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Pubblicato il 01 Agosto 2016
Il Festival Puccini ha celebrato il 150°anniversario della nascita di Ferruccio Busoni
La Turandot della feldmarescialla
servizio di Athos Tromboni
TORRE DEL LAGO (LU) - Quando Ferruccio Busoni scrisse il libretto e musicò la sua Turandot (1917,
prima dunque di Puccini) la concepì come rievocazione - in musica - dello spirito della commedia
dell'arte italiana, mostrando fedeltà allo spirito di Carlo Gozzi che l'aveva inventata nel Settecento. E
settecentesco è anche il clima musicale che si respira analizzando varie parti dell'opera busoniana.
Ecco alcuni esempi: l'arioso di Calaf quando guarda il ritrattino di Turandot per la prima volta è delicato
e seducente (anche Tamino nel Flauto Magico s'innamora, come Calaf, del ritratto prima, poi della
fanciulla in carne e ossa); il quartetto fra Altoum, Calaf, Pantalone eTartaglia è un gioiello di concertato
spiritoso (quanti sono i quartettini in concertato o fugati o in contrappunto disseminati nelle opere buffe
di Paisiello, Cimarosa e persino Rossini?); gli esotismi sono affidati alle voci calde dei legni o allo
spunto settecentesco alla Händel contenuto nel coro di giubilo finale, mosso briosamente sul tempo di una marcia turca (le
"turcherie" sono esempi vincenti in Mozart; non solo nel Ratto dal serraglio ma anche nella musica pianistica). Naturamente il
linguaggio di Busoni è d'inizio Novecento, viene espresso dopo il Pelléas et Mélisande di Claude Debussy e dopo il Pierrot
Lunaire di Arnold Schönberg; e di questi tiene conto sia nella vaga tinta impressionistica che è instillata nella musica e nel
canto di alcune parti della Turandot busoniana, sia nell'uso lacerante di numerose dissonanze inserite in un contesto
prevalentemente tonale. E infine è rigorosamente a numeri chiusi (recitativo - aria - recitativo - coro - duetto - e così via).
Opera dallo spirito settecentesco, dunque, realizzata però con tutto lo scibile musicale conosciuto fino al 1917. Un capolavoro
d'intelligenza e d'inventiva di Ferruccio Busoni.
La storia è dissimile da quella di Adami e Puccini, molto più fedele al testo di Gozzi, anche se prosciugata molto con
l'eliminazione di alcune figure e un po' arricchita con l'introduzione di altre figure (Puccini inventa quel monumento di
commozione che è la schiava Liù; Busoni inventa quel petalo triste che è la Regina madre genitrice del Principe di Persia
fatto decapitare perché ha fallito nei tre indovinelli). Ma anche qui, come in Puccini e in Gozzi, a impressionare è la crudeltà
della principessa di gelo; e a far lieto il finale è il suo innamoramento per Calaf, in Puccini perché la principessa di gelo si
arrende al bacio appassionato del principe ignoto, in Busoni perché è conquistata dalla bellezza dell'uomo. Là il trionfo della
passione, qui il trionfo della bellezza.
Tanta materia, filosofica, estetica, musicale, per una Turandot che il Festival Puccini ha mandato in scena il 31 luglio 2016
nell'Auditorium sottostante la platea del Gran Teatro all'aperto di Torre del Lago, per celebrare i 150 anni dalla nascita del
compositore empolese, naturalizzato tedesco. Un salone di 300 posti dall'acustica pessima. La regia, affidata ad Alessandro
Golinelli, impianta questa Turandot non nella reggia di Pechino, ma nel deserto, un luogo ubiquale, nel senso che potrebbe
essere ovunque, in Asia, in Africa, in America, tanto il deserto è uguale dappertutto; i costumi sono disegnati da Cordelia von
den Steinen, le luci da Nino Napoletano. Bella la regia (e non staremo qui a citare i cento spunti ora spiritosi, ora patetici, ora
giocosi inventati da Golinelli, con la combutta di mimi e giocolieri in scena), belli i costumi, belle le luci.
Il cast era costituito prevalentemente dai giovani cantanti dell'Accademia del Festival Puccini: Anna Maria Stella Pansini nel
ruolo eponimo, Ugo Tarquini in quello di Calaf , e poi Pietro Toscano (Imperatore Altoum ), Donatella De Caro (Adelma),
Raffaele Raffio (Barach), Anna Russo (la Regina madre di Samarcanda ), Vladimir Reutov (Truffaldino), Andrea del Conte
(Pantalone), Iacopo Bianchini (Tartaglia) e Liudmila Chepurnaya (una Cantante). Ci asteniamo dall'esprimere un giudizio sui
cantanti, tanto sia per l'acustica, sia per la concertazione e direzione di Beatrice Venezi sul podio dell'Orchestra del Festival
Puccini, non si sono uditi che a tratti, quando cantavano accompagnati dallo strumentale cameristico, e sempre urlanti più
che cantanti. Diremo solo che i migliori sono stati senza dubbio in primis il baritono Raffaele Raffio, poi il contralto Donatella
De Caro e quindi il soprano Anna Russo, gli unici capaci di superare la muraglia di suono eretta dalla Venezi.
Durante l'esecuzione ci siamo chiesti più volte esterefatti dove fosse finito il Settecento d'ispirazione, idealizzato da Busoni;
dove i riferimenti emotivi a Mozart, Händel, Rossini; dove il cromatismo orientaleggiante quasi impressionistico calato dentro
un'armonizzazione prevalentemente tonale. Perché quel terremoto di suoni e dinamiche. Perché quell'indifferenza
sussiegosa verso l'acustica ostile.
L'orchestra era puntuale e perfetta negli stop and go ordinati dalla feldmarescialla Venezi a cui vanno riconosciuti impeto,
passione, esuberanza, eclettismo, polso, vigore, autorevolezza, tempra e superego. Musicalmente parlando, è ovvio. Ma
anche (in questa circostanza, e auguriamoci che sia solo in questa circostanza) poca sensibilità verso i cantanti e verso
l'intreccio vocalità/suono. Musicalmente parlando, è ovvio. Il coro, preparato dal bravo Maurizio Preziosi, ha magistralmente
brillato. Di luce propria. Applausi per tutti alla fine dello spettacolo. Applausi da fans, non certo da intenditori.
Crediti fotografici: Giorgio Andreuccetti e Aldo Umicini per il Festival Puccini di Torre del Lago
Nella miniatura in alto: la direttora Beatrice Venezi
Nella sequenza al centro: Vladimir Reutov (Truffaldino), Ugo Tarquini ( Calaf ), Donatella De Caro ( Adelma); Andrea del Conte (Pantalone), Iacopo Bianchini
(Tartaglia) e Pietro Toscano (Imperatore Altoum); ancora Tarquini con Anna Maria Stella Pansini (Turandot)
Sotto: panoramica sull'allestimento curato da Alessandro Golinelli e Cordelia von den Steinen
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