A. Vivaldi

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Concerto di Natale
A. Vivaldi
per soli, coro e orchestra
Beatus Vir
RV 795
Gloria RV 589
per soli, coro e orchestra
La Notte RV 439
per flauto, archi e organo
Cappella Musicale della Cattedrale
Capella Instrumentalis
organo
direttore
Elvira Soresini
don Pietro Panzetti
Lunedì 22 Dicembre 2008 - ore 21
Cattedrale di Lodi
Violini I Marco Bellasi, Ruggero Fededegni,
Stella Cattaneo, Giulia Bizzi
Violini II Gianvito De Giuseppe, Lorenzo Rovati,
Mattia Capuzzo, Gemma Fabriano
Viole Jacopo Zonzin, Giacomo Visintin
Violoncelli Nicola Brovelli, Katy Aberg
Contrabbasso Dario Cherubino
Flauto Luisa Miccoli
Oboe Floriana Currieri
Tromba Simone Telandro
Arpa Chiara Granata
Soli
Baioni Francesca Barbieri Gabriele Bidzogo Jonathan Pe Raffaele Pellicani Rosanna Pulimeno Veronica Soprano
Affaba Costanza
Arioli Matteo
Azab Monica
Baioni Chiara
Barbieri Giulia
Baroni Filippo G.
Belloni Federica
Bonino Katterina
Bosi Margherita
Cavallaro Mattia
Cinelli Elisabetta
Coppola Federica
De Giorgi Martina
Doglio Giacomo
Ferrari Pietro
Ghizzoni Elisabetta
Gualterotti Azra
Locatelli Lara
Maietti Gabriella
Milan Bruno
Molinari Silvia
soprano
tenore
soprano
alto
contralto
soprano
Olivari Micol
Polenghi Silvia
Polidori Cristina
Polidori Elisabetta
Regazzetti Lucia
Reginato Sebastiano
Rocco Matteo
Rossi Valentina
Salvatori Francesca
Sfregola Raffaella
Stabilini Noemi
Susani Pia
Vogogna Fabiola
Contralto
Cesari Angela
Ferri Edoardo
Galli Antonella
Gasparini Claudia
Gelmini M. Laura
Iovacchini Maddalena
Janete Diaz Karen
Malabarba Maria
Mascaretti Patrizia
Paladino Mariella
Sfregola Michela
Torri Carla
Zanoni M. Emilia
Zuffetti Rosanna
Tenore
Biffi Luigi
Dedé Andrea
Fiazza Angelo
Galli Francesco
Grugni Emilio
Mazzolani Francesco
Pe Alberto
Sala Alessandro
Basso
Baroni Emilio
Bidzogo Anthony
Bossi Filippo
Farina Federico
Grandi Daniele
Prina Dario
Sozzi Stefano
Zampatti Davide
Zampatti Gilberto
Valenti Giulio
Chartae quae fuerunt
Rivivono note perdute tra i soffi del tempo:
la musica sacra e strumentale di Vivaldi
Colui che ‘l tutto fe’, fece ogni parte
e poi del tutto la più bella scelse,
per mostrar quivi le sue cose eccelse,
com’ha fatto or colla sua divin’arte.
(Michelangelo, Rime, 9)
Premessa
Agli ultimi visitatori che lo interrogavano sul problema del tempo, Jorge Luis Borges amava ricordare una sentenza di Sant’ Agostino: “Non in tempore, sed cum tempore
Deus creavit caela et terram”. Con essa rispondeva al più angosciante enigma che la
mente dell’uomo continua a porsi e a subire.
“Ma la musica non è quell’arte nata da alcuni semplici giochi del tempo?”: forse
nessuno, tra coloro che stasera si sono recati nella Cattedrale laudense per il tradizionale concerto natalizio, potrebbe dire di non essere mai stato assalito da una
domanda simile.
E allora tutto assume una nuova dimensione, come in quei versi che Alfred Tennyson si portò quale viatico dopo i suoi studi al Trinity College di Cambridge: “Time
is flowing in the middle of the night”, “Il tempo sta fluendo nel mezzo della notte”.
Dove ci si immagina che tutto il mondo dorma mentre il fiume del tempo invade
lentamente ogni cosa.
In realtà c’è un’altra dimensione del tempo che non lascia tranquillo chi s’interessa di musica. Molto semplicemente è quella che si può chiamare dimenticanza.
Quando si va in biblioteca e si apre un libro di spartiti, nella nostra mente rinascono alcune note. Possono essere delle più famose oppure far parte del genere
dimenticato. In questo caso ciò che rivive in noi è un mondo svanito, la cui unica
traccia è tutta racchiusa in quei righi. Uomini che hanno composto, si confondono
con i loro ascoltatori e con quel tempo che li ha ospitati, osannati, umiliati. Di
essi possiamo anche non aver sentito parlare e per capire quelle note cerchiamo
dunque qualcosa di loro nei grandi repertori. Con stupore ci si accorge che tutto
quell’universo di armonie lasciatoci, compresi i successi dinanzi a papi e re, non
merita che alcune righe.
Ma per arrivare al nocciolo del discorso, diremo che in musica ci sembrano più utili
quelle iniziative che cercano di sanare quella dimenticanza e di riproporre quella
dimensione perduta anziché quelle che si ostinano a ripetere senza tregua le stesse
cose, quasi per paura che il tempo le faccia scivolare lentamente nel silenzio.
Detto in altri termini, ci pare che un’iniziativa come quella che si celebra a Lodi,
ogni anno, in Cattedrale, sia preziosa per tutti coloro che vogliano visitare le dimore dei suoni dimenticati. Grazie a essa in questa occasione la Cappella musicale
vuole stringere a sé nel segno della musica e secondo il suo stile tutti quanti ne
apprezzano e sostengono il faticoso lavoro e insieme ad essi far rivivere un mondo
popolato da nomi certamente noti che non sempre è agevole ascoltare dal vivo.
Quest’anno il programma di sala prevede tutte musiche vivaldiane, il celebre Gloria
RV 589 e il meno noto Beatus vir RV 795 eseguiti dal Coro, dai solisti della Cappella
musicale della Cattedrale e dall’orchestra Capella Instrumentalis Laudensis diretti da
don Piero Panzetti. Una nota di merito deve essere tributata ai solisti. Mentre nelle
precedenti edizioni e rassegne si ritenne opportuno chiedere il supporto di professionisti esterni, quest’anno le parti solistiche dei pezzi in programma saranno affidate esclusivamente ad alcuni membri della Cappella la cui voce ha raggiunto ormai una maturità ed una preparazione atte sostenere pagine di grande impegno.
Più semplicemente, ecco l’augurio: grazie alla loro voce e a quella dell’intera compagine, si rivivano la sostanza e i colori di quel musico che solo il tempo ha degnamente onorato.
1. Antefatto
Antonio Vivaldi è un musicista piacevole ma non certo facile. Non è nemmeno
“rilassante”, come crede qualcuno; né la sua musica - finita nelle attese telefoniche e inflazionata da infiniti arrangiamenti - venne scritta per completare l’arredamento. Si direbbe un “divulgatore” inconsciamente geloso del suo messaggio. Del
resto, la sua scomparsa, avvenuta nel luglio 1741 a Vienna, non suscitò nemmeno
particolare clamore. Le grandi virtù che si erano esaltate nel corso della sua vita
sembravano un ricordo. Il compositore, il direttore d’ orchestra, il violinista e anche il didatta parevano finiti insieme al corpo di quel “prete secolare di anni 66” in
una misera fossa del cimitero di Santo Stefano.
Per un secolo e mezzo questa visione delle cose fu confermata anche dalla letteratura, più o meno critica. Il nome di Vivaldi per tutto l’Ottocento si poteva trovare
soltanto nei repertori musicali o citato avaramente qua e là. L’ Italia fu cucita senza
tener conto della sua musica. Poi successe qualcosa.
Non è facile scrivere cosa fu quel “qualcosa”, perché si trattò di una serie di interventi nati grazie alle indagini su Bach (sono da ricordare quelli di Julius Ruhlmann
del 1867 e di Paul Waldersee del 1885). E’ certo che dopo di essi il Prete Rosso
- come si imparò a chiamarlo - cominciò di nuovo ad avere una sua identità; inoltre
ci si accorse che egli aveva interessato il sommo Johann Sebastian. Il compositore
tedesco ne aveva subito l’ influsso, come provava anche la grande biografia dedicata al Kantor da Philipp Spitta, uscita tra il 1873 e il 1880. Così, alla fine del secolo
scorso, questo strano religioso che si era molto lamentato dei propri acciacchi e
aveva viaggiato senza tener conto degli stessi rientrava, seppur non dall’ingresso
principale, nella musica. E siccome anche un modesto interesse, in alcuni momenti
storici, ha valore di scoperta, cadeva il muro di silenzio che abilmente la lirica italiana aveva innalzato per far dimenticare i maestri non votati completamente al canto
(Giuseppe Verdi, in quegli anni, ripeteva che “L’arte nostra non è l’istrumentale”).
Un secondo momento di luce sull’opera del “sior Antonio” arrivò all’ inizio del
nostro secolo, prima della Grande Guerra. Si capì che era stato un pioniere del
concerto. Non era una qualità da poco. Il suo nome cominciò a circolare seriamente tra gli addetti ai lavori e infine giunse tra gli ascoltatori. W. Altmann nel 1922 ci
diede un catalogo delle opere stampate da Vivaldi quando era ancora in vita1. Ma
occorre ancora qualche anno per rendere giustizia a questo veneziano sottovalutato per troppo tempo.
L’occasione la offrì una scoperta sensazionale fatta a Torino dal direttore della Biblioteca Nazionale, Luigi Torri, e da un professore di storia della musica, Alberto
Gentili. Consultati per una valutazione dai salesiani su una vendita di manoscritti
musicali (necessaria per i lavori di restauro del loro collegio), si accorsero che quella sconosciuta raccolta dove si trovavano 300 concerti, 8 sonate, 14 opere complete, 7 volumi di composizioni sacre e profane era di Vivaldi. Il banchiere torinese
Roberto Foà comperò il tutto per donarlo alla Nazionale di Torino.
Ma la storia ebbe un seguito.
Gentili si accorse che le partiture rilegate in cuoio di maiale non erano complete,
proprio osservando la loro numerazione. Con Torri iniziò la seconda parte della
caccia al tesoro, cercando di rintracciare i discendenti della famiglia Durazzo, da
cui proveniva quel tesoro. Dopo non poche ricerche si scoprì che a Genova viveva
il marchese Giuseppe Maria, un epigono di quel casato. Grazie all’aiuto del confessore di questo vecchio misantropo, il gesuita Antonio Oldra, si riuscì a entrare
nella sua disordinata biblioteca e a scoprire la restante parte. Certo, ci volle del
tempo e tutta l’abilità del religioso per convincerlo a cedere anche queste partiture.
Alla fine il fabbricante di tessuti torinese Filippo Giordano mise i soldi necessari:
e dal 1930, anno dell’atto, la collezione reca il nome di Foà e Giordano. Nel 1936
alla Chigiana di Siena si realizzò il catalogo delle opere torinesi e, finalmente, nel
1. W. Altmann, Thematischer Katalog der gedruckten Werke Antonio Vivaldis, «Archiv für Musikwissenschaft» IV (1922),
p. 262-279.
settembre 1939, alcune di esse - rivedute da Casella, Mortari e Frazzi - furono
eseguite2.
La conoscenza e la fama si solidificarono nel dopoguerra. Fu, come lo chiama
Michael Talbot3, il quarto momento - o fase - di rivalutazione. Nel 1948 Marc Pincherle pubblicava a Parigi il suo importante Antonio Vivaldi et la musique instrumentale. Cominciò in quel tempo anche l’edizione completa dell’opera strumentale sotto
l’egida dell’Istituto Vivaldi di Venezia. Quindi uscirono non poche monografie4.
Tutto questo discorso lo abbiamo fatto per ricordare al lettore che Vivaldi è un
compositore giovane e che di studi “definitivi” ne mancano ancora.
2. La Venezia del ‘700: il Doge e i mendicanti
2.1 La Cappella Ducale
Il luogo primo di espressione della musica sacra a Venezia, da sempre, e dunque
anche nel ‘700, è la Cappella Ducale di San Marco. Si tratta di un’istituzione già
secolare nell’età in cui Vivaldi spende la propria esistenza; e quindi dotata di una
tradizione solidissima che diviene essa stessa simbolo dell’orgoglio e della forza
indipendente della Serenissima. Di ciò è perfettamente consapevole la Procuratia de
Sopra, responsabile del buon ordinamento della Cappella, quando un anno prima
della nascita del «Prete rosso», nel 1677, mette mano a una riorganizzazione della
Cappella stessa definendola «gioia ch’adorna il suo diadema regale che lo fa risplendere in
faccia a tutto il mondo cristiano, ch’ammira in essa non solo la singola pietà della Repubblica,
ma anche la sua regia grandezza».
Nell’evidenza della necessità autocelebrativa e nell’impulso forte della rappresentanza simbolica, Venezia concentra sforzi economici e politici nel mantenimento
ad alto livello della Cappella Ducale. Si ricordi, per necessità di comprensione, che
San Marco non possiede il titolo di cattedrale della città della laguna fino al XIX
secolo, ed è emanazione diretta del potere tutto laico del Doge. I Procuratori di
San Marco che si occupano di ogni pertinenza spettante alla basilica, appartengo-
2. Settimana celebrativa di Antonio Vivaldi, sotto gli auspici della reale Accademia d’Italia. Programma delle manifestazioni.
Accademia Musicale Chigiana, Arti Grafiche Lazzari, Siena 1939.
3. M. Talbot, Vivaldi, trad. it., EDT, Torino 1978.
4. Val sempre la pena leggere quella di W. Kolneder, Vivaldi, trad. it., Rusconi, Milano 1978 o quella recentissima
di E. Pozzi, Antonio Vivaldi, L’Epos, Palermo 2007. Per quanto riguarda la musica sacra e strumentale la sintesi
critica più completa è offerta rispettivamente da M. Talbot, The sacred vocal music of Antonio Vivaldi, L. S. Olschki,
Firenze 1995 e C. Fertonani, La musica strumentale di Antonio Vivaldi, L. S. Olschki, Firenze 1998. Merita, soprattutto per capire il clima sociale e politico in cui si muove il musicista, G. Formichetti, Antonio Vivaldi. Venezia e il
prete col violino, Bompiani, Milano 2006.
no alle più importanti famiglie patrizie e ricoprono una carica appena inferiore a
quella del Doge. La Cappella è dunque non solo funzionale alle cerimonie sacre
«di stato», ma è anche e conseguentemente controllata dai vertici dello stato stesso.
Dalle decisioni dei Procuratori dipende la nomina delle cariche chiave all’interno
dell’istituzione, a cominciare da quella riguardante il «primo maestro», e cioè il
maestro di cappella, via via fino a tutti gli altri musicisti e cantanti.
Occorre dire, però, che se da un lato la Cappella Ducale si rivela un’istituzione
di sicuro e durevole impiego per i musicisti in Venezia, dall’altro, a causa della politica dei bassi salari, le condizioni per il buon lavoro vengono a mancare
particolarmente per i maestri di cappella. Le forze produttive dei musicisti sono
così assorbite in vario modo da altre istituzioni: oltre alla libera professione come
cantori, strumentisti e insegnanti, esiste nella Serenissima l’articolato sistema del
teatro d’opera, ma, per coloro che erano già impiegati a San Marco, era anche e soprattutto viva la possibilità di avvicinarsi a uno dei quattro Ospedali Grandi della
città. Questi ultimi - San Lazzaro dei Mendicanti, Santa Maria della Visitazione o
della Pietà, Gesù Salvatore degli Incurabili e Santa Maria dei Derelitti detto Ospedaletto - formavano insieme alla Cappella Ducale la struttura di base della musica
istituzionalizzata di Venezia.
2.2 Gli Ospedali veneziani
«Gli ammalati, lui li vide soltanto più tardi; quando gli uomini che lo avevano lavato lo accompagnarono alla cella che gli era stata assegnata al secondo piano dell’edificio, e per arrivarci
gli fecero percorrere un lungo corridoio con tante inferriate da una parte e dall’altra. Ognuna di
quelle inferriate era l’ingresso di una stanzetta e in ogni stanzetta viveva un matto: ce n’erano
di incatenati che gridavano, ce n’erano di appesi alle sbarre che guardavano il nuovo arrivato
con occhi spiritati, ce n’erano con le mani chiuse nei manicotti e le bave alla bocca, ce n’erano
di apparentemente tranquilli che chiedevano a Mattio come si chiamasse e da dove venisse, ce
n’erano perfino che si voltavano dall’altra parte, verso il muro e verso la finestra, perché le novità
gli davano fastidio»5.
La descrizione del «manicomio» di San Servolo così come visto da Vassalli non
deve allontanarsi troppo da una media visione di uno degli Ospedali veneziani,
luoghi a sprofondamento piramidale, a immagine e somiglianza della struttura
sociale della Serenissima.
Prendendo infatti in considerazione soltanto i quattro Ospedali Grandi, possiamo
notare che la base della piramide è formata dai reietti ultimi, malati cronici, infer5. S. Vassalli, Marco e Mattio, Einaudi, Torino 1992, p. 302.
mi, anziani; appena sopra i malati e i mendicanti - raccolti e poi di nuovo, dopo
pochi giorni «instradati» - quindi via via verso l’apice, rappresentato dalle figlie di
comun e soprattutto dalle figlie di «coro», donne orfane o abbandonate in tenera età
dalle loro madri e dai loro padri. Gli Ospedali Grandi, enti caritativi nati anticamente, a differenza di altre istituzioni ospiziali della Serenissima, coltivavano infatti
al proprio interno le giovani orfane alla musica per fini educativi ma anche, ancora
una volta, per necessità di rappresentanza.
Gli ospedali venivano gestiti da una congregazione laica aiutata dalla Repubblica
Veneta e svolgevano, per dirla con E. Surian, un funzionale ruolo di «esorcismo
collettivo»6, nel raccogliere e sottrarre alla vista l’indesiderato «prodotto sociale»
della miseria e dell’emarginazione. Nel distinguersi dagli altri ospizi caratterizzati
dall’uso della pena, gli ospedali si ammantano di un volto artistico giustappunto
con l’ornamento delle figlie di «coro». Anche l’ordinamento del coro è gerarchicamente piramidale, in modo da essere controllato in tutti gli aspetti per il quale
esso è funzionale: devozionali, economici e di rappresentanza. Sono solo le donne
a partecipare al coro; i giovani maschi vengono velocemente avviati a un’attività
lavorativa o alla carriera ecclesiastica.
La direzione artistica ed economica era affidata a due «deputati sopra il coro»;
direttamente alle loro dipendenze c’erano due «maestre di cori»», che si occupano
della musica vocale e di quella strumentale. Le due maestre lavoravano anche al
mantenimento dell’ordine del personale e dell’organizzazione dell’attività musicale, ottenuti con la collaborazione di un buon numero di «sottomaestre» impegnate
anche nell’insegnamento dei rudimenti musicali. Seguivano infine le cantanti e le
strumentiste con le loro apprendiste e assistenti. La presenza maschile assumeva i connotati dell’estraneità: gli amministratori vi ricorrevano a malincuore - per
motivi economici, etici e di gelosa conservazione dell’immagine dell’Ospedale - al
fine di utilizzarla nell’ambito dell’insegnamento avanzato e nel ruolo di maestro di
cappella. E’ dunque in questo modo che trovavano possibilità d’impiego i musicisti
della Cappella Ducale o gli artisti alla ricerca di un lavoro di prestigio o comunque
economicamente rilevante.
L’alto livello esecutivo dei «cori» degli Ospedali era necessario e funzionale all’incremento degli introiti degli istituti stessi, che affiancavano all’esecuzione dedite
alla devozione quelle con ingresso a pagamento con vendita degli «scragni». Così
negli Ospedali facevano la loro comparsa come maestri di cappella musicisti quali
Nicola Porpora e Johaun Adolf Hasse, Francesco Gasparini e Benedetto Vinac-
6. F. Caffi, Storia della musica sacra nella già Cappella ducale di S. Marco in Venezia, dal 1318 al 1797, Riedizione annotata
con aggiornamenti bibliografici al 1984 a cura di Elvidio Surian, L. S. Olschki, Firenze 1987, p. XII ss..
cesi; e come Antonio Vivaldi, che avrebbe portato l’orchestra della Pietà a fama
internazionale nel periodo (1703-1740) del suo servizio presso questa istituzione.
Lo straordinario livello delle esecuzioni dei «cori», che tendevano a diversificare
il loro repertorio intorno agli anni ‘40, è testimoniato, oltre che dalle partiture
sopravvissute, dai resoconti di viaggiatori amanti ed esperti di cose musicali. Non
si sottrassero al fascino dei racconto legato all’esperienza dell’ascolto di questi
concerti le penne di de Brosses, Rousseau, Burney e infine Goethe, mentre nei
sotterranei degli ospedali languivano non solo le miserie della Serenissima, ma
dell’umanità tutta7.
3. Il Maestro della Pietà
3.1 L’uomo Vivaldi attraverso l’epistolario
Viaggiatore nonostante i mille acciacchi di cui soffriva, Vivaldi ha percorso terre
molto più con le sue opere che con le carrozze. Brillante, accattivante, capace di
note guizzanti che calamitano subito l’attenzione, egli resta comunque un enigma.
Sappiamo troppo poco della sua vita, delle situazioni che visse senza sosta, della
sua stessa identità. Mentre le sue note sembrano chiare, lui, l’artefice, è sfumato.
Mentre gli editori stampano quel che capita del grande maestro veneziano - e i loro frontespizi raccontano il credito e la fortuna che incontrò - lui sembra rintanarsi. I
Commemorali di Pietro Gradenigo (1758) fanno intendere di una favolosa ricchezza
sperperata dal musicista (ben 50 mila ducati) ma poi muore povero a Vienna. Nella
lista delle spese sostenute per il funerale c’è quel Kleingleuth (meglio Kleink Gelaute)
che significa “scampanio semplice” del costo insignificante di due fiorini e trentasei centesimi, che veniva eseguito per i più poveri se non per i miserabili.
Impensabile per un uomo che riuscì a sperperare una fortuna, perché sarebbe bastato anche il ricordo per aggiungere qualche tocco alla campana mortuaria.
Ma per conoscere più da vicino il musicista può essere interessante una rapida incursione nelle lettere del nostro. Dell’epistolario di Antonio Vivaldi, probabilmente assai vasto, a noi sono pervenute soltanto 13 lettere. Quasi niente. Tra l’altro,
sono epistole composte tra il 1736 e il 1739 e tutte indirizzate alla stessa persona:
il marchese Guido Bentivoglio d’Aragona. C’è di più: queste reliquie preziose si
riferiscono alle contrastate relazioni tra il musicista e il solo ambiente teatrale ferrarese. Se da tali missive si espungono riverenze, saluti, inchini e tutti quegli orpelli di
7. Su tutta la questione ed ulteriori approfondimenti si veda G. Rostirolla, L’organizzazione musicale nell’Ospedale
veneziano della Pietà al tempo di Vivaldi, «Rivista musicale italiana» XIII (1979), p. 160 ss., M. Talbot, Vivaldi, cit., p.
21 ss., E. Pozzi, op. cit., p. 23 ss. e p. 47 ss., G. Formichetti, op. cit., p. 21 ss.
10
cui godeva il Settecento, se si tolgono le richieste di denaro, dovremmo convenire
che resta ben poco per i curiosi. Eppure, se si vuol conoscere Vivaldi e accostarsi
alla sua musica, occorre proprio partire da qui, precisamente dalla lettera datata
“16 Novembre 1737”. E’ un documento-chiave per conoscere questo musicista
enigmatico che non cessa di catturare l’attenzione con la sua musica limpida e di
stupire con i segreti della sua vita.
Ma ora ci tiriamo da parte e ci facciamo spiegare da Vivaldi chi era Vivaldi8.
“Sono venticinque anni - scrive il musicista - che io non dico messa, né mai più la dirò, non per
vieto o comando, come si può informare sua Eminenza, ma per mia elezione, e ciò stante un
male che patisco “a nativitate”, pel quale appena ordinato sacerdote, un anno o poco più ho detto
messa, e poi l’ho lasciata avendo dovuto tre volte partir dall’ altare senza terminarla a causa
dello stesso mio male”.
I pettegoli, ovviamente, sostenevano un’altra versione. Questa: Vivaldi abbandonava sì l’altare, ma soltanto per recarsi in sacrestia, afferrare carta e penna e comporre una fuga. Andiamo oltre, sempre con quella lettera del 16 novembre 1737.
Annota il musicista: “Per questo io vivo quasi sempre in casa, e non esco che in gondola o in
carrozza, perché non posso camminare per male di petto ossia strettezza di petto”. Da queste
parole si potrebbe dedurre che egli soffrisse di una forma di asma bronchiale più
che di epilessia. Tuttavia, nella frase seguente, c’è motivo per credere che il difetto
di Vivaldi non fosse stato cosa da poco. E la sua malattia dovette essere di dominio
pubblico: “Non v’ è alcun cavaliere che mi chiami alla sua casa, nemmeno l’istesso nostro Principe, mentre tutti sono informati del mio difetto. Subito dopo il pranzo ordinatamente io posso
andare, ma mai a piedi. Ecco la ragione per la quale non celebro messa”.
Viene da chiedersi come quest’uomo potesse comporre con tanta fecondità, lasciandoci uno dei cataloghi tematici più vasti della storia della musica. Ecco la sua
risposta: “Tutto quello ch’io posso fare di bene, lo faccio in casa e al tavolino. Per questo ho
l’onore di carteggiare con nove Principi d’altezza, e girano le mie lettere per tutta Europa”.
Affermazioni, quest’ultime, da prendersi con la giusta cautela. Vivaldi fu un grande
viaggiatore. Ma anche per questa sua caratteristica ha la risposta pronta: “I miei
viaggi mi costarono sempre molto, perché sempre gli ho fatti con quattro o cinque persone che mi
assistettero”. E’ difficile ritrarlo in maniera definitiva, caratterizzarlo.
In quel pugno di lettere c’è anche qualche affermazione che ci consente di immaginare un uomo senza tempo, sempre alla ricerca di musiche, sempre inseguito da
commesse. L’affermazione contenuta nell’epistola del 30 novembre 1737 è significativa: “Ho differito sino a oggi le mie risoluzioni ma finalmente se io sono stato assassinato
dal tempo, non posso tradire gli altri...”. E più sotto: “Il tempo non mi permette replicare”.
Ma chi era questo musico a cui dobbiamo accostarci con cautela, della cui vita
8. Cfr. O. Rudge, Lettere e dediche di Antonio Vivaldi, Ticci, Siena, 1942.
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conosciamo frammenti, che nacque in circostanze quasi insolite e che morì avvolto
da situazioni misteriose?
3.2 Qualche notizia biografica
Frugando nel suo albero genealogico troviamo un nonno, panettiere a Brescia,
deceduto nel 1666. Fu la nonna Margherita a stabilirsi a Venezia, col giovane figlio
Giambattista, che è poi il papà di Antonio. La mamma del musicista era tale Camilla Calicchio, figlia di un sarto. Nel suo certificato, sotto la data 6 giugno 1676,
vi è anche l’indirizzo dello sposo: “Nelli forni in contrà di S. Martin”. C’è quindi
da credere che Giambattista Vivaldi esercitasse per un certo periodo l’attività del
padre, cioè il panettiere. Senonché, sul documento di battesimo di Antonio, registrato il 6 maggio 1678, due mesi e due giorni dopo la nascita, il babbo è indicato
semplicemente come “sonador”. Ma si può andare oltre. In uno dei documenti
riguardanti uno dei suoi 6 o più figli, Giambattista Vivaldi è associato al mestiere
esercitato da un suo figlio, da Francesco Gaetano precisamente: e in questo caso
si sostiene che egli facesse il barbiere. Anche sul cognome del papà di Antonio si
può discutere. Sappiamo, ad esempio, che il 23 aprile 1685, lo stesso giorno in cui
Giovanni Legrenzi venne elevato alla carica di maestro di cappella in San Marco,
“Giovanni Baptista Rossi” fu assunto nella basilica veneziana come violinista. Quel
“Rossi”, o altre volte “Rossetto”, fu probabilmente un soprannome. Può essere che
gli derivasse dal colore dei capelli, e che poi tale specifica venne ereditata dal figlio
Antonio, che diventò “Il prete rosso”. Può anche essere però che questo nome indicasse qualcosa di più. Non tentiamo ipotesi, ma è certo che i figli di Giambattista,
Antonio escluso, non disdegnassero di attendere alla poco nobile arte del grassatore, derubando i passanti per calli e campielli. Se dalle origini si fa un salto e si va
a sbirciare la biografia verso la fine, si scoprono soltanto enigmi. Anzi, la morte di
Vivaldi è più misteriosa della sua nascita. Egli se ne andò nel 1741, dopo un viaggio abbastanza strano. Probabilmente il suo ultimo atto a Venezia è la direzione di
un concerto in onore di Federico Cristiano Elettore di Sassonia, il 21 marzo 1740.
Partì dalla sua città forse in aprile o almeno così si crede. C’è una nota di diario
del duca Ulrich von Meiningen che racconta un tentativo fallito di incontrare il
compositore. E poi una data certa: il 28 giugno. In quel giorno Vivaldi vendette
diverse sue partiture ad Antonio Vinciguerra, conte di Collalto. Quel che segue tale
indicazione dovette essere una vita di stenti, di privazioni. La morte reca visita a un
Vivaldi immerso nella miseria più nera. Il giorno stesso viene sepolto nel cimitero
dell’Ospedale, come risulta dal registro dei morti della parrocchia del duomo. E’
il 28 luglio 1741. La causa è anch’ essa avvolta di mistero. Quell’ “innerlicher Brand”
12
scritto da una mano che forse conosceva qualcosa di medicina, significa semplicemente “infiammazione interna”. Ben poco per uno dei più grandi musicisti di tutti
i tempi. Eppure non c’è altro. Soltanto privazioni e delusioni: l’eterna signora andò
a visitarlo nella casa della vedova di un sellaio di nome Waller, o Wahler, i funerali
furono quelli dei poveri. Se ciò non fosse successo prima, si potrebbe scrivere che
ebbe una fine mozartiana.
Proprio a Vienna. Certo, come Mozart, anche Vivaldi ebbe onori e denari e dissipò
ogni cosa. Fu così, almeno se vogliamo credere a quanto scrisse il memorialista
veneziano Pietro Gradenigo appresa la notizia: “L’abbate D. Antonio Vivaldi, eccelentissimo sonatore di violino, detto il Prete Rosso, stimato compositore de concerti, guadagna a’ suoi
giorni cinquanta mille ducati, ma per sproporzionata prodigalità morè miserabile a Vienna”9.
3.3 Mistero e fortuna di un grande musico
Un altro aspetto in cui ha lavorato il mistero è la sorte della sua musica. Vivaldi è
una scoperta recente, addirittura degli ultimi decenni. Prima c’è soltanto un gran
silenzio. Un silenzio interrotto dalla testimonianza di Johann Sebastian Bach. Il
sommo Kantor trascrisse dieci dei concerti del musico veneto: sei per clavicembalo,
uno per quattro clavicembali, tre per organo. Questo lavoro di grande rilettura
gli rivelò un nuovo settore della composizione strumentale. Quasi certamente vi
attinse l’idea della composizione tripartita, che darà origine alla sinfonia, quindi un
certo modo di far cantare gli strumenti ad arco, senza il quale non avremmo quei
sublimi e dolci movimenti lenti dei suoi concerti per violino. L’elenco dei debitori
è troppo lungo, non si ferma certo a Bach. Un grande capitolo si potrebbe scriverlo sul caso Handel. E poi su tutti i compositori di quella Venezia ormai morente
ma straripante di musica. All’appello dovrebbero rispondere Alessandro Scarlatti,
Benedetto Marcello, Galuppi detto il Buranello, l’altro Scarlatti, quel Domenico
che andrà a morire a Madrid, i Veracini, i Tartini, i Locatelli e una lunga teoria di
musicisti che operarono in Francia, Inghilterra e Germania. Eppure sulle partiture
di Antonio Vivaldi scese un silenzio di due secoli.
Può essere anche che questa indifferenza nacque dalla poca conoscenza dell’immensa raccolta di manoscritti da lui lasciata, in cui frugò soltanto qualche anima
isolata. Sappiamo che alla sua morte una gran quantità di partiture autografe dei
suoi lavori venne acquistata dal bibliofilo Jacopo Soranzo. Costui fece quel che
9. Per ragguagli più completi sulla complessa cronologia della vita di Vivaldi, oltre alle due biografie citate di W.
Kolneder e E. Pozzi, si può vedere l’accurato libro di K. Heller, Vivaldi. Cronologia della vita e dell’opera, L. S. Olschki,
Firenze 1991.
13
ogni bibliofilo ama fare dinanzi a un blocco di preziosa carta: la fece rilegare.
Forse qualche opera lo era già , ma quel che importa è che da quel coacervo si
ricavarono 27 volumi. Sappiamo anche il nome dell’acquirente che seguì: il conte
Giacomo Durazzo, ambasciatore imperiale a Vienna dal 1764 al 1784, di cui s’è
già detto. Poi anche il signor conte morì e i manoscritti si divisero in due parti.
Soltanto intorno al 1920 fu possibile riunirli, dopo un paziente lavoro investigativo
e diplomatico di Alberto Gentili. E quando furono riuniti, a Torino, si poterono
finalmente studiare.
In margine a tutto ciò, a questa vita interessante e misteriosa, immersa in una
musica che non abbiamo ancora sondato a fondo, che il tempo ha restituito solo
in parte, c’è il nostro bisogno di capire continuamente questi uomini che vissero
creando spontaneamente arte e c’è un messaggio che non riusciamo completamente a decifrare. Non è il caso di chiedersi, come si usava qualche anno fa sull’onda
delle critiche impastate di sociologia, che senso abbia la musica di Vivaldi, quanto
piuttosto accorgersi che esistono musiche che vivono anche senza il nostro aiuto,
senza gli spintoni e le adozioni della moda. Vivaldi va messo tra quei musicisti che
hanno avuto il privilegio di colloquiare con l’eterno.
4. Guida all’ascolto
Il Concerto di Natale 2008 della Cappella musicale della Cattedrale ci propone
un polittico che include due fra le composizioni più significative della produzione
sacra vivaldiana e, come “sipario” strumentale fra i due brani vocali, un concerto
per flauto ed orchestra. In esse è riassunta la poetica religiosa del compositore
veneziano che, come abbiamo visto, dedicò gran parte della sua energia creativa
alla musica profana.
Pur indotta da circostanze del tutto casuali, la nicchia sacra che il Prete Rosso si
scavò nella sua vorticosa produzione di musica fu importante. E soprattutto rivelatrice di un’identità stilistica che il nostro autore non era disposto a «patteggiare». In
altri termini: quando Vivaldi scrisse musica per la chiesa non allentò in alcun modo
la sua strepitosa carica di vita, la sua innata curiosità timbrica, la sua instancabile
sovreccitazione dinamica, il suo sontuoso senso del colore.
Ma è questa, si dirà, musica adatta alla liturgia? Una musica che sembra scaturire
dallo spartito di un concerto o dalla sensualità di un’aria? Sì: questa è musica pensata per un ambiente come quello veneziano, ove sacro e profano sono naturalmente
congiunti nell’identità culturale della città.
Comprendere ciò, significa inquadrare nel modo più corretto la musica sacra di
Vivaldi. Inutile ricercarvi l’assorto tratto meditativo che potremmo trovare in al-
14
tre musiche liturgiche coeve. Per Vivaldi era diverso: per lui comporre un Gloria
significava sì esaltare la gloria di Dio, ma voleva dire anche esaltare con fierezza il
potere civile della sua città e, non di meno, la sua stessa identità di compositore.
I caratteri della produzione sacra di Vivaldi dai quali si resta immediatamente colpiti sono la fastosità barocca e lo sfarzo sonoro, che il compositore ottiene con
un largo impiego di mezzi vocali e strumentali, con l’immissione di elementi dello
stile concertante «profano», con un’estrema varietà di scelte stilistiche e costruttive.
Questa propensione alla “spettacolarità” mondana è un tratto distintivo di tutta la
musica sacra del tempo di Vivaldi; ma possiamo ritenere che essa fosse particolarmente accentuata all’Ospedale veneziano della Pietà, le cui esecuzioni avevano per
protagoniste le celebri «putte», eccellenti virtuose nel canto e negli strumenti, tanto
che i concerti della Pietà erano frequentati dagli stessi cantanti dei teatri veneziani.
4.1 Gloria in re maggiore RV 589 (edizione critica a cura di G. F. Malipiero)
2 soprani, alto, coro a 4 voci, oboe, tromba, archi, basso continuo
Non è questo l’unico Gloria scritto da Vivaldi. Il «Prete rosso» ne compose almeno
tre: uno è andato disperso, un secondo è il Gloria RV 588, anch’esso in re maggiore, e l’altro, il più celebre, è il Gloria RV 58910, eseguito questa sera. Quest’ultimo,
con tutta probabilità composto nel 1713, presenta un organico sfarzoso: i solisti
sono due soprani e un contralto, il coro è a quattro voci e accanto agli archi, col
basso continuo, si schiera una parte di oboe e una di tromba. Uno spiegamento di
forze che già da solo dichiara giubilo e luce, caratteristiche che ritroviamo lungo i
dodici numeri o momenti musicali che distribuiscono il testo del Gloria secondo la
tendenza mondana e concertante dell’epoca11.
Tale tendenza faceva sì che testi di per sé unitari, come appunto quello del Gloria,
venissero suddivisi in tanti frammenti, ognuno dei quali riceveva una veste musicale autonoma. La composizione si risolveva, perciò, in una successione di movimenti - cioè brani di senso compiuto - ognuno dei quali era trattato in modo musicalmente contrastante: si alternavano momenti sfarzosi o severi, solistici o corali,
omofonici o contrappuntistici. E’ evidente che un simile processo di frammentazione è funzionale all’interpretazione musicale del testo sacro, alla sua riduzione a
una dimensione umana, e che questa favorisce, a sua volta, la drammatizzazione
10. La sigla RV o Rv (Ryom Verzeichnis) comunemente impiegata per indicare il numero d’opus dell’opera di A.
Vivaldi rimanda al catalogo delle sue composizioni compilato da Ryom P., Verzeichnis der Werke Antonio Vivaldis:
kleine Ausgabe, Engstrom & Sodring, Kobenhavn 1974.
11. Cfr. M. Talbot, The sacred vocal music of Antonio Vivaldi, cit., p. 331 ss..
15
del rito: il coinvolgimento emozionale della comunità dei fedeli, in questo modo, è
molto più diretto e immediato.
Il Gloria in re maggiore RV 589 distribuisce il testo in dodici movimenti, che si susseguono l’un l’altro secondo un criterio di alternanza nei tempi, nei ritmi, nella
tonalità e nell’organico.
Si osservi lo schema seguente che sintetizza la studiata architettura dell’opera:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
Gloria in excelsis
Allegro
Re magg.
Coro, tromba oboe, archi, b.c.
Et in terra pax
Andante
Si min. Coro, archi, b.c.
Laudamus te
Allegro
Sol magg.
2 soprani, archi, b.c.
Gratias agimus tibi
Adagio
Mi min.
Coro, archi, b.c.
Propter magnani gloriam tuam
Allegro
Mi min.
Coro, archi, b.c.
Domine Deus
Allegro
Do magg.
Soprano, oboe solo, b.c.
Domine fili unigenite
Allegro
Fa magg.
Coro, archi, b.c.
Domine Deus agnus Dei
Adagio
Re min.
Soprano, contralto, tenore, archi, b. c.
Qui tollis peccata mundi
Adagio
La min.
Coro, archi, b.c.
Qui sedes ad dexteram Patris
Allegro
Si min. Contralto, archi, b.c.
Quoniam Tu solus Sanctus
Allegro
Re magg.
Coro, tromba, oboe, archi, b.c.
Cum Sancto Spiritu
Allegro
Re magg.
Coro, tromba, oboe, archi, b.c.
4/4
3/4
2/4
4/4
4/4
12/8
3/4
4/4
4/4
3/8
4/4
4/4
Come si noterà, i piani tonali sono ben calibrati: solo il primo e gli ultimi due brani sono impostati nella tonalità principale (re maggiore), mentre quelli intermedi
toccano tutte le tonalità vicine (nell’ordine: si minore, sol maggiore, mi minore,
do maggiore, fa maggiore, re minore, la minore, si minore); a questa varietà tonale
corrisponde la varietà delle forme e degli stili cui vengono improntati i movimenti.
Vi sono brani solistici nello stile dell’aria, magari con strumento concertante; altri
nei quali il coro declama omofonicamente il testo; altri ancora in contrappunto
rigoroso, nello stile severo del fugato. A volte affiora anche la forma-ritornello,
mutuata pari pari dal concerto strumentale.
In una simile alternanza di stili, di tonalità e di organico, può essere difficile mantenere l’unità della composizione ed evitare un’impressione di frammentarietà. Vi-
16
valdi cerca di risolvere il problema riprendendo, poco prima della conclusione, il
tema del movimento iniziale (Gloria in excelsis, [1]), con un nuovo testo (Quoniam tu
solus sanctus, [11]); inoltre rafforza il procedimento preparando tale ripresa con un
espediente tematico: il brano precedente (Qui sedes ad dexteram patris, [10]) è ampiamente basato su un caratteristico motivo tratto dal movimento d’apertura.
L’incisività del «motto» d’ouverture con le ottave all’unisono, la luminosa presenza
della tromba, la massiccia scrittura corale, fanno del Gloria in excelsis [1] iniziale
una pagina brillante e sfarzosa che si imprime nella memoria dell’ascoltatore; le
figurazioni strumentali sono incessantemente intessute agli incisi del coro, in una
scrittura prettamente concertante, Vivaldi si lancia in una escursione tonale audace
che lo porta fino al do diesis minore, tonalità assai lontana dal re maggiore di partenza. Ma con altrettanta maestria il compositore ritorna sulla tonica. Per contrasto
l’Et in terra pax [2] successivo è impostato in modo minore, in un tempo moderato
(Andante), e abbandona la precedente omoritmia in favore di una scrittura imitativa. Il disegno tonale complessivo è ampio e si apre ad evidenti tensioni armoniche:
le modulazioni - che portano a toccare numerose tonalità imparentate con quella
d’impianto - sono continue e ravvicinate; le alterazioni cromatiche che producono
tali modulazioni inseriscono nel brano una nota di tragicità cupa e dolorosa. Qui,
Vivaldi non esprime soltanto la pace ritrovata, ma la pace cercata disperatamente
in un mondo in preda ai tormenti. Fra tutti i movimenti, questo dovrebbe convincerci che, malgrado la sua apparente mondanità, il compositore era veramente un
uomo di profonda spiritualità.
Un netto cambiamento stilistico avviene con il Laudamus te [3], che adotta l’impianto formale del concerto solistico: in apertura è posto un ritornello strumentale, affidato agli archi, che è seguito da una serie di episodi solistici, separati da interventi
strumentali, ciascuno dei quali ripropone alcuni dei motivi uditi nel ritornello iniziale. Gli episodi solistici sono affidati ai due soprani, accompagnati dal continuo,
che procedono per semplici imitazioni o raddoppiandosi a distanza di terza.
Una breve sezione di raccordo (Gratias agimus tibi, [4]) intessuto di austera gravità,
nella quale il coro avanza con accordi imponenti, che simboleggiano un corale rendimento di grazie a Dio, conduce al quinto movimento, Propter magnam gloriam tuam
[5], un brano contrappuntistico dal fitto intreccio imitativo, un agile fugato ove gli
strumenti raddoppiano le voci in una affascinante gioco di richiami.
Il successivo Domine Deus [6] ci riporta alla dimensione mondana: il brano adotta
lo stile di un’aria teatrale solistica con strumento concertante. Il ritmo cullante, una
siciliana, unito al timbro pastorale dell’oboe che s’intreccia a quello del soprano
solo, ispirano un senso di tranquilla e profonda serenità. Più drammatico il Domine
fili unigenite [7] successivo: retto da capo a fondo da un incisivo ritmo puntato, il
brano fa ampio ricorso alle risorse della tecnica imitativa canonica, senza per que-
17
sto adottare lo stile severo e un po’ accademico delle composizioni ecclesiastiche
in contrappunto osservato.
Un tema dei bassi altamente espressivo introduce e conclude il Domine Deus, Agnus
Dei [8], un brano solistico nel quale è protagonista il contralto. E’ una pagina di
grande intensità emozionale, accresciuta dalle toccanti invocazioni accordali del
coro («miserere nobis!») con le quali punteggia regolarmente la linea del canto. Un
breve movimento corale (Qui tollis peccata mundi, [9]) in tempo lento, caratterizzato
da dissonanze aspre, da accordi carichi di tensione, funge da collegamento col Qui
sedes ad dexteram Patris [10]. Questo ci riporta allo stile mondano del concerto: un
ampio ritornello iniziale introduce un’aria solistica del contralto, liberamente intercalata dal «tutti» dell’orchestra, che sfrutta i motivi del ritornello iniziale. Quest’ultimo viene poi ripreso quasi integralmente alla conclusione del brano.
Il Quoniam tu solus Sanctus [11] è la ripresa musicale - abbreviata e con nuovo testo - del
Gloria in excelsis [1], e riporta dunque all’atmosfera luminosa del brano di apertura; questo procedimento di ripresa, come abbiamo osservato, ha una fondamentale importanza ai fini della coesione formale. L’ultimo movimento, Cum Sancto Spiritu [12], è il luogo
tradizionalmente riservato allo sfoggio della scienza e della tèchne contrappuntistica.
Il brano è costruito come un rigoroso fugato, con una regolare esposizione comprendente le quattro entrate del soggetto, brevi divertimenti strumentali, e una serie di stretti nella parte finale. Come è stato dimostrato, il soggetto di fuga è tratto da un Gloria del
compositore veneziano Giovanni Maria Ruggieri datato 1708.
Lo sfruttamento o la parodia di materiale musicale altrui, piuttosto comune in età
barocca, è tipico di un genere nel quale non conta tanto l’originalità dell’invenzione
tematica, quanto la maestria nell’elaborare complesse architetture contrappuntistiche. E non c’è dubbio che il vasto affresco della fuga finale, monumento alla razionalità ed emblema al tempo stesso di uno spirito religioso secolarizzato, concluda
nel modo più degno l’affascinate capolavoro vivaldiano.
4.2 Concerto in sol minore, op. X, n. 2, «La Notte» RV 489
per flauto solista, violino I e II, viola, violoncello e basso continuo
4.2.1 Premessa
Il razionalismo filosofico e letterario del primo Settecento francese riconosceva
senso alla musica a condizione che fosse accompagnata da un testo verbale, riservando al solo melodramma uno spazio di dignità. In questa prospettiva cartesiana,
la musica strumentale non poteva avere speculazione estetica perché le era negata
qualsiasi potenzialità di mimesi.
18
Per giungere a tale possibilità, ci doveva essere un testo con il quale realizzare il
connubio. Se non c’è un testo, che cosa imita l’arte della musica? E’ il quesito che si
posero i teorici del razionalismo. Queste linee di tendenza passarono dalla Francia
all’Italia e per risolvere il problema, certo non di poco conto, i musicisti ricorsero
a una formulazione che potesse recuperare il concetto di mimesi: la natura può
essere imitata con i suoni. Nacque così la musica “a programma”.
Alle composizioni musicali si prese a dar titoli descrittivi e si correlarono musica e
soggetti da rappresentare.
E’ possibile cogliere riferimenti alle linee della poetica musicale francese nel Trattato dell’imitazione (1756) dell’abate veneto Antonio Conti, che ricorda come il piacere
che dà la musica è “tutto sensitivo”, analogo a quello “di un rossignuolo o di un
canarino”, l’intelletto infatti non viene in alcun modo stimolato. Dati questi presupposti, risulta agevole capire perché nel catalogo delle opere di Vivaldi un posto
non insignificante occupino circa trenta concerti “a programma”. Sembra quasi,
infatti, che il Prete Rosso volesse stabilire un percorso che, dall’onomatopea del
Gardellino, passasse alla pittura sonora della Tempesta di mare, alla selezione di stati
d’animo Piacere, Inquietudine, Sospetto, fino alle Quattro stagioni.
Sempre a proposito del linguaggio dei suoni, vale la pena di fare un confronto anche con quanto avveniva in Germania, dove si insegnava retorica musicale e Johann
Mattheson era il teorico del linguaggio dei suoni, un lessico tecnico-compositívo
legato alla parola. In Italia questo non avvenne. Si considerava che la musica possedesse la forza di esprimere i sentimenti, fosse capace di imitare i fenomeni della
natura: lo scorrere dell’acqua, il temporale, il flusso delle onde, le tempeste; e che
fosse anche capace di creare un ambiente bucolico o guerresco. La differenza con
il mondo della retorica musicale tedesca fa riferimento alle grandi possibilità offerte dagli strumenti dell’orchestra. Possiamo affermare che la musica a programma
è un elemento che caratterizza questo periodo. Vivaldi aveva manifestato tale tendenza già con le opere Terza e Quarta, rispettivamente denominate L’Estro armonico (1711) e La Stravaganza (1714). Come ha messo in luce C. Fertonani, «i concerti descrittivi e “a programma” non costituiscono che l’esplicito inveramento dell’innata inclinazione di Vivaldi a imprimere alla musica strumentale una dimensione
rappresentativa nonché una tensione drammatica e narrativa»12. Va anche detto
che questo gruppo di concerti “a programma” costituisce un’esperienza unica nel
contemporaneo panorama musicale italiano, che in qualche modo testimonia una
volta di più la dimensione europea della personalità vivaldiana; esperienza unica
non soltanto per il numero cospicuo dei lavori in questione ma anche per la varietà
12. C. Fertonani, La musica strumentale di Antonio Vivaldi, op. cit., p. 141.
19
di soggetti, di modalità rappresentative e di soluzioni musicali che essi presentano:
dalla semplice onomatopea del canto degli uccelli ai grandi affreschi delle tempeste
di mare e delle scene di caccia, dai medaglioni dedicati alle passioni umane sino
alle rappresentazioni propriamente programmatiche del ciclo delle stagioni e della
notte. L’impressione è che Vivaldi, sollecitato dall’ansia onnicomprensiva che gli è
propria, abbia voluto sperimentare l’intero orizzonte delle possibilità rappresentative offerte alla musica strumentale, fornendo tra l’altro un fondamentale anello di
congiunzione tra i compiaciuti incantamenti naturalistici caratteristici della poetica
barocca della meraviglia e le più aggiornate tendenze estetiche inclini a una pressoché esclusiva stilizzazione delle passioni umane a impronta della musica vocale.
Alla poliedrica fenomenologia di queste composizioni corrisponde comunque, ed
è ciò che più conta, un valore artistico in genere assai elevato e un magnetismo
illusionistico non di rado eccezionale. In una sorta di teatrino dell’immaginazione
sorretto dalla pura espressione strumentale dove il pubblico è guidato nell’ascolto
ora da indicazioni di percorso piuttosto dettagliate, come nelle Quattro stagioni, ora
da scarni suggerimenti che ne stimolano la fantasia, come nei concerti intitolati La
tempesta di mare e La notte, Vivaldi riesce a mettere in scena la vita umana e la natura
con un’arte drammatica e narrativa e con una vividezza di rappresentazione, che
conferma il precetto della retorica barocca ut pictura musica13.
4.2.2 Il Concerto La Notte
Il Concerto in sol minore, La Notte, è il secondo dell’Opera X, edita ad Amsterdam
intorno al 1728, formata da sei concerti per flauto e orchestra di archi. Nel catalogo delle opere di Vivaldi di concerti col titolo La Notte ce ne sono ben tre: questo
per flauto e orchestra, uno per fagotto, e un altro (analogo al primo) per flauto (o
violino), due violini e fagotto. Nel manoscritto di Torino, con la parte del fagotto,
il concerto è diviso nei classici tre tempi. Nell’opera a stampa, sostituito il flauto
al fagotto, Vivaldi ha suddiviso il concerto in piccoli episodi, creando un vero e
proprio affresco notturno che inizia giustamente con un Largo. La sceneggiatura
di questo concerto presuppone dunque la rappresentazione narrativa della notte,
dalle tenebre fino all’alba.
La successione dei tempi è la seguente: Largo, Fantasmi (Presto), Largo, Presto, Il sonno
(Largo), Allegro.
13. Su questo interessante problema si possono vedere C. Fertonani, Antonio Vivaldi. La simbologia musicale nei
concerti a programma, Edizioni Studio Tesi, Perodenone 1992, Sardelli F. M., La musica per flauto di Antonio Vivaldi, L.
S. Olschki, Firenze 2001 e G. Formichetti, op. cit., p. 77 ss..
20
A. Largo
E’ la notte, profonda. La musica inizia con una frase ripetitiva e sospesa in cui è
chiara l’inquietudine. Il movimento iniziale, dove all’introduzione del Tutti segue
un primo episodio solistico, esprime con straordinaria efficacia un’atmosfera misteriosa e inquieta, aperta da un motivo che potremmo definire la “sigla” vivaldiana
della notte: una locuzione scandita all’unisono che, nella sua forma-base accoda a
figure in ritmo puntato una scaletta ascendente di trentaduesimi. Si ripetono figure
uguali sopra le quali il flauto canta una melodia sinuosa, vagamente malinconica.
Trilli lunghissimi e ossessivi sottolineano un paesaggio interiore presagio di incubi
e immagini cupe. L’orchestra accompagna con un oscuro senso della fissazione,
replicando quasi in modo ossessivo la stessa figura musicale. E’ un’introduzione
straordinariamente efficace, non è descrittiva nel senso deteriore della parola. Disegna un’atmosfera che tutti hanno spesso avvertito: la notte con le sue insonnie,
con i suoi pensieri, con il buio talvolta dello spirito. Il trillo lungo ed estenuante
del flauto diventa veramente un segno tangibile del tempo notturno che, a volte,
sembra non debba mai finire. L’alto grado di drammaticità è raggiunto da Vivaldi
anche grazie alla sapiente inserzione di pause e fermate, alla pulsione pressoché
incessante del ritmo puntato. I singoli elementi della “sigla” - la ripetizione di una
stessa nota in ritmo puntato e i trentaduesimi ascendenti - forniscono poi il materiale all’episodio solistico, specie alle parti d’accompagnamento. Qui, il flauto tratteggia poi figure di accordo spezzato in terzine di sedicesimi. E’ risaputo come nel
vocabolario compositivo settecentesco l’insistita ripetizione del ritmo puntato caratterizzi essenzialmente due sfere di senso, talora intercomunicanti: l’una è quella
che abbraccia il fremito interiore, l’irrequietezza, la paura, l’altra è connessa con la
maestà divina o regale. Tutto il movimento gravita verso la sospensione alla dominante su cui s’interrompe la lunga nota di pedale conclusivo che crea un senso
di febbrile attesa. Il musicista prepara così con gusto scenografico l’irruzione dei
«fantasmi», ossia delle visioni e degli incubi notturni, alimentando la carica emozionale del primo tempo e proiettandola verso qualcosa di intenso, sconosciuto.
B. Fantasmi (Presto) - Largo
Nel secondo movimento Fantasmi (Presto) agisce una snella tripartizione Tutti-SoloTutti. Rapide scale di sedicesimi a distanza di terza si rispondono in canone seguite
da figure di accordo spezzato e ribattuto, quindi da una variazione della “sigla”
della notte. L’elementare imitazione canonica è di frequente utilizzata dal Prete
rosso per effetti di grande concitazione (la si ritrova, infatti, nella Tempesta e nella
Caccia). Accanto a elementi già comparsi, si affianca un disegno sincopato, poi
21
sfruttato nell’episodio solistico. Sembra di capire dunque che le strutture motiviche impiegate da Vivaldi per gli incubi notturni non sono di per sé gravide di
attributi simbolici, giacché potrebbero di diritto rientrare anche in altri concerti “a
programma”. Tuttavia, vi sono alcuni dettagli interessanti, soprattutto in questa
Notte, dove le scale minori in canone sono alternativamente naturali e melodiche,
quasi a voler riverberare l’evanescenza delle visioni.
Sul piano formale, Vivaldi cerca una continuità con il primo movimento; oltre alla
ripresa della sigla della notte, nell’episodio torna a essere scandito il ritmo puntato.
Dopo che una breve sezione ha ribadito la tonalità relativa di si bemolle maggiore,
una nuova comparsa della sigla iniziale prepara il Largo seguente. Il Presto s’interrompe così all’improvviso, sul secondo tempo della battuta 22 con una cadenza sospesa,
e la sigla della notte viene a porsi quale transizione verso il movimento successivo.
Il canovaccio narrativo-musicale della Notte prevede in ogni caso che i «fantasmi»
scompaiano con la stessa folgorante rapidità con cui erano entrati in scena; qui il
loro dissolversi coincide col ritorno dei motivi del Largo introduttivo e con una
decisa sterzata armonica. Il terzo movimento si distingue per un cantabile episodio
solistico che, dopo aver toccato le tonalità minori di do e re, si apre a un luminoso
fa maggiore; il flauto viene sostenuto con discrezione dagli archi senza il basso fino
alla fine del breve movimento dove Vivaldi ha voluto una fermata con corona che
segna una netta cesura tra il Largo e il tempo successivo.
C. Presto
Dopo la pausa distensiva del Largo il quarto movimento riporta a un clima di intensa animazione. La mancanza di un sottotitolo si chiarisce nella musica; qualsiasi
riferimento sarebbe superfluo, data l’evidenza del richiamo ai Fantasmi. Trasposti
nel metro ternario, si rivedono le figure di accordo spezzato e di ribattuto, le scalette di sedicesimi e un linguaggio armonico e melodico ricco di indizi drammatizzanti. Quanto all’impalcatura tonale, il movimento si conclude predisponendo una
logica prosecuzione nel tempo successivo: la tonalità in do minore va considerata
sull’arco dell’intero lavoro e della sua interna fluidità tonale. Ma come osserva C.
Fertonani, «al di là della frammentazione, dell’accostamento di eterogenei quadri
musicali, il Prete rosso conferisce alla Notte una certa coesione strutturale»14.
14. Cfr. C. Fertonani, Antonio Vivaldi. La simbologia musicale, cit., p. 106.
22
D. Il Sonno (Largo)
Negli ultimi due movimenti la musica non ricorre più in linea di principio alla rielaborazione di elementi e motivi comparsi nel corso dei primi quattro tempi.
Il Sonno è il titolo del quinto movimento. Oltre a comparire nei lavori intitolati La
Notte, il soggetto, tanto ricorrente nell’opera veneziana del Seicento15, costituisce
uno dei temi portanti nel ciclo delle Quattro stagioni, dove ritorna più volte. Si tratta
di un sonno agitato, percorso da sogni inquieti e confusi, simile a quello associato
all’«orrore». La dimensione ineffabile, alogica ed enigmatica del mistero onirico è
rappresentata in un movimento la cui straordinaria suggestione è dovuta all’interazione di molteplici fattori. La ricerca timbrica risalta dall’impiego delle sordine
(«Tutti gli stromenti sordini») nonché dalla scelta di negare al solista una parte
diversificata rispetto al ripieno.
E. Allegro
Il finale della Notte reca un sottotitolo descrittivo (Sorge l’aurora) soltanto nella
versione per fagotto. Nel concerto per flauto, l’Allegro conclusivo approntato per
l’edizione a stampa si distingue dalla versione originaria - come già il quarto e il
quinto movimento - per una maggiore concisione. In linea con i tempi che lo
hanno preceduto, questo finale è un brano di alta concentrazione emotiva sotto il
segno delle tonalità minori e di un’inquietante vigoria ritmica, con il recupero di
locuzioni sincopate, di accordi spezzati, di ribattuti già usati per i «fantasmi». E’
piuttosto improbabile che il movimento intenda rappresentare il sorgere del nuovo
giorno (anche perché, nel lessico vivaldiano, all’immagine corrispondono alcuni
vocaboli specifici); certo che se così fosse, è la descrizione musicale di un’alba livida, in cui la notte popolata di incubi e visioni trascolora e si confonde.
Determinante dunque al pari delle Stagioni per la comprensione della simbologia
vivaldiana, il concerto mostra, sul piano formale e illustrativo, un’affascinante soluzione interlocutoria; il fatto che soltanto alcuni tempi siano dotati di titoli rende
manifesto il proposito di lasciare il campo al potere di suggestione e illusionismo
della musica. Distanziate in modo da fissare una sorta di impalcatura, le didascalie
sono stazioni di un percorso percettivo guidato, durante il quale tuttavia permangono zone d’ombra; quasi che l’atteggiamento di Vivaldi nei confronti dell’esperienza notturna si traducesse anche in un senso di ossequioso rispetto. Almeno
nella versione per flauto di questo concerto, sembra di capire che dall’oscurità
15. E. Rosand, Opera in Seventeenth Century Venice. The Creation of a Genre, Oxford, University of California Press,
Berkley – Los Angeles 1991, pp. 338-342.
23
impenetrabile della notte riescano a risaltare soltanto proiezioni dell’inconscio, illuminazioni folgoranti e angosciose; il resto rimane avvolto nel mistero del buio.
4.3 Beatus vir in do maggiore RV 795 (edizione critica a cura di M. Talbot)
1 soprano, 3 alti solisti, coro a 4 voci, due violini, viola e basso
Pure il Beatus vir RV 795, al pari del Gloria RV 589, è un’opera di vaste proporzioni,
anche se dispiega un organico meno solenne. Si pensava perduta, fino a quando il
musicologo Peter Ryom, cui si deve, tra l’altro, l’importante catalogo delle opere
vivaldiane, scoprì a Dresda un manoscritto di Baldassarre Galuppi. Lo studioso
aveva annunciato quel ritrovamento nel 1992 durante un convegno di studi vivaldiani, che si era tenuto a Poitiers. Oggi siamo sicuri che l’attribuzione a Baldassarre
Galuppi del Beatus vir è senza dubbio falsa, come ha dimostrato Michael Talbot,
che ha curato l’edizione critica del salmo per le edizioni Ricordi16. Secondo gli
studi del filologo anglosassone17 quest’opera fu portata a Dresda probabilmente
dal principe di Sassonia e Polonia, Friedrich Christian, che l’aveva acquistata all’inizio del 1740, durante una suo soggiorno a Venezia. Le composizioni di Galuppi
riscuotevano allora un grande successo ed erano particolarmente apprezzate dalla
Hofkapelle cattolica di Dresda. In quella sede Galuppi era divenuto il compositore
preferito e più amato, per questo la corte si era premurata di acquistare molti suoi
lavori sacri. La visita del principe a Venezia nel 1740 coincise con l’inizio della collaborazione di Galuppi con l’Ospedale dei Mendicanti, che durò fino al 7 agosto di
quell’anno. E’ molto probabile che Friedrich Christian abbia avuto l’occasione di
ascoltare composizioni di Galuppi a Venezia e che, dopo il suo ritorno, sia stato il
promotore del «culto galuppiano» a Dresda. Possiamo supporre che Galuppi abbia
di proposito inserito tra le sue quest’opera di Vivaldi, oppure che un copista possa
essersi sbagliato nell’attribuzione del manoscritto. Fatto sta che nel primo foglio
leggiamo che è stata composta “dal Sig. Baldassarre Galuppi, detto Buranello”.
L’esistenza di questo pezzo era già stata segnalata da Talbot, che aveva scoperto alcuni frammenti musicali del Beatus vir nella raccolta musicale della Pietà, rinvenuti insieme ad altri manoscritti al Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia.
Ciascuna delle parti superstiti, che fanno riferimento al nostro Beatus vir, dichiara la
paternità musicale di Vivaldi: “Beatus Primo Del Signor Don Antonio Vivaldi”. Secondo
Talbot la registrazione contabile che si teneva all’Ospedale della Pietà e che segnalava
16. A. Vivaldi, Beatus vir. Salmo 111 per soprano e tre contralti solisti, coro a quattro voci miste, due violini, viola e basso RV
795, edizione critica a cura di M. Talbot, Ricordi, Milano 1995.
17. Cfr. M. Talbot, op. cit., p. 457 ss.. Si vedano anche le Note critiche dell’edizione Ricordi del salmo 111 sopra
citata, curata dallo stesso Talbot, alla p. 117 ss..
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il pagamento di 74 lire e 12 soldi a Vivaldi per aver fornito alcuni Salmi e Antifone e
sei Mottetti, dimostrerebbe l’avvenuta composizione ed esecuzione del Beatus vir. Il
29 marzo 1739 cadeva la domenica di Pasqua e proprio per l’occasione la Pietà aveva
chiesto e introdotto nuove composizioni nel suo repertorio, che aveva poi regolarmente pagate a Vivaldi il successivo mese di aprile. Il materiale musicale dell’opera, lo
stile della realizzazione e i confronti proficui con altre musiche vivaldiane non lasciano
dubbi sulla attribuzione del salmo al veneziano. L’unica eccezione è che Vivaldi qui
usa tre voci di contralto insieme: fatto raro e solitario nella sua produzione sacra.
La struttura compositiva del salmo presenta analogie con il Gloria in re maggiore RV
589 ed altri celebri pezzi sotto il profilo della grandiosità e dell’effetto. Le parti
solistiche sono affidate interamente alle voci femminili (un soprano, un contralto
e tre contralti concertanti), mentre al coro sono affidati i numeri di apertura e chiusura del salmo, oltre all’antifona che è ripetuta dopo ogni versetto.
Anche in questo caso, può risultare interessante riportare lo schema sinottico delle
singole sezioni in cui sono stati distribuiti i versetti del salmo.
1. Beatus vir
Coro, violino I e II, viola, basso
2. Gloria et divitiae
Soprano, violino I e II, viola, basso
3. Beatus vir
Coro, violino I e II, viola, basso
4. Exortum est in tenebris
Soprano, violino I e II, viola, basso
Ant. Beatus vir
Coro, violino I e II, viola, basso
5. Jucundus homo
Soprano, violino I, basso
Ant. Beatus vir
Coro, violino I e II, viola, basso
6. In memoria aeterna
Contralto I, II, III, archi, basso
Ant. Beatus vir
Coro, violino I e II, viola, basso
7. Paratum est cor ejus
Contralto, violino I e II, viola, basso
Ant. Beatus vir
Coro, violino I e II, viola, basso
8. Dispersit, dedit pauperibus
Contralto, violino I e II, viola, basso
Ant. Beatus vir
Coro, violino I e II, viola, basso
9. Peccator videbit
Contralto, violino I e II, viola, basso
10. Gloria Patri
Coro, violino I e II, viola, basso
Allegro
Allegro
Allegro
Andante
Allegro
Allegro
Allegro
Andante
Allegro
Andante
Allegro
Andante
Allegro
Largo
Allegro
Do magg.
La min.
Do magg.
Fa magg. Do magg.
La min. Do magg.
Do min. Do magg.
Fa magg. Do magg.
La min. Do magg.
Fa magg.
Do magg.
4/4
2/4
4/4
3/4
4/4
4/4
4/4
3/4
4/4
4/4
4/4
3/8
4/4
2/4
4/4
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Per esprimere la beatitudine dell’uomo giusto che teme il Signore e osserva i suoi
comandamenti, Vivaldi ha scelto la splendente tonalità di do maggiore, alla quale
si alternano quella relativa di la minore [2, 5, 8], di do minore [6] e di fa maggiore
[4 e 7] per conferire alla composizione una adeguata varietà armonica. Un tratto
interessante di questo «lungo» Beatus vir è l’uso, a mo’ di antifona e ripetuto alla
fine di ogni movimento, di un motivo di cinque misure estratto dal primo numero.
L’incipit del salmo [1] è affidato a ritmi puntati di una breve introduzione, dopo la
quale si staglia chiaro lo stile liturgico a note ribattute, quasi a ribadire con energia
la certezza della beatitudine dell’uomo «buono, misericordioso e giusto», che «sarà
sempre ricordato». In effetti, in questo primo movimento la composizione si fa
sempre più ornata, impreziosita dalle suggestive armonie degli archi. A differenza
di quanto avviene in altre versioni dello stesso salmo, Vivaldi fa seguire nello stesso
numero subito il secondo versetto (Potens in terris erit semen ejus / generatio rectorum
benedicetur) assegnandogli due figurazioni diverse: la prima ripete sostanzialmente
il tema principale, lo stesso che funge da incantevole refrain nel corso dell’intero
salmo, nella seconda le voci femminili disegnano alternativamente alla terza (prima
i soprani e poi i contralti) una melodia più elaborata. Il numero successivo, dopo
una breve introduzione degli archi, vede impegnato il primo solista, un soprano,
nel versetto Gloria et divitiae [2] nel quale l’onore, la ricchezza del giusto e la profonda gioia che gliene deriva, vengono esaltati con ornamentazioni leggere e virtuosistiche (si ponga attenzione al lungo melisma sulla parola saeculum). Particolarmente
interessante è il movimento successivo affidato ancora al soprano solista che canta
il terzo versetto del salmo, Exortum est in tenebris [3]. La musica “descrive” con assoluta efficacia le parole del testo biblico: il graduale passaggio dalle tenebre alla
luce è rappresentato dalle note ribattute in pianissimo della viola prima e degli archi
poi, in un crescendo sempre più espressivo, in cui vengono sottolineate ancora
alcune parole-chiave del versetto, come exortum e miserator. Essa ci introduce in un
ambiente quasi lirico e pastorale e ci riporta allo stile dei concerti strumentali. Un
effetto timbrico molto originale è ottenuto nel numero [5] Jucundus homo che segue
alla parentesi dell’antifona Beatus vir, dove il soprano è introdotto e accompagnato
da un violino solista che intreccia con la voce un serrato, ma sempre equilibrato,
dialogo contrappuntistico: esso esprime la certezza che l’uomo pietoso e giusto
non vacillerà. Il linguaggio espressivo derivato dalla poetica barocca degli «affetti»
si precisa, in molte pagine vivaldiane, nel senso di un patetismo quasi mozartiano.
Ben lo conferma il versetto In memoria aeterna [6] che sfrutta opportunamente la
tonalità di do minore. Vivaldi ci consegna una pagina di grande intensità, di carattere dolente e imitativo, affidata ad un terzetto di contralti che intonano un meraviglioso fugato. La struttura compositiva dell’opera non conosce mai cedimenti
per interesse musicale, anzi tiene desta l’attenzione pur nella sua brevità. Ritmico
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e incisivo negli appoggi in battere, è il versetto Paratum cor ejus [7] che comunica un
senso di sicurezza e di interiore fiducia, anche mediante ritmi puntati e sincopati
e l’ampio uso della terzina per gradi congiunti. Tale stato d’animo è confermato
nel Dispersit, dedit pauperibus successivo [8], che non si abbandona agli eccessi e a
frenetici salti melodici o a stacchi rapidi, ma mantiene il clima rassicurante di una
melodia pacata. L’agitazione appare improvvisa sulle parole Irascetur del penultimo
movimento [Peccator videbit, 9] e in altri effetti “madrigalistici” ad esempio sui verbi
fremet e tabescet la cui valenza semantica è disegnata da lunghi melismi. L’espressività
della pagina risponde forse anche al desiderio di descrivere l’ira degli empi e il fallimento di ogni loro atto eversivo contro l’azione dei giusti. Il coro si riappropria
della partitura nell’ultimo numero, il Gloria Patri [10]. Dopo la ripresa dell’introduzione orchestrale incipitaria e del motivo-guida dell’antifona-ritornello, questa
volta sulle parole della dossologia conclusiva, Vivaldi ci regala, secondo la tradizione, una sorprendente e esuberante fuga in severo “stile antico” su l’et in saecula
saeculorum. Amen. Questa sezione conclusiva utilizza un tema semplice ma di notevole efficacia, composto da note ribattute di durata progressivamente inferiore. Sul
tema principale della fuga si innesta quello dell’antifona-ritornello sapientemente
distribuito fra le diverse sezioni del coro creando un gioco di contrasti di grande
effetto. Solidità, da un lato, e senso incalzante, dall’altro, decretano il successo di
questo straordinario finale nel quale l’abilità contrappuntistica di Vivaldi rivela la
mano di una grande maestro. Degna conclusione di un salmo che esalta le virtutes
dell’uomo fedele e la ciclica eternità dell’Universo e di Dio.
Ettore Garioni
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Beatus vir RV 795
Coro
Beatus vir, qui timet Dominum:
in mandatis ejus volet nimis.
Potens in terra erit semen ejus:
generatio rectorum benedicetur.
[Salmo 112 (111)]
Beato l’uomo che teme il Signore
e trova grande gioia nei suoi comandamenti.
Potente sulla terra sarà la sua stirpe,
la discendenza dei giusti sarà benedetta.
Solo
Gloria et divitiae in domo ejus:
et iustitia ejus manet in saeculum saeculi.
Onore e ricchezza nella sua casa,
la sua giustizia rimane per sempre.
Coro
Beatus vir, qui timet Dominum.
Beato l’uomo che teme il Signore.
Solo
Exortum est in tenebris lumen rectis,
misericors, et miserator, et justus.
Spunta nelle tenebre come luce per i giusti,
buono, misericordioso e giusto.
Coro
Beatus vir, qui timet Dominum.
Beato l’uomo che teme il Signore.
Solo
Jucundus homo, qui miseretur et commodat,
disponet sermones suos in judicio:
quia in aeternum non commovebitur.
Felice l’uomo pietoso che dà in prestito,
amministra i suoi beni con giustizia.
Egli non vacillerà in eterno.
Coro
Beatus vir, qui timet Dominum.
Beato l’uomo che teme il Signore.
Solo
In memoria aeterna erit justus,
ab auditione mala non timebit.
Il giusto sarà sempre ricordato.
Non temerà annunzio di sventura.
Coro
Beatus vir, qui timet Dominum.
Beato l’uomo che teme il Signore.
Solo
Paratum cor ejus, sperare in Domino,
non commovebitur,
donec despiciat inimicos suos.
Saldo è il suo cuore, confida nel Signore.
Sicuro è il suo cuore, non teme,
finché trionferà dei suoi nemici.
Coro
Beatus vir, qui timet Dominum.
Beato l’uomo che teme il Signore.
Solo
Dispersit, dedit pauperibus,
justitia eius manet in saeculum saeculi:
cornu eius exaltabitur in gloria.
Egli dona largamente ai poveri,
la sua giustizia rimane per sempre,
la sua potenza s’innalza nella gloria.
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Coro
Beatus vir, qui timet Dominum.
Beato l’uomo che teme il Signore.
Solo
Peccator videbit et irascetur,
dentibus suis fremet et tabescet:
desiderium peccatorum peribit.
L’empio vede e si adira,
digrigna i denti e si consuma.
Ma il desiderio degli empi fallisce.
Coro
Gloria Patri, et Filio,
et Spiritui Sancto.
Sicut erat in principio,
et nunc, et semper,
et in saecula saeculorum. Amen
Gloria al Padre e al Figlio
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio
e ora e sempre
nei secoli dei secoli. Amen
Gloria RV 589
Coro
Gloria in excelsis Deo.
Coro
Et in terra pax hominibus bonæ voluntatis.
Laudamus te.
Soli
Benedicimus te. Adoramus te.
Glorificamus te.
Coro
Gratias agimus tibi.
Coro
Propter magnam gloriam tuam.
Solo - Coro
Domine Deus, Rex coelestis,
Deus Pater omnipotens.
Coro
Qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Qui tollis peccata mundi,
suscipe deprecationem nostram.
Coro
Qui sedes ad dexteram Patris,
miserere nobis.
Coro
Quoniam tu solus Sanctus.
Tu solus Dominus.
Tu solus Altissimus,
Jesu Christe.
Coro
Cum sancto Spiritu;
in gloria Dei Patris. Amen
Coro
Domine Fili unigenite, Jesu Christe.
Soli
Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris.
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François Morellon de la Cave
Antonio Vivaldi, ritratto per l’edizione
Le Cène dell’op. 8, 1725.
In copertina:
Rosanna Pellicani, Gloria,
acquarello, pigmento e oro su carta, 2008
Editing a cura di Maria Laura Gelmini
Finito di stampare nel mese di Dicembre 2008
dalla Tipografia Sollicitudo - Lodi
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