Lo sguardo di Antonello Progetti per la città di Messina di Marco Mannino Adesso che la comunità di Messina si prepara a elaborare un nuovo strumento di controllo per le trasformazioni del centro urbano e del suo territorio, la scelta di raccogliere alcuni progetti elaborati per la città, mi è sembrata particolarmente opportuna. La necessità di dotarsi di un nuovo Piano induce a una generale riflessione su possibili scenari urbani, con la fiducia che un dibattito ampio possa interpretare le nuove istanze di trasformazione e cambiamento: Messina, come tante città in Italia, ha dei grandi problemi, ma questi portano con sé anche la speranza di poterli superare. Un buon Piano, si basa su buone idee, inizia dall’elaborazione di un buon programma, ma questa affermazione, per quanto possa sembrare ovvia, attualmente è quanto mai controversa. Oggi la programmazione delle regole del costruire non è affidata a chi fa i progetti di architettura o a chi si occupa di progettazione urbana, anzi il più delle volte, questi progettisti vengono esclusi dalla fase della cosiddetta pianificazione. In questo modo, a chi fa i progetti di architettura, viene a mancare un dato di partenza importante che è la conoscenza del valore più generale di ciò che dobbiamo costruire o modificare e che ci consente di definirne il carattere. Chi gestisce la fasi di un programma generale è molto spesso condizionato e travolto da istanze pratiche, economiche, normative; ma accanto a queste, sono altre le domande che devono interessarci, anche se queste sono i moventi delle trasformazioni. Dobbiamo alimentare il valore culturale, che è l’estensione necessaria del fine pratico. Prima di provare a spiegare il senso dei progetti qui raccolti, occorre una premessa programmatica.1 I progetti illustrati sono progetti didattici, per lo più tesi di laurea, coordinate, in qualità di relatore, nella Scuola di architettura di Reggio Calabria. Selezionare, attraverso un lavoro sistematico, alcuni progetti elaborati in una Scuola, mi è sembrato, potesse contribuire a alimentare in modo proficuo un dibattito utile, se non necessario. Sappiamo che un progetto didattico, è sviluppato in assenza di vincoli concreti, ma non per questo deve venir meno la capacità di leggere la realtà. Un progetto didattico non è e non può essere un progetto reale. Esso è sempre qualcosa di meno e molto di più. Un progetto, elaborato nelle aule di una scuola di architettura, deve includere la conoscenza delle condizioni in cui si colloca e tener presente le possibilità tecniche in cui si opera, ma a partire da queste deve sapersi spingere oltre, ricercando con ostinazione e con audacia percorsi non praticati. Sono cosciente che il rischio è quello dell’autoreferenzialità in un cammino troppo spesso, nella quotidianità del progetto professionale, intasato da ostacoli di svariata natura, ma è proprio nella distanza critica nei confronti della stessa realtà che c’è la possibilità di ricercare e sperimentare possibili soluzioni senza correre il rischio di rimanere ingabbiati nelle strettoie del contingente. Un progetto didattico può avere la capacità proiettiva che, dal dato reale, lo possa sospingere verso la previsione del nuovo. Questa previsione non sarà un’astrazione se alimentata da una corretta interpretazione della realtà, se sorretta dalla sensibilità di chi ha occhi per guardare quello che, colpevolmente spesso, in quella stessa realtà non sappiamo vedere. Il titolo scelto per questo contributo è Lo sguardo di Antonello. Progetti per la città di Messina. Questo è un Quaderno di proposte d’architettura, una raccolta ordinata di progetti che riflettono su alcuni temi legati al territorio e alla città di Messina; temi e proposte che cercano di interpretare l’essenza e lo spirito di un luogo per 1 Rif. Premessa programmatica. Didattica e realtà, in “Porto non porto”. Progetti didattici per il porto di Ischia, di Antonello Monaco, Clean edizioni, Napoli 2013, pp.11-12 evocarne possibili sviluppi. Ciò comporta sempre una presa di posizione, a volte radicale, una lettura della realtà che non potrà essere mai oggettiva e che custodisce in sé, inevitabilmente, una tensione progettuale. Un aspetto questo, che mi è capitato di cogliere in alcuni dipinti di Antonello, in particolare sullo sfondo delle sue Crocifissioni, dove il celebre pittore raffigura la città di Messina. Tutti noi, che abitiamo in questa terra, ne riconosciamo immediatamente il paesaggio, eppure non è certo una restituzione realistica quella che Antonello ci propone: il suo è uno sguardo selettivo, è una rilettura dei caratteri fisici del luogo; c’è nella sua visione un valore fondato sulla capacità di captare e restituirci i caratteri distintivi e riconoscibili del paesaggio naturale. Ecco, credo che questi progetti provino a fissare una tensione analoga. Non c’è mai un atteggiamento mimetico in queste proposte di architettura: nella lettura delle forme del territorio, della forma urbana, o delle opere di architettura di un passato più o meno recente, c’è sempre l’aspirazione a carpirne i modi. Nell’immagine pittorica di Antonello, dai particolari e minuziosi dettagli illustrati, alla composizione generale stigmatizzata nelle forme del paesaggio, tutto rimanda a una forte unità. Un principio unitario che pervade anche questi progetti che cercano di rendere manifesti i caratteri morfologici di questo territorio e la complessa relazione tra sistema naturale e organismo urbano. In questa specificità cerca di trovare fondamento il senso di queste proposte. La città e il mare Un’immagine mitica accompagna la condizione geografica della città dello Stretto: il bacino d’acqua dove confluiscono i mari Ionio e Tirreno, connota così fortemente il sistema insediativo dei centri urbani, da configurarsi come una grande piazza d’acqua, cuore della forma urbis di un’area estesa compresa tra Messina e Reggio Calabria. Una condizione particolare colta anche attraverso lo sguardo di due illustri abitanti di questa terra: Antonello da Messina, di cui abbiamo già accennato, e Filippo Juvarra. Antonello raffigura la città di Messina guardandola dall’interno, scandisce la sequenza terra-acqua-terra che determina la centralità dello specchio d’acqua nel complesso sistema di relazioni tra le due sponde, quella siciliana e quella calabrese. Come ha notato Francesco Venezia2, Antonello cattura e porta dentro Messina il paesaggio e il mondo della costa che si affaccia di fronte. Filippo Juvarra, ponendosi al centro dello Stretto, ha invece una visione della città di Messina affacciata sul mare, ne ipotizza, in un celebre disegno, la continuità architettonica del fronte attraverso la prosecuzione della storica Palazzata. Una continuità architettonica proiettata oltre i confini fisici della città, tesa a perimetrare lo spazio d’acqua compreso tra le città dello Stretto. Una singolarità paesaggistica e territoriale che, come abbiamo già delineato, ha da sempre alimentato uno stretto rapporto tra architettura e natura. Una singolarità della conformazione geografica che è peculiare anche del nucleo urbano messinese: la forma a falce che connota il luogo del porto è uno spazio naturale delimitato in buona parte dal bordo edificato della Palazzata; le grandi fiumare che attraversano trasversalmente l’aggregato urbano, una volta alvei naturali, oggi occultati da grandi strade, misurano e danno ritmo al tessuto edilizio disegnato sulla forma degli isolati. Nello sguardo di chi arriva nella città dal mare questa peculiarità topografica è subito evidente. Per provare a descrivere il rapporto che la città ha con il mare, mi viene sempre in mente quella bella considerazione di Thomas Mann in Morte a Venezia quando osserva che entrare a Venezia per via di terra è come entrare in un palazzo dalla porta di servizio. La bellezza della città risiede nel rapporto complesso tra le forme della natura e le forme del costruito, nella relazione tra questi due sistemi: tra il paesaggio antropico urbano e la conformazione dello spazio naturale. Una bellezza da sempre riconosciuta e documentata dalla copiosa cartografia e dalle iconografie che rappresentano con evidenza la forza di questa relazione. 2 F. Venezia (con P. Di caterina, G. Petruch), in L’isolato di Messina, Medina , Cefalù 1986, pp130-139 A ben guardare, si avverte sempre, nelle illustrazioni che documentano com’era la città, la presenza e la valorizzazione dei tratti distintivi di questo stretto rapporto. L’ area della falce è da sempre stata, nella storia urbana della città un luogo particolare: gli interventi che su essa si sono succeduti, hanno sempre assunto il carattere dell’eccezionalità. Il forte S. Salvatore, la lanterna di S. Raineri, il lazzaretto, la cittadella fortificata, sono infatti monumenti di cui è identificabile il carattere extra-moenia. Opere relazionate all’ambito paesaggistico dello Stretto, esterne dunque al tessuto urbano anche se intimamente legate alla città. A Messina, come avveniva in tante città della Magna Grecia, è significativa la relazione che si interpone tra le emergenze monumentali esterne alla città, la struttura urbana e il luogo della natura: è evidente la persistente rappresentazione del rapporto che intercorre tra il tessuto edilizio, i monumenti nella zona falcata e gli elementi naturali (i margini collinari, il bacino del porto, il mare dello Stretto). La Palazzata edificata sulla cortina del porto - il teatro marittimo- concorre, con l’unità architettonica che la contraddistingue, a rendere ancor più efficace il rapporto dialettico tra le parti: la città, il monumento e il paesaggio. La forma monumentale del grande edificio, legata alla funzione rappresentativa dell’Urbis, dichiara l’intenzione di costruire il margine architettonico di un grande spazio interno: una estesa piazza d’acqua, delimitata dal sistema collinare dei Peloritani. Nella copiosa cartografia storica, gli argini murati delle fiumare, Portalegni – oggi via Tommaso Cannizzaro- e Boccetta- che nella città storica delimitavano i bordi laterali della città, segnano con la possanza della costruzione muraria, la profondità della piana edificata, rendendo manifesta la relazione tra le forme della natura (la morfologia territoriale), e la forma della città. L’IDEALE CLASSICO_MODERNO Il concorso per il Progetto della Nuova Palazzata di Messina, bandito nel 1928, interessato alla riedificazione dell’antico Teatro Marittimo, attraverso i progetti presentati in quell'occasione, ribadisce la vocazione a questo rapporto. Nei progetti dei partecipanti al concorso, tra cui Giuseppe Samonà, Camillo Autore, Bruno La Padula, Adalberto Libera e Mario Ridolfi, si afferma la consapevolezza dei progettisti, di ribadire quel carattere di margine architettonico di un grande spazio interno. Una consapevolezza che porta Giuseppe Samonà, insieme al figlio Alberto, a impegnarsi, trent’anni più tardi, tra il 1960 fino agli anni ’80, nella elaborazione del grande progetto della città-regione dello Stretto, una idea di metropoli sviluppata intorno al mare condivisa anche da Ludovico Quaroni nella stesura di piani e progetti da lui predisposti per l’area dello Stretto. Lo stesso Samonà si occupa del completamento della costruzione del fronte a mare di Messina, la cui edificazione, a seguito del concorso prima ricordato, era già cominciata nel 1936 con la costruzione dell’edificio INA progettato da Autore e Viola e del Banco di Sicilia firmato soltanto da Autore. Dal ’38 al ’40 Samonà è infatti impegnato nella realizzazione dell’edificio INPS e, dopo un concorso bandito nel ’33 in cui risulta vincitore (insieme a Viola), del Palazzo Littorio; due opere classiche e moderne, connotate da un carattere urbano e monumentale insieme, impresso anche negli altri edifici della cortina che ancora Samonà continua a progettare e costruire tra il 1952 e il 1958. Della fine degli anni ’30 è la stazione ferroviaria progettata da Angiolo Mazzoni. In particolare il terminale sul porto della stazione marittima, realizzato per l’attracco delle navi traghetto per il trasporto passeggeri e ferroviario, costruito in continuità alla Palazzata, contribuisce alla formazione dell’immagine classicomoderna del fronte della città sul mare. La grande convessità absidale rivolta verso il porto della città, sulla quale si innestano gli elementi di collegamento ai pontili delle navi, conclude il complesso della stazione connotando formalmente il sistema di testata dello scalo ferroviario in modo da fargli assumere il carattere di porta alla Sicilia dal mare. Tutte opere, quelle menzionate, che riflettono un importante aspetto della cultura artistica italiana in quegli anni: la convivenza contraddittoria e conflittuale dei valori e dei nuovi ideali della modernità, accanto a quei valori della classicità testimoni di un glorioso passato. In questa ricerca architettonica si inseriscono e si intrecciano fittamente temi come tradizione, linea italiana dell’arte e dell’architettura, architettura di stato, nel tentativo di adeguare la ricerca sul linguaggio dell’architettura a valide entità morali. Nella Messina moderna coesistono il monumentalismo civico del Palazzo di Giustizia di Piacentini e della Prefettura di Bazzani, con il moderno razionalismo della Stazione Marittima e Centrale di Mazzoni, del Palazzo Littorio di Viola e Samonà e del quartiere fieristico. Quest’ultimo, in particolare, ha rappresentato, nelle alterne vicende della sua riedificazione, un manifesto per l’architettura moderna nella città dello Stretto, un paradigma per le pratiche di sperimentazione di una nuova idea di architettura. Inaugurata nell’aprile del 1938 nello spazio dello chalet, l’ex-giardino a mare, un’area che, insieme al giardino del Lungomare, chiude strategicamente il fronte dell’area portuale, la nuova Cittadella espositiva fu realizzata su progetto degli architetti Libera e De Renzi 3. Nella Fiera di Messina, essi perseguono un programma di rinnovamento urbano e architettonico indirizzato verso un’idea dell’esposizione come città rappresentativa , un modello ideale di spazio urbano, metafora costruita di una idea di città moderna. La perdita della centralità prospettica definisce il carattere acropolico della struttura insediativa dei nuovi padiglioni, in cui le forme, apparentemente scollegate, come in una moderna Agora, si fondono in un continuum cinetico, dislocando i pezzi su un plateau. Il luogo della Fiera costituisce una sorta di controcanto all’area della falce e ne sembra ripercorrere i caratteri insediativi. Come per la zona falcata gli interventi assumono infatti il segno dell’eccezionalità: i padiglioni che Libera e De Renzi dislocano nell’area dell’ex-giardino a mare, sono i monumenti di cui ne è riconoscibile il carattere; interventi relazionati all’ambito paesaggistico dello Stretto, estraniati dal tessuto urbano anche se intimamente legati alla città. 3 Cfr. Relazione del Comitato della Fiera delle Attività Economiche Siciliane del 23 Giugno 1938. Viene dunque rappresentata una idea di città tesa a vivificare il valore indotto da quella relazione città-paesaggio che da sempre ha incarnato il genio del luogo. Una struttura insediativa ribadita nella ricostruzione a opera dei progettisti messinesi Filippo Rovigo e Vincenzo Pantano. RIPENSARE IL FRONTE URBANO Tutto questo è stato fortemente compromesso nelle recenti opere di ricostruzione e espansione della città. Si sono spianate colline, si sono intubati tutti i corsi d’acqua dei torrenti che attraversano lo spazio urbano, sono stati oltrepassati i limiti naturali che delimitano le aree adeguate a una urbanizzazione, quest’ultima si è poi estesa in modo diffuso e incongruo rispetto a modelli insediativi rispettosi di quella felice relazione tra spazio naturale e forma costruita. Assistiamo alla continua messa in opera di un saccheggio: da un lato un modo maldestro di costruire occupando nuovo spazio; dall’altro la natura che resiste pur venendo in parte inglobata. La straordinarietà di questo luogo, il tentativo di provare a elaborare idee che possano risarcire il territorio da queste recenti devastazioni, costituiscono il presupposto necessario a spiegare i progetti elaborati in quel tratto di costa che dalla zona falcata, si spinge fino all’area del giardino Albert Sabin, in prossimità della foce della fiumara Annunziata: un fronte esteso circa 5 km che determina l’immagine attuale della città sul mare. Le proposte di questi progetti sono tutte indirizzate a interpretare l’ipotesi insediativa originaria con la quale la città di Messina si è storicamente costruita. Sembra prevalere in queste nuove idee di trasformazione urbana, prima della ricerca sulle forme architettoniche, una aspirazione: ristabilire il carattere di quel rapporto natura-architettura che ho provato prima a sintetizzare. Non si tratta, con chiara evidenza, di interventi che intendono ripristinare lo stato dei luoghi così com’erano prima delle recenti devastazioni: la tensione progettuale è rivolta alla restaurazione di uno spazio originario, inteso non in termini imitativi; è rivolta a rendere palese il senso di una proposta sul paesaggio, architettonico e naturale, che torni a ri-guardare i luoghi, nel significato che possiamo darne di tornare a riconsiderarli lo spazio privilegiato del nostro abitare. Questi progetti interpretano la singolarità del luogo, si confrontano direttamente con le preesistenze, con la storia, con il suolo, con la natura, cercano di ristabilire, secondo una moderna concezione, un legame profondo con lo spazio della città attraverso un atto di ricostruzione dei suoi caratteri. In merito alla proposta di nuovi cantieri navali, nella zona falcata, percorrendo il grande basamento pensato come un’isola di pietra – memoria dell’antico lazzaretto- lo sguardo può tornare a spaziare libero, sul porto, sulla città, sul paesaggio dello Stretto. Forse la stessa condizione poteva esserci quando tutta l’area della falce era sgombra di tutte le costruzioni, più o meno abusive, che oggi intasano questo lembo di terra? Dal questo podio si elevano le costruzioni metalliche tipiche di un paesaggio portuale fatto di gru, travel per il varo delle barche: un paesaggio, quello dei porti, caro a chi ama il mare, che questo progetto evoca con evidenza. Il progetto per il porto turistico nella rada di san Francesco ha colto l’occasione per riflettere sul carattere della riva, la riva costruita del porto o la riva naturale della spiaggia. Dove adesso ha luogo l’attracco dei traghetti Caronte, era la spiaggia (i più anziani ricordano i famosi bagni Vittoria); tuttora in parte possiamo cogliere il senso di quel rapporto con il mare nelle parti residuali di quel litorale popolato ancora dalle barche di pescatori. Il nuovo porto evoca quel litorale sabbioso: come una spiaggia artificiale, il grande piano di legno ricerca attraverso la perentorietà dell’unità materica, l’adeguatezza di uno spazio ad accogliere e introiettare quel paesaggio marino. La necessità funzionale di ampi spazi per il parcheggio diventa invece l’occasione per pensare la costruzione di un parco che si estende per l’intera lunghezza della rada e ricompone, in continuità con la collina del forte Ogliastri, l’unità naturalista tra mare e sistema collinare verde. Dalla topografia insediativa della città e dall’immagine, fissata in tante illustrazioni della città storica, di bastioni murari costruiti in prossimità della foce delle fiumare, prende forza l’idea di edificare dei grandi edifici, dal forte impatto visivo, una sorta di grandi Palazzi a mare, ubicati in prossimità della fiumare Giostra e Annunziata. Icone di una ritrovata monumentalità alla scala del paesaggio, questi Palazzi modificano, con la loro sagoma, il profilo urbano; sono edifici che prediligono figure architettoniche elementari e l’iterazione di elementi uguali delle costruzioni; sono edifici contraddistinti da una forte unità architettonica compiutamente formata nell’ambito di un’aura metafisica che mira a esprimere quel preciso carattere di mediterraneità che lega, ancora più saldamente, l’architettura al luogo. Ho sempre osservato come l’architettura dia risposte convincenti quando riusciamo a contenere in una forma molto semplice, una serie di necessità e anche di opportunità che a volte usiamo disseminare in una successione di forme frammentate. L’architettura mira per sua natura a concentrare tutto in un solo elemento, a esprimere tutto il suo potenziale espressivo entro forme estremamente semplici. Edifici alti Messina, come tutte le altre città in Italia negli ultimi 60 anni, è cresciuta così rapidamente tanto da rovesciare l’abituale condizione del centro città, costruito seguendo delle regole di urbanizzazione, denso e compatto, rispetto alle aree periferiche, scoordinate, sfrangiate e molto modeste per rappresentatività urbana. Queste zone di espansione sono cresciute a dismisura, lungo la zona nord, ma anche la zona sud, e soprattutto lungo le valli dei torrenti. Sono cresciute tanto da occupare una superficie spropositatamente grande rispetto al nucleo della ricostruzione post-terremoto. La città contemporanea è quindi caratterizzata, nel suo complesso, da una conformazione discontinua e frammentaria e si costituisce individuando delle parti; queste possono essere riconosciute nelle loro forme specifiche attraverso l’analisi urbana, la storia, la morfologia e le loro rispettive strutture compositive (quando ci sono). Alcune di loro (quelle storiche) risultano più consolidate, altre appaiono invece aree urbane deboli, meno caratterizzate dal punto di vista formale. Queste sono le aree che richiedono più cura e maggiore attenzione e bisognerebbe, senza negare i loro valori costitutivi e la loro specificità, elevarle fino al raggiungimento di una dignità civica e rappresentativa. Non si tratta di affidare solo al nucleo centrale l’esclusività dei valori e dei simboli attraverso i quali la collettività si identifica, tantomeno il centro urbano, l’isolato del Borzì, può essere assunto quale modello unico e assoluto per nuovi tessuti edilizi o per la ridefinizione architettonica delle recenti espansioni. Dove, come nelle aree periferiche, o nelle aree centrali da recuperare alla città, il carattere del luogo è dato esclusivamente dall’indifferenziazione dello spazio e dalla molteplicità dei linguaggi formali, caratteristiche tipiche delle conformazioni di tutte le aree esterne ai centri storici, e dove non esiste una idea di spazio strutturato, il progetto urbano deve calarsi all’interno dei problemi e dei vincoli morfologici e fisici, rintracciando e riscoprendo quelle particolari valenze estetiche in grado di dare figuratività alla città moderna in sintonia con quella del passato. Il tema dell’edificio alto, o della torre isolata -non parlerei di grattacielocostituisce indubbiamente uno dei temi più significativi dell’architettura della città contemporanea, ricco di stimoli e di sollecitazioni, sia per la sfida tecnica insita nella costruzione dell’edificio in altezza, quanto soprattutto per la valenza rappresentativa che può assumere nel contesto urbano o paesaggistico in cui inevitabilmente, emerge come un punto di riferimento e orientamento. Sappiamo che a Messina questo modo di riferirsi alla costruzione dello spazio urbano è, in parte mancato. Una normativa, rispetto anche agli anni recenti, ha a lungo imposto, dei vincoli di altezza per la sicurezza antismica. Eppure non sempre è stato così. Il tema dell’edificio alto, punto di riferimento nel paesaggio urbano, è stato assunto nella ricostruzione della città. Forse è improprio parlare di edificio alto, ma alcune architetture hanno assunto,nello spazio della città, il valore di poli visivi e di orientamento: il sacrario di Cristo Re, la chiesa di Montalto, in parte la torre dell’ex edificio Littorio, ora catasto lungo la Palazzata, e non ultimo, il pilone di Capo Peloro. Ma anche le fortificazioni che punteggiano il sistema collinare a ridosso della città: forte Gonzaga, il Castellaccio, i forti umbertini. Opere monumentali che costituiscono segni inequivocabili nel paesaggio della città. Un tema dunque, quello dell’edificio alto che potrebbe essere utile, certo non in modo univoco, nel processo di ridefinizione delle aree periferiche, o delle parti di città figurativamente non compiute, alle quali manca quel processo di sedimentazione e stratificazione che solo il tempo –e purtroppo questo è un punto dolente nel sistema urbano di Messina- può chiarire e che caratterizza tutte le città che possiamo definire storiche. La torre o le torri potrebbero diventare segni eloquenti delle aree periferiche e degradate, attualmente così indifferenziate e senza gerarchie: senza quei punti di riferimento che stabiliscono gerarchie e ordinano lo spazio urbano. Certo può essere anche pericoloso, una politica indiscriminata relativa alla ulteriore costruzione di edifici, ancora più visivamente invadenti, che in quanto alti, potrebbe definitivamente compromettere l’equilibrio urbano e paesaggistico. Eppure, se ben progettati, sia alla scala urbana e territoriale, quanto alla scala architettonica e di dettaglio, questi edifici possono rappresentare una risorsa potenziale per lo sviluppo della città. A questo proposito sono efficaci le considerazioni proposte da Peter Behrens in Il futuro di Berlino, dove gli edifici alti sono assunti come componenti in grado di chiarire identità e dinamicità delle città europee: “una città va intesa in senso urbanistico come una formazione architettonica conclusa. Una grande città che si estende a perdita d’occhio non trae più giovamento in senso romantico dalla disposizione, pur meritevole di riconoscimento, delle piazze. Poiché si estende a dismisura orizzontalmente, anche l’effetto del campanile di una chiesa va perduto: la disposizione orizzontale richiede un corpo che possa essere trovato mediante l’articolazione di compatte masse verticali”. A Messina questo discorso è particolarmente valido e andrebbe integrato a una attenta analisi della morfologia territoriale. Al contrario di Berlino, Messina non è una città piatta; la condizione paesaggistica, i torrenti, il sistema collinare, definiscono la forma naturale alla quale i sistemi di strutturazione urbana dovrebbero fare riferimento. L’attenzione alle strategie insediative relazionate allo spazio della natura, dovrebbe, e potrebbe, trovare compiutezza in un sistema di triangolazioni prospettiche a distanza in grado di dare forma alla città nella sua interezza. Si possono costruire edifici alti come capisaldi di un vasto paesaggio, oppure come fatti urbani complessi, in entrambi i casi questi particolari edifici emergerebbero sul contesto circostante mostrandosi attraverso il proprio carattere. Un carattere legato alla costruzione di un’architettura civile, indispensabile per rappresentare in forma adeguata i luoghi dell’abitare. Questi edifici non devono rincorrere primati tecnici e tecnologici, anche se quello di una buona costruzione rimane uno dei punti centrali per una qualità diffusa, ma configurarsi come baluardi architettonici in grado di polarizzare una idea condivisa di spazio urbano. Torri dunque in grado di restituire, alla scala dell’edificio, la complessità e la ricchezza di una struttura urbana e l’esperienza collettiva dell’architettura. In tal modo questi nuovi edifici si andrebbero a confrontare con la dimensione urbana e con il paesaggio di una grande area metropolitana, riproponendone la scala e la complessità. In questo senso la costruzione dell’edificio alto rientra all’interno di una idea di civiltà che in questi stessi edifici può riflettersi, riconoscersi e riconoscerli come figure di riferimento della vita urbana. Evocazioni attraverso le quali possiamo ritrovare l’autorità della tradizione di quella prima colonna, ripresa da Loos (con il suo famoso grattacielo); la semplicità della colonna, dell’elemento verticale che si staglia contro l’orizzontalità del paesaggio, come le croci dipinte da Antonello, che diventano paline, quasi colonne che misurano il tanto amato paesaggio dello Stretto. EDIFICI CHE GUARDANO LONTANO E CHE SONO VISTI DA LONTANO4 La torre fonda la propria ragione sulla relazione che stabilisce con la struttura della città: al variare della forma urbana, variano i modi di disporre le torri negli spazi della città. Il modo nel quale gli edifici alti si collocano lungo il viale Gazzi, in uno dei progetti che qui si presentano, ribadisce il ruolo nodale della struttura urbana in quel punto della città. Quattro torri a lama disposte a pettine, con il lato corto lungo la direttrice naturale della Fiumara sono anche il sostegno di una grande copertura che connota lo spazio di una piazza coperta: un grande riparo che accoglie sotto di sé anche il capolinea del tram. Le torri, così disposte, sono altresì il punto di convergenza in tangenza all’asse di collegamento di via Bonino (la direttrice verso sud) e contemporaneamente aprono a un ampio spazio verde. Assumendo la geometria dei tracciati, la disposizione delle torri riconosce valore urbano alle prospettive costruite dalle strade e dal segno della fiumara. Al posto dell’attuale quartiere (una delle aree baraccate della ricostruzione post-terremoto) adesso un sistema di orti urbani. Uno spazio vuoto naturale, quasi un frammento di campagna, diventa il contesto in cui si collocano gli edifici progettati. Oltre le torri, altre due isole architettoniche concorrono con la loro giacitura e con la loro articolazione volumetrica e proporzionale alla definizione del nuovo contesto urbano. E’ il valore del vuoto a dare senso allo spazio costruito; è lo spazio libero, messo in tensione tra gli edifici, a costruire il senso di internità di questo luogo. Si costruiscono dunque gerarchie rispetto ai tracciati esistenti -la fiumara di Viale Gazzi, la via Taormina, il sistema di isolati- ma anche futuri –la via del mare che collegherà il centro della città con la periferia a sud. Si evocano gli spazi naturali di quella che qui era campagna, declinando una idea di piazza aperta, un nuovo spazio urbano che segue il paradigma compositivo L’espressione è attribuita a Bramante per descrivere il senso delle torri. Le stesse parole sono utilizzate per il testo di C. Moccia in Antonio Monestiroli. Prototipi di architettura, Il Poligrafo 2012, pp. 39-41 4 dell’architettura greca e ci propone una rinnovata idea di abitare la città moderna. L’area del Tirone è situata in prossimità del centro del nucleo urbano: si consolida nel periodo di insediamento di Carlo V, tra le mura di fortificazione fatte erigere dal 1500, oggi estesa tra la circonvallazione fino alle spalle del Tribunale (opera di Marcello Piacentini). Il valore paesaggistico di questo sito è già colto, nel 1775, dallo storico messinese Cajo Domenico Gallo, che descrive così: “è questo un raro ed amenissimo sito, ornato di vaghi e graziosi giardini con prospettiva superba donde si scopre la maggior parte della città col suo porto e tutta la Calabria che gli sta di fronte…”. Ma di quei terrazzamenti, che ospitavano giardini e balconi con vista sullo Stretto, rimane solo la traccia, un lontano ricordo; quella natura gioiosa è oggi aspra e pericolosa, e inevitabilmente, si è radicata una situazione di degrado sociale. I progetti che provano a innescare un contributo di idee su quest’area sviluppano tutti un medesimo pensiero: esaltare il valore del vuoto (del giardino terrazzato), celebrare questo vuoto della memoria, attraverso un’architettura eloquente che possa mettere fuori scala i brutti edifici recentemente costruiti, e ridare dunque senso al valore del vuoto. La caratteristica essenziale dell’approccio per un tipo di edificio alto al Tirone, che unifica anche proposte differenti, è individuata nella parte posta a terra:Il basamento è l’elemento che consente di radicare gli edifici al terreno e di costruire la forma dei terrazzamenti. La forma delle torri può assumere geometrie diverse (non avrà mai però una proporzione eccessivamente slanciata), può variare il ritmo con cui anche più torri si succedono, la sintassi e la declinazione delle forme costruttive, rimangono però costanti gli elementi: torri e basamento e il senso delle relazioni tra loro. Capo Peloro Il paesaggio di Capo Peloro è lo scenario imprescindibile per cogliere la ragione dell’abitare in questo luogo. La singolarità di questo paesaggio stabilisce una relazione complessa tra le forme della natura e le forme del costruito, tra il sistema antropico e la conformazione dello spazio naturale: nella relazione tra questi due sistemi risiede la bellezza di questi luoghi. E’ oggi però necessario comprendere quali strumenti ci possono permettere di avvicinare questa bellezza, quali principi orientino il nostro modo di guardare la l’architettura e la natura, ma anche quali ingenuità o velleitarismi si nascondano nelle prese di posizione che invocano la difesa dei loro valori. Capo Peloro ha sempre rappresentato, per la storia della città, l’ideale di bellezza naturale: un esterno al centro abitato, una entità chiaramente distinta, ma al contempo complementare. Anche per questo luogo, la copiosa cartografia del passato, descrive bene la stretta relazione tra città e natura, evidenziando sempre la finitezza della città murata, ed esaltando il luogo della natura: il paesaggio di mare dello Stretto, con i gorghi marini, animato da imbarcazioni e velieri. Si è da sempre manifestato un rapporto di reciprocità tra la città e il paesaggio dello Stretto, l’uno si compendia nell’altro. Il paesaggio dello Stretto di Messina, ha da sempre manifestato un carattere di centralità, in termini di valori simbolici e di concrete opportunità per lo sviluppo della città. Lo scenario metafisico dello Stretto è lo sfondo immutabile di tanti progetti, anche per quell’impresa, oggi accantonata, ma che è stata per lungo tempo al centro di dibattiti e polemiche: la costruzione del ponte. Un’impresa epocale che nel tempo ha perso quella forza propulsiva alimentata dalla passione utopica che aveva caratterizzato i suoi esordi. Dopo anni di ricerche, di verifiche, di controlli, non è rimasto forse traccia di quella ricerca che, bene o male, uomini come Pier Luigi Nervi, Sergio Musmeci, Nino Dardi, Giuseppe Samonà avevano costruito con una ricchezza di idee. Idee e progetti che forse non meritavano l’omologazione tecnica e architettonica dell’ultima proposta, oggi forse definitivamente accantonata. Suggestivo è il progetto per il Ponte sullo Stretto elaborato da Armando Brasini: il “ponte Omerico” presentato nella prima versione nel 1957. Per suddividere la luce da coprire per il collegamento tra le due sponde, Brasini prevede la costruzione di un’isola centrale nel cuore dello Stretto sulla quale collocare un pilone alto oltre 100 metri. In successive varianti lo stesso architetto proverà altre soluzioni in cui si moltiplicano le “isole” , associando alla funzione di transito, una o più soste intermedie nel centro dello Stretto. Come Ponte Vecchio a Firenze o il Ponte di Rialto a Venezia, il ponte è pensato come una struttura abitata che si confronta con la scala del paesaggio. Il progetto elaborato da Sergio Musmeci, Ludovico Quadroni insieme a altri noti progettisti, vince il concorso internazionale bandito nel 1969. La struttura prevede un ponte sospeso a campata unica di 3.000 metri di luce sostenuto da una fitta rete di cavi metallici ancorati a due snelli piloni, in acciaio speciale, alti circa 750 metri: L’esilità della costruzione testimonia la ricerca della ‘perfezione’ tecnica e conferisce al progetto una grande eleganza coniugando insieme l’eloquenza strutturale dell’opera ingegneristica e l’arditezza architettonica alla scala geografica. Significativa la proposta presentata, nello stesso concorso, da Pierluigi Nervi insieme con i figli Antonio, Mario e Vittorio. Come il ponte progettato dal gruppo Musmeci-Quaroni, anche Nervi opta per la soluzione a campata unica. Per assicurare la stabilità laterale dell’impalcato strutturale, Nervi colloca sulle due sponde quattro piloni di sostegno, due per lato e distanziati tra loro per consentire il collegamento dei cavi di acciaio fuori dal piano parallelo verticale. Gli enormi piloni murari, di forma conica, progettati per il sostegno delle antenne di acciaio superiori, e coronati da una ghiera con gli stralli per la stabilizzazione dei cavi, evocano, con la loro presenza, le immagini fantastiche dei mostri omerici che aleggiano nel paesaggio dello Stretto. Medesime figurazioni sembrano guidare i disegni che Giuseppe Samonà propone per la costruzione dei piloni del suo ponte: come due grandi totem, i piloni del progetto del gruppo Samonà, assumono fattezze antropomorfe, enormi guardiani che sorvegliano il transito nel canale tra le due sponde. Lo stesso Giuseppe Samonà, a partire già dal 1960, riflette su una Metropoli futura dello Stretto 5. Con il Gruppo di Urbanisti Siciliani, partecipa al Concorso per il PRG di Messina, elaborando il progetto del Biporto, immaginando un secondo porto in prossimità di Capo Peloro e connotandolo, come per il porto della Città, con la stessa forma a falce. insieme al figlio Alberto e a un nutrito gruppo di amici, elabora, anche in occasione del Concorso del Ponte, l’idea di una nuova città di Messina, ridisegnando l’assetto della costa fino all’attacco del Ponte. Una proiezione utopica per un grande sistema urbano nel quale grandi contenitori di servizi collocati sulle colline, sia sulla sponda siciliana, quanto su quella calabrese, come antiche fortezze, presidiano lo spazio del mare. Una idea di città, quella portata avanti da Giuseppe e Alberto Samonà, nell’arco di quasi trent’anni (possiamo datare l’idea della Metropoli futura dello Stretto dal 1960 al 1987) che incarna, forse più di ogni altra proposta, il carattere straordinario del luogo, lo assume a fondamento dell’eccezionalità della proposta architettonica. E quanto questo sia vero è documentato nella relazione al progetto di Concorso per l’attraversamento dello Stretto. Al termine di quella relazione, nel 1969, Samonà, insieme al suo gruppo, scrivono: “Al termine di questa relazione, può venir fatto di domandarsi se le nostre riflessioni e le nostre scelte siano forse utopiche, prive di basi reali. Se le abbiamo fondate su un’analisi razionale della situazione attuale di quel territorio, come crediamo, anche di aver dimostrato, allora la formulazione del possibile obiettivo non è un difetto, ma significa rafforzamento d’ogni elaborazione e di ogni espressione che tende a trasformare in meglio il territorio. L’utopia è sempre stata un freno solamente quando ha soffocato la riflessione critica sulla realtà e su se stessa e quando ha scombinato la potenziale capacità di mutamento in illusione di tale capacità e tale realtà. Altrimenti, come crediamo nel nostro caso, è l’ottimismo della volontà di mutar le situazioni esistenti”. 5 Cfr. Giuseppe e Alberto Samonà e la Metropoli dello Stretto di Messina, di F. Cardullo, Officina Edizioni, Roma 2006. La città-natura. Riflessioni e progetti Un analogo ottimismo anima le proposte di alcuni progetti per l’area di Capo Peloro; un ottimismo che deriva dalla percezione della grande bellezza del luogo naturale, ma un ottimismo anche accompagnato dalla ferma convinzione che la natura non è genericamente verde e un progetto d’architettura non può essere sostenibile solo in virtù di una presunta vocazione al paesaggio. Queste proposte cercano di riconoscere i caratteri fisici legati alla forma della terra, descrivibili con le stesse categorie delle forme costruite. Caratteri che possono avere un ruolo decisivo nelle scelte insediative, tipologiche e morfologiche che presiedono alla definizione delle forme dell’abitare. L’area di Capo Peloro risulta oggi aggredita da un’espansione indiscriminata che ha di fatto quasi del tutto annullato il carattere extraurbano di questo luogo. Sono state investite, nel tempo, risorse degli abitanti che hanno preferito un modello abitativo fondato sul modello villettopoli, della casa con giardino. A un’aspirazione legittima, quella di una forma di abitare la natura, dello sviluppo di una città in rapporto al suo paesaggio, non ha corrisposto un’architettura adeguata al valore del luogo. Le recenti espansioni intorno a Ganzirri e Torre Faro, a ridosso dei laghi, non hanno saputo riconoscere i caratteri delle costruzioni esistenti, né tantomeno i segni fisici della terra ed esprimere attraverso le forme costruite, una relazione con essa. È la lezione della città antica: assumere la configurazione fisica del territorio come elemento di costruzione della città, come radice etimologica della sua forma.6 In considerazione di questo modo di considerare il rapporto tra architettura/costruzione/ luogo, tutte le scelte del progetto assumono un ordine logico: l’individuazione del principio insediativo ha valore di atto fondativo e le valutazioni in merito alla definizione volumetrica del manufatto, il suo orientamento nello spazio, il suo modo di radicarsi al suolo più che derivare da un tipo definito conducono alla sua stessa definizione. Cfr. La ricerca della forma della città del nostro tempo, di F. Defilippis, in «Aion», rivista internazionale d’architettura, 2012, pp.135-145 6 Il rapporto tra le forme dell’abitare e le forme della natura è la questione centrale per i progetti a Capo Peloro. Nel ripensare a questo luogo si è rinnovato un modo differente di viverlo, rispetto agli attuali usi. Si è sentita la necessità di stabilire una nuova idea di costruire, rispondente alla nostra volontà di curare il territorio, alla nostra aspirazione ad assumere lo straordinario luogo della natura come contesto, alla nostra capacità di riconoscere la bellezza di questa natura. Si è tentato, con queste proposte, di ritrovare quella dimensione unificante tra la città e la natura del luogo, una dimensione spirituale corrispondente alla sensibilità dell’umanità che è del nostro tempo. Sono state progettate architetture che possano rispondere al nostro desiderio di trovare, all’interno dei luoghi abitati, spazi silenziosi, di ampia estensione che sappiano esprimere la sublimità del meditare e dell’appartarsi. L’area di Capo Peloro, quella rimasta inedificata per il vincolo derivato dal passaggio dei cavi elettrici che, fissati al Pilone, si ancoravano alle torri progettate da Riccardo Morandi, ha andamento pianeggiante: una condizione perentoria in cui, prima delle recenti edificazioni, l’orizzontalità della linea di terra tendeva a confondersi con l’orizzontalità del mare; una qualità oggi del tutto compromessa dalle costruzioni esistenti. L’idea è quella di edificare, nell’ampia area libera, una grande struttura architettonica in forma di basamento. Il progetto intende così rinnovare il rapporto originario: l’affaccio sui due mari e la metafisica sospensione visuale sul paesaggio. Il carattere di eccezionalità è descritto anche nella grande estensione, un grande edificio alla scala territoriale , una dimensione rilevante come anche molte tonnare che punteggiano i luoghi di mare del paesaggio siciliano. Una costruzione che contiene al suo interno ampi spazi funzionali che rispondono alla vocazione turistica del luogo: abitazioni temporanee, negozi, parcheggi. In copertura una immensa terrazza protesa verso il mare (anzi verso i due mari, quello Ionio e il Tirreno) e direttamente, attraverso un sistema di rampe, ai percorsi pedonali del centro urbano, inquadra all’orizzonte, lo spettacolo del paesaggio naturale. “Da qui essi possedevano il cielo, le nuvole e la brezza, mentre inaspettatamente la sommità della giungla veniva trasformata in una grande piana aperta. Con questo espediente architettonico essi avevano completamente trasformato il paesaggio e dotato loro vita visiva in una grandezza che corrispondeva alla grandezza delle loro divinità”. Ben si adatta il commento di Jørn Utzon alle piramidi Maya a Tikal in Guatemala per provare a esprimere la sensazione di un grande spazio interposto tra terra e cielo. Un tema affrontato anche per la proposta di un nuovo quartiere affacciato sul Pantano piccolo: come una sorta di Cretto, questo progetto prova a unificare temi architettonici in apparenza distanti: gli spazi urbani del borgo marinaro (il vicolo, la piazzetta, il patio), e il grande spazio aperto sul paesaggio. Il vuoto della grande piazza diventa l’elemento unificante; a questo spazio si legano gli ambiti progettati in riferimento a quelli di piccoli centri marinari, spazi a misura d’uomo connessi alla cultura di un abitare mediterraneo che inducono a verifiche sperimentali di nuovi tipi edilizi. Le forme dello spazio vernacolare della struttura urbana e del patio domestico, vengono declinate provando a ritrovare i caratteri riconoscibili di una tradizione che amiamo e che forse, non abbiamo più saputo tradurre negli spazi costruiti del nostro tempo. La dimensione del Pantano piccolo suggerisce lo spazio di una estesa piazza d’acqua. Come in un interno urbano, alcuni edifici collocati in prossimità dell’imbocco dei canali di collegamento al mare e all’altro Pantano, polarizzano lo spazio e determinano la centralità dello specchio d’acqua. Il vuoto con l’acqua viene assunto come valore nella relazione tra le parti costruite: gli edifici si connotano come architetture urbane –di una piazza appunto. Questi edifici sono proprio pensati sull’acqua, assumono l’aspetto particolare di strutture lignee, come grandi arche ormeggiate, o raffigurano spazi che come negli interni di antiche cisterne, si riverberano nella duplicità dello specchiamento. Il luogo acropolico della collina del cimitero di Sperone, offre spunti suggestivi per consolidare la vocazione di quest’area a essere eletta quale punto privilegiato di osservazione. Il progetto esalta questa vocazione: in un caso prevede un percorso costruito che collega la quota bassa dal Pantano, alla sommità della collina; un’altra ipotesi ipotizza la riconfigurazione dell’area attraverso delle sostruzioni abitate, mura spesse penetrate dalla luce che simbolicamente segnano, con la loro possanza, l’unicità del luogo. Altre sperimentazioni progettuali provano a declinare il tema della casa: se ne riconoscono le parti costitutive, i rapporti, il sistema dei percorsi, le relazioni del contesto in cui si collocano, i modi di affaccio su scorci urbani o sul paesaggio. Queste case evocano attraverso gli elementi della loro costruzione, la presenza del luogo verso cui si rivolgono e da cui prendono senso. Raccontano di relazioni che di volta in volta mutano e fanno mutare l’identità dei fronti. Talvolta i luoghi verso cui si affacciano sono strade, piazze, allora i muri si fanno più spessi, declinano ritmi delle aperture che configurano quinte urbane. Nel principio insediativo che queste case adottano, nell’orientamento che questi edifici scelgono, forte rilevanza assume sempre il sistema degli orti e le trame residuali dell’uso produttivo del contado. Verso questi luoghi si aprono gli spazi aperti della casa dove poter stare, guardare, per sentirsi partecipi del paesaggio naturale: sono logge delimitate da persiane che come grandi tende ombreggiano questi ambienti e li proteggono dal caldo eccessivo. La città balneare Il litorale del mar Tirreno è stato storicamente meta privilegiata dei messinesi nelle stagioni estive. L’architettura dei lidi di Mortelle, realizzati alla fine degli anni ‘50, è testimone di questa consuetudine. Filippo Rovigo, insieme a Napoleone Cutrufelli, ne sono gli autori: negli stabilimenti balneari di Mortelle, gli evidenti riferimenti lecorbusieriani si associano alla ricerca indirizzata verso un’articolazione della costruzione caratterizzata da una plastica architettonica esuberante, ma sempre rigorosa. L’immagine che trasmette la copertura voltata costruita all’ingresso al lido, rimanda alla figura della coda di una grande aragosta e conferma il rapporto che lega questa architettura al paesaggio di mare. Un progetto studiato e sviluppato fin nei più minuti dettagli, sulla scia probabilmente, del lavoro di Mario Ridolfi, amico di Rovigo e a lui legato da comuni impegni professionali in città. L’albergo, il ristorante, la piscina per i tuffi, la rotonda con la pista da ballo, il villaggio delle cabine e quello degli ombrelloni, sono gli elementi della città balneare. Più avanti, verso Capo Peloro, altri lidi, l’Istituto Marino, le dune, la Torre Bianca, ormai, insieme alla struttura di Mortelle, tutti abbandonati in uno stato di degrado architettonico e ambientale. La proposta mira a restituire unità, oltre che dignità, all’intero complesso sistema esteso al litorale tirrenico. La corte viene assunta quale elemento reiterato che relazionano gli spazi della collettività al mare. Una sorta di trasferimento della domesticità rapporta le corti dell’isolato messinese, alle piccole piazze di sabbia, aperte verso il mare, che scandiscono, con il loro susseguirsi, la misura del progetto. Alla cabina tradizionale, icona di una piccola casa al mare, si accompagna l’idea di uno spazio collettivo, di una corte appunto: una idea peraltro già abbozzata nelle cabine stabili della struttura costruita. In copertina: M.Mannino, Lo sguardo di Antonello Acquaforte mm700x500, 2011 Sommario Lo sguardo di Antonello_M.Mannino LA CITTA’ E Il MARE Cantieri Navali nell’area della falce_ A. Sergio Nuovo porto turistico nella rada di S. Francesco_G.Zumbo Polo museale alla foce del torrente Annunziata_D. Mento Riqualificazione architettonica dell’ex ospedale Regina Margherita_T. Pagano, M.Vela, A. Italiano EDIFICI ALTI Risanamento del rione Taormina sulla fiumara Gazzi_V. Ruberto, F. Seminara Risanamento dell’area del Tirone_ Allievi del Laboratorio di Progettazione architettonica 2 (a.a. 2013-14), Università mediterranea di Reggio Calabria. CAPO PELORO Strutture residenziali per il turismo nel villaggio di Torrefaro_M. Formica, T. Maimone Residenze temporanee e servizi sul lungolago (Pantano Piccolo)_G. Maugeri, A. Palamara, M. Oteri Strutture per il turismo sulla collina di Sperone_G. Mazzei, C. Soria Abitazioni nell’area di Capo Peloro_A. Bombaci, V. Ferrara I lidi sul litorale Tirrenico_B.Barlassina