e 10 Op.cit.Pagg.46-47 completo all'elaborazione de1l'informazione che 1i riguarda, di avere uscite poco profonde, di avere specifiche caratteristiche evolutive, di non consentire all'informazione elaborata contatti con altri sistemi. In base ad un modello modulare un disturbo di apprendimento è dovuto ad un disturbo in uno o più dei moduli implicati in quell'apprendimento: l'obiettivo della indagine neuropsicologica deve essere quello di identificare i moduli non funzionanti, ovvero le dissociazioni fra sistemi integri e sistemi deficitari. A loro volta, i casi di dissociazione raccolti sono utilizzati per dimostrare ruo1o e indipendenza di tali moduli. Nell'ambito della psicopatologia dell'apprendimento sono particolarmente significativi, a questo proposito, alcuni contributi di Cossu, che ha per esempio evidenziato, in taluni soggetti, l'indipendenza fra abilità di lettura e di scrittura o ha capovolto l'idea tradizionale per cui taluni prerequisiti specifici (ad esempio la percezione visiva) contribuiscono all' apprendimento della lettura, mostrando come anche la relazione opposta può essere dimostrata e cioè un aumento di capacità visive, generate dal fatto stesso di essere stati esposti all'apprendimento della lettura. Una teoria modulare mette in dubbio molte classiche assunzioni nel campo dei disturbi dell'apprendimento, basate sulla evidenziazione di rapporti e contributi fra abilità diverse. Ad esempio, esistono numerose evidenze di una relazione fra lettura e scrittura o fra i cosiddetti precursori dell'apprendimento e gli apprendimenti successivi, per cui sembrerebbe almeno prudente prevedere oltre a sistemi modulari di elaborazione dell'input, anche componenti maggiormente integrate non necessariamente legate ad un sistema centrale attentivo e cosciente. Va aggiunto che, nell'ambito neuropsicologico e della scienza cognitiva, ove l'approccio modulare aveva trovato largo seguito, molti studiosi fanno invece oggi riferimento a modelli connessionistici che assumono che l'elaborazione dell'informazione avvenga in maniera distribuita nelle varie aree del sistema nervoso centrale e in parallelo. In questo caso, il disturbo di apprendimento richiede di essere diversamente concettualizzato presumibilmente in relazione alla distruzione di un determinato tipo di configurazione dell'attivazione complessiva che corrisponde all’abilità interessata.”11 Classificazioni cognitiviste e neuropsicologiche. Abbiamo visto come, dal punto di vista cognitivista, una classificazione può basarsi su un modello di funzionamento cognitivo specifico o generale e sulla individuazione delle componenti indipendenti o semi-indipendenti che sono critiche per tale funzionamento. Alcune tipologie di classificazioni riguardanti i disturbi dell'apprendimento, si riferiscono a: • . difficoltà nella memoria sequenziale, • problemi nella elaborazione successiva (evidenziabili ad esempio attraverso un test di memoria sequenziale a breve termine) • problemi nella elaborazione simultanea (diagnosticabili, ad esempio, con prove di apprendimento di coppie associate), • problemi linguistici che non hanno a che fare con problemi di oblio e di memoria a breve termine o associati al funzionamento degli emisferi • problemi a base percettiva associati al funzionamento dell'emisfero destro • disturbi di tipo visivo e di tipo uditivo • dislessia visiva • dislessia uditiva • disturbi associati alle abilità linguistiche 11 Op.Cit.pag.47 disturbi associati alle abilità non-verbali (visuospaziali), caratterizzato da nove elementi sintomatici fondamentali (chiaramente discernibili a partire dagli otto-nove anni) e che sono (Rourke e collaboratori (1989): 1. deficit tattile- percettivi bilaterali, generalmente interessanti maggiormente il lato sinistro del corpo 2. problemi di coordinamento psicomotorio 3. deficit nelle abilità visuospaziali 4. problemi in compiti cognitivi e sociali non verbali 5. buona memoria verbale meccanica 6. difficoltà ad adattarsi a nuove situazioni 7. difficoltà in aritmetica a fronte di buon successo in lettura e scrittura 8. verbosità 9. deficit in percezione, giudizio e interazione sociali; tendenza a ritirarsi in se stessi • • • • disturbo di apprendimento matematico (strategie di soluzione e funzionamento dei lobi frontali) dislessia superficiale dislessia fonologica dislessia profonda Questi disturbi dislessici vengono analizzati (Sartori 1984) in base ad un modello di esecuzione adottato da molti ricercatori, chiamato modello standard di lettura, che viene riportato nella figura 1.2. Sartori elabora la seguente tassonomia di dislessie, descritta con la specificazione delle lesioni funzionali (riferite a componenti del modello-standard, indicate dalle lettere) necessarie per spiegare il disturbo. Sindromi dislessiche • • • • • Lettura lettera-per-lettera Dislessia superficiale Dislessia fonologica Dislessia profonda Lettura visiva non semantica (iperlessia) Lesioni funzionali necessarie a spiegare il disturbo P. F. G oppure P, H G, F oppure H via P-Q-R via (P-Q-R) + Q + L L+ (E-P-Q-R) in paz. it. Oppure-> L in paz. ing. Recenti Classificazioni Poiché, come abbiamo visto, definizioni e classificazioni appartengono al contesto socio-culturale di un dato momento storico, e sono collegate alle ricerche in atto in tutti i settori, dalle neuroscienze alle tecnologie, sono soggette a cambiamenti e a “ripensamenti”, perciò non sono codificate una volta per tutte. L’OMS, di recente, (novembre 2001), ha pubblicato una nuova Classificazione del Funzionamento, delle Disabilità e della Salute (International Classification of Functioning, Disability and Health ICF) che è stata riconosciuta da 191 paesi tra i quali anche l'ltalia. Con questa pubblicazione si è proposta il perseguimento dei seguenti obiettivi: 1. fornire una base scientifica per la comprensione e 1o studio della salute 2. fissare un linguaggio comune per precisare le componenti della salute nonché favorire e migliorare la comunicazione tra esperti ed utenti; 3. permettere, a livello mondiale, confronti di dati ed esperienze 4. fornire sugli stati di salute un sistema organico di codificazione agli organismi di diffusione delle informazioni. Questo documento introduce una novità rilevante nel modo di osservare e classificare le disabilità basate più sull'analisi della vita delle persone e sulle “modalità con cui esse si trovano a convivere con le loro patologie e cercano di migliorare le proprie condizioni di vita in vista di un'esistenza produttiva e arricchente",12 piuttosto che sui tassi di mortalità della popolazione. Esso pone tutte le malattie sullo stesso piano, a prescindere dalle cause, dai disturbi mentali alle patologie fisiche, per proporre un linguaggio uniforme e un quadro “all'interno del quale descrivere la salute e gli ambiti ad essa connessi, come l'educazione e il lavoro". Non più dunque una classificazione basata sulle “conseguenze delle malattie” (menomazioni, disabilità ed handicap), formulata sulle “mancanze”, difficoltà, ecc., in senso negativo e riduttivo, ma la rassegna delle “componenti della salute” volte a rilevare esperienze e situazioni in positivo sulle attività svolte e sui livelli di partecipazione alla vita di tutti i giorni. Persona dunque, vista come individuo ed essere sociale, su cui s’incentra: -sia la verifica del funzionamento organico ed anatomico e delle funzioni, anche mentali e psicologiche, e loro adeguatezza e completezza -sia l’attenzione sulle attività pratiche svolte e i livelli di partecipazione. Tale ottica dovrebbe cambiare in senso migliorativo tutte le politiche socio-sanitarie e riabilitative elaborate in difesa dei diritti di persone in difficoltà. Le due parti in cui è suddivusa la ICF sono: Parte Prima: Funzionamento e Disabilità Una prima sezione volta alla verifica del funzionamento organico/anatomico Una seconda volta alle attività pratiche e ai livelli di partecipazione sperimentati, di seguito indicati: Attività: • di apprendimento e di applicazione delle conoscenze; • comunicative • motorie • relative agli spostamenti nell’ambiente • relative alla cura della propria persona 12 Comunicato stampa WHO,2001a,pag.1 • • • di vita quotidiana interpersonali di svolgimento di compiti e prestazioni fondamentali Ambiti della partecipazione • alle cure personali • nella mobilità • allo scambio di informazioni • alla vita domestica e e assistenza • all’istruzione • al lavoro • alla vita economica • alla vita sociale e di comunità. Parte Seconda: Fattori Contestuali Una prima sezione si occupa dei fattori contestuali quali le caratteristiche, fisiche e sociali, dell’ambiente di vita del soggetto; una seconda sezione dei fattori personali quali: sesso, razza, età, stili di vita, abitudini, stili di coping di riferimento, background sociale, educativo e professionale, eventi di vita significativi che hanno influenzato o influenzano la sua vita. Questi devono essere tenuti presenti per l’impatto che hanno sulle condizioni di vita e risultati degli interventi stessi. L’interazione di tutte queste componenti: funzioni e strutture del corpo, attività, partecipazione, caratterizza dunque la condizione di salute dell’individuo, e tutte devono essere tenute presenti nel predisporre le necessarie cure ed opportune provvisioni adeguate alle sue difficoltà (disturbi / malattie). _________________________________________________________________ Alcune indicazioni per costruire una mappa concettuale Sui propri Saperi naturali intorno a “handicap” (psicologia/riabilitazione)1 1-Attivare un “brain storming” personale (scrivendo velocemente su di un foglio) tutto ciò che viene in mente rispetto all’handicap, senza censure, parole-concetto (20/30 concetti circa). 2-Rileggere e aggiungere per colmare lacune o togliere i concetti meno pertinenti; controllare di aver espresso i concetti chiave, que1li rilevanti per il tema richiesto. 3-Cominciare ad organizzare la propria mappa gerarchicamente partendo dai concetti più generali e più inclusivi, NODI portanti, ai concetti meno generali e più specifici, che formeranno la rete. 4-Le linee tra un nodo e l’altro rappresentano le “connessioni” tra un concetto e l’altro e possono avere una direzionalità servono per indicare, ad esempio, da quale concetto ne deriva un altro. 5- Si possono anche aggiungere alcune brevi parole di congiunzione (sono, e, dove, il, con, poi per, in… parole legame) lungo le frecce per chiarire le connessioni. 6-Tener presente che: -i nomi propri non sono parole-concetto -la maggior parte delle prime mappe risulteranno poco simmetriche, nel senso che ci saranno gruppi di concetti molto ricchi di particolari e altri più poveri. -potrete anche ridisegnare la mappa se questo vi sembra utile per avere un'idea più precisa e più organizzata; di solito la prima nasce un po’ confusa e poco equilibrata…la rete nasce via via che si fa… -le mappe possono avere forme varie, tutte valide: concentriche a grappolo, lineari… Si allegano alcuni esempi fatti da corsisti della SSIS per altri insegnamenti. 1 13 J.D.NOVAK, D.B.GOWIN, Imparando a imparare, SEI,Torino,1989