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Antonio Forcione
Sketches of Africa
Veronica Sbergia
& Max de bernardi
MArcus eaton
Madame Guitar
Music is love
tecnica
Stefan Grossman
Peter Finger
Dino Fiorenza
Daniele Bazzani
Strumenti: Peavey Composer Parlor, Martin DRS 1, Gold Tone mic e preamp
Un Suono Magico
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ed
editoriale
Chitarra Acustica Winter
In questo numero ‘festeggiamo’, si fa per dire, la fine della bella stagione dei festival di chitarra
acustica, con un ampio servizio
dedicato alla settima edizione di
Madame Guitar, che si è tenuta
alla fine del mese di settembre.
Ma non per questo, adesso,
il popolo della chitarra acustica
se ne starà con le mani in mano
ad aspettare il ritorno della primavera. Si annunciano già degli
eventi importanti. A partire dal
16 novembre, con un concerto di
Gaspare Bonafede e di François
Sciortino, prende il via “Acoustic
Franciacorta in Castello”, una
rassegna di sette concerti a cadenza mensile, che andrà avanti
fino al mese di maggio per tenere
accesa la fiammella. Il 4 dicembre ci sarà poi a Milano una serata in onore di Michael Hedges a
quindici anni dalla sua morte, organizzata da Ezio Guaitamacchi,
uno dei pionieri della promozione
della musica acustica nel nostro
paese. Durante il mese di dicembre si svolgeranno inoltre le tournée italiane di Michael Manring e
di Bob Brozman.
D’altra parte è già iniziato il conto alla rovescia in attesa del prossimo Acoustic Guitar Meeting di
Sarzana, che si terrà dal 22 al
26 maggio del 2013: sono aperte
infatti le selezioni per il concorso
New Sounds of Acoustic Music
– Premio Carisch (In memoria di
Stefano Rosso), alle quali partecipano anche fingerpicking.net e
Chitarra Acustica, e che porteranno alla finale del 23 maggio
sei chitarristi solisti e quattro cantautori-chitarristi.
La scorpacciata di musica
che ci siamo fatti tra maggio e
settembre, inoltre, è stata l’occasione per raccogliere molto
materiale che dobbiamo ancora
gustare. In questo numero pubblichiamo innanzitutto un’intervista ad Antonio Forcione, che
abbiamo incontrato ad Acoustic
Franciacorta, e un suo spartito
molto accurato. Antonio ha presentato ad agosto il suo nuovo
bellissimo disco Sketches of
Africa, che è stato indicato come
disco del mese nel numero di
novembre della rivista Guitar
Techniques in Inghilterra, paese
dove vive da anni. Noi abbiamo
voluto dargli la copertina, perché
ci piacerebbe che fosse conosciuto di più e che avesse tutto
il successo che merita anche nel
suo paese di origine.
Tra le diverse interviste raccolte al Meeting di Sarzana,
pubblichiamo quelle a Veronica
Sbergia e Max De Bernardi, re-
Editoriale
Chitarra Acustica Winter di Andrea Carpi
Il silenzio della musica di Reno Brandoni
duci dall’eccellente album Old
Stories for Modern Times, e a
Marcus Eaton, cantautore-chitarrista di grande talento, che David
Crosby ha voluto con sé per il
suo nuovo disco in lavorazione.
Marcus appare anche in un recente disco tributo a CSN&Y prodotto dall’etichetta italiana Route
61, Music Is Love – A SingerSongwriters’ Tribute to the Music
of CSN&Y, di cui parliamo diffusamente in questo numero e che
offre l’occasione di conoscere un
vasto mondo di interpreti legati
al cantautorato indipendente angloamericano, poco frequentato
da noi e di grande interesse.
Andrea Carpi
pag. 3
pag. 5
Notizie
Due chitarristi e un cantautore-chitarrista a Sarzana
pag. 6
Blog
Prima chitarra: scelta accurata di Luca Franciosopag. 8
Quelli che… costruiscono le chitarre, oh yeah! di Mario Giovannini
pag. 9
pag. 10
Perché non parli? di Daniele Bazzani
Il palco di Reno Brandonipag. 11
Recensioni
pag. 12
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chitarra acustica 11 duemiladodici
sr
Artisti
Intervista ad Antonio Forcione di Andrea Carpipag. 16
pag. 21
Madiba’s Jive di Antonio Forcione
Intervista a Veronica Sbergia e Max De Bernardi di Dario Fornara
pag. 28
pag. 32
Madame Guitar 2012 di Andrea Carpi
Music is Love di Alfonso Giardino
pag. 38
pag. 42
Intervista a Marcus Eaton di Lauro Luppi e Frank Varano
Strumenti
Chitarra acustica Peavey Composer Parlor di Mario Giovannini
pag. 46
Chitarra acustica Martin DRS 1 di Mario Giovannini
pag. 48
Microfono e preamplificatore Gold Tone ABS di Daniele Bazzanipag. 50
Suono e sellette di Dario Fornarapag. 51
GAS Addiction di Mario Giovannini
pag. 54
Tecnica
pag. 56
Guitar Workshop di Stefan Grossman
pag. 60
The Blue Horizon di Peter Finger
Basso Acustico - 4 di Dino Fiorenza
pag. 64
L’improvvisazione - 5 di Daniele Bazzani
pag. 66
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Mario Giovannini
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Direttore responsabile
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Chitarra Acustica è una pubblicazione mensile
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ed
editoriale
Il silenzio della musica
Se la vita non mi avesse aggredito con il suo fardello di incontrollabili eventi, se il destino non
mi avesse aiutato a scavare nella
mia identità sopita, forse non lo
avrei mai capito. Certamente lo
avrei notato con difficoltà.
La musica si è associata al rumore. Oggi non distinguiamo più
musica e rumore, ma ogni musica è rumore e ogni rumore è
musica. Bisogna vivere un lungo
periodo di disintossicazione per
capire l’abisso in cui siamo finiti.
Io l’ho vissuto per varie vicende
personali: un lungo periodo di silenzio, lontano dalla musica, ma
molto vicino ai rumori. E dopo un
poco ho iniziato a desiderare la
musica, la melodia e l’armonia.
Ogni volta che potevo arricchire
la mia giornata di qualche suono,
tutta la mia concentrazione era
protesa verso quell’evento: nessuna distrazione, solo il piacere
di assorbire l’energia sprigionata
da quelle note, raggi di sole in
un’oscurità perenne. Selezionavo con cura ogni brano per go-
dere appieno di quei momenti
di gioia, mi lasciavo trascinare e
sommergere da cascate di note.
Ma più ne ricevevo, più cercavo
di distinguere nel ‘frastuono” armonico l’essenza della musica:
quella misurata, fatta di essenzialità e completezza, sfuggendo
all’effetto coinvolgente di un’atmosfera artificiosamente creata
per soddisfare il solo godimento
emotivo. Sono arrivato a selezionare l’essenziale, come le sei
Suites di Bach per violoncello
solo. ‘Abnormi’, ma dense della
completezza da me cercata. Poi,
dopo quattro mesi di silenzio, eccomi di nuovo nel nostro mondo,
il supermercato, la stazione, il
treno, la TV, la radio in macchina,
quintali di note gettate lì, regalate, svendute, spinte nella testa di
ognuno, ma spesso ignorate o
evitate. Nessuno si ferma più ad
ascoltare la musica, ma la musica stessa accompagna ogni quotidiano gesto e momento, come il
rumore dell’acqua che scorre la
mattina nella doccia, il borbottìo
ACOUSTIC FRANCIACORTA IN CASTELLO
della lavatrice o della caffettiera
che avverte che il caffè è pronto. Rumori mischiati a rumori,
note su note che hanno fatto
del mondo musicale, del piacere
dell’ascolto, un incontrollato e aggressivo pianeta, ormai remoto e
incomprensibile. Spegniamo per
un attimo tutte le fonti, chiudiamo ogni sorgente, ritorniamo al
silenzio assoluto, per riprendere
un’approccio con la musica e ricominciare da subito a subire il
suo fascino e il suo potere.
Reno Brandoni
of the World”, un pezzo di Michael che Angelo ha
accompagnato con il violino, e “Il dono del cervo”,
la classica ballata branduardiana impreziosita dal
flauto traverso di Hedges.
Info: tel. 02 56807350, www.lasalumeriadellamusica.com.
A partire dal mese di novembre, presso il Castello Oldofredi di Iseo, prende il via un’edizione straordinaria di Acoustic Franciacorta. L’idea è che il
festival non termini alla fine dell’estate, ma continui
a tener vivo l’interesse per la musica acustica. Così
l’evento che ormai da nove anni anima il periodo di
fine estate franciacortino, quest’anno per la prima
volta continuerà anche nella stagione invernale e
oltre, fino al mese di maggio 2013, con sette appuntamenti a cadenza mensile, che prevedono due momenti musicali e che si terranno nella affascinante
cornice dell’auditorium del Castello Oldofredi.
Info: Libera Accademia in Franciacorta, tel. 320
7038793, www.franciacortalaif.it.
MICHAEL MANRING
– 4 dicembre: Milano, Salumeria della Musica, “Michael Hedges Tribute”;
– 5 dicembre: Milano, Accademia del Suono, ore
16, seminario (tel. 02 2593869);
– 8 dicembe: Rieti, TBA;
– 9 dicembre: Roma, Big Mama, ore 22, concerto
con Pino Forastiere;
– 10 dicembre: Roma, TBA, seminario.
Info: Armadillo Club, [email protected].
MICHAEL HEDGES TRIBUTE
– 4 dicembre, Milano, Salumeria della musica,
ore 21.30: “Il Jimi Hendrix della chitarra acustica a
quindici anni dalla morte”, serata speciale presentata da Ezio Guaitamacchi con la partecipazione di
Beppe Gambetta, Guitar Republic, Pino Forastiere in duo con il vocalist Boris Savoldelli, Finaz
della Bandabardò; ospite speciale: Michael Manring.
Nel corso della serata verranno proiettati estratti
dall’ultimo concerto di Michael Hedges in Italia, tenuto Il 23 novembre 1991 al Teatro di Porta Romana di Milano, dove Michael concluse il festival Musica & Natura aprendo lo spettacolo di Angelo Branduardi. Insieme, i due musicisti suonarono “Woman
BOB BROZMAN
– 7 dicembre: Arcola (SP), G & G Guitar Sound
Center, seminario (tel. 0187 1997983);
– 8 dicembre: Savona, TBA ([email protected]);
– 9 dicembre: Poggio Berni (RN), Circolo dei Malfattori, ore 22;
– 11 dicembre: Firenze, Teatro del Sale (tel. 055
2001492);
– 12 dicembre: Cecina (LI), Birroteca Doppio Malto
(tel. 0586 018125);
– 14 dicembre: Soresina (CR), Teatro Soresina
(tel. 0374 340454, [email protected]).
Info: Armadillo Club, [email protected].
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chitarra acustica 11 duemiladodici
nt
notizie
DUE CHITARRISTI E UN CANTAUTORE-CHITARRISTA A SARZANA
Con fingerpicking.net e Chitarra Acustica
Come ormai consuetudine, la prima serata di
concerti della prossima XVI edizione dell’Acoustic
Guitar Meeting, che si terrà alla Fortezza Firmafede di Sarzana dal 22 al 26 maggio 2013, sarà consacrata al concorso New Sounds of Acoustic Music – Premio Carisch 2013 (In memoria di Stefano
Rosso), vinto nell’edizione precedente dal chitarrista Matteo Crugnola e dal cantautore-chitarrista
Daniele Li Bassi.
Dieci giovani chitarristi acustici, dell’età massima
di 35 anni, si alterneranno alle ore 19 di giovedì 23
maggio sul palco centrale della manifestazione per
presentare due brani a testa, che potranno essere
inediti per chitarra di propria composizione o adattamenti originali per chitarra di brani musicali di qualsiasi origine, oppure brani cantati composti personalmente e accompagnati con la chitarra acustica.
La lunghezza dei due brani deve essere contenuta
in 4 minuti ciascuno. Sarà possibile utilizzare chitarre acustiche con corde metalliche o anche con
corde di nylon, ma lo stile dei brani dovrà essere di
chiara matrice moderna e non classica.
La selezione dei 10 giovani artisti emergenti – 6
chitarristi solisti più 4 cantautori-chitarristi – è affidata all’associazione culturale Armadillo Club che
organizza la manifestazione (selezionerà 3 cantautori-chitarristi), al Centro Studi Fingerstyle (selezionerà 2 chitarristi), a Lizard Accademie Musicali
(selezionerà 1 chitarrista), alla rivista GTR & Bass
(selezionerà 1 chitarrista) oltre che al nostro portale
fingerpicking.net, che selezionerà 2 chitarristi e 1
cantautore-chitarrista. I partecipanti dovranno inviare entro il 28 febbraio i propri nominativi, una breve
biografia e le registrazioni dei brani da proporre ad
una soltanto delle citate organizzazioni che effettuano la selezione. Alla fine del mese di marzo sarà
comunicato agli interessati l’eventuale superamento della selezione in vista della partecipazione alla
serata finale.
Per chi desidera inviare il materiale a fingerpicking.net, è possibile inviare direttamente il materiale a [email protected].
Nella serata finale, una giuria selezionata premierà la migliore esibizione chitarristica e la migliore
esibizione cantautorale. I premi saranno messi a
disposizione dalla ditta Carisch, partner dell’evento, e si tratterà di strumenti e accessori di grande
qualità. Altri omaggi sono previsti dalle aziende
John Pearse Strings e B-Band. Inoltre, i due primi
classificati saranno ospiti della successiva edizione dell’Acoustic Guitar Meeting e parteciperanno
ad altre manifestazioni chitarristiche organizzate
dall’Armadillo Club. Una serie di altri riconoscimenti
e menzioni saranno assegnati a tutti i partecipanti.
Un grande artista internazionale sarà ospite speciale della serata finale e ‘tutore’ dei partecipanti,
esibendosi successivamente in concerto e prendendo parte alla giuria. Faranno parte della giuria:
Stefania Rosso, figlia di Stefano Rosso; Davide
Mastrangelo, direttore del Centro Studi Fingerstyle;
Andrea Carpi; Giovanni Unterberger, fondatore
di Lizard Accademie Musicali; Giovanni Pelosi per
fingerpicking.net; Marino Vignali per la ADGPA
Italiana; Claudio Chianura per GTR & Bass; Germano Dantone per Carisch; Fiorenzo Baruzzo per
Heineken Italia; Alessio Ambrosi, direttore artistico del festival, e infine un artista e un liutaio tra le
presenze internazionali della manifestazione.
Info: www.acousticguitarmeeting.net.
Affrettatevi a inviare i vostri brani a:
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chitarra acustica 11 duemiladodici
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blog
Prima chitarra: scelta accurata
Ecco che al primo barré anche i più volenterosi studenti potrebbero arrendersi di fronte al dolore fisico
e all’impostazione sbilenca che strumenti economici causano. È vero che a volte il talento non viene
fermato neppure da chitarre di compensato, ma è
altrettanto vero che non sempre sono i più talentuosi a regalare musica raffinata, di conseguenza
credo che vada tutelata la possibilità di riuscita di
ogni mano, anche la meno portata, con un’accurata scelta del primo strumento e non con l’acquisto
ottuso di una chitarra qualsiasi, purché economica.
Non dico certo che la ‘chitarra da studio’ debba
per forza essere uno strumento di liuteria, ma vero
è che migliore è la fattura costruttiva della chitarra
con cui si studia, migliore sarà il risultato dello studente.
Dall’altra parte, invece, c’è chi pensa che un cospicuo investimento corrisponda sempre e senza
eccezioni al migliore strumento in commercio. Inutile dire che non è così. Più volte ho visto chitarre dal
nome imbarazzante avere più personalità di chitarre rinomate.
È l’equilibrio fra il budget a disposizione e la qualità della chitarra la soluzione a cui aspirare.
Troppo spesso sento dire da genitori di piccoli e
aspiranti chitarristi la parola ‘chitarra da studio’ riferita per lo più a strumenti in compensato super
economici e quasi impossibili da suonare, più o
meno dei giocattoli che non gravano sul portafogli
familiare, ma che non hanno niente a che fare con il
concetto di studio.
Questo ormai obsoleto luogo comune, come un
ritornello di una canzone poco riuscita, mi suona
nelle orecchie da quando anche i miei genitori ne
hanno cantato qualche verso, spinti anche loro dal
comprensibile timore che un ragazzino, circondato
da mille attrazioni, possa perdere presto interesse.
In effetti di frequente accade che uno strumento
venga seppellito in cantina perché la curiosità del
suo apprendista esecutore ha tirato le cuoia prima
di esalare il primo accordo, e il rammarico dei genitori solitamente è pari alla soddisfazione di non
aver speso cifre esose per un capriccio passeggero
del figlio.
Il fatto è, però, che uno strumento di pessima fattura non agevola affatto l’apprendimento, anzi molto spesso ne ostacola il percorso, rendendo difficile
ciò che è semplice e impossibile ciò che è difficile.
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chitarra acustica 11 duemiladodici
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Quelli che… costruiscono le chitarre, oh yeah!
di Mario Giovannini
Ci sono quelli che “cianno da fare”, sempre da
fare, troppo da fare. E non hanno tempo. Per nulla.
Se vuoi una loro chitarra devi chiedere, implorare,
sperare. E alla fine te la danno, ma con almeno un
anno di ritardo. Perché cianno da fare!
Ci sono quelli che “hanno il campionario”, ovvero
le chitarre da esposizione. E a ogni fiera, anno dopo
anno, li vedi sempre con gli stessi strumenti. Poi,
se ne provi una e ti piace, se la vuoi comprare, non
te la danno. Perché è il campionario. Se la vuoi, te
ne fanno un’altra, uguale. Ma senza fretta, perché,
comunque, cianno da fare!
Ci sono quelli che “niente foto alle mie chitarre,
grazie”. Ha sei corde, una cassa, un ponte e un manico. È una OM. Non avendo a disposizione una
macchina a raggi X portatile e, comunque, non capendoci una beata mazza di niente su incatenature
e affini, cosa potrò mai copiare dalla foto della tua
chitarra?
Quelli che “io la cassa/la paletta/il manico così non
faccio, assolutamente”… ma non dovresti ascoltare
le richieste del cliente, cioé io?
Quelli che “la chitarra è garantita a vita”, ma sono
pochissimi. E di solito molto anziani. Immagino non
si riferiscano allo strumento.
Quelli che “fanno tutto a mano, niente macchine”.
E fanno tutto a mano, effettivamente. Quella che gli
è rimasta. Ma comunque un paio di dita se le sono
giocate anche in quella.
Quelli che “il liutaio non deve suonare la chitarra,
perché i calli sui polpastrelli non ti fanno sentire le
vibrazioni del legno”. Di solito, ma non sempre, appartengono anche alla categoria niente macchine
e il problema dei calli sulle dita lo hanno già risolto.
Alla radice.
Quelli che “in America sono avanti mille anni, perché la chitarra l’hanno inventata loro”… e io che ero
convinto che fosse nata in Europa dal liuto arabo.
Quelli che “in America non capiscono un c…o”…
e io che ero convinto che… Oddìo non sono più
convinto di nulla, che confusione. Oh yeah!
Decidere di farsi costruire una chitarra da un liutaio è un passo importante, possiamo anche dire
fondamentale, nella vita di un artista. Implica una
certa maturità, sia tecnica che musicale, oltre a una
profonda consapevolezza di quelle che sono le proprie reali necessità. E la capacità di trasmettere tutto
questo a chi dovrà realizzare lo strumento. O almeno così dovrebbe essere… ma di questo parleremo
un’altra volta.
Presa la storica decisione, fatto partire il piano
quinquennale di accantonamento fondi necessario
perché, sia chiaro – com’è giusto che sia – nessuno regala nulla, a meno che non si sia amici d’infanzia di uno di questi signori, si deve poi scegliere
il ‘Mastro Geppetto’ che realizzerà la nostra creatura. Il sistema migliore, naturalmente, è visitare il
più possibile le fiere di settore in cui questi artigiani
espongono le loro opere. Per poi rendersi conto di
essere precipitati in una sorta di universo parallelo,
in cui valgono strane regole e curiose convenzioni
sociali.
I liutai si conoscono tutti fra loro. Tutti. Sono sempre cordialissimi e molto gentili. E ognuno è convinto di essere l’unico a saper lavorare. Tutti gli
altri sono dei dilettanti. Magari qualcuno non è poi
così malaccio, ma ne ha ancora di strada da fare.
Ciascuno è convinto di essere il depositario della
verità assoluta.
Ci sono quelli che “usano solo colla animale” perché le Martin pre-war sono le uniche chitarre degne
di tale nome. E niente trussrod, solo barre a T nel
manico. Quindi, in cento anni non abbiamo fatto un
solo passo avanti. Del resto già fanno sistematicamente strage di piante, che gli frega di qualche animaletto.
Ci sono quelli che “mettono le tavole armoniche
a riposare sul fondo di un torrente per anni, perché
assorbano le vibrazioni della Terra”, in modo che
acquisiscano sonorità uniche. Di solito lavorano
solo di notte, preferibilmente quando c’è luna piena,
biascicando frasi incomprensibili.
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chitarra acustica 11 duemiladodici
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blog
Perché non parli?
di Daniele Bazzani
te suoneremo meglio, altre peggio, ma il tentativo
deve essere fatto. Troppe volte ho visto gente salire
sul palco pensando di tirar via la serata, magari raccontando qualche storiella simpatica, ma si capisce
quasi subito se per montare lo show abbiamo lavorato un anno, o un’ora. Quello è il vero “rispetto” che
il pubblico merita.
Dagli americani ho imparato una grande lezione
anche riguardo a come ci si presenta sul palco, c’è
un episodio che mi ha fatto sorridere ma anche riflettere.
Ero a Nashville in occasione della CAAS, il festival dedicato a Chet Atkins, sul palco c’era Boots
Randolph, un grandissimo sassofonista americano,
celebre fra le altre cose per aver portato al successo negli anni ’60 “Yakety Sax”, scritta da James Q.
‘Spider’ Rich (ricordate la musica di Benny Hill?).
Randolph è stato l’unico ad aver suonato il sax da
solista su un disco di Elvis, e ha contribuito in maniera importante a creare, con il suo strumento, il
famoso ‘Nashville Sound’, insieme a Atkins che
produsse molta musica di quel periodo scoprendo
talenti incredibili.
Torniamo allo spettacolo, perché a un certo punto
Randolph si avvicina al microfono, proprio prima del
brano in questione e dice: “Questa è la canzone che
mi ha fatto scendere dalle colline del Kentucky... e
mi ha fatto salire su quelle del Tennessee”.
La battuta mi ha fatto ridere, ma avevo accanto
un signore piuttosto anziano che rimaneva del tutto
impassibile, quasi infastidito. Gli chiedo, visto che
avevamo chiacchierato brevemente poco prima,
se non la trovasse una cosa divertente, lui fa una
pausa e mi dice: “L’ho visto 40 anni fa e ha detto la
stessa battuta”. A quel punto ho riso davvero.
Poi però ho ragionato su quanto si possa preparare anche una singola frase messa al punto giusto,
se la si ritiene opportuna, e ho capito che se ogni
sera ci esibiamo in un contesto differente, lo show
non sembrerà mai una ripetizione, anche se a dire
frasi sempre allo stesso modo, nello stesso punto,
forse ci sentiremo limitati, ma è meglio una frase
preparata bene che una improvvisata male, non c’è
dubbio.
Parto da una veloce considerazione: a me, se un
musicista parla durante il concerto, non dispiace. Mi
fa piacere sentire storie che riguardino le canzoni o i
brani strumentali (se non hanno testo), o aneddoti e
storie simpatiche, qualora il musicista fosse in grado di raccontarne in maniera divertente e intrigante.
Non lo nego. Il problema è un altro. Ho sentito spesso commentare il concerto del taciturno artista di
turno (perdonate l’orrendo gioco di parole) con frasi
tipo: “Si ma due parole poteva anche dirle”.
Chi è abituato a stare sul palco sa bene che una
frase azzeccata al momento giusto può portare il
pubblico dalla propria parte, lo ben dispone anche
riguardo alla musica, non che si possa essere simpatici e suonare male, ma sembra che il contrario
non si possa fare. Vengo al punto.
Il mio obbiettivo, quando compro il biglietto di un
concerto, è andare a sentire musica, non voglio altro. Se poi altro c’è, me lo prendo. Ho visto Frank
Zappa negli anni ’80, un’ora e un quarto di musica
senza una sola pausa, poi se ne è andato per non
rientrare, non una parola, uno dei concerti più straordinari della mia vita. Ho visto Paco De Lucia più
volte, non so che voce abbia se non per un bellissimo documentario su Dvd dove si racconta, non certo per quello che dice durante i concerti. Non credo
ci sia bisogno di dire quanto belli siano stati i suoi
spettacoli. Ho visto Bob Dylan e non lo ricordo presentare nulla, o dirci qualcosa. Meraviglioso.
Che voglio dire? Che se il concerto è bello, sono
lì per quello, non per altro. Se vado al cinema a vedere un film con Robert De Niro, non mi aspetto che
all’intervallo (o fra due scene clou) mi dica qualcosa,
sono lì per vedere come recita, e vedere il film. A
teatro mi basta la presenza sul palco e magari un
inchino di ringraziamento alla fine, ma nessuno si
aspetta un grande attore prendere la parola. Perché
ai musicisti questo sembra non essere concesso, o
concesso con fastidio?
Alla base di tutto c’è una semplice considerazione: il rispetto per il pubblico di un concerto sta nel
cercare di offrirgli il miglior spettacolo musicale possibile, non credo ci sia altro. Va detto anche che alcuni (molti) artisti, hanno trovato il modo di comunicare attraverso la loro musica, perché con le parole
non riescono, non sono proprio capaci, non è che
non vogliano.
Oltretutto se si parla a sproposito (chi è mai salito
su un qualsiasi palco sa bene cosa intendo) si rischia di rovinare tutto, di fare la figura degli imbecilli, quando magari stiamo solo cercando di sforzarci
per compiacere chi abbiamo davanti.
L’unico vero, grande impegno che ha un musicista
è quello di dare il massimo, tutto quello che abbiamo e nel miglior modo possibile, sapendo che a vol-
La lezione può quindi essere: cercate di dare tutto
quello che potete quando siete sul palco, se questo
comprende anche il parlare e dire cose sensate o
divertenti va bene, in caso contrario state zitti, che
è meglio.
Se siete spettatori, non pensiate che il musicista
sia vostro amico e sia lì per parlare, il biglietto lo
avete pagato per la musica, non per sentirlo chiacchierare. Tanto se il concerto è bello, avrete speso
bene i vostri soldi, se è brutto, non saranno due battute azzeccate a renderlo migliore.
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chitarra acustica 11 duemiladodici
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blog
Il palco
di Reno Brandoni
È certo che quando vado a un concerto mi aspetto qualcosa!
Qualcosa in più di quello che posso avere comprando il CD del musicista o ascoltando i suoi brani
su iTunes, YouTube o dalla radio della mia macchina. È certo che se vado a un concerto e il musicista
mi risuona esattamente tutto il suo CD, magari con
qualche brano a sorpresa o qualche cover d’effetto, tutto sommato so di aver avuto ciò per cui ho
pagato, ma sicuramente non era il vero motivo per
cui ero li.
Solitamente vado ad un concerto per incontrare
l’uomo, misurare il suo carisma e le sue debolezze,
e mi aspetto che mi comunichi qualcosa di suo, di
personale che non può essere impresso o svelato in una registrazione. E chissenefrega se fa delle
battute stupide o balbetta, non tutti possiamo essere fantastici oratori: mi basta che sia se stesso, che
scopra le sue carte, che mi racconti della sua vita,
che mi faccia capire il perché della sua musica, il
senso delle sue composizioni.
Mi sono un po’ stancato dei maestri dell’arroganza che salgono sul palco per darti una lezione su
come si suona, pronti a ‘regalarti’ l’ultima loro evoluzione, e che si compiacciono di se stessi. Ho voglia
di umanità, di errori, di verità, forse anche di frasi
trite e ritrite che annoieranno i fan più assidui. Ma il
palco è vita e io mi aspetto un musicista vivo.
Suonare la musica è una cosa, salire su un palco
è completamente un’altra, un’altra arte. Magari certi
musicisti sono fantastici a casa o meravigliosi nel
proporre la propria musica su un CD, poi sul palco sono una frana; mentre altri non trasferiscono
nessuna emozione dai loro CD, ma sul palco hanno
forza e carisma e regalano più emozioni di tecnici ‘sperduti’ o di vani eroi. Allora salire su un palco
significa qualcosa di preciso: mostrarsi al pubblico, esporsi, raccontarsi, condividere musica e vita,
avere il coraggio di svelarsi, confrontarsi, regalare
la propria essenza, esporsi a un pubblico con il vero
volto, senza schermature o effetti speciali, tu, la tua
musica e il tuo essere.
Perché pagare per tutto questo? Perché sorbirsi
incapaci oratori che calpestano il palco, spaventati
o timorosi, nervosi e ansiosi, preoccupati di sbagliare ed emozionati dalla luce che li illumina sottraendoli al contesto? Perché la musica è anche tutto
questo: sbagliare, lasciare alle spalle la perfezione
figlia di un progresso deleterio, suonare per godere,
per piacere, sopratutto a se stessi.
Vaneggio, lo so, so anche che è dura subire tra
le poltrone della platea l’intrepido tentativo di qual-
cuno sul palco che cerca di comunicarmi qualcosa
senza riuscirci. So che sarebbe fastidioso sentire
frasi scoordinate o concetti stralunati tenuti insieme
da nessun pensiero logico. Poi ripenso a un film intitolato Oltre il giardino con Peter Sellers, dove uno
sconnesso giardiniere veniva genialmente ‘interpretato’ nel suo vaneggiare; oppure più di recente a
Francesco De Gregori, che a chi gli chiedeva dettagli sui suoi testi rispondeva con una storica “Niente
da capire”.
Un concerto allora forse non è fatto di sola musica, ma è fatto di persone che provano sentimenti.
In un tour di tanti anni fa ricordo un mio amico/
collega chitarrista che era stato lasciato dalla moglie e piangeva tutto il giorno, ma la sera, salito sul
palco, rideva, scherzava e faceva divertire. Un giorno gli chiesi come mai. Mi sembrava strano questo contrasto tra la grande tristezza nel retropalco
e la grande allegria sul palco, e lui mi rispose che la
gente pagava per divertirsi…
Ecco, ora non sono più tanto d’accordo su questo concetto, oggi mi verrebbe voglia di dirgli che
forse la gente pagava per capire, per capirti, darti
una mano ad affrontare la vita ed essere te stesso.
E poi non è proprio vero che «Ma cosa gliene frega
agli altri dei nostri sentimenti»… Forse il mondo è
quello che è proprio per questo, perché pensiamo
che a nessuno freghi niente di noi. Invece no, proviamo ad esporci con coraggio e orgoglio, onestà e
sincerità e una spolverata di emozioni. Ed il gioco è
fatto, nessun mistero ma solo verità.
E che si spengano le luci e la musica abbia inizio.
Ecco a voi l’uomo!
11
chitarra acustica 11 duemiladodici
rc
Nibs van der Spuy
A House across the River
2 Feet Music – Sheer Group
Quest’ultima produzione, uscita nel 2010, è già il nono album
di Nibs van der Spuy. Una lunga
carriera che, nonostante l’ancora
giovane età, lo ha fatto riconoscere come uno dei più originali
esponenti del Nu Folk e che gli
ha consentito di affermarsi sempre più sulla ribalta internazionale.
Nove brani originali (tra i quali
due strumentali) e due cover (l’acustica “Little Martha” di Duane
Allman e “Cripples Cry” di Tim
Buckley), che confermano le
grandi doti artistiche di questo
chitarrista-cantautore sudafricano. Tutte le tracce vedono Nibs
protagonista strumentale: armonica, chitarre acustiche ed elettriche sono tutte suonate da lui, oltre alla voce e al cuatro portoricano (lo strumento a cinque corde
doppie che imbraccia nella foto di
copertina), con il quale richiama
le tipiche sonorità degli strumenti
a corda africani come la kora.
Le percussioni e il piano di
Gareth Gale, insieme al basso
e al violoncello di Kieran Smith,
completano l’ensemble in studio, senza dimenticare le prestigiose partecipazioni di Piers
Faccini e dell’amico Guy Buttery,
con il quale divide spesso il palco nei suoi tour com’è accaduto
quest’ultimo settembre al festival
internazionale Madame Guitar di
Tricesimo in provincia di Udine.
Fin dalla prima traccia “A Hou-
recensioni
se Across The River”, compreso
“Nieu Bethesda” all’odor di Ben
Harper, in tutti i brani è sempre
presente una leggera vena malinconica, maggiormente caratterizzata dal particolare timbro
vocale che ci riporta alla mente
un certo Nick Drake (“My Little
Singing Bird” è illuminante sotto
quest’aspetto, grazie anche alla
presenza di un violoncello nel delicato arrangiamento) o il primo
Cat Stevens (“Once I Climbed A
Lion Mountain” sembra estratta
da Teaser and the Firecat) .
Quella di van der Spuy è una
musica che mira prima di tutto
al cuore, che all’influenza della
musica anglosassone bianca associa le forti radici della musica
corale Zulu, il tutto riproposto con
una veste acustica e molto intimista.
Alfonso Giardino
Béla Fleck and the Marcus Roberts Trio
Across the Imaginary Divide
Rounder/EgeaMusic
Già da tempo Béla Fleck ci ha
abituati al suo newgrass, quella forma di bluegrass cosiddetto
progressivo con marcati elementi
swing. E i musicisti di area jazzfusion con i quali ha dato vita al
suo gruppo più famoso, i Flecktones, stanno lì a dimostrarlo.
Ma qui si sta prendendo in considerazione un jazz neoclassico,
che recupera gli elementi migliori del primo jazz adulto, quello
di Thelonious Monk, Art Tatum,
Duke Ellington, lo stesso George
12
chitarra acustica 11 duemiladodici
Gershwin. Può il bluegrass incontrare questo jazz? Ebbene sì.
Ancora una volta le sonorità del
banjo di Fleck trovano la chiave
giusta per entrare in un mondo
solo apparentemente lontano e
sconosciuto.
La cronaca ci racconta di quella
sera in cui il grande banjoista si
reca al Savannah Music Festival
solo per ascoltare il pianista Marcus Roberts, di essere invitato sul
palco per suonare con la band,
e… che la cosa ha maledettamente funzionato! Un anno dopo
Béla Fleck e Marcus Roberts accettano di esibirsi ufficialmente
insieme per la prima volta proprio
al Savannah Music Festival.
Il trio di Marcus Roberts, nato
nel 1995, è un ensemble, si diceva, d’impostazione classica,
dallo stile melodico, ma allo stesso tempo pieno di contrasto dinamico. Oltre al pianista leader,
che ha iniziato la carriera nella
big band del trombettista Wynton Marsalis, il trio conta Rodney
Jordan al contrabbasso e Jason
Marsalis (sì, la famiglia è la stessa di Branford e Wynton) alla batteria, una ritmica di gran classe.
Dal canto suo Béla Fleck è
da tempo riconosciuto come il
più importante virtuoso di banjo
del mondo. Ha letteralmente reinventato l‘immagine e il suono
del banjo attraverso una carriera
straordinaria e una serie di progetti musicali innovativi.
Come questo Across The Imaginary Divide, naturale seguito
dell’esperienza positiva degli incontri al Savannah Music Festival.
Un disco divertente, fresco,
brillante, dove la maestria tecnica, i funambolismi stilistici non
sempre naturalmente contigui e
la grande cantabilità s’intrecciano
magistralmente. I due leader
sembrano suonare insieme da
una vita. A volte, come in „Petunia“, il terreno comune del blues
richiama entrambi ad un’intesa
ancestrale; in altri casi, come in
„Kalimba“, va reinventato tutto,
rc
c’è da dissodare un terreno vergine che porta verso scenari armonici e ritmici assolutamente
inediti. Naturalmente c’è anche lo
swing tradizionale, che riporta il
banjo di Fleck ad accenti più ‚domestici‘, pur se comunque non
proprio consoni alla sua grammatica originaria, ma con il risultato comunque di essere sempre
credibile, sempre dentro il pezzo.
Una bella prova discografica
dove il virtuosismo è sempre al
servizio della classe, del grande
gusto musicale.
Gabriele Longo
Massimo Varini
Urban Guitar
Kymotto Music
Chi conosce Massimo capirà
subito che in questo nuovo CD
c’è dentro tutta la sua vita, un lavoro in qualche modo riepilogativo di un lungo percorso, un sommario di eventi che descrivono la
storia di questo musicista che ha
fatto della chitarra la propria arte
e il proprio mestiere.
Urban Guitar è un viaggio alla
scoperta di mondi diversi non
sempre contigui od omogenei,
ma che hanno alla base le sei
corde e la maestria interpretativa
di Varini. La chitarra si presenta
sia nuda che vestita della voce
di Rossella Zanasi, una voce
grintosa e determinata che combatte ad armi pari con la tecnica
chitarristicha di Massimo. “Luce”,
“Sign Your Name”, “Smooth Operator”, “Come Together” sono i
brani cantati, che danno a questo lavoro un’impronta diversa
dai precedenti e aprono il CD a
un pubblico più vasto, che difficilmente tollererebbe un disco solo
suonato. Quello di non ‘annoiare’
è un vecchio problema dei chitarristi acustici, e questi inserimenti
cantati danno a tutto il percorso
d’ascolto una piacevole diversità.
Descrivere brano per brano le
emozioni di ogni singolo pezzo
sarebbe complesso e il giudizio
sarebbe troppo personale. Certo
è che durante l’ascolto si creano delle preferenze legate alle
proprie esperienze e ai propri
gusti: io per esempio reputo un
bel gioiello “When the Castles
Crumbled” (composto la notte del
terremoto in Emilia), un brano nel
quale ho trovato molta italianità,
molte citazioni – forse inconsce
– della musica di Piovani. Sarà
questione di gusti, ma le cose più
‘romantiche’ di Varini sono quelle
che mi catturano di più: sembra
proprio che in quei brani Varini trovi la sua giusta lunghezza
d’onda comunicativa. Neanche
una nota si perde e alla fine del
brano ogni singola nota suonata
la ritrovi dentro di te, conservata
nel giusto ordine pronta a essere riassaporata dalla memoria.
“Leonanna” è un altro pezzo importante della vita del chitarrista,
un brano in cui il cuore scivola
attraverso le mani bagnando le
corde della chitarra di passione
e amore.
Questo lavoro restituisce a
Massimo la sua dimensione pop,
che è un po’ all’origine di una
così lunga carriera: un CD autobiografico, che evidenzia le diverse esperienze musicali maturate
negli anni e che qui ritrovano un
giusto momento di riflessione. In
effetti questo disco lo trovo molto
‘da palco’, molto suonato, molto
ritmico, deciso e aggressivo. “Il
mio mondo è in Do settima” è un
esempio di set live, che identifica
questa voglia di spettacolo e di
musica dal vivo. Che il ‘vecchio’
rocker sia tornato tra noi armato
di una chitarra acustica?
Registrazione e suono come
sempre impeccabili.
Reno Brandoni
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chitarra acustica 11 duemiladodici
Finaz
Guitar Solo
Mojito Records
Finaz, la ‘chitarra virtuosa e
solitaria’ della Bandabardò, si cimenta in un disco di sola chitarra
acustica. Ed è sempre un gran
piacere quando un chitarrista
proveniente dal mondo dei gruppi e della musica pop e rock si
avvicina al mondo della chitarra
acustica, un mondo che rischia a
volte di rinchiudersi in se stesso
e nel quale elementi esterni possono portare tutta l’energia che
deriva da una maggiore consuetudine con un rapporto vivo con
il pubblico. Questo è tanto più
vero nel caso di un musicista
della Bandabardò, da sempre
una delle band più attive nel circuito dei concerti dal vivo.
Come ci si poteva aspettare, gran parte di Guitar Solo si
esprime in un linguaggio di ‘rock
acustico’, che si manifesta tecnicamente attraverso un uso efficacissimo del plettro, del plettro
unito alle dita e dello strumming.
Ma si tratta di un rock acustico
che, com’è nelle corde della
Bandabardò, assorbe molti generi diversi in uno spirito di contaminazione, attraverso citazioni
e sviluppi originali, senza mai dimenticare l’amore per i frenetici
ritmi popolareschi e i ritornelli da
intonare assieme a squarciagola. Si va dalla Spagna di “Malagueña”, con suoni ispirati all’oud
sulle corde di nylon, al flamenco
di “Como el sol”; dal Brasile di
“One by One”, con l’imitazione
del berimbao, a “Tango” e “Tarantella”.
Finaz fa anche un uso esteso
dei nuovi stili chitarristici a due
mani, del tapping e delle percus-
rc
sioni sulla chitarra. E qui viene
fuori prepotentemente la sua
tecnica notevolissima: a tratti
sembra di ascoltare delle sovraincisioni ma, guardando i suoi
video di alcuni di questi brani su
YouTube, ci si rende conto che
sono effettivamente suonati a
solo e in diretta. Il fatto è che Finaz riesce sempre a incastonare
in modo serrato queste nuove
tecniche nell’insieme del brano,
in modo sempre funzionale al
senso della composizione, senza cedere mai alle lusinghe del
solo virtuosismo, ma facendolo
sempre convivere con la necessaria energia espressiva. Ascoltare “Blue Haze”, originale citazione dello spirito hendrixiano,
per credere.
Non mancano poi gli esempi
di vero e proprio fingerstyle, più
vicini al mondo specifico della
chitarra acustica. Sono esempi
che ripropongono soprattutto i
nuovi orientamenti del genere,
basati sulle accordature alternative e sulle tecniche percussive,
come “51st Street” nella classica
accordatura DADGAD dagli accenti celtici, o la meno tradizionale “New Song” in DADG#AD,
che evoca le lezioni di Michael
Hedges.
Insomma un disco molto vario, suonato benissimo, che si
ascolta con piacere dall’inizio
alla fine, grazie anche all’inserimento di alcuni brani più intimi e
di atmosfera. L’esordio solista di
Finaz ha superato brillantemente la prova, ma non poteva essere altrimenti con una ‘chitarra
virtuosa e solitaria’ come la sua.
Andrea Carpi
Davide Peron
Fin qui
www.davideperon.it
Lo dico subito: anche se questo nuovo album di Davide Peron
fosse composto da un’unica traccia – “Na stela alpina” (non è un
errore: il testo è in lingua veneta),
ripresa in chiusura da una intensa versione corale – varrebbe la
pena averlo e ascoltarlo. Raramente, infatti, capita di trovarsi ad
un crocicchio nel quale semplici-
tà, profondità e poesia si incontrano, con così tanta naturalezza.
Brano bellissimo, che – non so
per quale ragione (probabilmente
la cadenza, visto che non ci sono
altri punti di contatto) – trasmette qualcosa di quella struggente
melancolia cubana che pervadeva un capolavoro come Buena
Vista Social Club.
Quella di Davide Peron è certo canzone d’autore di qualità. È
evidente, infatti, la lezione nobile di grandi maestri tra i quali De
André e De Gregori (aggiungerei
anche Massimo Bubola – veneto
anch’egli – soprattutto per la sua
produzione al fianco di De André) nella scelta dei temi (le cose
semplici della vita vera, la terra,
l’amore, la guerra), nel ‘senso
della frase’ (mi riferisco al rapporto linea melodica/testo), nella
scelta di sonorità che spaziano
dal blues acustico alla ballad, a
certa world music. Lezione prima
sapientemente interiorizzata, poi
intelligentemente dimenticata –
come dovrebbe fare ogni artista
– e, alla fine, sublimata in una
lingua personale (sia in termini
vocali che compositivi) fra le più
interessanti tra quelle che si possono ascoltare oggi nel nostro
paese.
Canzone d’autore, dunque, ma
soprattutto canzone d’altura. Musica – verrebbe da dire – per le
‘alte vie’. Non è affatto un caso,
infatti, che nell’estate 2008 il musicista vicentino abbia dato vita
ad un progetto affascinante come
“Mi rifugio in tour”, suonando nei
rifugi di montagna delle piccole
Dolomiti. Per Davide la montagna non è semplice sfondo. È
ben altro. È fondo. Vale a dire:
senso delle cose. Una compagna
di viaggio irrinunciabile, grazie
14
chitarra acustica 11 duemiladodici
alla quale è davvero possibile
dare il giusto significato alla parola panorama: ‘vedere tutto’. Sì,
perché la montagna è così: più
sali su di lei, più scendi dentro di
te. Un cammino, lento e faticoso, che è sia ascesa che ascesi.
«Ho sbiancato la mia anima col
sudore che mi ha lavato il cuore», canta nella bellissima “Na
stela alpina”. E ancora: «E lassù
sulla cima, che mi aspettava da
prima ancora che partissi, ho trovato una stella alpina che sapeva
già tutto di me» (la traduzione è
della mia metà di sangue veneto. Spero che sia buono – il sangue, intendo – e che non menta).
Salendo, dunque, ci si allontana
dalla superficie delle cose, per
avvicinarsi alla loro sostanza. Dal
fenomeno, avrebbe detto qualcuno, al noumeno. Dall’apparenza – diciamo noi comuni mortali
– all’essenza. Dall’alto, infatti, le
cose ritrovano le giuste proporzioni e noi riusciamo, finalmente,
a distinguere cosa e chi conta
davvero e cosa e chi, invece, è
solo ‘chiacchiere e distintivo’, orpello, ingombro, ostacolo. Salire
per capire, verrebbe da dire. E
ascoltare per risalire. E le canzoni – quelle buone, almeno – sono
montagne rovesciate. «Più le
mandi giù, più ti tirano su», come
avrebbe recitato un vecchio spot
del caffè. Ascoltare per credere.
Belle le canzoni, belli gli arrangiamenti, bella l’ambientazione
‘unplugged’, bellissime le chitarre (grazie anche alla sapienza di
un certo Andrea ‘Manne’ Ballarin), bella e profonda la batteria
(piena e tonda come nel miglior
Bandini), belli i sax, belle le voci:
più di così! Che altro dire? Nulla. Solo: grazie, caro Davide, di
averci portati Fin qui. Alla prossima scalata.
Se, in chiusura, mi è permesso suggerire un abbinamento,
direi che ideale contrappunto di
quest’album potrebbe essere
Sulla traccia di Nives (Mondadori, 2006), straordinario incontro
di anime e montagne, firmato da
Erri de Luca e Nives Meroi.
Giuseppe Cesaro
BREVI, SEGNALAZIONI,
OLDIES BUT GOODIES
rc
tarristica inarrivabile, tutt’altro. E
non ha la classica voce impostata e ‘studiata’. Ma ha qualcos’altro: quel leggero alone di magia
che impone il silenzio, attorno,
quando imbraccia uno strumento e si mette a cantare. Anche la
produzione in studio è stata molto attenta a mantenere questo effetto, sincero e immediato, anche
su disco. Bisogna approfittarne.
Michelangelo Piperno
MP3
MP Music Production
fingerpicking.net
Nella nostra recensione del
metodo Original Compositions,
realizzato dal fondatore della
scuola Music Academy Roma per
fingerpicking.net – Carisch (Chitarra Acustica, aprile 2012), avevamo scritto, presentandoli, che i
brani che lo compongono fanno
parte del suo repertorio live: ed
ecco che ben otto su nove sono
anche in questo suo terzo lavoro
discografico. A questi si aggiungono due suoi arrangiamenti per
omaggiare la canzone d’autore
italiana (“Attenti al lupo” di Lucio
Dalla e “Vieni via con me” di Paolo Conte), una sua composizione di nuova produzione (“Buddy
Brothers” ed il groove la fa da
prodone) ed un vivace medley in
fingerpicking (“Miss Medley”, con
“Donna” del Quartetto Cetra e
“Amarcord” e “8 ½” di Nino Rota).
Con questo suo lavoro Michelangelo Piperno conferma di essere
in possesso di ottima tecnica, gusto ed ispirazione artistica, tutto
in egual misura, grazie ai molteplici stimoli che la sua intensa
attività di didatta e concertista gli
offrono.
Alfonso Giardino
Matt Epp
Never Have I Loved Like This
Acoustic Music Records
È canadese. Suona la chitarra
e l’armonica. Canta. A chi state
pensando? No, siete sulla cattiva
strada. Anche se non è difficile
immaginare che l’accostamento
con ‘Nello il Giovine’ potrebbe
non dispiacere al buon Epp. Che
non è dotato di una tecnica chi-
del chitarrista berlinese esce un
Bach sorprendentemente moderno e coinvolgente, e la scelta del
repertorio è un’ottima ‘scusa’ per
scoprirne le composizioni meno
note e popolari. Per andare oltre
la solita “Bourrée”, insomma, è il
disco giusto.
Markus Segschneider
Hands at Work
Acoustic Music Records
Terzo CD solista del chitarrista
tedesco, sempre per la Acoustic
di Peter Finger, che mette in bella evidenza la maturazione di un
ottimo musicista. Markus è un fingerstyler duro e puro, in grado di
regalare brani eleganti, con belle
melodie e un solido impianto di
arrangiamento. Ha anche un bel
‘tiro’, cosa che non guasta, e non
disdegna un certo ecletismo nella
scelta del repertorio e dei generi da affrontare. Manca niente?
Pare di no… infatti è un gran bel
lavoro.
Martin Hegel
Bach Solo
Acoustic Music Records
Ci vuole un gran coraggio per
proporre arrangiamenti originali di brani di uno dei più grandi
compositori della storia. Oltre a
una profonda conoscenza della materia. Vincitore della prima
edizione della “Bach International
Competition”, Martin Hegel ha
evidentemente grande dimestichezza con la musica del grande
Thomaskantor. Così come è lampante, sin dalle prime note, il solido bagaglio tecnico su cui si poggia questa impresa. Dalle mani
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chitarra acustica 11 duemiladodici
Sándor Szabó & Dean Magraw
Reservoir
Acoustic Music Records
Se si prendono un ungherese e
un americano (no, non è l’attacco
della solita barzelletta), preferibilmente chitarristi di livello altissimo, magari dediti alla sperimentazione e all’improvvisazione, e li
si chiude in uno studio di registrazione per qualche giorno, i risultati possono essere sorprendenti.
Soprattutto se si tratta di Sándor
Szabó e Dean Magraw. Certo
non si tratta di un disco ‘facile’
e necessita di qualche ascolto,
anche piuttosto attento. I brani
sono lunghi – si arriva a superare
gli 8 minuti in “Cloud” – articolati
e complessi. Non c’è niente di
prevedibile in un lavoro di questo
genere. Ed è proprio il suo bello.
ar
artisti
Da Montecilfone all’Africa
Intervista ad Antonio Forcione
di Andrea Carpi
Fortunatamente, da qualche anno a questa parte, Antonio Forcione si fa
vedere più spesso nel nostro paese, anche grazie al felice diffondersi dei
festival di chitarra acustica. Lo abbiamo incontrato l’anno scorso a Madame Guitar, per due edizioni di seguito a Un Paese a Sei Corde e infine a
settembre ad Acoustic Franciacorta, incontro dal quale è scaturita questa
intervista. La sua partecipazione alla rassegna in Franciacorta è stata di
poco successiva alla presentazione ufficiale del suo nuovo disco Sketches
of Africa, avvenuta all’Edinburgh Festival Fringe lungo tutto lo scorso mese
di agosto. Sketches of Africa, da noi recensito nel precedente numero di ottobre, era un disco molto atteso, poiché giunto dopo parecchi anni dai suoi
ultimi lavori, Antonio Forcione Quartet in Concert del 2007, edizione in CD
delle registrazioni contenute nel precedente DVD omonimo del 2005, e lo
splendido album in duo con Charlie Haden, Heartplay del 2006.
bum, “Madiba’s Jive”, che presenteremo in due
puntate su questo e sul prossimo numero. È con
queste parole che Antonio ha introdotto il pezzo:
«“Madiba’s Jive” è un omaggio a Nelson Mandela,
un uomo tra gli uomini, che ha ispirato e combattuto per intere generazioni di persone con la sua
visione e la sua umanità. In questa traccia volevo
fondere gli elementi che, a mio parere, sarebbero
stati appropriati per descrivere l’aspetto umano di
questo grande uomo. Anche se lui è principalmente
associato alla dignità, alla saggezza e alla grazia,
Ora possiamo dire che le aspettative non sono
state disattese, visto che questi ‘Schizzi dell’Africa’
si dimostrano un’opera molto ricca e coinvolgente,
accolta subito con favore dalla stampa specializzata tanto da meritarsi, tra gli altri riconoscimenti, di
figurare come “Disco del mese” su questo numero
di novembre della prestigiosa rivista inglese Guitar
Techniques. Insieme all’intervista, Antonio ci ha anche concesso la pubblicazione di una trascrizione
molto completa, con tanto di parti percussive e sovraincise di chitarra, del brano di apertura dell’al16
chitarra acustica 11 duemiladodici
Intervista ad
Antonio Forcione
ar
ho cercato di catturare con semplicità il suo umorismo e il suo sorriso nel groove della musica, come
la positività che mi ispirava». Questa descrizione,
in fondo, vale anche per l’intero Sketches of Africa.
In occasione di un tuo concerto di due estati fa
nel tuo paese d’origine in Molise hai raccontato:
«Avevo circa otto anni quando, passeggiando
per le strade di Montecilfone sono stato attratto
dalla musica che veniva fuori da un’osteria, una
classica osteria con gli uomini che giocavano
a carte e bevevano vino e due musicisti con fisarmonica e chitarra. Ecco, sono rimasto colpito da quell’atmosfera fantastica fatta di allegria
e musica. È questa stessa atmosfera che cerco
sempre di ricreare nei miei concerti dovunque io
vada, perché credo fermamente nel potenziale
sociale della musica». Quanto è stata importante l’Africa di Sketches of Africa per mantenere
vivo questo potenziale sociale?
Il primo invito a suonare in Africa mi è arrivato nel
2006 dall’Harare International Festival of the Arts
(HIFA) nello Zimbabwe, dopo un’esibizione del mio
Antonio Forcione Quartet al Festival di Edimburgo.
Sapevamo che lo Zimbabwe stava attraversando
un periodo particolarmente difficile ma, nonostante il rischio e i pochi soldi disponibili, abbiamo accettato l’invito. Sono seguiti due bellissimi concerti
sotto le stelle, in una specie di ‘anfiteatro’ di mille
posti costruito su una struttura semplice di travi di
legno, con cavi di corrente pericolosamente collegati e uno staff di tecnici simpatici, che lavoravano
con ritmi molto lenti. Ad un certo punto in concerto,
durante il mio solo di chitarra, l’elettricità è andata in
black out e ci siamo ritrovati tutti al buio senza luci
e senza impianto di amplificazione. A quel punto,
non potendo continuare, ho salutato e mi sono diretto verso il retropalco. Mentre uscivo, però, mi è
sembrato sbagliato abbandonare la scena e lasciare il pubblico alle precarietà del sistema, così sono
tornato indietro e mi seduto sul bordo del palco invitandoli a schioccare le dita al ritmo della “Pantera
rosa” di Henry Mancini. Be’, non vorrei esagerare,
ma la reazione del pubblico è stata immediata: improvvisamente si era creata una complicità in un
gioco collettivo tra me e il pubblico, dove la musica
fungeva da veicolo e la precarietà del buio si è trasformata in magia sotto le stelle. Un rito antico che
mi ha ricordato quell’energia dell’osteria di tanti anni
prima… Un’esperienza che non dimenticherò mai.
È stata la bellezza e la forza di quella gente che mi
ha ispirato a scrivere il brano “Song for Zimbabwe”
per Sketches of Africa.
Con la chitarra Uddan
cosa hai trovato su quelle rive lontane, com’è
avvenuto l’impatto tra il tuo retroterra prevalentemente latino e la musica del continente africano?
Posso dire che le lancette della bussola dei miei
viaggi puntano spesso e volentieri verso le direzioni
di una musica che cerca le radici. L’Africa la sento
come la madre di tutto questo. Ho la fortuna di vivere a Londra da circa trent’anni e ho potuto verificare
direttamente gli intrecci musicali di tutto il mondo e
la validità di questa idea. Nella musica, diversamente dalla realtà politica, le frontiere non esistono e c’è
un po’ di Africa in ogni cultura.
L’ossatura dell’album è realizzata con i componenti dell’Antonio Forcione Quartet, la violoncellista inglese di origini nigeriane Jenny
Adejayan, l’australiano Nathan Thomson al contrabbasso, flauti e kalimba, e il brasiliano Adriano Adewale alle percussioni: puoi raccontarci
come si è formato questo gruppo di ‘musica del
mondo’ e come è entrato nel progetto africano?
Ho conosciuto Jenny Adejayan nel ’96-97 durante
un evento a Londra, nel quale si alternavano musicisti, umoristi e poeti. Quella sera le ho dato un
passaggio a casa e regalato il mio album Acoustic
Revenge. L’ho rivista un anno più tardi in occasione di un mio concerto, e mi ha confessato di aver
letteralmente consumato il mio CD per le tante volte
che lo aveva ascoltato. Poco dopo abbiamo a provare insieme e da lì è nata una delle collaborazioni
più durature della mia carriera. Jenny non è soltanto una grande violoncellista con un’educazione
musicale classica, un orecchio assoluto e capacità
melodico-ritmiche impressionanti. Jenny è anche
una gran bella persona, con una sensibilità, umiltà
e onestà disarmanti, una delle mie amiche più care.
Il tocco bellissimo di Adriano l’ho intuito mentre
viaggiavamo in macchina ascoltando la sua musica
registrata… Rimasi talmente colpito dalla delicatezza del suo stile e dall’affinità che sentivo col mio
modo d’intendere la musica, che ho voluto conoscerlo immediatamente. È nato subito un bel rapporto con lui e lo sento come un fratello più piccolo.
La sua energia e la passione per il suo lavoro lo
rendono un artista speciale. La sinergia che si crea
A proposito di un altro brano del disco, “Tarifa”, ispirato dalla località che si trova nella punta
più meridionale della Spagna, hai raccontato la
grande emozione che aveva suscitato in te la vista in lontananza delle coste dell’Africa. Avendo
già abbracciato altri universi musicali come la
musica spagnola, brasiliana, popolare italiana,
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
Intervista ad
Antonio Forcione
sul palco con lui rende la performance un’esperienza elettrizzante.
Riguardo a Nathan, Jenny mi parlò molto bene di
lui, con il quale aveva lavorato qualche anno prima.
Lo contattai e cominciammo a registrare l’album
Tears of Joy. Per la sua estrema riservatezza, ho
scoperto con fatica altre sue doti: suonava bene il
flauto, aveva un bagaglio di esperienza di musica
africana e di radici etniche, aveva vissuto e suonato
con musicisti della Tanzania; in ultimo, ma non per
minore importanza, si dedica ad attività di recupero di bambini con difficoltà psichiche e motorie. Lo
ringrazio per avermi coinvolto insieme agli altri in
questa attività.
Mi chiese un po’ di tempo per scrivere le parole e disse che mi avrebbe contattato più in là per
spedirmi le tracce con le voci. È stato un giorno di
pura gioia per me e il co-produttore Chris Chimsey,
quando abbiamo ascoltato le tracce della sua registrazione.
Altri musicisti africani sono Seckou Keita del
Senegal all’arpa-liuto kora, Juldeh Camara dal
Gambia al violino monocorde riti e il cantante
sudafricano Zamo Mbutho. Ci puoi raccontare il
tuo incontro e la tua collaborazione con loro?
Ho conosciuto Seckou Keita tramite il contrabbassista Davide Mantovani. L’ho invitato a casa
per una jam e abbiamo suonato per ore ininterrottamente, sembravamo come due bambini in un luna
park. Così abbiamo deciso di mettere su un repertorio e, poco dopo, abbiamo debuttato in una chiesa sconsacrata qui a Londra, una bella esperienza
da ripetere al piu presto. Infatti, nel 2011, ci siamo
presentati insieme ad Adriano Adewale al Festival
di Edimburgo come AKA Trio. I concerti sono stati molto apprezzati dai critici e dal pubblico, culminando in una apparizione nella rete nazionale della
BBC.
Per quanto riguarda Julde Camarah, una sera al
ritorno da un concerto, il mio fonico mi parla di un
musicista del Gambia che suona un violino ad una
corda… Fermo subito la macchina e chiedo il suo
contatto! Vive in Inghilterra e tra l’altro ha lavorato
anche con Robert Plant. Lo contatto e gli propongo
di registrare un paio di brani nel mio album, “Africa”
e “Sun Groove”. In studio la sua perplessità iniziale,
che avvertivo nel suo sguardo, si scioglie poco dopo
in un grande sorriso durante l’ascolto di “Africa”. Si
siede, parte la registrazione e lui comincia subito
a partecipare con movimenti del corpo, mentre dal
Al disco hanno collaborato anche musicisti
provenienti da diverse parti dell’Africa. In particolare sono curioso di conoscere come si è sviluppata la già citata “Song for Zimbabwe”, interpretata dalla cantante dello Zimbabwe, Chiwoniso Maraire, e costruita su un suo testo.
Durante la mia prima visita al Festival di Harare,
ho avuto l’occasione di ascoltare molta musica del
posto e di conoscere, tra i tanti musicisti, la bravissima cantante Chiwoniso Maraire. Dopo un suo bellissimo concerto, siamo andati in un caffè e abbiamo parlato di interessi comuni, quindi ovviamente di
musica e musicisti. Quando ci siamo salutati, mi ha
regalato un CD stupendo di materiale originale. Al
ritorno ad Harare nel 2011, avevo già pronto quasi
tutto il materiale per il progetto Sketches of Africa.
Sentivo però il bisogno che Chiwoniso cantasse il
brano “Song for Zimbabwe”, in quanto lei – non solo
come artista di cui apprezzavo le doti, ma avendola
conosciuta personalmente – aveva un forte valore
di riferimento per rappresentare il meraviglioso popolo dello Zimbabwe che avevo conosciuto.
Festival di Edimburgo con Anselmo Netto, Matheus Nova e Mother Africa
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chitarra acustica 11 duemiladodici
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FingerPrint
suo ‘violino’ partono fraseggi di un linguaggio estremamente espressivo e privo di regole, bellissimo e
indecifrabile. Sempre durante la registrazione, io e
Chris rimaniamo ancora piu stupiti quando Julde
abbandona il violino e comincia, ad occhi chiusi,
a parlare in un dialetto africano: ci spiegherà dopo
che era per raccontare l’emozione del momento che
stava vivendo con noi, in una dimensione ‘ritrovata’.
Infine Zamo Mbutho: ero in uno studio di registrazione a Johannesburg, alla ricerca di una voce
idonea per la parte del coro di “Song for Zimbabwe”; mi fanno ascoltare diverse voci e mi colpisce in
particolare quella di Zamo. Ho la fortuna di poterlo
contattare e nel giro di due ore concludiamo il lavoro con reciproca soddisfazione. Vengo a sapere,
chiacchierando con lui, che per più di venticinque
anni ha lavorato con Miriam Makeba in tournée e
registrazioni!
Peter
Finger
Works, vol. 1
Guitar Workshop
Order No. FP 8125 v 24,90
Book + CD, 128 p.,
notation and tabs
L’album è registrato e co-prodotto da Chris
Kimsey, notissimo in particolare per avere a lungo collaborato con i Rolling Stones. Come si è
svolto il vostro lavoro insieme?
Io e Chris Kimsey siamo amici da più di sette anni
e abbiamo diverse conoscenze in comune. Quando
mi ha sentito suonare dal vivo la prima volta, ricordo che alla fine del concerto venne in camerino per
complimentarsi e mi abbracciò. In seguito ci siamo
visti in più occasioni e, ogni volta, ci ripromettevamo di collaborare. Così, un anno fa, l’ho chiamato
senza esitare e gli ho proposto il progetto. Collaborare con un mostro sacro del rhythm and blues può
sembrare un po’ contraddittorio per uno come me
che opera in una dimensione acustica. Però, devo
dire che la sua concezione di sintesi, com’è quella
del R&B, è stata a mio parere un giusto equilibrio
per il progetto Sketches of Africa. La professionalità
e la lunga esperienza di Chris mi hanno permesso
di ‘volare in alto’, sapendo di avere un tecnico con
i piedi ben saldi per terra e le mani sui tasti giusti.
24,90 v
Come to My Window • Dream Dancer • Liebeslied
• We’ll Meet Again • Passing Clouds • Niemandsland
• Unvergesslich • Onkel Frédéric • Vive la vie
• Over the Horizon • Ballad for a Princess
• Sinn ohne Worte • Vielleicht im nächsten Leben
A book and CD to play along
with, to be inspired by,
but above all - to enjoy!
Nel disco si ascoltano molti riff, molta melodia, molto ritmo, alcune divisioni ritmiche complesse, molte sonorità diverse: quali sono stati
gli elementi principali con cui hai cercato di catturare lo spirito delle musiche africane?
La musica ‘africana’, come quasi tutte le musiche
etniche, muove qualcosa che non ha molto a che
fare con gli studi musicali. È qualcosa di sofisticatamente primordiale, è una lingua parlata con il corpo,
con lo spirito e con un’istintualità infantile, che mi affascina e coinvolge per la profondità emozionale…
this volume brings together thirteen of Peter Finger’s finest pieces, compositions which originated in the course of his travels, at home, or in the
recording studio. thoughts and experiences, translated into the language of
music. this makes “Works” an extremely personal opus, a kind of musical
autobiography which leaves the reader eager for a sequel.
As well as detailed depictions of all pieces in musical notation and tablature, with clear directions for fingerings and playing techniques, this volume
includes for the first time transcriptions of the improvised passages, thus
making them understandable and above all playable for other guitarists.
È difficile ormai collocare il tuo stile chitarristico: in effetti c’è un po’ di tutto, dal fingerstyle
all’uso del plettro, dagli stacchi ritmici agli assoli, dalle corde di nylon alle corde di metallo,
dalla sei corde alla dodici corde, dai fraseggi
‘stoppati’ all’uso di chitarre fretless… Come ti
definiresti oggi come chitarrista?
Non saprei proprio definirmi come chitarrista. Non
lo sento come un mio bisogno. Per me, comunque,
Acoustic Music GmbH & Co. KG
Postfach 19 45 · 49009 Osnabrück · Germany
tel.: +49-(0)5 41 - 71 00 20 · Fax: - 70 86 67
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w w w . a c o u s t i c - m u s i c . d e
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
Intervista ad
Antonio Forcione
APX-10 con pickup Yamaha SPX-10, Fishman Rare
Earth e microfono interno. La mia pedaliera comprende un pedale volume Boss FV300L, un Boss
Super Octave OC-3, un Fishman Pro EQ Platinum
per il pickup, un Fishman Dual Parametric D.I. per il
microfono interno e un riverbero Strymon Bluesky.
In particolare cosa sono le Admira Uddan e
Octan fretless che usi nel disco? Cosa significano i loro nomi?
L’idea di avere uno strumento fretless mi è venuta
dopo aver ascoltato il suono dell’oud, che ha origini
risalenti all’antica Persia. La chitarra Uddan è una
chitarra a sei corde di nylon modificata, con l’aggiunta di altre otto corde trasversali. L’Octan è a sua
volta una chitarra a sei corde di nylon modificata,
senza corde supplementari e con corde molto più
grosse, per ottenere un’accordatura all’ottava inferiore. Lo strumento è stata rinforzato internamente
perché le corde, essendo molto più spesse, producono una maggiore tensione sul manico e sulla cassa armonica. Il nome Uddan è composto da ‘udd’,
che sta per ‘oud’, e da ‘an’, che sono le due prime
lettere del mio nome. Il nome Octan invece è composto da ‘oct’, che sta per ‘octave’, e ‘an’.
Festival di Edimburgo con Mother Africa
l’uso di tecniche, gli strumenti, gli stili diversi non
sono l’obiettivo vero, ma appunto gli ‘strumenti’ che
ritengo più idonei di volta in volta a inseguire un’idea musicale che ho in mente.
Con che formazione hai presentato Sketches
of Africa all’Edinburgh Festival Fringe?
Il Festival di Edimburgo è l’appuntamento più importante dell’anno per la mia attività. Ho partecipato
a circa diciannove edizioni negli ultimi ventun’anni
ed è stato senza dubbio la mia miglior palestra, non
solo dal punto di vista artistico, ma anche di vita. La
scelta di presentare il mio album Sketches of Africa
al mio pubblico più fedele in un teatro di trecentosettanta posti per ventiquattro sere consecutive era
una decisione più che ovvia. Ho suonato all’inizio
in trio con Seckou Keita alla kora e Dado Pasqualini alle percussioni, che mi hanno accompagnato
per undici serate. Poi ho continuato con un nuovo
trio insieme ad Anselmo Netto alle percussioni e
Matheus Nova al basso acustico. E abbiamo avuto
anche la fortuna di ospitare artisti provenienti dallo
Zimbabwe e dal Sudafrica, ospiti speciali come le
cantanti e ballerine del gruppo Mother AfricaUn’esperienza indimenticabile.
La tua ‘portata’ come musicista tende a travalicare i limiti di un pubblico di appassionati della
chitarra e a toccare una platea più vasta: qual è
il segreto attraverso il quale un chitarrista ‘solista’ può raggiungere ogni tipo di pubblico?
Non so e non credo ci siano formule. Io non faccio
altro che inseguire il mio istinto e il mio senso artistico. Il fatto di voler raggiungere ogni tipo di pubblico
non è certo un mio obiettivo, anche se non nascondo che – quando vedo tre generazioni coinvolte nei
miei concerti – mi fa molto piacere scoprire che la
mia musica tocca molte persone.
Ci puoi parlare della tua strumentazione in
studio e dal vivo?
In studio tendo a privilegiare molto di più il suono
acustico rispetto a quello dei pickup. Quindi cerco di
fare un buon uso di microfoni esterni, di solito due,
come il Neumann o l’AKG 114, posizionati l’uno vicino alla buca e l’altro vicino al dodicesimo tasto.
Premetto, però, che queste non sono regole che
valgono per tutte le occasioni e per tutte le chitarre.
È sempre bene usare l’orecchio. A volte, per dare
un po’ più di presenza sui medio-bassi, aggiungo
un venti per cento di pickup al suono microfonico.
Nel caso della registrazione del brano “Madiba’s
Jive” ho utilizzato due microfoni esterni, un Fishman
Rare Earth e un Boss Super Octave OC-3 per arricchire le linee di basso.
Dal vivo uso chitarre Yamaha: una NCX-2000FM
con pickup Yamaha e microfono interno; e una
A cosa stai lavorando attualmente e quali
sono i tuoi prossimi progetti?
Sto lavorando a un progetto che mi coinvolge
come direttore artistico, arrangiatore e chitarrista.
La lineup comprenderà il coro delle Voci Bulgare,
un percussionista spagnolo, un cantante di flamenco e un famoso contrabbassista… Ti saprò dire di
più quando le cose cominceranno a prendere forma!
Andrea Carpi
www.antonioforcione.com
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Madiba’s Jive
di Antonio Forcione
dall’album Sketches of Africa (parte I)
Chitarra acustica steel-string
Accordatura standard – Capo III
N.B.: la tablatura è scritta come se il terzo tasto fosse il tasto 0
Video: http://www.youtube.com/watch?v=LJSxY-5YePI
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Madiba’s Jive
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Madiba’s Jive
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Madiba’s Jive
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Madiba’s Jive
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Madiba’s Jive
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Madiba’s Jive
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artisti
Vecchie storie per tempi moderni
Intervista a Veronica Sbergia e Max De Bernardi
di Dario Fornara foto di Mario Giovannini
Quando penso a Veronica Sbergia e a Max De Bernardi mi arriva subito un
‘segnale’ positivo. A dire il vero niente di così strano, considerata la simpatia
che sono in grado di trasmettere durante i loro concerti e non solo, ma… non
lasciamoci ingannare! Dietro a questa facciata un po’ ironica e scanzonata si
nascondono, neanche troppo velatamente, due grandi musicisti, due artisti
autentici che, al contrario di molti altri, non concedono alcun compromesso
nel (ri)proporre un genere che sembra essere ormai parte di loro, allo stesso
modo dei grandi ai quali si ispirano. E tutto questo con una naturalezza quasi
imbarazzante. L’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana è sempre una grande
occasione di incontri ma, complice un maledettissimo microregistratore digitale che ha fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per riuscire a cancellare questa intervista, recuperati i file miracolosamente, con un po’ di ritardo vi propongo questa chiacchierata. Ora provate a immaginare il classico
marasma acustico di sottofondo che accompagna solitamente le giornate
dell’AGM… intanto io schiaccio ‘Play’, si parte!
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chitarra acustica 11 duemiladodici
Intervista a Veronica
Sbergia e Max De Bernardi
ar
Ciao Veronica e ciao Max, ormai siete di casa
qui all’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana. Vista
l’abituale frequentazione, penso siate particolarmente legati a questa manifestazione.
Max: Si è vero. Penso sia il decimo anno che partecipo a questa manifestazione! A volte mi definisco
‘musicista in affitto’ e in passato ci sono venuto anche come dimostratore di strumenti. Ma a Sarzana
si viene soprattutto per proporre la propria musica,
per presentare i propri lavori… e poi qui si fanno
conoscenze, si mantengono e si creano rapporti,
nascono collaborazioni. Un chitarrista acustico non
può non esserci!
Pagato il giusto tributo all’AGM, partiamo dalla fine: Old Stories for Modern Times è il vostro
ultimo lavoro; intanto, complimenti! Com’è nato
questo progetto?
Veronica: All’inizio pensavamo semplicemente di
fare un disco in duo, solo Max e io, un lavoro per andare a riscoprire quelle che erano state le voci femminili folk-blues ’minori’, intese come popolarità, ma
importanti per la storia di questa musica. Artisti che,
per scarsità di materiale, ancora oggi sono quasi
sconosciuti. Durante la realizzazione abbiamo però
cambiato leggermente direzione: alcuni brani del
progetto iniziale sono rimasti, ma abbiamo deciso di
inserire anche la musica di quei personaggi fondamentali della musica che amiamo, quindi di proporre un excursus di tutta quella che è la vecchia tradizione americana, con il blues, il folk, il ragtime… la
musica delle radici.
Max: E poi scopri che nelle vecchie storie, raccontate da questi artisti, c’è anche tanta attualità, quindi
povertà, mancanza di soldi e di lavoro: alcune canzoni del CD parlano di queste cose e sono passati
ottant’anni!
maggiore groove, una dimensione che reputo necessaria soprattutto a chi suona in duo come noi.
Si possono ascoltare gli interventi di alcuni
ospiti illustri come Bob Brozman, Leo Di Giacomo, Massimo Gatti: come sono nate queste
collaborazioni? Immagino vi accomuni una certa amicizia…
Veronica: Come nel progetto The Red Wine Serenaders, anche qui ci siamo ritrovati soprattutto
con degli amici. Ad esempio abbiamo chiesto a
Massimo Gatti, che conosciamo da tempo, e a Leo
Di Giacomo di suonare su una traccia, “Some of
These Days”, un brano che abbiamo definito gipsy
grass per il tipo di arrangiamento un po’ alla Django
Reinhardt abbinato a sonorità marcatamente bluegrass. Abbiamo chiamato Sugar Blue, con la sua
armonica, e poi il grande Bob Brozman, del quale
vorremmo fregiarci del titolo di amici, anche se in
realtà abbiamo avuto modo di suonare insieme solo
in qualche occasione: una persona gentilissima che
ha espresso dei pareri molto lusinghieri su di noi…
è stato un vero onore la sua partecipazione a questo lavoro. Poi c’è Dario Polerani, un carissimo amico contrabbassista che collabora con Max, penso,
dall’età scolare!
Vorrei soffermarmi sul ‘suono’ di questo CD:
avete adottato delle tecniche di registrazione
particolari per ricreare quest’originale sonorità
old-time music che caratterizza l’intero lavoro?
Max: Guarda, in realtà noi non siamo poi dei maniaci del vintage a tutti i costi, il titolo stesso del disco ne è una dimostrazione. Sicuramente ci interessano le sonorità acustiche, nessuno degli strumenti
che suonano sul disco e stato ‘pluggato’, abbiamo
registrato solo dei suoni naturali. Cerchiamo, però,
di essere moderni e di proporre una versione di
queste sonorità sicuramente più attuale. La registrazione è avvenuta sfruttando la tecnologia digitale, ma tutto è stato poi riversato su nastro, per
poi terminare il missaggio in mono di nuovo sul digitale. Il missaggio in mono non vuole ricreare una
timbrica vintage, lo abbiamo utilizzato per riuscire a
ottenere una sonorità più compatta e diretta, che ci
permettesse di ottenere una maggiore spinta e un
Che strumenti avete usato durante le registrazioni?
Max: Abbiamo utilizzato davvero parecchi strumenti in questo disco. Per un vecchio pezzo di
Jimmie Rodgers, “Miss the Mississippi and You”,
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
Intervista a Veronica
Sbergia e Max De Bernardi
L’apprendimento è stato un processo molto naturale, perché era veramente quello che desideravo
fare. Questa cosa non dipende dall’appartenenza
a una certa cultura, la stessa identica cosa può capitare, e capita allo stesso modo, a un chitarrista
americano, magari con influenze differenti vista la
distanza spazio-temporale. Ho imparato tutto dai dischi, e parlo di vinili anche vecchissimi [non ne avevamo dubbi, Max! – ndr]: mi sono ‘tirato giù’ di tutto,
veramente, molte cose me le sono dovute reinterpretare, ma così facendo le ho fatte veramente mie.
Veronica: Sono cresciuta con la musica ‘nera’!
Mio padre è un grande appassionato di jazz e ho
avuto un’educazione musicale che mi ha avvicinato, sin dagli inizi, alla musica americana. Ho iniziato
a studiare canto quando ero molto piccola e il mio
modo di cantare è sempre stato in continua evoluzione. Anche rispetto alle prime registrazioni con
Max, riascoltandomi oggi mi trovo quasi irriconoscibile! Più canti questo tipo di musica, maggiormente
entri nel suo spirito, lo interiorizzi e ne diventi parte.
Mi fa piacere che tu abbia notato questa ‘naturalezza’ perché è uno dei nostri obiettivi, uno dei più difficili da far arrivare alla gente che ci ascolta. Diciamo
che, a distanza di anni, si è creata un po’ questa
osmosi e oggi siamo veramente ‘dentro’ la musica
che suoniamo.
abbiamo rispolverato un glockenspiel… e poi una
vecchia Dobro square neck con una sonorità tipicamente hawaiiana, una Martin 000, alcune National
resofoniche; abbiamo utilizzato il kazoo e la washboard, la tipica ‘asse da lavare’ che Veronica usa
creando questa sua sonorità molto simile a quella di
un rullante, suonandola con le spazzole e ottenendo un suono molto più morbido rispetto all’originale,
realizzato con i ditali e con una componente timbrica molto più percussiva. Poi, ancora, una chitarra
tenore resofonica National, uno strumento alquanto
atipico al giorno d’oggi, un modello molto raro del
1933; e svariati mandolini e ukulele di varie epoche.
Le session delle registrazioni sono avvenute nell’arco di circa sei mesi e, a dire il vero, non mi ricordo
neppure tutto!
Ascoltando il CD, ma soprattutto ascoltandovi
dal vivo, si rimane sinceramente stupiti sia per
la naturalezza, sia per la ‘credibilità’ con la quale
proponete un genere che – almeno virtualmente, per localizzazione sia fisica che temporale –
dovrebbe essere a voi molto lontano…
Veronica: ...Ma che bella domanda! Davvero…
[risate]
Max: Quando ho iniziato a suonare la chitarra,
mi sono subito innamorato di queste sonorità acustiche e mi sono messo a imparare il fingerpicking
tradizionale. Direi, molto semplicemente, che volevo suonare questo genere e farlo in questo modo.
Ma riuscite a staccarvi da tutto questo nella
quotidianità della vita? È difficile pensarlo.
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chitarra acustica 11 duemiladodici
Intervista a Veronica
Sbergia e Max De Bernardi
Veronica: No, no, noi siamo proprio così! La nostra vita s’incastra continuamente con la nostra musica, e viceversa!
Max: La musica è talmente parte del quotidiano
che a volte non mi rendo neppure conto della sua
presenza. Anche con Veronica, nei nostri discorsi,
c’è sempre qualcosa, un pensiero, un’idea legata
alla musica o comunque qualcosa che ne è influenzato. La musica è una parte di me, e non ci faccio
più caso!
ar
ma di comunicazione di massa, radio, televisione.
La musica, da noi, è un’altra cosa: un’autoradio in
macchina con in sottofondo la Pausini, con tutto il
rispetto. Da noi si è anche perso soprattutto il gusto
di andare a scoprire, magari pagando un biglietto,
un musicista poco conosciuto. La gente non ha neppure più voglia di informarsi prima su chi sei e cosa
proponi. Tutto funziona solo se sei già molto famoso e popolare. In Inghilterra, in Francia, in Svizzera,
la gente che viene ai nostri concerti, magari, non
ci ha mai ascoltato, ma si è informata e viene per
conoscerci! Una cosa assolutamente normale, ma
in Italia è più difficile che accada.
Max, il blues è una malattia o una medicina?
Max: Ma, guarda, onestamente non credo che sia
né una cosa né l’altra! Sono lontano dallo stereotipo
e dall’idea un po’ romantica della tristezza legata al
blues. Quando sono triste non ascolto solitamente
un disco di blues e soprattutto non ci soffro insieme! Potrei mettermi ad ascoltare tranquillamente gli
Emerson Lake & Palmer! Il blues è la musica che
amo, e basta.
Due parole sui prossimi vostri progetti.
Veronica: Abbiamo in programma parecchie date
per promuovere Old Stories for Modern Times.
Anche nei teatri, dove proponiamo questa sorta di
concerto raccontato, cercando anche di spiegare la
musica che suoniamo, sempre nel nostro stile un
po’ scanzonato, senza assolutamente far sembrare
il tutto una sorta di lezione! Ci piace dare, a chi partecipa a un nostro concerto, la possibilità di portarsi
a casa anche qualche notizia in più su quello che ha
ascoltato. Poi suoneremo in Francia e in Inghilterra,
e c’è questo progetto di Max interamente dedicato
all’ukulele, un CD che s’intitolerà Ukeology, dove
comparirò anch’io in un paio di brani!
I vostri concerti sono sempre molto coinvolgenti, il pubblico si diverte e sembra sempre
apprezzare la vostra proposta musicale: quanto
è difficile proporre nel nostro paese il vostro genere al di fuori del circuito delle manifestazioni
legate alla chitarra e dei locali specializzati? È
così anche all’estero?
Max: In Italia, molto semplicemente, questa musica non esiste, non è contemplata da nessuna for-
Dario Fornara
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artisti
Madame Guitar 2012
di Andrea Carpi Foto di Riccardo Bostiancich
Guitar Republic
Nibs van der Spuy & Guy Buttery
Hussy Hicks
Andrea Castelfranato
Madame Guitar è giunta alla sua settima edizione, da venerdì 21 a domenica 23 dello scorso settembre, e ancora una volta l’art director Marco Miconi
è riuscito a superarsi, costruendo un cartellone folto e di grande qualità.
Seguendo una tendenza che si era già manifestata nelle ultime edizioni, il
festival ha cercato quest’anno di equilibrare il più possibile il livello dei concerti diurni nel centro cittadino rispetto a quelli serali in teatro, evitando di
relegare i primi a eventi di contorno. Non più soprattutto artisti locali e proposte ‘emergenti’ nelle esibizioni in piazza, quindi, ma anche musicisti noti, nel
tentativo di calibrare le scelte tra i vari generi musicali, individuando gli artisti
più adatti a richiamare l’attenzione di un pubblico diurno non pagante e non
specificamente motivato, e quelli più idonei nella circostanza attuale ad attirare un pubblico pagante, più orientato e determinato. Un pubblico pagante
che – Miconi ci ha tenuto a precisarlo – non ha dovuto sopportare aumenti di
prezzo, che i maggiori sforzi organizzativi avrebbero potuto giustificare, ma
che i morsi crescenti della crisi economica rendevano inopportuni. I concerti
diurni, inoltre, si sono tutti concentrati nel collaudato spiazzo antistante il
Municipio, sul quale si affacciavano anche le mostre di liuteria e di dischi da
collezione, che hanno potuto godere così di un afflusso di visitatori più omogeneo e meno dispersivo. Ma cerchiamo di andare con ordine.
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chitarra acustica 11 duemiladodici
Madame Guitar 2012
Guitar Republic. Hanno aperto il festival nel concerto serale di venerdì e la loro musica è ‘arrivata’
immediatamente agli spettatori. L’efficace idea della
formazione in trio, in grado di catturare l’attenzione
anche del pubblico meno orientato, rappresenta sicuramente una testa di ponte importante per l’affermazione di Sergio Altamura, Stefano Barone e Pino
Forastiere. I tre sono abituati a suonare soprattutto
all’estero e in particolare in America, ma da qualche
tempo a questa parte riusciamo ad ascoltarli più
spesso anche nel nostro paese. Del resto, com’è
naturale, il loro affiatamento cresce di continuo, la
loro performance dal vivo è sempre più collaudata,
il loro suono invidiabile. Speriamo che, continuando
così, anche il lavoro dei singoli componenti possa
suscitare un uguale interesse.
ar
della cantante Busi Mhlongo con Urbanzulu (1998)
alla musica dei Tananas, primo gruppo dell’integrazione formato dal chitarrista bianco Steve Newman,
dal bassista Gito Baloi del Mozambico e dal percussionista meticcio Ian Herman, con i dischi Tananas
(1988), Spiral (1990) e Time (1994); per concludere
con l’album Matabele Ants (2001) del già citato maestro Tony Cox.
Hussy Hicks & Kristy Lee. Hanno concluso nel
migliore dei modi la serata di venerdì. Il pubblico
dei festival di chitarra acustica le ha viste crescere
di anno in anno fino a diventare una certezza. Se il
talento della chitarrista Julz Parker è stato da subito
evidente, la potenza espressiva della cantante Leesa Gentz è stata una scoperta che si è rafforzata
di giorno in giorno. Il loro set è stato un crescendo
esaltante ma, giunto al suo culmine e quando eravamo tutti soddisfatti e felici di aprire il rito dei bis,
le due australiane hanno chiamato sul palco una
‘ragazzona’ dell’Alabama, che si chiama Kristy Lee.
Appena ha iniziato a cantare, l’emozione è salita
alle stelle: una voce ‘soul’ potente ma, soprattutto,
intensa, vibrante e sensibilissima. Quando poi ha
intonato con il supporto delle Hussy Hicks il ritornello di “Baby of Mine”, «Let there be peace down
in your soul, for the things of this world we can’t
control» (‘Fai che scenda la pace nella tua anima,
per le cose di questo mondo che non possiamo
controllare’), i brividi sono corsi lungo la schiena.
Kristy, sempre insieme alle beniamine australiane,
ha presentato il suo repertorio la domenica mattina in piazza, ricevendo dal pubblico un’accoglienza
generosissima. Abbiamo scoperto che il suo nuovo
disco Raise the Dead, realizzato proprio con la collaborazione delle Hussy Hicks, è di imminente uscita: lo aspettiamo con ansia.
Nibs van der Spuy & Guy Buttery. Negli ultimi
anni sembra essersi creato un filo rosso che unisce
Madame Guitar ai chitarristi acustici del Sudafrica:
nel 2008, segnalato da Beppe Gambetta, è venuto
a suonare Guy Buttery, seguito nel 2009 da uno dei
suoi principali ispiratori e icona del fingerstyle sudafricano, Tony Cox; l’anno scorso ha riscosso un
grande successo Nibs van der Spuy, che quest’anno è tornato insieme a Buttery, complice un bell’album appena inciso insieme, In the Shade of the Wild
Fig, già premiato con un prestigioso Silver Ovation
Award al National Arts Festival di Grahamstown. I
due non sono soltanto degli artisti raffinati, ma anche delle persone squisite, estremamente disponibili, che il mattino dopo il concerto hanno tenuto un
incontro sul tema “La musica in e del Sudafrica”,
incentrato sulla formazione musicale dei sudafricani
di origini europea della loro generazione. Nibs, in
particolare, ha raccontato la sua vita emblematica:
nato a Johannesburg nel 1966 nel periodo dell’apartheid, non aveva come riferimento una musica originale della comunità bianca ed è cresciuto
ascoltando la musica angloamericana. Sua nonna
era nata in Inghilterra e andava ogni anno nel suo
paese d’origine, dal quale riportò in quegli anni i dischi dei Beatles e dei Rolling Stones. Negli anni ’70,
la prima musica nera che Nibs ha ascoltato è stata
quella di Jimi Hendrix, Little Richard, James Brown,
il blues rock. Nel frattempo la nonna era andata a
vivere a Durban nella provincia di KwaZulu-Natal a
cinque ore da Johannesburg, dove vive la comunità
zulu. Nibs ci andava per le vacanze ed è lì che ha
ascoltato per la prima volta la musica tradizionale
zulu chiamata maskanda, caratterizzata in particolare dalle oil drum guitars (chitarre con il corpo
ricavato da taniche d’olio) suonate in una forma di
fingerpicking. Questa musica, che per lungo tempo
non è stata registrata e documentata a livello discografico, e della quale sentiva profonde somiglianze
con la musica di John Lee Hooker e del Delta blues,
lo ha influenzato in modo determinante. Nibs e Guy
ci hanno così proposto un breve percorso di ascolti,
per descrivere la progressiva penetrazione di quella
forma musicale nella musica sudafricana attuale: si
è partiti da Shiyani Ngcobo, rappresentante fondamentale della tradizione maskanda, con Introducing
Shiyani Ngcobo (World Music Network, 2004), per
arrivare alla collaborazione tra Madala Kunene, altro esponente del maskanda, con il cantautore folk
bianco Syd Kitchen nell’album Bafo Bafo – What
Kind?! (Melt Music Phase 2, 2005); dal zulu pop
Lino Straulino. Lino Straulino ha sempre seguito
in un certo senso le note indicazioni di Alan Lomax
e Pete Seeger, che predicavano alle giovani generazioni di cantare le proprie tradizioni, e si è sempre
dedicato con amore e perseveranza a riproporre il
folklore musicale della propria terra, a rivalutare la
lingua friulana e a scrivere nuove canzoni in quella
lingua. Ma al tempo stesso covava nel suo intimo
un’attrazione emozionale nei confronti delle musiche angloamericane dal folk inglese alla West Coast, che in qualche misura traspare nei suoi lavori.
Non è forse un caso allora se – nel presentarsi il
sabato mattina a Madame Guitar e al mondo della
chitarra acustica, che notoriamente fa riferimento
soprattutto al fingerstyle di matrice angloamericana – abbia voluto riproporre il repertorio del suo
recente album L’alegrie (Nota, 2010) nel quale
esplicitamente riarrangia in chiave country e blues
alcune delle più conosciute villotte friulane, vestendo con ironia i panni del cowboy e armato di armonica blues e banjo chitarra, uno strumento che
più di ogni altro può richiamare l’incontro tra i nostri
vecchi emigranti e la musica del nuovo mondo. Un
operazione di grande interesse, che a mio parere
richiederebbe però un ulteriore sforzo di amalgama.
So che Lino sta lavorando anche a un repertorio
di balli tradizionali del Norditalia rielaborati in fingerstyle attraverso l’uso di accordature aperte: ne
ha suonati alcuni al seminario di John Renbourn a
Madame Guitar del 2009, e Renbourn ha dimostra33
chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
Madame Guitar 2012
to di apprezzarli. Credo che questo lavoro sarebbe
sicuramente un tassello importante nella direzione
intrapresa e aprirebbe ancor più le porte del popolo
della chitarra acustica.
quello che è certo è che vale la pena prestare l’attenzione necessaria alla sua musica effervescente
ma sofisticata.
Amine & Hamza. Amine e Hamza M’raihi sono
due giovani fratelli tunisini nati tra il 1986 e il 1987,
che suonano rispettivamente l’oud e il kanoun, un
grande salterio trapezoidale a corde pizzicate, che
si suona appoggiato sulle ginocchia con dei plettri
digitali. Educati alla musica classica araba, sono
però aperti alle nuove composizioni e alla collaborazione con musicisti classici occidentali e di altre culture. Sono molto attivi nei circuiti della world music e
hanno già inciso sei album a partire dal 2003, quando avevano cioè rispettivamente sedici e diciassette anni. La loro musica, spesso meditativa e ricca di
sviluppi improvvisativi, può sembrare ‘difficile’ a un
ascolto superficiale, ma è sicuramente di alto livello
e di grande interesse.
Martin Moro. Ha suonato sabato pomeriggio
ed è stato una sorpresa per me: suona la chitarra
(una bellissima Breedlove), la chitarra resofonica e
il mandolino; tecnicamente è molto bravo e ha un
suono molto curato. Nel suo paese, l’Austria, porta
avanti attività multiformi come solista, componente
di gruppi folk e non solo, musicista di studio, produttore, arrangiatore e compositore. Credo che varrebbe la pena riascoltarlo.
Gabor Lesko. Viene da un passato legato soprattutto a una musica fusion, elettrica e acustica,
molto arrangiata e orchestrata. Come Massimo Varini, viene a sua volta da un passato di collaborazioni con importanti artisti pop e, da qualche tempo,
si è avvicinato a una dimensione più intima della
musica, più concentrata e legata al fingerstyle per
chitarra sola. Come Varini, anche lui è un acquisto
prezioso per il nostro piccolo grande mondo della
chitarra acustica, perché può portarci una visione
forse più ampia dell’attività musicale e una maggiore esperienza delle esigenze del pubblico non
specialistico. Nel suo set in piazza del Municipio ha
mostrato la capacità di creare atmosfere varie, dai
brani delicati in fingerstyle alle evoluzioni dinamiche
in strumming, dalle canzoni morbide alle plettrate
virtuosistiche, dagli effetti percussivi all’uso dei loop.
W.I.N.D. unplugged. Di unplugged avevano solo
la chitarra acustica, accompagnata dal basso elettrico e da una batteria ‘dura’. Ma è pur vero che un
po’ di sano rock blues a volte ci vuole. E loro il rock
blues lo sanno suonare, cantare e anche comporre.
Così come si capisce che nel loro campo sono uno
dei gruppi italiani più riconosciuti in campo internazionale. E quando alla fine hanno intonato un inno
come “I Shall Be Released”, ci siamo ritrovati tutti a
cercare di cantare il ritornello assieme a loro.
Springsteen, Buckley & The Beatles. La domenica mattina si è svolta la presentazione di tre novità
librarie, coordinata da Nicola Cossar, uno dei soci
fondatori del Folk Club di Buttrio e giornalista del
Messaggero Veneto, alla presenza dei tre autori. Il
primo libro, All the way home – Bruce Springsteen
in the Italian Land 1985-2012 di Daniele Benvenuti,
edito dalla casa editrice Luglio, è un appassionato
e puntuale studio sul rapporto tra il rocker del New
Jersey e l’Italia: contiene un’analisi di tutti i quaranta
concerti tenuti dal Boss in Italia, indagini sociologiche sul fenomeno condotte con il supporto di esperti del settore, una bibliografia italiana commentata, il
censimento di tutti i fan club, le fanzine e le mailing
list, gli eventi a tema e le centinaia di artisti italiani
legati più o meno esplicitamente alla musica e alla
poetica di Springsteen. Durante la presentazione, il
cantautore ‘springsteeniano Miky Martina ha cantato alcune canzoni di Bruce e alcune canzoni proprie.
Andrea Castelfranato. Ha aperto con successo il
concerto serale del sabato. Molto migliorato e attento sul piano della presenza scenica e della tenuta
del palco, con la capacità già collaudata di gestire
al meglio la sua doppia anima di chitarrista latino
e flamenco sulle corde di nylon, e di chitarrista fingerstyle attento all’uso delle accordature aperte e
delle nuove tecniche a due mani sulle corde metalliche, può essere oggi considerato tranquillamente
nel numero dei migliori chitarristi acustici italiani.
Nei giorni precedenti il concerto, inoltre, Andrea ha
tenuto dei seguitissimi seminari di introduzione alla
chitarra acustica per due scuole medie di Udine e
nella scuola media di Tricesimo.
Bob Bonastre. Ha uno stile molto personale, caratterizzato costantemente da un fingerstyle svincolato da modelli sulle corde di nylon, da intermezzi di
parti percussive e da inserti vocali senza parole, di
grande estensione fino al falsetto. Uno stile talmente personale che, a un ascolto distratto, potrebbe
apparire ripetitivo. Ma, a ben ascoltare, ci si rende
conto che di ogni viaggio musicale che intraprende,
di ogni idea che vuole esprimere, riesce a cogliere
certi aspetti intimi e a evocare certi dettagli importanti. Quando suona “Bamako”, la capitale del Mali,
si sentono le sonorità della kora e il timbro della
voce è proprio quello della regione del Niger. Quando esegue un nuovo brano dal titolo provvisorio
“Can You Hear The Children Playing”, si sentono i
bambini giocare. E così via. Sembra forse un modo
di comporre e di procedere molto ‘pensato’, molto
riflessivo, che potrebbe rispecchiare la parte francese della sua natura (lui è nato in Senegal da una
famiglia per metà francese e metà spagnola). Ma
Daniele Bazzani, Giorgio Cordini e Giovanni
Pelosi. Il secondo libro è stato The White Book – I
Beatles e la chitarra di Daniele Bazzani e Davide
Canazza, edito da fingerpicking.net/Carisch, che i
frequentatori di fingerpicking.net e i lettori di Chitarra Acustica ben conoscono, per essere stato pubblicato prima in dodici puntate sul sito, poi come
numero speciale estivo della rivista.
Daniele Bazzani, che ha partecipato alla presentazione del volume, si è unito più tardi a Giorgio
Cordini e Giovanni Pelosi, per aprire il concerto serale con un festeggiamento del cinquantesimo anniversario dalla pubblicazione del primo singolo dei
Beatles, “Love Me Do / P.S. I Love You”, avvenuta
il 5 ottobre 1962. I tre convinti beatlesiani si sono
alternati ciascuno con i propri arrangiamenti prefe34
chitarra acustica 11 duemiladodici
Madame Guitar 2012
ar
riti delle canzoni dei Fab Four, a volte riunendosi in
duo. Il pubblico ha apprezzato molto, canticchiando
in sottofondo alcune delle più belle canzoni ‘popolari’ dei nostri tempi.
Gary Lucas. Il terzo libro è stato Touched by Grace – La mia musica con Jeff Buckley di Gary Lucas, edito da Arcana. Una bella sintesi dello spirito
dell’opera si può trovare subito nel primo capitolo:
«Attenzione, però, questa non è né una biografia di
Jeff né un libro che parla di me. Quella che voglio
raccontare è la storia – vera e vista dall’interno – di
come io, collaboratore storico di Jeff e coautore di
due dei suoi capolavori, l’ho conosciuto, e di come
ho lavorato con lui. Negli anni sono usciti tanti documentari e biografie di Jeff, tutti zeppi di errori riguardo alla mia relazione con lui: il mio intento è quello
di mettere una volta per tutte i puntini sulle i e di fare
un resoconto affettuoso, ma senza censure né ricami, di come ci siamo prima alleati, poi separati con
dolore, e infine ritrovati in un ultimo dolceamaro incontro. Sarà anche l’occasione per dare uno sguardo approfondito al processo creativo che ha dato
vita alle nostre immortali “Grace” e “Mojo Pin”».
Un argomento appassionante, ma anche spinoso:
l’incontro-scontro di due ego importanti che, raccontato a quindici anni di distanza dalla scomparsa
dell’uno, potrebbe suscitare qualche disagio. Gary
era molto emozionato nel parlare di questo lavoro.
Nel concerto serale Gary non mi è parso in buona forma. Quest’anno, a differenza della sua prima
apparizione a Madame Guitar nel 2009, aveva a
disposizione tutti i suoi pedalini per la chitarra elettrica e la sua amplificazione. E ha costruito un set
molto elettronico, con un uso esteso dei loop, molto
libero, forse un po’ slegato. Lucas è un tipo di rocker
sperimentale e di artista d’avanguardia, rispetto al
quale a volte faccio fatica a comprendere fin dove
arriva la sua bravura di musicista, e fin dove arriva
il suo genio e la sua inventiva. Credo che buona
parte del pubblico presente, in questo contesto di
festival di chitarra acustica, sia rimasto spiazzato da
questa esibizione. E anche per me resta qualcosa
di indecifrabile, a confronto con la statura del suo
curriculum.
Bob Bonastre
Amine & Hamza
Silvia & the Fishes on Friday. Una delle cose
più belle nel seguire queste manifestazioni, è veder crescere i giovani artisti di anno in anno, segno
tangibile dell’applicazione che riversano in questa
loro passione. È il caso di Silvia & the Fishes on
Friday, che hanno suonato nel pomeriggio di domenica. Rispetto alla loro esibizione dell’anno scorso,
sono apparsi molto più amalgamati e compatti negli
arrangiamenti, e la voce di Silvia Guerra ha acquistato molta più definizione e sicurezza.
Gary Lucas
Andrea Valeri. Anche lui ha suonato domenica
pomeriggio, con una nuova fiammante Maton con
la sua firma. Dopo il suo ultimo album DayDream,
è decollato per una tournée internazionale che ha
toccato Sudafrica, Australia, Russia, Polonia, Germania e Nuova Zelanda. Lo abbiamo ritrovato a
sua volta molto cresciuto, non tanto per l’aspetto
musicale, quanto sul piano personale. Ma di questo parleremo più profondamente in una prossima
intervista.
Andrea Valeri
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
Madame Guitar 2012
dei suoni e dei ritmi degli tsaatan, gruppo etnico che
pratica lo sciamanesimo, e da questa esperienza
è nato il libro Mongolia – La via dell’acqua (Il Filo,
2009). Era quindi la persona più adatta a interpretare in conclusione, con il supporto del Morin Khuur
Ensemble, l’inno del festival, “Madame Guitar” di
Sergio Endrigo.
Morin Khuur State Ensemble. L’ultimo set del
festival è stato affidato a un’orchestra di stato della
Mongolia, un ensemble di strumenti ad arco basato
sul tradizionale morin khuur, sorta di violino a due
corde dal corpo trapezoidale, tenuto verticalmente
in grembo o tra le gambe dell’esecutore; le note non
vengono ottenute premendo le corde su una tastiera, ma semplicemente ‘stoppate’ attraverso tecniche specifiche delle dita della mano sinistra. Ai morin khuur si affiancano gli ikh khuur, fratelli maggiori
a due o tre corde dal suono più basso, e l’organico
si completa con il limbe, flauto a becco, lo yatga,
grande cetra a corde pizzicate con la tavola superiore convessa, e lo yoochin, grande cetra a corde
percosse, ai quali si aggiunge infine un pianoforte
occidentale. La presenza del pianoforte testimonia
di una musica complessa, radicata nella tradizione
popolare e classica della Mongolia e, al tempo stesso, aperta a nuove composizioni e ad elementi di
contaminazione con la musica classica occidentale.
Tra i vari e affascinanti brani strumentali, si sono
inserite le esibizioni di alcuni cantanti, che hanno
dato dimostrazione dei due stili vocali fondamentali
della tradizione mongola: lo urtyn duu, forma di canto lirico ‘alla longa’, caratterizzato da note lunghe, e
il khöömii, lo straordinario canto difonico o armonico, nel quale la cavità orale è disposta in modo da
far risaltare gli armonici presenti nella voce, così da
produrre simultaneamente due o più linee melodiche distinte. Ascoltare dal vivo questo tipo di canto
è un’esperienza veramente emozionante, che ha
impreziosito l’esibizione trionfale del Morin Khuur
Ensemble.
Resta infine lo spazio solo per alcune altre segnalazioni: Veronica Sbergia & Max De Bernardi,
che hanno suonato in piazza e che sono presenti
in questo numero con un’intervista; Kiana, folksinger e songwriter nata in Giappone da padre giapponese e madre americana, oggi trapiantata alle
Hawaii; il Trio Yerba, impegnato in un vasto repertorio tradizionale e d’autore latinoamericano; Guitar
Soundtracks, duo formato dai chitarristi Michele
Pirona e Alain Fantini, i cui arrangiamenti di colonne
sonore hanno mostrato forse troppa separazione
tra la parte solista e la parte ritmica di accompagnamento; Raqs Sharqi, gruppo friulano dedito alle
danze mediorientali, composto di tre strumentisti e
due ballerine; Giorgio Tosolini, solitario responsabile dell’ottimo suono in teatro, e Gianfranco Lugano, responsabile del suono negli interventi esterni
nelle scuole.
Ma il ricordo finale va a Luisa Terrenzani, moglie
di Marco Miconi, che è venuta a mancare all’inizio
dell’estate e alla quale è stata dedicata la rassegna
di quest’anno. Luisa ha sempre sostenuto con totale disponibilità Marco nelle sue infinite peripezie
tra il Folk Club Buttrio e Madame Guitar, curando
le questioni di segreteria, le pratiche burocratiche,
la biglietteria, accompagnando gli artisti a destra
e a sinistra, eventualmente cucinando per gli ultimi arrivati. Lei sarà stata triste di non aver potuto
partecipare a questa bellissima settima edizione del
festival. Ma si sarà rasserenata nel constatare che
la volontà di portare avanti le cose, malgrado tutte
le difficoltà, è ferrea e la fede incrollabile.
Il gran finale. Per celebrare il rito tradizionale di
chiusura della manifestazione, è salita sul palco
Enrica Bacchia. Cantante jazz di Conegliano Veneto, nota a livello internazionale, ha iniziato nel
1999 una serie di viaggi in Cina che l’hanno vista
nella duplice veste di interprete e di insegnante di
canto ‘occidentale’ presso il Beijing Contemporary
Institute of Music di Pechino. Ha viaggiato inoltre
tra Siberia e Mongolia, alla scoperta della cultura,
Andrea Carpi
Daniele Bazzani, Giovanni Pelosi, Giorgio Cordini
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
artisti
MUSIC IS LOVE
Un tributo a Crosby, Stills, Nash & Young
di Alfonso Giardino
La musica è amore e sicuramente era questo (e ancora lo è…) il sentimento che
ha guidato l’intera carriera artistica dei quattro musicisti che – più di tutti – hanno
caratterizzato e influenzato quel genere che negli anni ’70 prendeva il nome di
West Coast. Ed è ancora l’amore, la passione, ad aver guidato un progetto che ha
voluto rendere omaggio a chi ha influenzato, musicalmente e spiritualmente, almeno un paio di generazioni. Per chi non l’avesse ancora capito, stiamo parlando
di un disco tributo per i leggendari David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e
Neil Young. Music Is Love – A Singer-Songwriters’ Tribute to the Music of Crosby,
Stills, Nash & Young è un progetto italiano e ad oggi unico, ideato da Ermanno
Labianca, Francesco Lucarelli e Peter Holmstedt, prodotto dall’etichetta Route 61
Music dello stesso Labianca, in collaborazione con la svedese Hemifrån, e distribuito in tutto il mondo dalla BTF.
Stills e Young), Everybody Knows This Is Nowhere
(Young) o il primo di Crosby, Stills & Nash.
Un cofanetto con CD doppio molto ben confezionato, che ha visto la luce lo scorso mese di ottobre
e ha richiesto circa due anni di duro lavoro, corredato di un booklet di trentasei pagine contenente anche inedite foto offerte da Henry Diltz, il memorabile
fotografo dei Doors, e una presentazione di Dave
Zimmer, biografo di CSN. Immaginate un po’: ventisette canzoni per altrettanti artisti provenienti da
ambienti e generi diversi (folksinger, rocker, band
vocali, country e alternative, americani, inglesi, australiani e irlandesi), tutte registrate a Nashville (e
l’elevata qualità delle registrazioni lo testimonia)
con la prestigiosa collaborazione in studio di musicisti del calibro di Tony Levin (King Crimson, Peter
Gabriel, Paul Simon), Marty Rifkin (da Tom Petty
Music Is Love non si limita ad omaggiare CSN&Y
nella loro unica veste di supergruppo. Basterà leggere le note di copertina per comprenderne la vera
portata: «A tribute to the outstanding body of work
produced by Crosby, Stills, Nash and Young». Con
questa produzione, infatti, si è voluto cogliere l’occasione di ricordare il quarantennale della mitica
stagione musicale che tra il 1971 e il 1972, sulla
spinta di album come Déjà Vu e After the Gold
Rush, ha visto la produzione di pietre miliari quali
4 Way Street (CSN&Y), Stills 2, If I Could Only Remember My Name (Crosby), Songs for Beginners
(Nash), Harvest (Young), Manassas e il primo album di Crosby & Nash. Senza dimenticare però altri
lavori che i nostri eroi, in formazione sparsa, hanno realizzato, compresi quelli dei loro esordi come
Buffalo Springfield (tra le loro fila i giovanissimi
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chitarra acustica 11 duemiladodici
MUSIC IS LOVE
ar
con il biondo chitarrista di Dallas, eccoci a Jennifer
Stills e Judy Collins: la prima (non è così difficile
intuirlo) è proprio la figlia di cotanto padre, anche
lei musicista, molto attiva specialmente nell’area di
Hollywood, che qui interpreta “Love the One You’re
With” (S.S.) con animo romantico e quasi malinconico, nonostante il crescendo ritmico, a differenza
della sfrontata allegria che la versione originale ha
avuto fin dalla sua prima apparizione nell’album
dell’esordio solistico nel 1970. Della seconda interprete avranno, forse, sentito parlare solo i biografi
più informati o gli appassionati della folk music: la
Collins, infatti, oltre ad essere una cantautrice e attrice statunitense conosciuta come una delle maggiori esponenti della musica popolare degli Stati
Uniti tra gli anni ’60 e ’70, è stata la musa ispiratrice
di “Suite: Judy Blue Eyes” (vedere una sua qualsiasi foto sul web per capirne il motivo), brano che però
ha deciso di non riproporre (questione di buon gusto…), optando invece, per una “Helplessly Hoping”
(S.S.) anch’essa fedele all’originale nello spirito, ma
nella quella l’amato fingerpicking, con il quale Stills
sosteneva tutte le voci, non è più l’unico protagonista strumentale, avendo abdicato in favore di un
pianoforte forse più adatto alla bella e dolce voce
della cantante.
alla Seeger Sessions Band di Bruce Springsteen),
Victor Blasetti (Los Lobos), Richard Dodd (Foo
Fighters, Johnny Cash). I nomi dei titolari delle varie
tracce testimoniano la presenza di artisti che sono
oggettivamente più famosi oltreoceano che qui da
noi. Tra questi, comunque, spiccano artisti ben noti
anche ad italiche orecchie.
C’è Elliott Murphy, cantautore e giornalista newyorkese spesso in tour in Italia e amico personale
del Boss Springsteen, che, da rocker qual è, propone una versione di “Birds” (N.Y.) in versione ballad, preferendo sonorità chitarristiche (acustica e
slide) a quelle più intimiste e liriche (pianoforte e
background vocals) dell’originale. Il contributo di un
altro nome noto non può certo lasciare indifferenti i
fan in particolare di Crosby: Steve Wynn, chitarrista e cantautore californiano ex leader dei Dream
Syndicate, mette in pratica tutta la sua esperienza
maturata nel rock alternativo anni ’80, trasformando
l’essenziale “Triad” (D.C.) in una quasi irriconoscibile, comunque affascinante, ossessione psichedelica. Altro approccio è quello di Willie Nile, classe
’48, che il New York Times ha definito «uno dei più
dotati cantautori ad emergere dalla scena di New
York», il quale canta e suona “Rockin’ in the Free
World” (N.Y.) con la medesima grinta e determinazione delle esibizioni live di Neil Young.
Non solo glorie ‘stagionate’, c’è anche un certo
Marcus Eaton, ormai nuova star del firmamento
statunitense, giovane e raffinato singer-songwriter
che (come abbiamo già accennato nella nostra recensione del suo ultimo album nello scorso numero
di settembre) sta collaborando al nuovo CD di Crosby e la cui versione di “Bittersweet” (D.C.) è una
prova delle sue grandi capacità di arrangiatore.
Ai tanti americani si alternano anche artisti provenienti dal vecchio mondo come Ian McNabb,
cantante e compositore di Liverpool ex voce solista
degli Icicle Works (negli anni ha suonato anche con
personaggi come Ringo Starr, Crazy Horse, Mike
Scott dei Waterboys, Danny Thompson dei Pentangle), e Liam O’Maonlai, musicista irlandese meglio
conosciuto come voce degli Hothouse Flowers. Il
primo affronta la title track “Music Is Love” (CN&Y)
in un crescendo di sovraincisioni vocali e strumentali, elettriche ed elettroniche, che ben richiamano
quelle per lo più acustiche dell’originale, mentre il
secondo decide di fare il pari con la ben nota “Lady
of the Island” (G.N.) abbandonando, però, la chitarra e preferendo accompagnarsi con un più etereo
pianoforte.
Altri nomi, poi, anche se a noi forse non conosciuti per meriti prettamente musicali, non passano
di certo inosservati, visto il loro stretto legame con
il mondo di CSN&Y. Si va da Sonny Mone, voce,
chitarra e membro fondatore dei Crazy Horse (con
i quali ha suonato con e senza Neil Young), che
propone una “You Don’t Have to Cry” (S.S.) molto fedele all’originale di CS&N, compreso l’acustica
’alla Stills. E volendo continuare ad avere a che fare
Ma, al di là di queste prestigiose partecipazioni, è
forse la presenza di altri nomi ad impreziosire questa produzione. Artisti ’di nicchia’, appartenenti a
quel mondo immenso che è il panorama musicale
americano e anglosassone in genere, che solo un
pubblico nostrano specializzato ha fino ad oggi apprezzato. Riteniamo quindi opportuno mettere sotto
la lente questi musicisti, per capirne la qualità e apprezzare la scelta fatta dai produttori.
Jennifer e Judy non sono le sole donne ad aver
partecipato a questo lavoro, nel quale le quote rosa
sono state sicuramente rispettate, a testimonianza
di come l’altra metà di questo cielo musicale sia, forse, meno condizionato dai pregiudizi. Sadie Jemmett, cantautrice e polistrumentista britannica nota
in patria anche per la sua attività di compositrice
di musica per teatro, contribuisce con una versione
di “Teach Your Children” (G.N.) priva di qualsiasi
riferimento country (ricordate le frasi della lap steel?), più ariosa e leggera, con qualche spruzzatina
di pop. Torniamo al continente americano e in particolare al sole californiano con la cantante Jenai
Huff che, dopo molta gavetta e un lunghissimo periodo di inattività, pubblica il suo primo CD nel 2011
con il produttore Ben Wisch (due volte vincitore del
Grammy) e la collaborazione di un certo Jeff Pevar
(sì, quello dei CPR: Crosby, Pevar & Raymond!), e
con Cindy Lee Berryhill, cantante e songwriter con
una carriera che la trasforma da rude ed essenziale
folksinger a quasi diva del pop. Le loro interpretazioni, rispettivamente “I’ll Be There for You” (Douglas Ingoldsby, G.N., Joseph A. Vitale) e “It Doesn’t
Matter” (Chris Hillman, S.S.), sostanzialmente non
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
MUSIC IS LOVE
che in Oh Yes I Can c’era la sola chitarra di Michael
Hedges a tesserne le armonie).
Gruppi di lungo corso, ma anche formati appositamente per l’occasione, come Bonoff, Cowan,
Szcześniak & Waldman. A Karla Bonoff e Wendy
Waldman, due singer-songwriter di successo che
hanno sempre alternato la loro carriera solista a
quella dei Bryndle (una band di folk-rock formatasi
a Los Angeles negli anni ’60, che tra vicissitudini e
variazioni d’organico è attualmente inattiva), si sono
uniti per l’occasione John Cowan, bassista e voce
solista dei New Grass Revival (gruppo statunitense
di progressive bluegrass, prodotto in passato dalla
stessa Waldman) e Mietek Szcześniak, cantante
polacco di estrazione jazz (anche nella produzione
del suo recente primo disco in inglese c’è lo zampino
della Waldman). Insieme propongono una “Guinnevere” (D.C.) di grande fascino, con le quattro splendide voci che si alternano e rincorrono (nota chitarristica: l’arpeggio portante è stato sostanzialmente
riproposto uguale alla versione originale).
Tra le varie categorie, se vogliamo dire così, rappresentate in questo album doppio c’è anche quella delle ‘coppie di fatto’. I Sugarcane Jane sono
composti da Anthony Crawford e da sua moglie
Savana Lee, lui songwriter e strumentista con una
lunga collaborazione in tour con gente come Neil
Young, Steve Winwood e Nicolette Larson, lei con
innumerevoli collaborazioni ed esperienze musicali.
La loro versione di “Bluebird” (S.S.) abbandona le
sonorità elettriche dei Buffalo Springfield per quelle
più accattivanti di un country rock contemporaneo.
Analoga operazione la fanno anche Michael McDermott & Heather Horton, trasformando l’originale “Southern Cross” (S.S., Richard Curtis, Michael
Curtis) da brano corale a ballata country, solo chitarra (sembra di sentire il tipico picking di Stills) e
violino. Qualche cenno alla particolare storia artistica di Michael: dopo un esordio folgorante nel 1991,
giunge ad essere catturato dal mondo del cinema,
dove il produttore Brian Koppelman realizza un film
ispirato alla sua gioventù, Rounders – Il Giocatore
con Matt Damon ed Edward Norton, mentre lo scrittore Stephen King lo cita in più di un romanzo; si è
poi sposato due anni fa in Italia con Heather Horton,
che già lo accompagnava sul palco.
Questo ‘gioco delle coppie’ si chiude con Andy
Hill & Renée Safier, protagonisti con i loro Hard
Rain di molti degli eventi live presenti nell’area di
L.A. (più di duecento concerti l’anno, dai festival
agli house concert) oltre ad essere anche da più di
ventidue anni gli organizzatori del Bob Dylan Fest.
E l’anima dylaniana traspare chiaramente dalla loro
interpretazione di “Thrasher” (N.Y.), più ricca grazie
anche ad un arrangiamento dalle venature folk.
L’enorme varietà artistica è evidente già da quanto sopra presentato, ma non finisce qui. Abbiamo
ancora personaggi come Neal Casal, cantautore e
chitarrista statunitense già lead guitarist dei Cardinals di Ryan Adams (forse pochi lo sanno, ma c’è
si discostano dalle versioni originali, pur avendone
entrambe sottratto qualcosa (di certo non la bellezza): la prima un po’ di ritmo, la seconda… l’assolo
di Stills!
Scendiamo ora fin quasi in Messico con la texana
Carrie Rodriguez, stella del nuovo folk americano:
paragonata a Norah Jones e Lucinda Williams, è
stata una degli ospiti internazionali sul palco del
Teatro Ariston al Premio Tenco dello scorso anno.
Sarà per le sue inequivocabili origini latine o per un
gioco del destino, ma a lei tocca “Cortez the Killer”
(N.Y.), forse meno tagliente e spigolosa dell’interminabile versione di Zuma, ma ugualmente ipnotica e
con un bel solo di elettrica sorretto dal violino della
stessa Carrie.
Come la Rodriguez anche altri artisti, dei ventisette qui presenti, hanno avuto modo di attraversare l’oceano per esibirsi su palchi italiani. C’è Ron
LaSalle, newyorkese trapiantato a Nashville, che
si è posto sulla scia di Van Morrison, John Hiatt,
Bob Seger e Tom Waits: a lui il compito della prima
traccia, “For What It’s Worth” (S.S.), una versione
leggermente più ruvida e nera di quella dei Buffalo
Springfield, grazie anche alla sua voce di cartavetrata.
C’è poi chi, come il già citato Marcus Eaton nel
maggio scorso, ha calcato un palco a noi molto noto
e familiare, quello dell’Acoustic Guitar Meeting di
Sarzana: The Coal Porters, nel 2005, ed Eileen
Rose & The Legendary Rich Gilbert nel 2010. La
band british-american, guidata da Sid Griffin (fondatore dei Long Ryders) e da Neil Robert Herd, si è trovata più che a proprio agio nell’originale bluegrass
di “Fallen Eagle” (S.S.), tanto da sembrare di stare a
una festa paesana nell’immancabile fienile. Dall’altro canto la songwriter di Nashville (a metà strada
tra Neil Young e Nico dei Velvet Undergroud), con
il fido Rich alla chitarra elettrica e alla pedal steel,
propone una bella versione di “Just a Song Before I
Go” (G.N.) caratterizzata dall’intensa voce di Eileen
ed un arrangiamento vagamente psichedelico.
Non solo solisti, quindi, ma anche gruppi. Tra questi spiccano i Venice: gruppo vocale californiano
nato nel 1977 e composto dai fratelli-cugini Lennon,
vantano una serie infinita di collaborazioni alle spalle da Bruce Springsteen, Elton John, Phil Collins a
Sting, Melissa Etheridge, Cher, Ozzy Osbourne fino
a Jackson Browne, David Crosby, Doobie Brothers,
Linda Ronstadt e tantissimi altri. La loro versione
di “After the Gold Rush” (N.Y.) presenta una scelta
apparentemente improbabile, ma liricamente efficace: a sorreggere le quattro voci dei Lennon, solo
una chitarra in fingerpicking e un filo di tastiere. Con
“Tracks in the Dust” (D.C.) anche i Mary Lee’s Corvette sono intervenuti solo sull’arrangiamento. La
band newyorkese guidata dalla cantante Mary Lee
Kortes (la critica colloca la sua voce tra Dolly Parton e Chrissie Hynde) ha deciso di non stravolgere
lo spirito originario, cambiandone semplicemente
la veste (e non avrebbe potuto fare altrimenti, visto
40
chitarra acustica 11 duemiladodici
MUSIC IS LOVE
anche un suo fan club italiano): canta e suona tutto
da solo “Hey You (Looking at the Moon)” (G.N.), alla
quale sottrae un po’ di quelle cadenze cantalenanti tipiche del suo autore. Oppure Louis Ledford,
cantore appassionato della realtà rurale degli Appalachi, con la sua versione di “Wasted on the
Way” (G.N.) più malinconica di quella presente in
Daylight Again grazie anche a una lap steel che sostituisce il fiddle dell’originale. E ancora Bocephus
King (Jamie Perry, il suo vero nome), artista indie
proveniente da Vancouver, Canada, che trasforma
“Down by the River” (N.Y.) in una sorta di preghiera
mistica orientaleggiante.
Non tutti made in USA, quindi, come Nick Barker
(da non confondere con l’omonimo batterista metal), cantautore e chitarrista pop-rock australiano di
Melbourne, che sceglie la strada della fedeltà con
una versione di “Long May You Run” (N.Y.) che presenta la medesima ambientazione country rock datagli in origine dalla Stills-Young Band. Operazione
diversa, invece, quella di Clarence Bucaro. Sarà
per la sua ancor giovane età o le influenze musicali
ricevute dagli artisti con i quali ha condiviso il palco (da Aaron Neville a The Blind Boys of Alabama
e Chrissie Hynde and the Pretenders) ma questo
cantautore originario di Cleveland, dalla voce calda
e dolce allo stesso tempo, compie una operazione
molto originale: ci regala una “Out on the Weekend”
ar
(N.Y.) tutta nuova, con un arrangiamento soul jazz
impreziosito da una sezione di trombe, nella quale
ha voluto, però, incastonare il solo di armonica così
come è possibile ancora ascoltarlo in Harvest.
Come già detto, Music Is Love è un disco tributo,
ma è anche una finestra spalancata su una realtà
musicale contemporanea tutta da scoprire, fatta di
generi ancora poco frequentati dalle nostre parti e
da musicisti di notevole spessore tecnico e artistico,
le cui esecuzioni sono state qui esaltate grazie all’elevata qualità delle registrazioni made in Nashville.
Visto che siamo su Chitarra Acustica, be’… forse
viene a mancare un po’ della chitarra degli originali
ma, come ritengo sia stato giusto fare, questa operazione ha voluto far conoscere la musica di CSN&Y
a quanti non avessero ancora avuto modo di ascoltarla, valorizzandone la forza melodica e compositiva, seppure correndo il rischio di ‘dechitarrizzare’
quanto è stato fonte di apprendimento per centinaia
di migliaia di chitarristi in tutto il mondo… Dopo tutte
queste parole, però, dove si può ascoltare un po’ di
musica? È possibile averne un assaggio? Andate
pure sul ‘tubo’ e cercate il canale “route61music”:
troverete un paio di video promo con tante foto e la
title track in sottofondo, tanto per farsi venire l’acquolina in bocca.
Alfonso Giardino
Jennifer Stills
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
artisti
Come se avessi le ali
Intervista a Marcus Eaton
di Lauro Luppi e Frank Varano
Quest’anno all’AGM di Sarzana abbiamo incontrato un altro cantautorechitarrista di quelli che piacciono a noi: ottimo cantante, bravo scrittore di
canzoni, bravissimo chitarrista! Si chiama Marcus Eaton ed è venuto al Meeting come dimostratore delle nuove chitarre Martin Performing Artist Series
e in compagnia del suo amico Roy McAlister, il grande liutaio che a Sarzana
ha lasciato un pezzo di cuore. Suo padre, Steve Eaton, è un autore di canzoni che ha scritto per artisti del calibro di Art Garfunkel, Glen Campbell, i
Carpenters e Anne Murray. Così Marcus è cresciuto con la canzone d’autore
nel sangue. I suoi idoli musicali sono poi Tim Reynolds e Dave Matthews, e
questo già ci fa capire qualcosa della sua musica. Infine il suo ultimo album
If I Had Wings, recensito sul numero di settembre, ci ha dato una prova tangibile del suo valore. Del suo talento si è accorto ultimamente anche David
Crosby, che lo ha voluto con sé nel suo prossimo disco in lavorazione: mica
male, no? Nella propria pagina Facebook, Marcus ha inserito un album di
foto dal titolo Falling in love with Italy 2012 (“Innamorandosi dell’Italia 2012”):
mentre lo intervistavamo – con in sottofondo, nello stand accanto, il fior fiore
dei ‘bluegrassari’ italiani, Davide Facchini, Danilo Cartia, Andrea Tarquini,
Paolo Monesi e Leonardo Petrucci in testa, che intonavano “Will the Circle
Be Unbroken” – abbiamo avuto la netta sensazione che presto lo rivedremo.
(a.c.)
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chitarra acustica 11 duemiladodici
Intervista a
Marcus Eaton
ar
Puoi raccontare come hai cominciato e come
sei arrivato a questo tuo quinto disco If I Had
Wings?
Ho registrato il mio primo album a diciannove
anni, un disco indipendente autoprodotto. In seguito ho formato un gruppo, Marcus Eaton and the
Lobby, e abbiamo inciso un paio di altri dischi per
nostro conto, No Way Out nel 1999 e Marcus Eaton
and the Lobby nel 2002. Nello stesso anno abbiamo firmato un contratto con l’etichetta discografica
Uninhibited/Universal e nel 2003 è uscito un nuovo
album intitolato The Day the World Awoke, che ci
ha aperto le porte per avere un impresario, fare un
tour negli Stati Uniti e condividere il palco con musicisti conosciuti. Purtroppo, nel 2004, la nostra casa
discografica è fallita…
È in quel periodo che hai incontrato Tim
Reynolds?
Dopo il fallimento della casa discografica il gruppo
è entrato in crisi, ha perso fiducia, si girava troppo per troppi pochi soldi. Così ho continuato come
solista ed è stato allora che ho iniziato a lavorare
con Tim Reynolds. Tim mi ha aiutato molto e in un
anno ho diviso il palco con lui in ventisei concerti
negli Stati Uniti. È in quello stesso periodo che sono
entrato in contatto anche con David Crosby. In occasione di un concerto ad Aspen nel Colorado ho
conosciuto un certo Norm Waitt, che mi ha invitato
a suonare a una sua festa privata ad Omaha nel
Nebraska. Grazie a lui ho avuto anche l’opportunità di partecipare a un importante concerto di Dave
Matthews con Tim Reynolds al Santa Barbara Bowl
in California, anche se poi ci sono state delle restrizioni sull’orario e non ho potuto realmente suonare.
Inoltre ho scoperto che Norm era il titolare dell’etichetta Samson Records, che ha pubblicato alcuni
album di Crosby con CPR, e un giorno mi disse:
«Sono amico di David Crosby e vorrei presentartelo, potrebbe essere un buon contatto per te». È così
che ho cominciato a collaborare con Crosby!
materiale di altri, ma la capacità di scrivere canzoni
mi era familiare e ho cominciato a scriverne fin da
molto giovane.
Quindi tu ti consideri in primo luogo un cantautore?
Dopo essere stato a Sarzana, certamente sì…
perché i chitarristi qui sono talmente ‘fottutamente’
bravi, che non oserò mai più considerarmi un chitarrista!
A parte gli scherzi, tu sei formalmente un cantautore, perché canti le tue proprie canzoni, ma
non suoni come un cantautore tradizionale…
No, c’è qualcosa di più progressivo. Vorre essere
innovativo, non vorrei solo ripetere…
Come mai, secondo te, Waitt ha pensato di
presentarti a Crosby? Più precisamente, quali
sono state le tue doti che hanno convinto Waitt
a promuovere l’incontro con Crosby?
Be’, Norm ha un buon orecchio! Ed io sono stato
molto fortunato nella mia formazione musicale: mio
padre è un musicista, i miei nonni erano entrambi cantanti lirici, cantavano l’opera italiana! E così
sono cresciuto con la musica intorno. Sono stato
fortunato anche perché mio padre è un autore di
canzoni, non si limitava a suonare e riproporre canzoni di altri. Molti artisti, quando iniziano a cercare
la propria identità, di solito continuano a suonare il
repertorio di altri musicisti per molto tempo. Io invece, non è che non abbia a mia volta suonato il
Una cosa che ci ha colpito è che tu non sei
molto ‘lineare’ nell’esecuzione e nei tuoi brani:
hai una bellissima scrittura, ma è veramente
nuova, fresca, lontana da formule prestabilite.
È stato difficile per me, perché spesso negli Stati
Uniti, quando sembra che le cose non ‘quadrano’,
non si ‘adattano’, allora ti dicono: «Ah, questo è reggae! Ah, questo è rock!» Ma le cose sono più complicate, io cerco di spingermi oltre i limiti. E penso
anche che in giro ci siano molti musicisti bravissimi,
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chitarra acustica 11 duemiladodici
ar
Intervista a
Marcus Eaton
e poi i cantautori. Ma non c’è niente in mezzo, che
unisca la grande abilità musicale e la scrittura di
canzoni. Io vorrei stare in qualche modo nel mezzo,
includere entrambi gli aspetti…
Vedete, ancora una volta sono molto fortunato:
non avevo mai incontrato nessuno veramente come
lui, così aperto a nuove idee. È veramente una situazione incredibile, dove l’ego non esiste, dove
non c’è spazio per l’egocentrismo. Credo che questa sia una cosa rara. E credo anche che sia rara
per uno della generazione di David Crosby: perché
siamo io, della mia generazione, James, di una diversa generazione, e David. Siamo tre generazioni
a lavorare assieme! David ha un iPad, un iPhone,
usa la tecnologia, la capisce, è aperto, è desideroso di provare nuove idee, di provare qualsiasi cosa.
Credo che questo sia ammirevole e sono veramente fortunato di condivedere tutta questa situazione.
In effetti, nel corso degli anni qui a Sarzana,
abbiamo potuto ascoltare da una parte Tommy
Emmanuel, un chitarrista ipervulcanico, dall’altra John Gorka, un bravissimo cantautore con
un approccio alla chitarra totalmente diverso…
Sì, e in un certo senso non hanno nulla in comune, anche se magari l’uno potrebbe dire che gli piacerebbe che l’altro suonasse nel proprio disco… Ma
io vorrei fare tutte e due le cose! Da questo punto di
vista Tim Reynolds è il mio pallino, è un musicista
eccezionale. È quello che vorrei fare, suonare altrettanto bene e al tempo stesso scrivere e cantare
canzoni. È difficile farlo. È anche difficile incorporare un bel modo di suonare in un breve spazio di
tempo, come avviene in una canzone.
Fanno della tecnologia lo stesso uso che ne
fai tu, oppure tu sei il ‘ragazzino’ del gruppo che
ha posto un maggiore accento sulla tecnologia?
Al contrario, è lui a volte a essere più avanzato, a
introdurre nuove idee. Per esempio abbiamo appena finito di scrivere e registrare un brano a casa sua,
tutto tramite iPad, iPhone e iTunes collegati direttamente agli speaker. È estremamente intelligente e
saggio. Stare accanto a una persona così piena di
saggezza e priva di qualsiasi forma di egocentrismo
ha rappresentato per me un beneficio immenso.
È una domanda quasi stupida, ma mi serve
per aprire poi un altro discorso: nelle tue collaborazioni, con Tim Reynolds, con David Crosby,
ti danno delle direzioni? Oppure ti dicono «Noi
conosciamo il tuo stile, sei un musicista con cui
vogliamo suonare perché stiamo bene insieme,
fai semplicemente un buon lavoro» e ti lasciano
libero di esprimerti davvero secondo le tue idee
È un’ottima domanda! Il più delle volte, quando
si suona per altri musicisti, credo che i parametri
in cui ci si muove siano limitati, l’ambito è ristretto.
Personalmente, non ho lavorato molto sul materiale
di altri musicisti, per cui l’album di Crosby è stato veramente la mia prima esperienza del genere ed ero
un po’ nervoso, non ero sicuro di essere all’altezza,
non avevo idea di cosa mi potessi aspettare. Ma
fortunamente lui è stato talmente collaborativo, che
mi ha permesso di fare quello che pensavo e addirittura di comporre delle cose insieme, una cosa
incredibile, al di là di ogni aspettativa! D’altra parte
il suo materiale musicale è molto vicino a quello che
io faccio, anche grazie a suo figlio James Raymond,
che è un pianista eccezionale con il quale mi trovo
sulla stessa lunghezza d’onda.
Ma la tecnologia, mi sembra, è sempre al servizio delle persone e della musica, non c’è mai
uno sconfinamento nell’abuso: la usate perché
è utile…
Sì, la usiamo per trarne vantaggio. Vi racconto
una storiella simpatica: io sono su Facebook e ho
un amico in Italia che si chiama Nick. Un giorno mi
ha scritto dicendomi: «Sei diventato famoso, sei diventato famoso!» E mi ha raccontato che Crosby
mi aveva citato in un giornale italiano, la Repubblica. Così mi ha mandato il link dell’articolo, era
poco dopo il mio incontro con David, che diceva:
«Uno dei miei cantautori preferiti adesso è Marcus
Eaton». Non ci potevo credere, ero assolutamente
sconvolto: un giornale italiano che parlava di me,
era la mia prima apparizione internazionale! La tecnologia serve anche a questo…
Ti sei quindi ritrovato a collaborare con David
Crosby, uno dei capisaldi storici della ricerca
sulle accordature alternative. Tu le usavi già?
Lui ti ha trasmesso qualcosa? Oppure anche in
questo caso è stato così aperto da accogliere
delle accordature che tu gli hai proposto?
Buona domanda! Quando ci siamo presentati
la prima volta a cena con l’amico Norm, abbiamo
molto parlato di musica. Poi lui mi ha scritto delle
email dicendo che aveva alcune accordature aperte
da mostrarmi e che voleva incontrarmi. Incredibile!
Così, la prima volta che abbiamo suonato insieme
Visto che hai questa libertà, ti faccio una domanda un po’ provocatoria: ci hai spiegato che
sei libero anche di collaborare alla scrittura dei
brani, cioè stai collaborando proprio alla nascita di questo disco, ma saresti libero anche
di proporre dei musicisti? Tu qui a Sarzana ti
sei presentato come un artista solista che usa
delle basi e dei loop, ma il tuo disco è realizzato in trio: potresti proporre qualche musicista
che conosci e che secondo te potrebbe trovarsi
bene in questa nuova situazione con Crosby?
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chitarra acustica 11 duemiladodici
Intervista a
Marcus Eaton
ar
era chiusa, il mio polso bloccato. Ho dovuto lavorare
molto per rendere il mio polso rilassato, decontratto.
E nelle figurazioni ritmiche molto veloci, la parte più
importante della mia tecnica ricade sulla mano sinistra. La mano sinistra è fondamentale per guidare
la pulsazione, rilasciando ritmicamente la pressione
sulle corde. Tra le figurazioni ritmiche suonate dalla
mano destra, rilascio la mano sinistra per stoppare
le note, è come il pedale di un pianoforte. Alla fine
di “Life in Reverse”, il primo brano di As If You Had
Wings, questa tecnica è particolarmente evidente.
me le ha mostrate e ci siamo scambiati diverse accordature. Per la verità io non uso tante accordature, ma adesso che abbiamo suonato insieme, ho
scritto delle canzoni con quelle accordature. E queste canzoni funzionano. Ho lavorato un po’ sulle sue
accordature e sono tornato da lui con delle canzoni
nuove scritte con le sue accordature: una cosa fantastica! Un’accordatura era quella per “Dèjà Vu” e
“Guinnevere”, l’altra era per “Tracks in the Dust”. La
prima è quella che ho usato di più: EBDGAD. L’altra
è CGDDAD. Abitualmente suonavo in accordatura
standard o in Dropped D, e un’altra delle mie preferite era una Dropped B con il Mi basso abbassato in
Si. Inoltre uso anche un’accordatura in Do. Le corde
che utilizzo sono delle Martin SP Phosphor Bronze
abbastanza grosse, di scalatura media .013-.056.
Grazie Marcus, è stata una chiacchierata e un
incontro molto piacevole, vorresti aggiungere
qualcosa di personale per concludere?
Questo viaggio in Italia è stato il più bello che io
abbia mai fatto. Sono stato contentissimo di scoprire quanto i musicisti, qui, prendano seriamente la
musica. Perché questo in effetti è il luogo di nascita
dell’arte e della cultura, questo è il posto dove tutto
è partito. Anche il mio modo di suonare, sono sicuro, proviene in qualche modo da qui. Mi sento proprio fortunato di essere entrato in contatto con persone così speciali, con musicisti così bravi. Questo
festival di chitarra poi è incredibile, mi ha veramente
riscaldato il cuore!
A parte le accordature, puoi parlarci di qualche altro elemento essenziale del tuo stile chitarristico? Un aspetto che ci ha particolarmente
colpito è il modo in cui porti il ritmo e l’uso delle
stoppate.
Innanzitutto consiglio di usare sempre il metronomo quando ci si esercita. Inoltre, c’è da dire che per
molto tempo non ho usato il plettro. Per cui sapevo
suonare tutte le mie figurazioni ritmiche senza plettro. Quando ho cominciato a usarlo, il mio modo di
tenerlo era sbagliato, la posizione della mia mano
Lauro Luppi e Frank Varano
Con David Crosby
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chitarra acustica 11 duemiladodici
st
strumenti
Chitarra acustica
PEAVEY Composer Parlor
di Mario Giovannini
Hartley Peavey ha fondato la Peavey Elettronics nel 1965, sull’onda
del successo ottenuto dal suo primo
amplificatore, costruito pochi anni
prima. Come tanti suoi coetanei, sognava di diventare una rock star ma,
anche se le cose non sono andate
esattamente come sperava, un’impronta tangibile sulla musica di questo secolo l’ha sicuramente lasciata.
Difficile sapere se immaginasse già
allora le dimensioni che la sua azienda avrebbe raggiunto in poco più
di cinquant’anni. Con sedi in Nord
America, Europa e Asia, oggi Peavey Elettronics è uno dei colossi a
livello mondiale della produzione di
strumenti musicali e attrezzature audio professionali. Il grosso successo,
almeno qui da noi, l’ha ottenuto negli anni ’80, soprattutto grazie a una
serie di amplificatori valvolari particolarmente azzeccati per robustezza e
rapporto qualità/prezzo.
Ovviamente, non è esattamente il primo marchio
che viene alla mente parlando di chitarre acustiche,
anzi. È un segmento di mercato che la casa americana non ha mai frequentato molto. Ma i tempi cambiano e lo sviluppo esponenziale del settore non
poteva lasciarli indifferenti. Per cui sono comparsi
in catalogo, nel giro di poco, un ampli per acustica,
una serie di chitarre in materiali compositi e la serie
Composer Parlor di cui abbiamo ricevuto un esemplare in prova. Anche se parlare di ‘serie’, almeno
per il momento, è abbastanza ottimistico, ne esitono due versioni: natural e sunburst. Più un ukulele
con la stessa forma. A noi è toccata quella natural.
La Composer Parlor ha uno shape del corpo
particolare, che ci si potrebbe quasi arrischiare a
definire originale. Dimensioni molto ridotte, attacco
del manico al XII tasto, spalla mancante a punta –
una sorta di venetian estrema – e buca a goccia. Il
design di quest’ultima è una ‘citazione’ abbastanza
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chitarra acustica 11 duemiladodici
PEAVEY
Composer Parlor
st
Scheda tecnica
Tipo: Chitarra acustica
Costruzione: Cina
Distributore: Peavey Italia Srl – via P. La
Torre, 21 – Zona Ind.le Cerretano – 60022
Castelfidardo – Tel. 071 7823442 – www.
peavey.it – [email protected]
Prezzo: € 159 (IVA inclusa)
Top: abete laminato
Catene: abete
Fasce e fondo: aghatis
Manico: mogano malese
Tastiera: palassandro indonesiano
Binding: celluloide
Meccaniche: DM 08 Lima cromate
Scala: 628,5 mm
Tasti: 18
evidente di quella della C1C della Tacoma – e della
sua sorellina economica Olympia – uno strumento
che, negli anni ’90, ha avuto un discreto successo;
Tacoma, poi inglobata da Fender, che è stata messa in stand by all’inizio del 2000, cessando le sue
produzioni. Molto bella esteticamente, ma che non
vi venga mai in mente di elettrificarla perché sono
guai… sotto al ponte non si arriva.
La chitarra, pur appartendo ad una fascia estremamente economica, è ben realizzata e ha un ottimo livello di finiture. Binding in celluloide su cassa
e manico, tastiera e ponte in palissandro indonesiano. La cassa armonica ha la tavola in abete e fasce
e fondo in agathis, un mogano senegalese molto
diffuso e a buon mercato. Si tratta di laminati, ma la
qualità e l’impatto estetico sono di buon livello.
Una volta imbracciata, pur risultando piacevolmente bilanciata, necessita di qualche attimo di
adattamento, tanto per prenderci un po’ le misure.
Poi, in effetti, si supera e si apprezza anche la comodità di uno strumento per nulla ingombrante. Il
suono è molto da parlor: secco, diretto con un attacco immediato. Sorprendentemente il volume e la
proiezione non mancano, con una buona definizione su tutta la gamma. La trama sonora non è molto
complessa, un po’ ferma sulle fondamentali. Ma,
del resto, stiamo parlando di una chitarra che costa
meno di un pedale… Si suona bene sia a plettro
che con le dita e, come capita spesso di dire con
chitarre di questo tipo, attenzione che la scala ‘molto’ corta può dare dipendenza.
Le dimensioni molto ridotte unite alla scala del
manico ‘veramente, ma veramente’ corta farebbero venire il ‘dubbio’ che si tratti di una chitarra da
viaggio. In effetti, anche se non è dichiaratamente
questa la sua destinazione d’uso, sembra proprio
la chitarra ideale da trascinarsi dietro in giro per il
mondo, senza grossi patemi d’animo. Oppure potrebbe essere molto adatta come primo strumento
per bambini/ragazzi/donne minute/uomini molto minuti. Manca forse una custodia/zaino ben imbottita
per completare il tutto, ma a questo prezzo è difficile
pretendere di più.
Lo strumento in prova è stato gentilmente
messo a disposizione da:
Dosio Music – Via Verdi 35/44/46
Vercelli – Tel. 0161 253047
[email protected]
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chitarra acustica 11 duemiladodici
st
strumenti
Chitarra acustica
MARTIN DRS1
di Mario Giovannini
Difficile non tornare a parlare di Martin ogni tre per due. Sia perché la casa
americana non è certo parca di novità – anzi – e ogni anno non manca mai
di rinnovare il suo catalogo in maniera significativa. Spesso con serie limitate
decisamente non accessibili ai comuni mortali, ma non disdegnando ogni
tanto di volgere lo sguardo anche verso la parte un po’ più ‘terra terra’ dei
suoi ammiratori. Poi, è anche inutile negarlo: si tratta di uno di quei marchi
che fanno parte del DNA della quasi totalità dei chitarristi in circolazione e
quindi, alla fine, si torna sempre lì, anche solo per dare un’occhiata. La Serie 1 ci aveva già positivamente impressionato nel corso della prova della
OM-1GT (Chitarra Acustica, n. 4, aprile 2012), e l’uscita di una dread tutta in
mogano nella stessa fascia di prezzo non poteva certo passare inosservata.
Quindi ci siamo fatti forza e abbiamo affrontato la dura prova, ricordate: lo
facciamo solo per voi!
a goccia in plastica nera. In compenso, però, la realizzazione dello strumento è impeccabile sotto ogni
punto di vista e la tavola è in massello. Ponte e tastiera sono realizzati in Black Richlite, un materiale
ottenuto mischiando carta riciclata e resina fenolica,
mentre il manico è in Rust Stratabond, ovvero un
Scherzi a parte, la DRS1 è una bella dread interamente realizzata in sapele, una varietà africana di
mogano, con il classico stile no frills che caratterizza
questa produzione. Niente binding né ornamenti di
nessun genere, a eccezione di un semplice triplo filetto bianco che orna la buca e il classico battipenna
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chitarra acustica 11 duemiladodici
MARTIN DRS1
st
Scheda tecnica
laminato pressato unito a colla. Da un lato si può
considerare particolarmente ‘etica’ la decisione di
utilizzare materiali alternativi e provenienti da riciclo
anche su strumenti musicali. Dall’altro qualche ragionevole perplessità si può avere, di primo acchito. In Rete si leggono spesso commenti perplessi
in particolare sul Rust Stratabond, colpevole di un
ipotetico alto assorbimento di ‘umidità’ con conseguente deformazione del manico. In realtà, negli
ultimi dieci anni, di manici di questo tipo ce ne ne
sono passati per le mani un numero considerevole, ma problemi di questo tipo non ne abbiamo mai
riscontrati. Magari vivendo in Thailandia o Vietnam
la si potrebbe pensare diversamente, ma anche qui
bisognerebbe avere l’opportunità di toccare con
mano.
Ma torniamo alla nostra DRS1 che, oltre a essere ben realizzata, intonata e con un set up decisamente user friendly, risulta piacevolmente bilanziata, una volta ‘indossata’. Fin dal primo accordo ci
si rende conto che non ci sarà tanto ‘fumo’, ma la
sostanza non manca. I bassi hanno una bella botta,
che si trasmette piacevolmente allo stomaco di chi
la imbraccia. Medi marcati e leggermente compressi, cantini rotondi e corposi. Probabilmente proprio
per merito del mogano, gli acuti non rimangono indietro, come di solito capita con chitarre con questo shape del corpo, ma rimangono belli presenti
e definiti. Insomma, suona come deve: una dred a
tutti gli effetti, ma con una marcia in più sulle note
alte. Questo la rende piacevolmente versatile: con il
plettro è la morte sua, niente da dire, ma anche con
le dita ha il suo perché. Il sustain è lungo e corposo, con una bella punta di riverbero naturale. E dire
queste cose di uno strumento tutto in mogano non
è che capiti tutti i giorni.
Il Sonitone della Fishman, montato di serie, ha i
controlli alla buca e l’alimentazione fissata all’interno della cassa, senza nessun citofono sulla fascia.
C’è voluto quasi un decennio, ma anche su queste
cose le grandi case si stanno finalmente adeguando
alle richieste del mercato. Non si tratta di un sistema
di rilevazione ‘esoterico’, ma fa il suo mestiere degnamente. Del resto, la base di partenza è buona e
non è difficile fare un buon lavoro in fase di amplificazione. La presenta del secondo pin per la tracolla
all’attaccatura del manico, oltre a un’amplificazione on board estremamente plug’n’play, danno allo
strumento una connotazione decisamente indirizzata all’uso dal vivo. Sarà anche l’effetto MTV, ma
sono chitarre che si vedono spesso imbracciate dai
folk singer americani di ultima generazione. Del resto sono non troppo costose, suonano bene e sono
pronte per andare su un palco, cosa altro serve?
Tipo: Chitarra acustica
Costruzione: Messico
Distributore: EKO Music Group SpA – via
Falleroni, 92 – P.O. Box 52 – 62019 Recanati (MC) – Tel. 0733 226271 – www.
ekomusicgroup.com
Prezzo: € 1139 (IVA inclusa)
Top: mogano sapele massello
Catene: mogano
Fasce e fondo: mogano sapele
Manico: Rust Stratabond
Tastiera: Black Richlite
Binding: no
Meccaniche: Martin
Scala: 648 mm
Tasti: 20
Amplificazione: Fishman Sonitone
Lo strumento in prova è stato gentilmente
messo a disposizione da:
Dosio Music – Via Verdi 35/44/46
Vercelli – Tel. 0161 253047
[email protected]
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chitarra acustica 11 duemiladodici
st
strumenti
Microfono e preamplificatore per resofoniche, gipsy e banjo
Gold Tone ABS
di Daniele Bazzani
Pensato per risolvere i problemi relativi all’amplificazione su alcuni degli strumenti di solito più difficili da
riprendere, il microfono dotato di preamplificatore della casa americana
fornisce una soluzione piuttosto interessante e di qualità.
Il concetto alla base è semplice, ed è quello che
un qualsiasi tecnico del suono ci proporrebbe sul
palco: un microfono a condensatore piazzato di
fronte allo strumento che suoniamo. La differenza
risiede nel tipo di microfono che abbiamo a disposizione, di solito sul palco questo viene fissato a
un’asta ‘legandoci’ materialmente a una posizione
fissa, spostarsi di pochi centimetri può stravolgere
il suono e siamo quindi impossibilitati a muoverci
liberamente. Non è una cosa poi così positiva o una
bella sensazione mentre cerchiamo di esprimerci in
musica. Il microfono Gold Tone ABS (Andvanced
Banjo Microphone System) è una capsula microfonica fissata a un supporto, tramite un piccolo braccio regolabile, che ha un sistema di bloccaggio pensato per strumenti dotati di una cordiera metallica:
ecco che le resofoniche, le chitarre da gipsy jazz e
il banjo hanno una nuova possibilità di farsi sentire
sul palco. Al piccolo microfono si aggiunge il preamplificatore ABS-2 Acoustic Preamp Stompbox,
dotato di controlli di tono con Alti, Medi e Bassi e un
Volume, oltre all’inversione di fase. È pensato per
darci un’ulteriore possibilità sonora, quella di poter
incrementare il volume in caso di assolo o di necessità del momento, è molto utile e fa già parte del
sistema evitandoci una ricerca successiva all’acquisto. A tale proposito, il controllo di volume svolge
una comoda funzione permettendoci di trovare il
giusto limite di suono, e in quel caso una piccola
aggiustata all’equalizzazione potrebbe essere utile: sappiamo che alzando il volume c’è un maggior
rischio di feedback e una leggera riduzione delle
basse frequenze può aiutarci ad evitare fastidiosi
rientri.
Il microfono, a detta del produttore, è costruito sulle specifiche dell’oramai leggendario Shure
SM57, un microfono a condensatore che, insieme
al fratello SM58, ha segnato la storia della musica live degli ultimi decenni, quindi dovrebbe essere
una garanzia.
Il supporto metallico è semplicissimo da agganciare e ci permette anche di spostarlo da uno strumento all’altro durante il concerto, l’unica cosa a
cui prestare attenzione è il braccio regolabile e la
conseguente posizione del microfono, cruciale per
la ricerca del suono giusto, quindi attenzione sia
a poggiare lo strumento quando non utilizzato o a
muovere il sistema da uno all’altro, è l’unica vera
raccomandazione che ci sentiamo di dare.
Il tutto viene in una bella custodia rigida che accoglie entrambi i pezzi permettendoci di portarli in giro
comodamente.
Info: www.goldtone.com
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chitarra acustica 11 duemiladodici
st
strumenti
Suono e sellette
di Dario Fornara
Selletta in mammut fossile
Tecnicamente lo sappiamo tutti: la selletta (saddle in inglese) è quell’elemento attraverso il quale la corda trasmette la propria vibrazione al ponte e
alla tavola armonica di una chitarra acustica. È un elemento importante perché, oltre ad essere in parte responsabile della timbrica del nostro strumento, può agire e correggerne l’intonazione. La trasmissione della vibrazione
è influenzata dalla tipologia del materiale con la quale è costruita, dalle dimensioni e dal tipo di incastro, più o meno solidale, con il ponte sottostante.
Nell’analizzare le particolarità timbriche che possiamo ottenere adottando
sellette costruite con materiali differenti, ipotizziamo di sostituire la nostra
‘anonima’ selletta in plastica prestampata con altre di materiale diverso: questa selletta in plastica sarà il nostro termine di paragone, considerando la
timbrica neutra e la discreta resistenza all’usura che riesce a garantire. Parlando di materiali alternativi, i più comuni ed utilizzati sono Corian e Micarta, che hanno buone caratteristiche timbriche e garantiscono una maggiore
durata nel tempo. In questo breve articolo abbiamo però voluto prendere in
considerazione altri materiali, utilizzati in liuteria su strumenti generalmente
di buon livello e oggi facilmente reperibili sul mercato. Le considerazioni che
seguono si riferiscono all’utilizzo di una ipotetica selletta montata direttamente a contatto con il ponte, ovvero senza che tra i due elementi vi sia interposto, per esempio, un rilevatore piezo per l’amplificazione, o qualsivoglia
materiale che potrebbe variare la risposta timbrica naturale dello strumento.
Vediamone allora alcuni tipi.
51
chitarra acustica 11 duemiladodici
st
Suono e sellette
Selletta in osso. Solitamente si ricava da pezzi di osso bovino e la lavorazione avviene manualmente. La
timbrica di una selletta in osso può
variare da modello a modello anche in
modo significativo, in quanto la struttura dell’osso stessa può cambiare per
peso e densità in porzioni di materiale anche molto vicine (amplificando lo
strumento a volte si riscontrano problemi di bilanciamento di volume tra
le corde proprio a causa del materiale
strutturalmente poco omogeneo). Detto questo la timbrica acustica di base
risulta spesso più potente e definita
rispetto all’analoga in plastica, e con
poca spesa è possibile migliorare in
modo sensibile la timbrica di una chitarra un po’ spenta e legnosa, tipica di
molti strumenti economici.
Selletta in osso su Lowden S38
Selletta in avorio. Di difficile reperibilità per i giusti motivi legati alla sopravvivenza della specie protetta dalla
quale proviene, è un materiale nobile
sia esteticamente che timbricamente.
Genera un attacco migliore rispetto
ad altri, producendo una timbrica definita, con un buon sustain, rispettando
fedelmente le caratteristiche di base
dello strumento. Generalmente ha una
densità piuttosto omogenea ed è abbastanza raro imbattersi in sellette ‘spente’ o con problemi di ‘trasmissione’. I
limiti di reperibilità e utilizzo lo rendono
sempre più raro e ricercato, ma è un ottimo materiale, come d’altronde la storia della liuteria in generale ci insegna.
Selletta in corno Black Tusq su Chatelier FD Custom
Selletta in corno su Illotta FD Custom
52
chitarra acustica 11 duemiladodici
Selletta in Tusq. Il Tusq è un materiale sintetico. Il processo di produzione
ne garantisce una perfetta omogeneità
e una maggiore resistenza meccanica alle varie sollecitazioni; inoltre è un
materiale ‘autolubrificante’ che garantisce un attrito praticamente nullo allo
scorrimento e per questo largamente
utilizzato anche per la realizzazione
dei capotasti. È rigido e compatto e la
nostra selletta permetterà di trasferire
alla tavola il suono ‘puro’ della corda,
in modo molto fedele e dettagliato,
condito spesso da un incremento del
riverbero naturale. Con una selletta in
Tusq avremo (forse) un po’ meno calore, ma potenza e trasparenza saranno
assicurati. Ottima se utilizzata come
‘supporto’ a sistemi di amplificazione
sottosella, proprio grazie alla caratteristica uniformità strutturale.
Suono e sellette
Selletta in ottone. L’ottone è un materiale in realtà poco utilizzato nella realizzazione della selletta
del ponte. Alcuni costruttori lo ritengono un materiale troppo pesante e in grado di caratterizzare in
modo invasivo la timbrica naturale dello strumento,
aggiungendo all’attacco della nota un suono metallico e soprattutto generando una ‘compressione’
non sempre gradita. Anni fa ho montato una selletta
in ottone su una vecchia chitarra acustica Bozo a 12
corde e ho ripetuto l’esperimento su altri strumenti
ricavandone le stesse impressioni: suono effettivamente più metallico, timbrica con maggiore corpo
ma più compressa.
st
di timbrica generata. A causa della sua morbidezza,
le corde tendono a incidere la superfice di appoggio con facilità e quindi deve essere tenuto ‘sotto
controllo’ con maggiore attenzione. Tutto ciò non
vuole e non deve essere visto in maniera negativa,
ma solo come una possibilità in più nella ricerca del
proprio suono ideale. Sicuramente merita di essere
sperimentato.
Selletta in carbonio. Esistono sellette in carbonio di vario tipo e, infatti, con questo termine a volte
vengono proposti materiali piuttosto differenti sia per
composizione che per struttura. Personalmente ho
montato su una mia chitarra una selletta in carbonio
e grafite sinterizzata (abbastanza difficile da reperire) veramente incredibile, in grado di generare un
sustain e una definizione timbrica davvero fuori dal
comune. Più comuni sono invece le sellette realizzate in fibra di carbonio, grazie alle quali è possibile
ottenere una timbrica di base presente e brillante,
guadagnandone in volume e dettaglio, ma… ripeto,
si trovano in commercio prodotti che possono essere molto diversi fra di loro, anche come sonorità.
Selletta in mammut fossile. Siamo nell’esoterico timbrico chitarristico. E ci sono caduto anch’io
con la selletta della mia Martin 00028. Il mammut
fossile non è neppure un materiale così raro da trovare e si può recuperare facilmente: basta avere la
voglia e la possibilità di sborsare un piccolo capitale che da solo supera l’acquisto di certi strumenti
‘da supermercato’. Il suono è bello, molto definito;
quello della mia triplo zero si è leggermente aperto,
perdendo un filo della sua mediosità. Solo per strumenti rigorosamente acustici e per chi è disposto a
metterci un po’ di suggestione. Ma forse è un parere
un po’ troppo personale…
Conclusioni
Senza aspettarsi grandi miracoli, e sempre tenendo presente che una buona selletta è solo un elemento che concorre alla formazione della timbrica
del nostro strumento, il consiglio è quello di sperimentare, magari approfittando del prossimo ‘tagliando’ dal vostro (naturalmente bravissimo) amico
liutaio di fiducia. Attendo le vostre opinioni!
Selletta in corno. Al di là di un discorso puramente estetico, che però in questo caso già da solo
potrebbe determinarne la scelta, la selletta in corno
ha un suono leggermente più spento e medioso.
L’attacco può essere meno definito e soprattutto le
corde non avvolte possono perdere parte della propria complessità armonica. È un materiale piuttosto
morbido e la cosa sembra proprio riflettersi sul tipo
Dario Fornara
[email protected]
Selletta in csrbonio
53
chitarra acustica 11 duemiladodici
st
strumenti
GAS Addiction
di Mario Giovannini
Eko
Diavolo di un Varini. Non si ferma
mai. Da dicembre saranno disponibili i nuovi modelli della sua serie
signature per la casa di Recanati:
Eko Mia 018 Cutaway 12 corde, Mia
Parlor, Mia Nylon, Mia per mancini, Mia Learning per i principianti.
Quest’ultima, in particolare, dotata
di sistema FastLok per la regolazione del manico, viene proposta ad un
prezzo davvero per ‘studenti’. Non
mancheremo di approfondire.
www.ekomusicgroup.it
Schecter
Sono finalmente disponibili anche sul mercato italiano le nuovissime chitarre acustiche Schecter della
serie Hellraiser e Omen Extreme. La nuova linea di chitarre acustiche Schecter punta a proporre strumenti
dal look accattivante in linea con il target dei clienti Schecter, ovvero musicisti alla ricerca di una chitarra
dal look moderno e di buon suono acustico per le loro performance in ambienti pop/rock.
Le acustiche della serie Hellraiser sono disponibili nelle versioni Stage (spalla mancante fiorentina) e
Studio (spalla mancante veneziana); entrambe vengono prodotte in finitura lucida, sia nella colorazione
BCH (black cherry) che nel STBLK (nero trasparente). La gamma di acustiche Hellraiser presenta top,
fondo e fasce in acero quilted, capotasto e traversino Black Tusq Graph Tech, ponte dal design esclusivo
Schecter Custom, intarsi in abalone, rosetta in palissandro, meccaniche Grover ed elettrificazione Fishman
PreSys.
Le acustiche della serie Omen Extreme vengono prodotte in finitura lucida, nelle colorazioni ANTQ (antique amber), BCH (black cherry) e VSB (vintage sunburst). La gamma di acustiche Omen Extreme presenta
top in acero quilted (colorazioni ANTQ e BCH) o abete (colorazione VSB), fondo e fasce in acero quilted
(colorazioni ANTQ e BCH) o palissandro (colorazione VSB), capotasto e traversino Ivory Tusq Graph Tech,
ponte dal design esclusivo Schecter Custom, intarsi in abalone, binding e rosetta multistrato, meccaniche
Grover ed elettrificazione Fishman ISys.
www.goldmusic.it
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chitarra acustica 11 duemiladodici
st
Schertler
La casa elvetica ha presentato il ‘fratello minore’ dello
Yellow Blender provato su queste pagine pochi mesi fa.
Si tratta di una versione monocanale del preamplificatore
in Classe A di Schertler con 1 In, 3 Out ed Effect Loop
integrato.
Yellow Single offre:
– design moderno e sofisticato, costruito in un robusto e
leggero case in alluminio;
– massimo due canali di ingresso per tutti i tipi di microfoni e pickup;
– massimo quattro linee di uscita con connessioni multiple;
– uscita per le cuffie;
– Send & Return per loop effetti;
– EQ quadribanda con altri filtri dedicati per garantire
un’ampia gamma di controlli di tono e la massima flessibilità;
– elettronica in pura classe A per la migliore performance possibile.
Ogni singola sezione è stata pensata e progettata per
garantire il massimo potenziale da ogni tipo di sorgente
sonora.
www.schertler.com
Admira
La Gold Music Srl e la Enrique Keller S.A. sono liete di annunciare che le celebri chitarre classiche spagnole Admira verranno
distribuite e commercializzate in esclusiva sul territorio italiano
dalla Gold Music. In occasione dell’annuncio di questa nuova
prestigiosa distribuzione, la Gold Music è lieta di introdurre due
nuovissimi prodotti Admira che si vanno a collocare nella fascia
student. Si tratta dei modelli Alba e Diana che permettono di avere una chitarra classica spagnola di pregio (il marchio Admira è
da sempre sinonimo di qualità) ad un prezzo davvero accessibile
a tutti (range di prezzo al pubblico 100,00/150,00 euro).
Alba: chitarra classica 4/4, serie Admira Eki con top in abete
canadese, fondo e fasce in sapele, manico in mogano, scala di
650 mm, ponte e tastiera in palissandro, binding nero su top e
fondo, rosetta in legno, meccaniche ‘Lyre’ nichelate, finitura lucida.
Diana: chitarra classica 4/4, serie Admira Eki, top in cedro canadese massello, fondo e fasce in sapele, manico in mogano,
scala di 650 mm, ponte e tastiera in palissandro, binding nero su
top e fondo, rosetta in legno, meccaniche ‘Lyre’ nichelate, finitura
lucida.
www.goldmusic.it
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chitarra acustica 11 duemiladodici
tc
tecnica
Guitar Workshop
di Stefan Grossman
David Laibman è conosciuto come il padre del revival
chitarristico contemporaneo
del ragtime classico. I suoi
arrangiamenti in questo campo sono sbalorditivi oltre che
splendidi. Potete ascoltarli
nel suo album solista Classical Ragtime Guitar (Rounder,
1981) e in The New Ragtime
Guitar (Folkways, 1971) inciso con Eric Schoenberg. Ma
quando Dave iniziava a dare
una scossa alla scena folk nei
primi anni ’60 con il suo incredibile stile chitarristico, molti
dei suoi pezzi erano presi dal
gruppo di old-time revival The
New Lost City Ramblers. Dai
dischi dei Ramblers aveva
infatti imparato “Money’s All
Gone”, “Dallas Rag” e “Colo-
red Aristocracy”.
La sua versione di “Colored
Aristocracy” [in AA.VV., Novelty Guitar Instrumentals, Stefan
Grossman’s Guitar Workshop,
1a ed. 1975] combina un carattere quasi nashvilliano con alcune
interessanti posizioni di accordi,
dando vita a un arrangiamento
molto impegnativo e stimolante.
Mentre la maggior parte dei chitarristi cercano ad esempio di
catturare lo stile degli strumenti
irlandesi nei loro arrangiamenti di
melodie celtiche, Dave ha optato
per un approccio diverso, basato
sulle sue tecniche legate al ragtime classico.
Il pezzo è in basso alternato.
Fate attenzione, perché nell’arrangiamento ci sono a volte dei
giri e degli sviluppi imprevisti che
David Laibman, dalla copertina del suo CD Adventures in Ragtime,
Stefan Grossman’s Guitar Workshop, 2008
56
chitarra acustica 11 duemiladodici
dovete leggere accuratamente nella trascrizione musicale.
Siamo in tonalità di La e si inizia con una posizione dell’accordo di La con un barré sulle
prime quattro corde al secondo tasto. La terza battuta introduce un accordo di Fa# suonato con il pollice della mano
sinistra agganciato dietro al
manico per premere la sesta
corda al secondo tasto, mentre l’indice esegue un piccolo
barré sulle prime due corde al
secondo tasto, il medio preme
la terza corda al terzo tasto e
l’anulare preme la quarta corda al quarto tasto. Suonate
questo accordo con questa diteggiatura. Se provate a suonarlo con un barré completo,
avrete dei seri problemi a suonare la melodia.
Nella quinta misura dovete
prendere un barré al settimo
tasto sulle prime tre corde. Tenete questa posizione per tutta la battuta. Alla sesta misura
la posizione cambia: l’anulare
preme la seconda corda al
settimo tasto, l’indice preme la
terza corda al sesto tasto e il
medio preme la quarta corda
al settimo tasto. Questa diteggiatura molto ingegnosa ci
permette di mantenere il basso alternato e suonare la melodia sugli acuti. La diteggiatura di Si7 alla settima misura
tc
prevede ancora l’indice sulla terza corda al sesto tasto, ma il medio e l’anulare ora premono rispettivamente la sesta e quarta corda al settimo tasto. È questa un’altra posizione molto interessante,
che dona all’arrangiamento fluidità e colore. L’ottava misura inizia con un accordo di Mi in prima posizione. Diteggiate l’accordo completo, anche se la trascrizione chiede soltanto di pizzicare la sesta e
Traditional,
Arranged
by
prima corda a vuoto. Tenendo la posizione intera dell’accordo, otterrete un suono
più pieno,
perché
Dave Laibman
la chitarra catturerà le varie vibrazioni per simpatia.
Queste sono praticamente tutte le posizioni richieste. L’unica altra posizione si può trovare all’inizio
della seconda sezione, dove l’accordo di La è preso con una forma di Fa al quinto tasto. Di nuovo,
fate attenzione a utilizzare il pollice per premere la sesta corda al quinto tasto e a non eseguire un
barré completo.
Colored Aristocracy
Colored Aristocracy
traditional – arranged by David Laibman
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chitarra-acustica
11 Reserved.
duemiladodici
©1975 Shining Shadow Music
All rights
Used With Kind Permission.
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chitarra acustica 11 duemiladodici
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tc
tecnica
The Blue Horizon
di Peter Finger
The blue Horizon
“The Blue Horizon” è un altro brano della mia serie di miniature, che si ispira
a un dipinto del mare, principalmente in tonalità blu. Potete trovarlo nel mio
Peter Finger
album Dream Dancer. L’accordatura è EBEGAD, cioè l‘accordatura che uso
nella maggior parte della mia musica. Dal momento che è necessario innalzare di un tono intero la quarta e quinta corda, avrete su queste corde una tensione un po’ maggiore, mentre la tensione sarà minore sulla prima e seconda
guitar che
tuning:
B E G A Dun tono sotto. Si tratta di un pezzo lento, che crea
corda,
sonoE accordate
un’atmosfera
capo: 2nd fret di calma se suonato correttamente. Cercate di lavorare su ogni nota e di costruire un movimento di tensione e rilascio, che renderà il brano molto più interessante. Ci sono molte più note nella
linea di basso che nella melodia. I bassi tirano in avanti e la melodia tiene indietro il tempo. La linea di
basso si ripete continuamente fino alla battuta 28. Dalla battuta 29 inizia una sezione completamente
diversa, che presenta molte più note nella melodia rispetto alla linea di basso, con una sorta di tema
popolare tradizionale e ritmi dispari. Questo può creare un bel contrasto con il resto della composizione. Spero che vi divertiate a sperimentare l’accordatura EBEGAD e a suonare questo pezzo.
Ogni bene!
Accordatura: EBEGAD
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Capo II
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62
chitarra acustica 11 duemiladodici
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63
chitarra acustica 11 duemiladodici
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tc
tecnica
Basso Acustico - 4
di Dino Fiorenza
Rieccoci ancora qua. Oggi parliamo di
un nuovo modo di percuotere, come si
vede dalla foto: Adesso sarà la mano sinistra che percuoterà la cassa sull’angolo
sinistro, e questo ci darà modo di utilizzare
la destra per iniziare ad applicare il tapping
e quindi avere una completezza armonica delle nostre esecuzioni, potendo cosi suonare sia la parte
ritmica che quella armonica e addirittura la linea di basso.
Il primo esercizio ci dà modo di prendere confidenza con questa nuova posizione; suoniamo in La:
Moderate
; 44
1
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B
C
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C
+
B
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C
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Con il secondo esercizio aggiungiamo con la mano destra alla tonica di La il suo voicing per creare
l’accordo di Lam7:
Moderate
; 44
1
c
B
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64
chitarra acustica 11 duemiladodici
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tc
Adesso viene il bello, uniamo tutti e due gli esercizi: il risultato è strepitoso, sentiamo suonare tonica, voicing e supporto ritmico:
BB/
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+
Bene, estendiamo l’esercizio precedente alla progressione armonica seguente: Am7 / D7 / Gmaj7
/ Cmaj7.
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B
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Ditemi voi se il risultato non è davvero bello!
Ci vediamo il prossimo mese e come al solito non esitate a contattarmi per qualsiasi vostra curiosità
o altro.
Buon lavoro!
[email protected]
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chitarra acustica 11 duemiladodici
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tc
tecnica
L’improvvisazione - 5
Come suonano le note?
di Daniele Bazzani
Come ho accennato nelle puntate precedenti, queste non sono vere e proprie lezioni, dare
esercizi e poi verificarli insieme è molto complicato, cercherò di limitarmi a concetti grossolani
ma fondamentali, per dare un’idea di quella che
può essere una direzione da seguire negli anni.
Perché per imparare ad improvvisare non bastano giorni, né mesi.
accordi in fila, se siamo in Do saranno: Do / Rem
/ Mim / Fa / Sol / Lam / Sim5b; se fossero di 7a
quindi a 4 voci avremmo: Domaj7 / Rem7 / Mim7
/ Famaj7 / Sol7 / Lam7 / Sim7(5b).
A questo punto fate scorrere la progressione e
suonate solo la nota Do ascoltando cosa accade,
vi assicuro che è molto interessante. Ripetete più
volte per sentire bene le sfumature e poi fermatevi a cercare di capire cosa avete fatto, perché
avrete in realtà suonato una sola nota ma con
sette significati diversi: sull’accordo di Do sarà la
Tonica, su quello di Rem sarà la settima minore,
su Mim la sesta minore, e via dicendo.
Il passo successivo sarà di fare la stessa cosa
con le altre note della scala, alla fine, con solo
sette note, ne avrete suonate molte di più. Questo esercizio stimolerà la vostra sensibilità ai
‘colori’ che hanno e danno le note, perché quei
sette, semplici pallini neri sul pentagramma, che
tendiamo spesso a snobbare, sono in realtà il nostro amico più fidato, il magma da modellare per
scolpire nella storia la nostra musica.
Possiamo anche estendere il lavoro alle note
‘fuori’ scala, e se pensiamo al risultato sorprendente già solo su una banale progressione, immaginiamo cosa potrebbe accadere se gli accordi cambiassero sempre, se modulassero e via
dicendo.
Scusate se ogni tanto mi ripeto, ma cerco di riallacciare i vari discorsi fatti oramai a distanza di
mesi, quindi se ripenso a quanto già scritto posso
considerare la musica un linguaggio e l’improvvisazione simile a ciò che accade quando parliamo: usiamo parole che conosciamo, le mettiamo
insieme seguendo regole grammaticali, parliamo
degli argomenti che ci troviamo ad affrontare durante il giorno, non ci portiamo le frasi scritte da
casa.
In una parola, improvvisiamo.
Ecco che ci si rende conto piuttosto in fretta
che in musica invece abbiamo delle note, un ritmo da seguire e un ritmo a cui e su cui suonarle,
degli accordi da tenere a mente, una canzone
a cui adattare il tutto. E poi ci saranno la nostra
personalità e conoscenza musicale che ci spingeranno in questa o quella direzione.
Un bel casino, non c’è che dire.
Perché a tutto questo dobbiamo aggiungere
quelle cose basilari che si studiano all’inizio del
percorso come accordi, scale, triadi, arpeggi e
via dicendo.
Ma torno a quanto accennato nel titolo, come
suonano le note?
Una cosa interessante che molti non fanno è
provare a suonare una sola nota sugli accordi
che cambiano, una qualsiasi progressione: se
avete modo di registrarvi mentre suonate una ritmica fatelo, o prendete programmi tipo Band in a
Box o software online come Jam Studio, o basi
preregistrate di canzoni famose, va tutto bene
purché sappiate su cosa state suonando.
La cosa migliore, all’inizio, sarebbe suonare
su una semplice progressione armonica con gli
A questo esercizio possiamo aggiungere complessità per renderlo ancora più accattivante e
musicale, suonando magari due note, ad esempio Do e Re, sugli stessi accordi, e alternandole
come ci sentiamo di fare, senza pensare a nulla se non alla nostra sensibilità, e poi una terza,
e via dicendo. Questo ci dà anche la misura di
quanto si possa fare con poche note e un po’ di
fantasia.
Mi sono sbilanciato ancora, in effetti questo è
un altro esercizio.
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chitarra acustica 11 duemiladodici
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