De Sanctis - Educazione in età adulta versione 4

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Educazione in Età Adulta
Filippo M.De Sanctis
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Indice
1
Prefazione (di Lamberto Borghi)........................................................................................ 4
2
Introduzione..................................................................................................................... 10
3
Problemi dell’educazione degli adulti............................................................................... 12
3.1
La società industriale e l'educazione degli adulti........................................................... 12
3.1.1
L'educazione degli adulti nella società industriale ....................................................... 12
3.1.2
Lo «sviluppo intellettuale della classe operaia» .......................................................... 15
3.1.3
«Problema intellettuale» e democrazia ....................................................................... 18
3.1.4
Una scelta di prospettiva: lo sviluppo del proletariato ................................................. 21
3.1.5
Creatività e intervento culturale................................................................................... 23
3.1.6
Strutture e occasioni culturali nella società industriale capitalistica............................. 24
3.1.7
Una politica dell'educazione degli adulti...................................................................... 26
3.2
Il Lavoro e problemi educativi dell'età adulta................................................................. 29
3.2.1
Le valenze creative del lavoro..................................................................................... 29
3.2.2
Le condizioni alienanti del lavoro ................................................................................ 30
3.2.3
Le condizioni alienanti del cosiddetto «tempo libero» ................................................. 35
3.2.4
Valenze educative nei problemi attuali del lavoro ....................................................... 37
3.2.5
Valenze educative nel rapporto lavoro-sviluppo economico........................................ 39
3.2.6
Condizioni di lavoro e scienza..................................................................................... 42
3.2.7
«Formazione permanente» ed educazione degli adulti............................................... 45
3.2.8
La condizione educativa nella fabbrica........................................................................ 48
3.2.9
Valenze educative nella realtà dell'agricoltura ............................................................ 54
3.2.10 Responsabilità e scelte educative nel terziario............................................................ 57
3.3
La scuola nel rapporto tra produzione e formazione ..................................................... 60
3.3.1
Istituzione formativa diretta e agenti educativi indiretti ................................................ 60
3.3.2
Il «processo di scissione» tra ed.permanente e descolarizzazione............................. 61
3.3.3
L'educazione permanente tra utopia e realtà .............................................................. 63
3.3.4
Educazione, non istituzione scolastica? ...................................................................... 67
3.3.5
Crisi della scuola e tendenze strutturali di riforma....................................................... 69
3.3.6
Educazione degli adulti e istituzioni formative ............................................................. 80
3.4
Pubblico, prodotti culturali e intervento educativo ......................................................... 82
3.4.1
Preminenza dei problemi del pubblico ........................................................................ 82
3.4.2
Dicotomia dei comportamenti rispetto a produzione e consumo ................................. 82
3.4.3
La vecchia identità del pubblico, e le sue evoluzioni ................................................... 84
3.4.4
Verso un nuovo identificarsi del pubblico .................................................................... 88
3.4.5
Il pubblico nel processo produttivo .............................................................................. 90
3.4.6
Pubblico e processo di consumo dei prodotti culturali................................................. 95
3.4.7
Dal momento del consumo alla gestione della produzione culturale........................... 99
3.5
Istituzioni pubbliche ed educazione degli adulti........................................................... 101
3.5.1
«Esperienza del mondo sensibile» e «capacità positiva» di affermazione................ 101
3.5.2
Agenzie del potere e occultamento della politica culturale ........................................ 102
3.5.3
Tendenze della «politica culturale» del capitalismo monopolistico di Stato .............. 104
3.5.4
Problemi del «servizio pubblico»............................................................................... 108
3.5.5
La «cultura» nel capitalismo monopolistico di Stato.................................................. 114
3.5.6
«Atmosfera culturale generale» e didattica degli adulti ............................................. 119
3.5.7
«Servizi pubblici intellettuali» e «principio associativo» ............................................ 122
3.6
Scienza, tecnica, realtà educativa ............................................................................... 124
3.6.1
Temi di riflessione per un'andragogia della scienza .................................................. 124
3.6.2
Considerazioni sul rapporto di divulgazione .............................................................. 126
3.6.3
Abito scientifico e capacità di trasformazione............................................................ 131
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3.6.4
Lavoro, scienza ed educazione degli adulti............................................................... 134
3.6.5
L'uso sociale della scienza ........................................................................................ 137
3.6.6
Il contributo di scienza e tecnica all'educazione degli adulti...................................... 139
4
Compiti e prospettive dell’educazione degli adulti ......................................................... 143
4.1
Premessa .................................................................................................................... 143
4.1.1
L'educazione degli adulti nella «società dell'educazione»......................................... 143
4.1.2
L'associazionismo: elemento di riflessione emergente dall'analisi dei problemi
dell'educazione degli adulti ...................................................................................................... 146
4.1.3
Compito primario dell'ed.degli adulti: lo sviluppo dell'associazionismo ..................... 153
4.1.4
Prospettive dell'educazione degli adulti..................................................................... 162
5
Lode dell'imparare di Bertolt Brecht............................................................................... 177
6
Bibliografia..................................................................................................................... 178
7
Indice dei nomi .............................................................................................................. 183
Revisione 1.5 aggiornamento del 15/06/2007 9.42.00
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1 Prefazione (di Lamberto Borghi)
Dell'educazione degli adulti si parla da molto tempo in Italia.
Se la spinta a una riflessione meno distratta su questo argomento è derivata tra noi da
altri paesi, la Danimarca e i paesi anglo-sassoni in maggior misura, tuttavia la sua
considerazione, che ha assunto un posto sempre più rilevante nella pubblicistica educativa e
nella produzione pedagogica dopo la seconda guerra mondiale, affonda le sue radici in una
nostra specifica dinamica sociale, la cui stretta affiliazione a quella internazionale non ha
mancato di essere presente ai suoi promotori e ai suoi studiosi.
A nessuno è ignoto che in Italia come all'estero la profonda matrice degli sviluppi
dell'educazione degli adulti come aspetto integrante della maturazione di una coscienza
popolare è da ritrovare nel movimento operaio, vuoi nella sua crescita contrastata tra le
popolazioni contadine, particolarmente nel bracciantato, in Sicilia e nella Bassa padana, vuoi
nei suoi più fermi ed articolati agganci col nascente proletariato industriale, in modo più spiccato
nelle regioni del settentrione.
L'associazionismo operaio, sia quello che trasse alimento dall'azione educativa e
organizzativa del Mazzini, sia quello che va riportato alle iniziative degli internazionalisti, prima
di tendenza anarchica, quali Cafiero e Andrea Costa nella fase iniziale del suo impegno politico,
e poi, seppure non esclusivamente, di ispirazione marxista, costituisce la fonte storica originaria
del movimento dell'educazione degli adulti e la sua più genuina e verace manifestazione.
Nel suo solco, verso la fine del secolo scorso, prese avvio la serie di iniziative che in quel
settore educativo, fino allora escluso dalle programmazioni ufficiali, venne promossa dalla
Società Umanitaria, e operò consapevolmente il gruppo di scrittori che Filippo Turati seppe
raccogliere intorno alla Critica Sociale.
Non è questa la sede idonea a una fuggevole ricostruzione della fitta maglia di attività
che seppe tessere il movimento operaio, nella varietà dei suoi indirizzi, anarchico, riformista,
sindacalista, marxista rivoluzionario, nel campo dell'educazione degli adulti.
Il socialismo umanitario e riformista ispirò l'opera sia di Augusto Osimo e di Filippo Turati
nel Nord sia di Giovanni Cena nell'Agro romano e di Salvemini nel Mezzo-giorno.
A una simile, se non certamente identica, caratterizzazione umanitaria e riformistica va
ricondotta l'opera che spiegò nel secondo dopoguerra l'Unione Nazionale per la Lotta contro
l'Analfabetismo.
Con finalità più limitate, soprattutto volte al ricupero degli analfabeti, l'appropriazione
della scolarità dell'obbligo, la conquista di un'istruzione funzionale, ha operato la Direzione
generale dell'educazione popolare.
La mancanza di un personale docente consapevole delle complesse problematiche
educative e sociali dell'educazione degli adulti nonché di conseguenti idonee metodologie
didattiche ha finora ostacolato le iniziative promosse in questo settore, facendo leva sulle sue
potenzialità innovative in campo educativo non soltanto nel suo ambito specifico, ma altresì in
rapporto al funzionamento della tradizionale scuola dell'infanzia e dell'adolescenza.
Nell'opera su L'educazione degli adulti (Bari 1964), ancor oggi per tanti versi vitale uscita
nel nostro paese, per cura di Riccardo Bauer, che in essa era in grado di far tesoro
dell'esperienza che veniva affinando nella sua qualità di presidente della Società Umanitaria,
erano sottolineati due aspetti essenziali: per un verso il fatto che per un intervento non
paternalistico nel campo dell'educazione degli adulti «le organizzazioni e le associazioni naturali
dei lavoratori sono quelle ideologicamente qualificate e in cui più stretto è il nesso tra azione
sociale e cultura»; e per un altro verso la necessità che «le iniziative di educazione degli adulti
devono quanto più possibile scostarsi dagli ambienti e dai metodi della scuola tradizionale».
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Nei dieci anni che ci separano della pubblicazione del libro di Riccardo Bauer molti eventi
di carattere nazionale e internazionale, molti studi promossi da privati e da enti in Italia e
all'estero nel settore dell'educazione degli adulti, dell'educazione permanente e della pedagogia
sociale rendevano necessario e possibile un nuovo sforzo di rielaborazione e di sintesi.
L'opera di De Sanctis viene incontro a questa esigenza e riempie questo vuoto.
Si tratta di un lavoro che esce dal chiuso della provincia pedagogica; di un vero trattato
generale dell'educazione degli adulti, il primo, se non vado errato, di così vasto respiro e di
tanto vivo impegno, che viene pubblicato nel nostro paese e non soltanto in questo.
La sua motivazione è principalmente politica e sociale.
La spinta a scriverlo è stata data dalla mutata situazione generale nell'equilibrio e nella
dinamica delle nazioni e delle classi.
La partecipazione diretta delle masse all'opera di profondo e radicale mutamento
dell'assetto tradizionale come protagoniste degli eventi storici non soltanto nelle forme mediate
dall'azione e dall'iniziativa dei partiti politici e dei sindacati, ma anche e più nei modi inediti
dell'autogestione, dell’autoriduzione, dell'intervento autoiniziato dei gruppi sui quali si fa sentire
più pesante il conato repressivo del sistema, la diffusa consapevolezza della vanità degli sforzi
di trasformazione affiancati alla scuola e alle altre istituzioni educative ufficiali a causa della loro
natura di strumenti di riproduzione dell'assetto esistente: tutto questo, ed altro, sollecitava e
rendeva possibile un ripensamento sistematico della vasta problematica dell'educazione degli
adulti, vista nell'ampio contesto della tematica sociale e politica, oltreché educativa e
pedagogica.
L'autore aveva le carte in regola per venire incontro a questa esigenza.
Non soltanto la sua attività di docente di educazione degli adulti nelle Università di
Firenze e di Roma, ma anche, e non meno, quella di operatore culturale in numerosi progetti di
ricerca e di sviluppo di carattere locale e nazionale lo rendevano particolarmente adatto ad
accingersi a un'impresa tanto difficile.
È nato cosi un libro che si distacca dai consueti lavori accademici e che si colloca in un
orizzonte interpretativo e valutativo che lega strettamente la teoria alla prassi.
Esso schiude nuove prospettive nell'ambito dell'educazione degli adulti.
Il suo apporto innovativo è da identificare nel contributo di primo piano che dà alla
fondazione scientifica di questa disciplina, avvalendosi dei progressi compiuti nel settore della
pedagogia generale.
Collocandosi dichiaratamente entro l'alveo della pedagogia marxista, l'opera accoglie il
meglio del pensiero socio-pedagogico di altre correnti, tra le quali non ultima quella che fa capo
al Dewey, di cui, del resto, sono ormai acquisite le notevoli affinità che lo legano al pensiero di
Marx.
A Marx e a Dewey spetta il merito di avere fondato la pedagogia come scienza.
Ad entrambi compete altresì quello di avere dato un rilievo centrale ai problemi
dell'educazione nell'età adulta visti nel quadro della crisi della società capitalistica in Europa e
negli Stati Uniti.
Avendo presente il parametro fornitogli dai due fondatori della pedagogia moderna
concepita come aspetto integrante delle scienze sociali, De Sanctis sottolinea come la teoria e
la pratica relative all'educazione degli adulti siano rimaste finora a «un livello premoderno ».
Gli adulti vengono considerati non come soggetto, ma come oggetto dell'educazione.
È suo convincimento che ogni concezione ed ogni prassi che attribuiscono la
responsabilità e il compito dell'educazione degli adulti ad agenzie diverse da quelle che gli
adulti stessi esprimono falliscono nel loro intento al tempo stesso in cui manifestano la
debolezza del loro assunto.
Considerando giustamente il movimento operaio come il grande iniziatore e protagonista
delle rivendicazioni e delle realizzazioni nel settore dell'educazione degli adulti, egli fa sua
l'affermazione del Dewey, che trova un esatto riscontro in molte altre già nitidamente avanzate
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da Marx, secondo cui « sono le condizioni fondamentali che sono mutate, e il rimedio può
venire soltanto da un'altrettanto radicale trasformazione dell'educazione».
L'educazione nuova rappresenta, pertanto, l'espressione consapevole di obbiettive
esigenze storiche e non l'astratta formulazione di principi teorici frutto di «eccelse menti di
pedagogisti».
Interpretando le parole del Dewey in chiave marxista, De Sanctis concepisce il processo
di autoeducazione e di autoformazione della classe operaia come un aspetto intrinseco del suo
costituirsi storico come classe ad opera della rivoluzione industriale e come momento
indisgiungibile dalla conquista di una coscienza di classe.
A questa concezione scientifica della pedagogia, con particolare ma non esclusivo
riferimento a quella degli adulti, si lega strettamente un altro concetto in cui si esprime il
secondo principio fondamentale della moderna teoria dell'educazione.
Mi riferisco al dilatarsi dell'orizzonte pedagogico dai problemi della scuola e dell'età
evolutiva a quelli dell'organizzazione e del funzionamento dell'intera società.
Questo principio, che oggi in forme spesso confuse è confluito in quello dell'educazione
permanente, trae esso pure le sue radici dal pensiero di Marx e di Dewey.
È stato Marx a gettare luce per primo sui processi di reificazione della classe operaia nel
sistema dei rapporti di produzione storicamente realizzato dal capitalismo industriale.
La necessità e l'obbiettività storica di tali rapporti di produzione costituiscono la radice
dell'educazione della classe operaia e, più largamente, dell'intera società.
A quest'ordine di considerazioni De Sanctis dedica il primo capitolo del suo libro, che
soltanto un lettore o un critico distratti potrebbero considerare non pertinenti al tema affrontato.
Occorre affermare, al contrario, che la densa trattazione, che riprende temi marxiani,
contenuta in questo capitolo costituisce la pietra angolare dell'intera opera.
Legando insieme i due concetti fondamentali della moderna teoria pedagogica, quello del
suo carattere scientifico e quello della sua larga valenza sociale, De Sanctis scrive che
«l'educazione degli adulti ebbe origine... non da una risposta filantropica alle condizioni di
sfruttamento del proletariato; non fu quindi un prodotto secondario dell'industrializzazione.
Essa, invece, ebbe consustanziale ragione di vita dalle caratteristiche della società
industriale capitalistica».
Questa profonda istanza marxiana divenne centrale nel pensiero, finora poco noto, del
tardo Dewey.
Egli considera l'impiego della scienza e della tecnica, « le due grandi forze causali
all'opera», nel sistema esistente di produzione fondato sul profitto come l'agente primario
dell'attuale educazione della società e al tempo stesso come l'oggetto fondamentale di ogni
seria teoria dell'educazione.
Poiché sono le condizioni della vita sociale influenzate dall'impiego della scienza e della
tecnica, nell'odierna fase storica, «che esercitano il più grande e più durevole effetto educativo
(nonché diseducativo) sull'esperienza di vita e sulla cultura prevalente, è da esse piuttosto che
dal sistema scolastico in senso stretto che ogni seria dottrina pedagogica deve trarre inizio».
Non mi sembra di andare errato affermando che l'originalità dell'opera di De Sanctis sta
nel ripetuto, martellante richiamo all'esigenza di prestare attenzione, analizzandole
attentamente, alle «valenze educative» della struttura esistente della società e dei rapporti di
produzione.
La matrice marxiana del suo pensiero va identificata in questa sua insistenza sulla
necessità che ogni discorso pedagogico inerente all'educazione degli adulti trovi il suo centrale
punto di riferiménto nei rapporti di produzione.
Di qui il rilievo primario che la trattazione del lavoro assume nella sua opera e la
denuncia dell'errore di considerarlo come oggetto d'indagine avulsa dalla problematica
educativa.
Al contrario, è nella lotta per l'abolizione del lavoro alienato che egli colloca il punto
nodale dell'educazione degli adulti e, più latamente, di ogni forma di educazione.
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Seguendo Marx, e particolarmente su questo punto Engels, egli ravvisa nel sistema di
produzione industriale, nella fabbrica capitalistica, pur coi suoi tempi defatiganti di lavoro e colle
sue condizioni di estremo sfruttamento salariale, il contributo principale che le nuove condizioni
storiche determinate dalla rivoluzione scientifica e tecnologica hanno recato all'educazione degli
adulti.
La coscienza della situazione di degradazione e di reificazione, favorita dal regime di
fabbrica, le possibilità da esso offerte di una solidale azione mirante a un radicale cambiamento
non soltanto per la classe operaia, ma per l'intera umanità costituiscono, nell'ultima abiezione,
l'inizio della liberazione.
De Sanctis vede nello sviluppo della grande industria moderna il necessario punto
d'avvio dell'abolizione della società di classe e con essa del rinnovamento dell'educazione.
L'alto prezzo pagato dall'umanità, per una serie ininterrotta di generazioni fino ai giorni
nostri, gli appare giustificato da questa prospettiva di finale mutamento.
Forse questo tema meritava una trattazione più problematica.
Marx stesso, nei suoi tardi anni, indicava la possibilità di passaggio al socialismo senza
passare dovunque — e si riferiva al mir russo — attraverso l'inferno della fabbrica capitalistica.
Agnes Heller citava recentemente dall'abbozzo di lettera di Marx a Vera Zasulic, del
1881, l'affermazione che il mir «trova il capitalismo in una crisi che finirà soltanto con la sua
eliminazione e col ritorno delle società moderne al tipo 'arcaico' della proprietà comune, forma
in cui... il 'sistema nuovo' al quale tende la società moderna 'sarà una rinascita' (a revival) in una
forma superiore (in a superior form) di un tipo sociale arcaico».
Non mancano nel libro di De Sanctis spunti utili per una approfondita considerazione di
questo tema oggi cruciale della direzione dello sviluppo.
Egli indica come esempio delle «linee più complesse sulle quali è possibile muoversi»
quelle emerse dalla Conferenza di Bucarest sui problemi demografici, dal cui comunicato finale
cita la dichiarazione secondo cui «la base per una soluzione effettiva dei problemi della
popolazione è soprattutto la trasformazione socio-economica».
La questione è ben posta, e non si può non consentire con essa, salvo a indagare
attentamente se l'unica via di tale mutamento socioeconomico sia quello dello sviluppo
industriale senza altri limiti che quelli imposti dal sistema capitalistico di produzione.
Le considerazioni che De Sanctis fa sulle valenze educative della fabbrica e del lavoro
agricolo, sui rapporti fra città e campagna non soltanto rappresentano indicazioni esemplari del
respiro ampio del suo pensiero che schiude viste nuove e puntuali nel terreno ancora
largamente incondito dell'educazione permanente ma sono altresì temi suggestivi di ulteriori
indagini ricche di eventuali contributi originali a un approccio inedito nel campo dell'educazione
degli adulti.
Questo mio riferimento a un problema che non va confuso coi diversivi che sono stati
denunciati da coloro che hanno messo a fuoco i rischi nascosti nell’ «imbroglio ecologico» è un
semplice richiamo a un serio problema di natura sia sociale che educativa.
È il problema del nostro stesso avvenire su questa terra, è il problema della natura
stessa e dell'uomo come parte di essa.
E’ problema di fondo dell'educazione.
Nelle scuole e nei Congressi , nei mass media e nei circoli operai e nelle case della
cultura esso può essere affrontato in maniera mistificante.
Dalle pagine che De Sanctis vi dedica è possibile evincere indicazioni utili a una sua
corretta impostazione, vuoi nella educazione degli adulti vuoi in quella scolastica rivolta ai
fanciulli e ai giovani.
Tale problema non sposta la riflessione del lettore da quello che è il filo rosso dell'opera:
l'inscindibile legame che unisce l'extrascolastico alla scuola, l'educazione e l'istruzione formali a
quelle che sono inerenti alle lotte da combattere nell'organizzazione dei rapporti e dei processi
della produzione considerata «nella sua globalità e nella sua strutturalità».
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La ricchezza dei temi che si accompagna a tale tematica non consente un'analisi
adeguata in una semplice «presentazione», il cui compito è solo quello di offrire qualche spunto
a una lettura critica di un'opera densa di contenuto e dall'espressione concentrata e non
sempre familiare ai lettori comuni dei testi di pedagogia.
Sforzandoci di porre in luce i temi pedagogicamente più fecondi in essa trattati, oltre ai
due più generali già sottolineati all'inizio di questo discorso, ci preme indicarne tre come degni
di particolare riflessione: quello del rapporto tra scienza e lavoro; quello del rapporto tra
interesse e socialità, e quello della libertà dell'apprendimento, che si riallaccia ai grandi motivi
dell'atmosfera culturale generale e dell'associazionismo operaio nei suoi rapporti coll’
associazionismo civile.
Riguardo al primo problema, spesso male impostato sotto la pressione di interessi di
classe, nelle forme o della divulgazione scientifica o della purezza della scienza, De Sanctis si
serve per la sua impostazione del principio del Dewey che «quale possa essere la scienza per
lo specialista, essa per i fini educativi, è la conoscienza delle condizioni umane».
Lungo tale direzione, che, come è noto, è primaria nel pensiero deweyano, De Sanctis
concepisce il progresso scientifico e tecnologico come strettamente legato ai rapporti di
produzione e di organizzazione del lavoro, e, come tale, da impostare nel quadro dei rapporti
tra la classe operaia nel suo insieme e la scienza.
In pratica, l'approccio della classe operaia alla scienza è da promuovere tenendo
presente l'interesse sociale vitale della stessa classe a dominare le condizioni della propria
esistenza sul lavoro, a inserirsi responsabilmente nel processo produttivo in termini non di pura
esecuzione, ma in quelli della riorganizzazione e, in definitiva, della formazione.
Degno di nota è il riferimento di De Sanctis al taylorismo che, a distanza di oltre
quarant'anni, egli guarda con occhi diversi da quelli con cui lo guardava Gramsci, e del quale,
con Georges Friedmann, sottolinea gli effetti di rafforzamento del capitale e di impoverimento
culturale, politico e psicofisico della classe operaia.
Il compito dell'educazione degli adulti nei riguardi del problema del rapporto tra lavoro e
scienza è pertanto indicato nel contributo alla liberazione del lavoro e dei lavoratori «dalla
soggezione tecno-scientifica», che, sul terreno culturale, si traduce nello sforzo della classe
dirigente di appropriarsi a suo vantaggio dell'interesse e della socialità.
Per la classe operaia, e più largamente per l'intera umanità, esiste un falso interesse,
fatto consistere nell'incremento del salario e del profitto indipendentemente dalla
considerazione dei rapporti di superiorità e di soggezione, di accresciuto potere di sfruttamento
e di aumentato falso potere di consumo che in sostanza rafforza la dipendenza, in breve
indipendentemente da ogni genuina considerazione di sviluppo sociale.
Come nei riguardi del rapporto tra scienza e lavoro la funzione della prima è quella di
rendere capace l'operaio di mutare la qualità del secondo e con ciò di trasformare il proprio
rapporto con la natura e colla società, una trasformazione affine si verifica quando si sconfigge
quello che De Sanctis chiama «l'insinuante tentativo da parte del capitalismo monopolistico di
Stato di appropriarsi in blocco e nelle sue determinazioni della pedagogia attiva, appoggiandosi
sul capovolgimento e sulla strumentalizzazione delle aspirazioni educative».
Ciò che la classe al potere si sforza di oscurare nella classe operaia è la coincidenza
profonda del proprio interesse con la genuina socialità, da realizzare soltanto mediante la
creazione di una società nuova.
Non è inopportuno ricordare che, per Dewey, l'interesse coincide nell'uomo, come nel
fanciullo, nella «presa di coscienza di se stesso» in modo che si trasformi in «una forza
emozionale in attività».
Se si applica tale concezione alla valenza educativa del rapporto tra interesse e socialità
per la classe operaia, essa si traduce nell'assecondamento del suo sforzo di acquistare
consapevolezza della sua funzione trasformatrice della società mediante l'azione congiunta di
tutti i suoi componenti
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Questa sottile vena libertaria che penetra nell'analisi che De Sanctis effettua del compito
trasformativo del rapporto tra lavoro e natura-società e del rapporto tra interesse e socialità si
allarga a visione pedagogica generale là dove egli considera la rogersiana "libertà
nell'apprendimento" come principio intrinseco di una società socialista, nella quale su tutti e su
ciascuno cada la responsabilità della continua trasformazione delle sue strutture.
La libertà di apprendimento equivale a responsabilità di autoformazione e di
instaurazione di un clima di libertà nella vita sociale.
Di qui l'importanza attribuita da De Sanctis a quella che indica, sulla scorta di Kurt Lewin,
come «l'atmosfera culturale generale», considerata dal gran gestaltista come «il fondamento di
tutte le situazioni specifiche».
L'adesione al concetto della prevalenza, in ultima istanza, della sovrastruttura sulla
struttura, avanzata da U. Terracini, spinge De Sanctis al di là dell'affermazione compiuta da
quest'ultimo circa la maggior portata dei problemi politici su quelli economico-sociali.
Egli si avvale di tale principio per sottolineare il peso degli sforzi della società, e in essa
degli educatori, vuoi come insegnanti vuoi come operatori culturali, per la creazione di un
atteggiamento generalizzato di apprezzamento dei valori culturali, per la creazione culturale, e
ancor più precisamente (secondo il pregnante senso che Gramsci dava a tale parola)
«intellettuale», ai fini dell'instaurazione di una nuova condizione umana.
Il rilievo crescente che nell'opera acquista la cultura, sempre intrinsecamente legata alle
lotte del lavoro, nella creazione di quella che col Suchodolski egli denomina «la società
dell'educazione», nella quale la formazione primeggia sulla produzione, acquista un significativo
ruolo educativo nelle pagine dedicate all'esame del rapporto tra l'associazionismo operaio e
l’associazionismo civile.
In tale esame egli fa sua, trasferendola in un nuovo contesto di significato, la lezione del
Tocqueville.
Per De Sanctis l'associazionismo occupa un posto centrale nell'educazione degli adulti.
Ad esso, infatti, è legato lo sviluppo intellettuale della classe operaia nel processo della
sua conquista della conoscenza di se medesima.
Nello sviluppo dell'associazionismo acquistano sempre maggior importanza le libere
associazioni sorte dal basso, espresse dal movimento spontaneo della società, con
connotazione libertaria, accanto a quelle che De Sanctis menziona come nate dal seno del
«movimento operaio nella sua struttura portante politica, il partito».
Qui il discorso si fa più complesso e richiederebbe un'ulteriore precisazione.
L'associazionismo civile, nella mia considerazione, si avvicinerebbe in tal modo allo
stesso associazionismo operaio autoiniziato e autogestito dalla base e formato non soltanto da
operai, salvo a designare come tali tutti coloro che lottano accanto a loro per un radicale
mutamento dell'ordine esistente.
Del resto verso questa visione comprensiva dei due tipi di associazionismo spinge tutto il
discorso di De Sanctis.
Egli stesso esprime l'esigenza di un «allargamento della condizione operaia ai tecnici e
agli scienziati come forze interessate al superamento» della tradizionale divisione tra intellettuali
e operai, facendo sue delle considerazioni di Antonio Badaloni.
Il filone gramsciano del suo pensiero incentrato sullo sviluppo intellettuale della classe
operaia costituisce, in definitiva, il motivo saliente del suo pensiero che teorizza, e al tempo
stesso operativamente mira a creare, una nuova società dove tale divisione tra operai ed
intellettuali venga meno, mercé l'acquisto di capacità superiori da parte della stessa classe
operaia, identificata coll'intera società.
In questo nuovo ordine da creare è lecito anticipare non soltanto marxianamente
l'estinzione dello Stato, ma, come fa De Sanctis, anche la dissoluzione dell'educazione degli
adulti «in una libertà educativa consapevole e liberante».
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2 Introduzione
Questo saggio nasce da un lungo periodo di lavoro nell'educazione degli adulti, con
associazioni e nelle istituzioni educative, dalla pratica con strumenti antichi, recenti e
nuovissimi; e dalla personale maturazione, attraverso i rapporti avuti e lo svolgimento del
mestiere di operatore culturale negli ambienti più stimolanti del Paese.
Ha origine dalla necessità di costruire un quadro di riferimento nel quale poter agire,
rispetto alla nuova dimensione e alla nuova qualità dei problemi educativi nell'età adulta.
E, in primo luogo, dall'emergere e dall'affermarsi con forza sempre maggiore di un
rapporto sempre più stretto tra movimento operaio e acquisizione scientifica, dal realizzarsi del
marxiano «sviluppo intellettuale della classe operaia».
La conquista delle «ore di studio» dei lavoratori è l'esempio più recente di tale tendenza
progressiva.
Scaturisce, infine, dalla esigenza, sempre più avvertita con il passare degli anni, di dare
un senso unitario alle esperienze compiute, con lo scopo di discutere — soprattutto con i
giovani — nel modo più approfondito intorno ai problemi educativi nell'età adulta, come dire
dell'avvenire sociale che intendiamo costruire.
Come spesso accade, accingendomi a questo lavoro, ritenevo di potermi limitare ad una
rapida esposizione del punto al quale l'educazione degli adulti era giunta in Italia.
Ma, fin dalle prime riflessioni, dovevo constatare che non era possibile accontentarsi di
una superficiale raschiatura del campo, che era indispensabile — almeno per la mia limitatezza
— un profondo scasso, per far germogliare nuove prospettive di visione e di interventi.
Le motivazioni largamente politiche mi sollecitavano, peraltro, a non restringere gli
orizzonti della ricerca negli spazi dell'educazione degli adulti tradizionale; ma nell'impegnarmi a
individuare le basi strutturali ed ideali per nuove prospettive.
Da qui, uno sforzo non superficiale di fronte a difficoltà comprensibili che provenivano
dall'intento di riconsiderare, da un punto di vista specifico, i processi educativi nella condizione
di lavoro e — in generale — di vita sociale, nonché i problemi economici e culturali della nostra
storia.
Da qui, l'estrapolazione che ho dovuto compiere degli aspetti storici e metodologici; temi
e problemi sui quali sarà necessario ritornare con l'attenzione, e per l'utilità, che meritano.
Da qui, infine, l'emergere di interrogativi di ogni ordine, più che il perfezionarsi di risposte
alle prime domande che mi ero poste.
Si tratta di quesiti ai quali, nel lavoro e nella ricerca, sarà necessario rispondere
scientificamente, con maggior pregnanza di quanto, in questo primo tentativo, sia stato
possibile.
L'esigenza, infatti, che è venuta alla luce con maggior rilievo, anche politico, sembra
essere quella — per noi operatori culturali — di contribuire al crescere e all'affermarsi di un
vincolo scientifico che, attraverso l'istituzione di strutture e l'invenzione di metodi, tenda a
fornirci per l'operare quotidiano le più probanti, verificate indicazioni.
La soluzione delle questioni sul tappeto sarà possibile attraverso l'articolazione più stretta
dell'impegno operativo e dell'impegno scientifico.
Riteniamo opportuno precisare il modo in cui abbiamo usato la nomenclatura del settore.
Innanzi tutto, abbiamo cercato di evitare le possibili confusioni tra «educazione
permanente» ed «educazione degli adulti», termine questo che abbiamo utilizzato nel senso
dell'intervento formale, volontario; mentre delle locuzioni di «educazione adulta» e di
«educazione nell'età adulta» ci siamo serviti per parlare del fenomeno, a livello oggettivo.
Abbiamo usato la denominazione di «lavoro culturale», quando abbiamo presentato
problemi specifici in situazioni di responsabilità politica organizzata.
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Abbiamo evitato ogni commistione tra «educazione degli adulti» e «cultura popolare» o
«educazione popolare», servendoci di queste ultime dizioni solo in riferimento a esperienze
storiche o, comunque, definite per provenienza e struttura.
Se non abbiamo ripreso il termine proudhoniano di «demopedia», ci siamo serviti di
quello di «andragogia», inteso come studio sui problemi educativi nell'età adulta; talvolta, forse
impropriamente, abbiamo adoperato l'aggettivo «andragogico» (nell'impossibilità di ricavare un
aggettivo da «educazione degli adulti»).
Invece della locuzione «educatori degli adulti», abbiamo parlato di «operatori culturali».
Abbiamo escluso l'uso — in luogo di «educazione degli adulti» — di dizioni
apparentemente similari: «istruzione permanente», «formazione permanente», «educazione
ricorrente», «educazione in alternanza», o di altre ancora, riservandone l'utilizzazione nei casi
più propri.
Circa la bibliografia, abbiamo inteso, soprattutto, attingere alle fonti, da Marx a Gramsci,
pur utilizzando tutti i contributi che ci venivano dal confronto quotidiano (e, a tal fine, spesso
abbiamo fatto riferimento agli avvenimenti attuali e ai commenti della stampa), nonché dalle
riflessioni di quanti hanno dimostrato — direttamente o indirettamente — interesse per i
problemi dell'educazione degli adulti, non tanto come tema separato, quanto scaturente dalla
globalità del processo di sviluppo.
Mi auguro che il personale entusiasmo per il lavoro di educazione degli adulti, per le sue
potenzialità e per le sue difficoltà, non abbia oscurato la chiarezza dei problemi.
Tale risultato, evidentemente, era molto lontano dalle mie intenzioni e motivazioni che,
d'altra parte, non potevano essere oltre misura raffreddate, forzando le caratteristiche e
superando i difetti acquisiti, da operatore, nel proposito di affermare le ragioni di una azione
culturale, nella conflittualità della nostra realtà.
Ciò che, infatti, ho costantemente riscontrato nella prassi educativa è stato il prorompere
di bisogni tesi alla trasformazione e, per converso, la violenta o capziosa opposizione al
soddisfacimento di tali tensioni innovative.
Da qui, una passionalità di scrittura della quale, comunque, chiedo scusa.
Ma, anche, l'esortazione a moltiplicarci e a qualificarci per affrontare con maggior
incisività e perizia la questione concreta dell'educazione nell'età adulta.
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3 Problemi dell’educazione degli adulti
3.1 La società industriale e l'educazione degli adulti
3.1.1 L'educazione degli adulti nella società industriale
Il primo riscontro problematico dobbiamo effettuarlo con le strutture della società
industriale, come dire con la società moderna in quanto caratterizzata dalla produzione di beni
su base industriale.
Ed è un riscontro che intendiamo compiere relativamente alla situazione italiana, o a
strutture economiche ad essa analoghe nel passato e nel presente.
Si tratta di un'analisi indispensabile per ragioni storiche e strutturali; i riferimenti storici,
infatti, possono permetterci di inquadrare l'educazione degli adulti nel tempo e nello spazio, di
comprenderne le origini, gli sviluppi, le prospettive; l'analisi degli elementi economici, sociali,
culturali — in stretta correlazione tra di loro e con gli avvenimenti contemporanei — può fornirci,
almeno per grandi sintesi, il senso di un movimento educativo e permettere di orientarci per
intervenire congruamente.
È ben noto che è dal seno della società industriale che l'educazione degli adulti, in senso
moderno, ha preso avvio.
Ma in quale senso?
È stato, ad esempio, affermato 1 che si tratterebbe di «un prodotto secondario dell'età
scientifica, della rivoluzione industriale e dell'affermazione democratica».
A noi sembra più pertinente riferirci, soprattutto, al rapporto tra strutture economiche
capitalistiche e origine dei processi educativi in età adulta, sia in quanto direttamente
organizzati, sia in quanto emergenti dagli specifici rapporti di produzione e — come tali — o
piegati alle necessità delle egemonie economiche, o gestiti dal movimento operaio stesso fino a
divenire parte integrante della cultura operaia.
Da questo punto di vista, ciò che caratterizza la società industriale è, innanzi tutto, la
semplificazione dei contrasti tra le classi: «la società intiera si va sempre più scindendo in due
grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l'una all'altra: borghesia e
proletariato» 2.
Se è vero che in altre epoche «oppressori ed oppressi sono sempre stati in contrasto fra
di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volta palese»3, è vero che
«l'epoca nostra, l'epoca della borghesia, si distingue perché ha semplificato i contrasti fra le
classi» 4.
In secondo luogo, la borghesia si caratterizza in quanto «non può esistere senza
rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto
l'insieme dei rapporti sociali... Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante
scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono
l'epoca borghese da tutte le altre...
Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa
sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da
ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci»5.
1
Cfr. A. S. M. Hely, Tendenze nell'educazione degli adulti. Da Elsinòr a Montreal, Roma, Armando, 1966, p. 21.
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56.
3
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 55.
4
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56.
5
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 6061.
2
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Al contrario, considerando le epoche precedenti alla società industriale, la loro «prima
condizione di esistenza... era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di
produzione»6.
Rispetto a tali caratteristiche della società industriale capitalistica, l'origine
dell'educazione degli adulti ci sembra debba essere considerata rispetto ai bisogni oggettivi e
soggettivi dell'epoca.
In tal senso, limitarsi a considerare soltanto le organizzazioni dell'«educazione degli
adulti» in senso stretto ci appare improprio e, comunque, impari per comprendere la
complessità di fenomeni che non possono essere settorializzati.
Al massimo, come accade ad alcuni tentativi di sistemare storia, tendenze e problemi
dell'educazione degli adulti, si riesce soltanto a chiudersi nelle istituzioni formalizzate, che, in
quanto tali, già si spiegano da sole, e, in fondo, a bloccare ogni profonda riflessione per una
nuova percezione dei processi educativi e dei modi innovanti di intervenire, oggi e in
prospettiva.
I modi «organizzati», infatti, di rispondere a determinati bisogni, non solo non acquistano
valenza positiva per il fatto di essere, appunto, «formalizzati», riconosciuti per legge, capaci di
programmare, ma suscitano legittimi sospetti nell'ambito di una riconsiderazione attuale
dell'educazione degli adulti, svolta da parte di quanti vogliano rielaborare linee e programmi di
lavoro più avanzati.
Rispetto, dunque, alle due principali caratteristiche della società industriale basata su
strutture capitalistiche, i problemi, e le loro manifestazioni come bisogni oggettivi, si enucleano,
si precisano, postulano risposte.
Il rapporto tra la necessità di «rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi
i rapporti di produzione, quindi l'insieme dei rapporti sociali»7 e la semplificazione «in due grandi
classi direttamente opposte l'una all'altra: borghesia e proletariato»8 si svolge, evidentemente,
nella sfera economica.
La prima — peraltro — è una necessità soddisfacibile attraverso mezzi culturali
(l'invenzione di strumenti necessari al rivoluzionamento parte dalla fabbrica e ritorna alla
fabbrica passando attraverso laboratori scientifici e tecnologici); essa richiede adattamenti
continui nei rapporti di produzione e nei rapporti sociali che soltanto l'uso di strumenti culturali
(dalla parola al calcolo all'organizzazione) permette.
La seconda caratteristica, organicamente legata alla prima, spiega perfettamente l'origine
ambigua dell'educazione degli adulti nella società industriale, e non in epoche precedenti.
Il rapporto, infatti, tra «incessante scuotimento»9 e semplificazione della lotta di classe
non potrebbe essere risolto altrimenti dalla classe detentrice del potere che attraverso il
controllo di processi educativi capaci di regolare «l'incertezza e il movimento eterni»10 del
proletariato e degli strumenti culturali di cui la borghesia doveva pur dotare il proletariato stesso
se non intendeva — come non poteva — contraddirsi nella propria necessità di rivoluzionare di
continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei
rapporti sociali.
L'educazione degli adulti ebbe dunque origine, a nostro parere, non da una risposta
filantropica alle condizioni di sfruttamento del proletariato; non fu, quindi, un prodotto
secondario dell'industrializzazione.
Ebbe invece precisa, consustanziale ragione di vita dalle caratteristiche strutturali della
società industriale capitalistica.
Quale migliore copertura dell'altruismo filantropico avrebbe potuto nascondere la realtà di
una gigantesca scuola dell'adulto necessaria per una riconversione post-medievale di
6
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 60.
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 60.
8
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56.
9
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 60.
10
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 61.
7
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atteggiamenti e di comportamenti, di usi e di costumi, di abitudini e di credenze, di aspirazioni e
di consolazioni, di linguaggio e di valori?
Alle necessità oggettive del sistema nascente erano strettamente interrelate quelle
soggettive del proletariato; se è vero che la miseria costringeva ad accettare qualsiasi
condizione di lavoro, attraverso quali processi se non quelli educativi il proletariato sarebbe
riuscito ad assimilare procedimenti industriali così diversi da quelli artigianali o agricoli, i disastri
dell'urbanesimo, il cambiamento della gestione familiare?
Quell'intervento che oggi chiamiamo educazione degli adulti fu, dunque, all'origine un
congegno sociale primario della struttura nascente ed un prodotto primario di contraddizione.
Gli iniziatori delle attività educative, in senso stretto, per adulti erano ben consci del
compito loro affidato: «l'educazione, finché non sia troppo progredita, può contribuire alla
diminuzione della criminalità e quindi ad una maggiore sicurezza della proprietà privata ed
anche ad una riduzione del pauperismo e della percentuale di indigenti»11.
In altre epoche, quando la «prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali» era
«l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione»12, i processi educativi — in senso
lato e in senso stretto — avevano la durata dell'età giovanile; nell'età adulta, l'apprendista si
affinava nella vita lavorativa; a nessuno, di regola, veniva richiesto un continuo riadattamento
sul lavoro o nell'ambiente.
L'educazione degli adulti in senso moderno poteva allora avere un corrispettivo soltanto
nell'otium degli strati superiori della società.
Nella società industriale questa facoltà di pochi diviene una necessità di massa, un
dovere di educazione globale.
Ma, a qual fine?
A comprendere meglio i cambiamenti della realtà circostante per adattarvisi, o a
modificare la realtà nelle sue basi strutturali?
A sopravvivere, potremmo chiederci, o a filosofare, a ragionare sulle cause?
A migliorare o a trasformare?
Quell'intervento che oggi chiamiamo educazione degli adulti fu, peraltro, come dicevamo,
non solo un congegno sociale primario delle strutture nascenti; fu, anche, un prodotto di
contraddizioni.
Se, infatti, il bisogno di educarsi e istruirsi per conoscere, comprendere e modificare
scaturiva dal proletariato (se non ci fosse stata una motivazione a frequentare, nessuna attività
si sarebbe potuta organizzare), la necessità di un'educazione nell'età adulta scaturiva dagli
stessi rapporti di produzione dell'epoca borghese, dalla necessità di una forza-lavoro adeguata.
Se, inoltre, la domanda di educazione era tesa a modificare una realtà circostante ben
precisa, la risposta a tale domanda poteva essere organizzata attraverso una prassi imitativa di
strutture, metodi e —- nell'immediatezza dell'atto educativo — perfino di scopi tipici degli strati
individualistici coltivati.
Se, infatti, coloro che organizzavano ed impartivano educazione agli adulti erano mossi
da nobili sollecitazioni, essi tuttavia erano tendenzialmente gli «operai salariati» della borghesia
la quale aveva «spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l'innanzi erano
considerate degne di venerazione e di rispetto», trasformando, appunto, «il medico, il giurista, il
prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati»13.
Se — infine — il proletariato aspirava ad educarsi in età adulta perché, come si diceva
allora, «sapere è potere», il sapere stesso poteva essere piegato al potere esistente, sia per
l'ambiguità degli strumenti culturali, sia perché le angolazioni ed i campi conoscitivi, i metodi e i
programmi, venivano scelti nell'interesse dominante: come racconta Engels, veniva «predicata
l'economia politica, il cui idolo è la libera concorrenza, e da cui l'operaio può trarre una sola
11
R. Peers, Adult Education, London, Routledge and Kegan Paul, 1958, p. 9. Cfr. A. S. M. Hely, Tendenze
nell'educazione degli adulti. Da Elsinòr a Montreal, Roma, Armando, 1966, p. 23.
12
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 60
13
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 59.
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conclusione: cioè nulla di più ragionevole che rassegnarsi a morir silenziosamente di fame; qui
tutta l'istruzione è addomesticata, priva di nerbo, servile verso la politica e la religione
dominanti; così che per l'operaio essa in realtà non è altro che una predica permanente per
indurlo alla quieta obbedienza, alla remissività, alla rassegnazione al suo destino»14.
Concludendo possiamo dire che l'educazione degli adulti, intesa come continuativa
esigenza formativa rispetto alla necessità di «continuo rivoluzionamento della produzione»,
all'«incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali», all'«incertezza e al movimento eterni»
che contraddistinguono la borghesia nella società industriale capitalistica, non è fenomeno
neutro e tanto meno filantropico, ma aspetto dell'intervento sui processi formativi, della
borghesia e del proletariato in lotta.
Essa, pertanto, reca con sé le contraddizioni delle sue origini storiche, delle strutture
sociali, economiche e culturali in cui opera, sia in modo formalizzato sia in modo informale, sia
direttamente sia indirettamente, sia in modo organizzato sia in modo non organizzato, sia
quando diretta dalla borghesia sia quando — nell'ambito di una società capitalistica — gestita
dal proletariato.
3.1.2 Lo «sviluppo intellettuale della classe operaia»
Senza tener conto di tali realtà di origine e di contraddizioni, sforzandosi invece — come
si è spesso tentato — di creare una isola filantropica all'educazione degli adulti, non si
comprendono i termini del condizionamento sociale in relazione alle finalità, ai metodi del lavoro
educativo nell'età adulta; né, tantomeno, si percepiscono le possibilità di scelta reale.
L'educatore, l'operatore culturale, deve essere anch'egli costretto «a considerare con
occhi liberi da ogni illusione la (sua) posizione nella vita»15, ad abbandonare il terreno del
missionaresimo nel cui recinto ha ritenuto di potersi isolare.
Le possibilità di scelta, infatti, nascono dalle stesse contraddizioni della società
industriale a carattere capitalistico, non dall'esterno, o dal nulla; nascono dalla capacità di
legare i processi educativi ai processi di sviluppo del proletariato, per una reintegrazione
dell'uomo diviso.
La questione, infatti, alla quale dobbiamo dare una risposta non è relativa alla funzione
dell'educazione degli adulti — come fenomeno isolato o isolabile —, o al decondizionamento
sociale, o allo «sviluppo culturale» avulso dal contesto ambientale complessivo (economico,
innanzi tutto, ma anche antropologico).
Il problema centrale è quello del «processo di sviluppo del proletariato»16, della classe
soggetta ai fenomeni provocati dalla economia capitalistica nella società industriale.
La dimensione educativa in tale processo di sviluppo (e cioè i processi educativi
connessi ai processi di liberazione strutturale) corrisponde a una via di passaggio il cui solco
scaturisce dall'interno della «vecchia società», più esattamente dai «conflitti in seno alla vecchia
società»17.
14
F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Roma, Rinascita, 1955, p. 255
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 61.
16
Come scrivevano Marx ed Engels: «...la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte;
essa ha anche creato gli uomini che useranno quelle armi — i moderni operai, i proletari. Nella stessa misura in
cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni,
i quali vivono solo fino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro aumenta il
capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una mercé come ogni altro articolo di
commercio, e perciò sono egualmente esposti a tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del
mercato». Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori
Riuniti, 1969, pp. 65-66.
17
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71.
15
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Secondo la sintesi di Marx-Engels, il « processo di sviluppo del proletariato»18 è favorito
in tre modi dai conflitti in parola: innanzi tutto, è la stessa borghesia, «di continuo in lotta», che «
si vede costretta a fare appello al proletariato, a chiederne l'aiuto, trascinandolo cosi nel moto
politico»; ed è essa stessa che così facendo fornisce «al proletariato gli elementi della propria
educazione, gli da cioè le armi contro se stessa»19.
In secondo luogo, sono quelle stesse «intiere parti costitutive della classe dominante»
che, «per il progresso dell'industria... vengono precipitate nella condizione del proletariato o
sono per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza», a recare «al proletariato una
massa di elementi della loro educazione»20.
In terzo luogo, «nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il
processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società,
assume un carattere cosi violento, cosi aspro, che una piccola parte della classe dominante si
stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria... e segnatamente una parte degli ideologi
borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme»21.
Come scriverà Engels nella prefazione all'edizione tedesca del 1890, per «la vittoria
finale delle tesi enunciate nel Manifesto, Marx confidava unicamente ed esclusivamente in
quello sviluppo intellettuale della classe operaia, che doveva necessariamente scaturire
dall'azione comune e dalla discussione»22.
I processi educativi indispensabili a tale sviluppo, peraltro, da una parte, appaiono favoriti
dai «conflitti in seno alla vecchia società»; dall'altra, devono necessariamente scaturire
dall'«azione in comune», dalla «discussione».
Nell'edizione inglese del 188823, l'«educazione» che il proletariato ricava dalla borghesia
stessa, o da parti di essa, è specificata in tre aspetti:
1)
gli «elementi della propria educazione» sono indicati come «educazione
politica e generale»;
2)
l'« educazione» («una massa di elementi della loro educazione») che «intiere
parti costitutive della classe dominante» recano al proletariato è specificata in
«elementi di istruzione e di progresso»;
3)
il contributo, infine, degli «ideologi borghesi che sono giunti a comprendere
teoricamente il movimento storico nel suo insieme».
Se l'educazione in genere deriva dunque dai conflitti, vi è un'articolazione dei processi
educativi in età adulta, nell'ambito della società industriale a carattere capitalistico, che deve
essere tenuta presente nella sua complessità reale, onde trarne linee operative adeguate.
Ma i processi educativi, verso uno «sviluppo intellettuale della classe operaia» nel quale
Marx «confidava unicamente ed esclusivamente» «per la vittoria finale» (non, dunque, per uno
degli stadi che si succedono, tra vittorie e sconfitte), non si esauriscono negli elementi formativi
che il proletariato ricava dalla borghesia, come «armi» contro la stessa classe dominante.
18
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71.
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71.
20
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71.
21
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 7172
22
Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, tradotto dall'edizione critica del Marx-Engels-Lenin Institut
di Mosca con introduzione a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Torino, Einaudi, 1966-4, p. 314. Nella prefazione
all'edizione italiana del 1893, Engels scriveva: «...gli operai di Parigi, rovesciando il Governo, avevano
l'intenzione ben determinata di rovesciare il regime della borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza
dell'antagonismo fatale che esisteva fra la loro propria classe e la borghesia, né il progresso economico del
paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse operaie francesi, erano giunti al grado che avrebbe resa possibile
una ricostruzione sociale. I frutti della rivoluzione furono dunque, in ultima analisi, raccolti dalla classe
capitalistica» (ivi, p. 319).
23
Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p.
71, note 2, 3 e p. 72.
19
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Ai fini di un compimento dello «sviluppo intellettuale della classe operaia» nell'ambito del
«processo di sviluppo del proletariato», l'elaborazione di tali elementi e contributi avviene
attraverso strumenti e modi caratteristici della classe operaia.
Si tratta di strumenti e modi politici ai quali dobbiamo attribuire una valenza educativa,
fino a considerarli quali strumenti culturali propri di formazione operaia, come strumenti e modi
della cultura operaia.
Essi sono24 «l'azione in comune» e «la discussione».
Essi, per noi, vanno posti in opposizione ai «conflitti» interni alla vecchia società nella
quale «la borghesia è di continuo in lotta: dapprima contro l'aristocrazia, poi contro quelle parti
della borghesia stessa i cui interessi sono in contrasto col progresso dell'industria; sempre
contro la borghesia di tutti i paesi stranieri»25.
È una opposizione, per noi, sul piano dei processi educativi; come è evidente, dall'una
scaturisce il bellum contra omnes, la competitività; dall'altra, il lavoro collettivo, la ricerca
comune, la lotta contro le strutture capitalistiche.
Ed è soprattutto attraverso la pratica del movimento operaio stesso che l'educazione in
età adulta acquista valore sociale creativo; soltanto da una prassi innovante, infatti, i processi
educativi possono ricevere quella sollecitazione alla creatività capace di reintegrare, di superare
gli effetti dell'alienazione.
L'analisi dei nessi tra condizionamento sociale e sviluppo culturale, nel concreto storico e
strutturale della società industriale capitalistica, nel riferimento ai processi educativi derivati
dalla cultura borghese e a quelli propri della cultura operaia (o, meglio, agli elementi che, per
necessità di sintesi, possiamo raggruppare sotto tali denominazioni) ci sollecita, dunque, ad
attribuire all'educazione in età adulta significati che vanno molto al di là della velleitaria
consolazione, del semplice risarcimento, dell'inane speranza o della generica aspirazione allo
sviluppo sociale.
Tali significati derivano dai «conflitti in seno alla vecchia società», e, in particolare, dai
conflitti stessi all'interno dei «più modi» di ricavare «educazione» («educazione politica e
generale», «elementi di istruzione e di progresso», contributo da «una parte degli ideologi
borghesi») in contrapposizione al controllo esercitabile dalla cultura operaia, sulla base
«dell’azione in comune» e della «discussione».
Non sembra esistere, dunque, un'educazione per l'età adulta, e una educazione degli
adulti in senso stretto, che possa prescindere dai conflitti tra condizionamento sociale e
sviluppo culturale, che possa esistere di per sé, in schemi sia pur raffinati di programmi di
lavoro, di strutture, di metodi, di strumenti.
E’ da tali conflitti che nascono le contraddizioni, per l'oggi compiutamente irrisolvibili,
nelle quali si dibatte l'educazione degli adulti, e nelle quali spesso si trovano invischiati gli
operatori culturali.
I problemi dell'educazione degli adulti nelle società industriali a carattere capitalistico
vertono intorno alle questioni relative alla partecipazione e alla fruizione culturale, al rapporto tra
conservazione e innovazione culturale, all'antinomia tra mediazione e creatività, fino alle scelte
di politica culturale delle forze in campo, alle strutture culturali da creare.
Sono questioni di pressante attualità cui bisogna cercare di dare risposte, oggi, in un
momento in cui la funzione liberatoria dell'educazione degli adulti acquista sempre maggior
peso dovuto ad una più precisa, consapevole percezione delle sue specifiche possibilità
d'intervento.
Sia pure per sintesi, esaminiamo partitamente tali questioni.
24
Come si esprime Engels nella prefazione cit. all'edizione tedesca del 1890, cfr. Manifesto del Partito comunista,
Torino, Einaudi, 1964, p. 314
25
Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista,Introduzione di P.Togliatti,Roma,Editori Riuniti,1969,p.71.
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3.1.3 «Problema intellettuale» e democrazia
La società industriale capitalistica pone tendenzialmente a disposizione mezzi enormi per
lo sviluppo della cultura: la scuola (di massa), i mezzi di comunicazione (di massa), i beni di
consumo culturale (di massa), sono gli aspetti più evidenti di tale realtà.
Ma la società industriale capitalistica attuale pone in essere dispositivi di potenza
altrettanto enorme per controllare e indirizzare tale sviluppo per la conservazione delle proprie
strutture economiche.
Conosciamo bene la realtà di fenomeni socio-culturali, di cui le lotte allo scadere degli
anni '60 hanno socializzato i significati politici.
Attraverso la sintesi di uno scrittore americano, possiamo ripetere che la radice dello
sfruttamento capitalistico non si nutre più e soltanto del proletariato che lavora, ma della massa
che si diverte.
Il vecchio sfruttamento era verticale: i poveri alimentavano i ricchi.
Ora si aggiunge lo sfruttamento orizzontale della massa da parte dello Stato e del
monopolio, uno sfruttamento secondario che sta diventando necessario per il capitalismo quasi
quanto lo sfruttamento diretto del proletariato.
Il capitalismo del secolo scorso poteva trovare il suo profitto nelle dodici ore di lavoro in
fabbrica, ma quando il lavoratore sfruttato aveva terminato la fatica, il suo corpo era esausto,
ma la sua mente poteva cercare un divertimento che era relativamente indipendente
dall'industria per la quale lavorava.
Quando, però, il lavoro in più del proletario viene sostituito dal cosiddetto «tempo libero»
del consumatore, un altro sfruttatore del salariato diventa l'industria, sotto la forma culturale e
ricreativa.
Nella società industriale capitalistica più avanzata, sul piano dei mezzi e del controllo, vi
era consapevolezza delle nuove forme culturali di dominio e di sfruttamento.
Proprio negli anni in cui Henry Ford adottava la settimana di cinque giorni (ed affermava
che, senza una diminuzione del tempo lavorativo, i lavoratori che sono i massimi acquirenti del
paese non possono aver modo di coltivare un più alto standard di vita e quindi accrescere il loro
potere d'acquisto; che l'economia riceve un impulso positivo in avanti quando gli americani
hanno più tempo libero da dedicare al consumo e che, pertanto, entrate superiori e maggiore
produzione non possono tradursi nel necessario maggior consumo, se non aumenta il tempo
libero), proprio in quegli anni 20, usciva il libro dedicato da John Dewey a Il pubblico e i suoi
problemi26.
Nelle sue pagine, Dewey si chiedeva:
«Che, cos'è, insomma, il pubblico nelle attuali condizioni? Quali sono le ragioni della sua
eclisse?
Che cosa gli impedisce di ritrovare e identificare se stesso?
Con quali mezzi la sua posizione appena abbozzata ed amorfa si organizzerà in una
efficace azione politica adeguata alle attuali esigenze e alle attuali possibilità sociali?
Che cosa è accaduto al pubblico nel secolo e mezzo trascorso dal momento in cui la
teoria della democrazia politica cominciò ad essere sostenuta con tanta fiducia e con tanta
speranza?»27.
Se non ad altre questioni, Dewey dava una risposta singolarmente vicina alle indicazioni
prospettiche marxiane per una «vittoria finale».
«Il problema di un pubblico democraticamente organizzato — affermava Dewey — è
principalmente ed essenzialmente un problema intellettuale in una misura ignota alle situazioni
politiche di età precedenti»28.
26
Cfr. John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971, trad. it. di The Public and Its Problems. An
Essay in Politicai Inquiry New York, Henry Holt, 1927. Il volume raccoglie alcune conferenze tenute da Dewey
nel 1926 alla Fondazione Larwill del Kenyon College, Ohio.
27
John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971 p. 99.
Pagina 18 di 185
Noi sappiamo, dunque, «come mai l'era delle macchine promuovendo lo sviluppo della
"Grande Società" abbia invaso e parzialmente disgregato le piccole comunità delle epoche
precedenti senza generare una Grande Comunità»29, per usare i termini deweyani.
E sappiamo che la Grande Società deve amministrarsi con rigidi criteri da istituzione
totale, da Grande Lager — diremmo —, proprio per provocare confusione intellettuale, quella
confusione che «derivata dalla estensione e dalle ramificazioni delle attività sociali, ha reso
scettici gli uomini sull'efficacia dell'azione politica...
Gli uomini — aggiungeva Dewey — si sentono presi nel vortice di forze troppo grandi per
capirle e dominarle.
Il pensiero è costretto ad arrestarsi e l'azione ne è paralizzata.
Perfino lo specialista incontra difficoltà a risalire la catena delle "cause e degli effetti"»30.
Il «problema intellettuale» del Dewey e quello marxiano dello «sviluppo intellettuale della
classe operaia» sono dunque al centro di qualsiasi esame relativo ai temi dell'educazione
nell'età adulta.
E il crinale tra finalità e finalità, tra metodi e metodi, tra i diversi usi di determinati
strumenti, tra strutture e strutture è segnato — a nostro parere — dalla capacità di restituire alla
classe operaia, anche come pubblico, la sua pienezza, contro una eclisse del «pubblico»
indotta attraverso i processi formativi che i potenti mezzi culturali possono permettere
all'establishment; e che questi usa con l'intenzione di accrescere, anche attraverso l'uso di tali
strumenti, la confusione, e cioè l'apatia, l'inazione politica, l'assoggettamento.
Il termine stesso di partecipazione culturale assume, dunque, un significato relativo, e
tutt'altro che autonomo.
Non solo la standardizzata, affluente, slavata fruizione culturalistica — che la società
industriale capitalistica finge di assicurare al Grande Lager — produce confusione utile alla
conservazione.
Anche la partecipazione culturale che aspiri al settore specifico, alla stanza dei giochi31,
rischia di assicurare un minimo margine di permissività ad alcuni limitati strati intellettuali (il
margine può estendersi fino a permettere un discorso culturalistico sulla rivoluzione), solo per
allontanare i rischi di una partecipazione globale, per aumentare i reticolati della divisione del
lavoro, per allontanare ogni rischio fattuale di cambiamenti.
Nella Grande Società capitalistica non può esservi autonomia reale, ma fittizia.
Da un punto di vista culturale, essa ci appare come un simulacro di società feudale che
riesce a camuffare nella molteplicità delle posizioni sociali (i nuovi «signori feudali, vassalli,
maestri d'arte, garzoni, servi della gleba, e per di più in quasi ciascuna di queste classi altre
speciali gradazioni»)32 la semplificazione che contraddistingue «l'epoca della borghesia».
Essa ci appare come un simulacro di società rinascimentale che, sbandierando valori
umanistici acquisiti anche attraverso le grandi rivoluzioni moderne, riesce a mascherare, dietro
il pluralismo delle idee, una sostanza strutturale che vede «due grandi classi direttamente
opposte l'una all'altra»33.
Ciò significa che la chiarezza, opposta alla confusione indotta, non è una prerogativa
della professione intellettuale o meramente intellettuale; dobbiamo superare i vecchi recinti (uno
28
John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971 p. 99.
John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971 p. 100.
30
John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971 p. 106.
31
J. Huizinga, peraltro, osservava che «dire infantilismo e dire gioco non è la stessa cosa. Quando — continuava
— alcuni anni fa credetti di poter raccogliere sotto il nome di puerilismo un certo numero di preoccupanti
fenomeni dell'odierna vita sociale, mirai ad una serie di attività in cui l'uomo moderno, specialmente come
membro di qualche collettività operante in senso organizzato, sembra comportarsi secondo le norme della
pubertà o dell'adolescenza. Si trattava soprattutto di abitudini causate oppure favorite dalla tecnica dello
scambio spirituale moderno». Cfr. Homo ludens, Torino, Einaudi, 1946, p. 252, e La crisi della civiltà, Torino,
Einaudi, 1938, p. 107.
32
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56.
33
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56.
29
Pagina 19 di 185
dei quali era appunto riservato agli strati intellettuali) per affrontare organicamente con il
movimento operaio i problemi di una partecipazione culturale piena, creativa, globale.
Piena nel senso di opposta allo svuotamento che la società industriale attua del passato
culturale, al vuoto che essa è capace di creare rapidissimamente per sostituirlo con le sue
mode standardizzate e intercambiabili, atte ad accompagnare, con superficiali cambiamenti,
«l'incertezza e il movimento eterni» che «contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le
altre»34.
Creativa nel senso di opposta al diffusionismo culturale, al consumismo quantitativo
come premessa critica resistenziale di base per dare spazi, all'insoddisfazione, al bisogno del
nuovo e del diverso; come allenamento al perseguimento di fini non banalizzati e di autentica
trasformazione; come modo di essere creativi rispetto alla passività indotta.
Globale, infine, nel senso di opposta alle settorializzazioni di comodo (cominciando dalle
dicotomie di «lavoro» e di «tempo libero», di «politica» e di «cultura») che tutti sappiamo quali
pseudoproblemi abbiano provocato, come impegno che sappia reciprocamente reintegrare il
politico nel culturale e il culturale nel politico, che sappia risarcire l'unità dell'uomo nella classe
oggettiva cui appartiene per un superamento del classismo e dei suoi derivati.
La partecipazione culturale per lo «sviluppo intellettuale della classe operaia» non può
essere, dunque, che disfunzionale a quella «partecipazione» svuotante che il sistema attua con
la dovizia dei suoi mezzi; non può essere che oppositiva a qualunque utilizzazione degli stessi
moduli che, nella prassi imitativa indotta dalle attuali strutture sociali, possono venir praticate
per lo stesso fine dello sviluppo intellettuale della classe operaia; un fine che diviene sedicente,
in quanto contraddetto da metodi svuotanti, passivizzanti, settoriali che — sotto la spinta di
contenuti immediati — costringono ad ignorare l'intero arco dei processi formativi.
Concludendo su questo punto, possiamo dire che una funzione innovante
dell'educazione degli adulti non solo deve sollecitare a rifiutare la mera diffusione dei prodotti
culturali realizzati nell'ambito dei recinti, degli scarsi spazi, riservati alle élites con licenza di
espressione; non solo deve servire a trovare metodi e a lottare per il cambiamento di strutture
allo scopo di stabilire rapporti di partecipazione culturale responsiva e responsabile tra pubblico
e autori e prodotti culturali; non solo deve vanificare ogni tendenza all'indottrinamento di
comodo attraverso un proprio proporsi come isola culturale, come proponitrice di metodi,
strutture, strumenti di partecipazione culturale illusoriamente non condizionabili.
Una funzione innovante dell'educazione degli adulti nella società industriale capitalistica
può essere realizzata se i propositi di estensione e di approfondimento della partecipazione
culturale non sono finalizzati a tale forma di «partecipazione culturale», ma allo «sviluppo
intellettuale» della classe operaia.
Non si tratta, evidentemente, di una scelta inedita, nei proponimenti e nei fatti.
Essa è molto antica, risale — come ricorda Ross D. Waller35 — agli «emancipatori liberali
dell'Europa del XIX secolo (i quali) pensavano, come Tommaso Moro, che gli uomini
dovrebbero occupare il loro tempo libero per arricchire la mente e fecero a quel tempo un lavoro
bellissimo, preparando con l'educazione degli adulti, una élite nella classe lavoratrice che, in
tutti i casi nei paesi nordici, ha svolto un ruolo preponderante nella rivoluzione sociale del nostro
tempo».
Ma si tratta di una scelta che deve essere maggiormente e più precisamente qualificata
rispetto alle finalità che perseguiamo.
Se è vero, come abbiamo visto, che l'educazione degli adulti è nata come necessità
oggettiva della società industriale capitalistica, noi, oggi, dobbiamo proporci come finalità quella
di contribuire al disvelamento di tale necessità oggettiva, quella — in altre parole — di vanificare
34
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 6061.
35
Cfr. Ross D. Waller, II problema del tempo libero, in «II Protagora» 13, marzo 1961, pp. 10-11.
Pagina 20 di 185
quel!'«educazione degli adulti» che copre, dietro una fraseologia non sempre sinceramente
umanistica, una realtà di classe.
Se è vero, infatti, che nei paesi nordici l'«educazione degli adulti» ha «svolto un ruolo
preponderante nella rivoluzione sociale», dobbiamo chiederci — talvolta i paradossi
semplificano forse eccessivamente i problemi — come mai l'educazione degli adulti, in quei
paesi, non tenda a scomparire come intervento esterno al movimento operaio.
Dobbiamo, cioè, interrogarci — ancora, e senza mai ritenerci soddisfatti — sulla
rispondenza piena o parziale, coerente o contraddittoria delle scelte che effettuiamo, e, nel caso
negativo, rendere tali scelte più adeguate, più conseguenti nel rapporto con le finalità che
perseguiamo.
Il nostro fine, infatti, non è quello di eternizzare l'«educazione degli adulti» come è stata o
come è, ma di contribuire affinchè l'ambiguità del nostro intervento venga dissella in una realtà
educativa consapevole e liberante.
3.1.4 Una scelta di prospettiva: lo sviluppo del proletariato
Perché orientiamo le nostre scelte verso una educazione degli adulti intesa allo «sviluppo
intellettuale della classe operaia»?
La motivazione di tale orientamento è precisa e riferibile oggettivamente al processo di
sviluppo del proletariato.
Non si tratta, vogliamo intendere, di una opzione volontaristica, sulla base di un
populistico chinarsi sul popolo, secondo schemi mentali di missionaresimo pedagogico
estremamente pervicaci nel nostro campo.
Né deve trattarsi dell'esecuzione di un mandato della società industriale capitalistica
intenzionata al recupero intellettuale di larghe masse la cui «partecipazione culturale» ad un
livello più elevato è indispensabile all'aumento della produttività e del plusvalore, nonché
all'estensione della politica dell'integrazione e del consenso.
Ed anche questo è uno dei rischi che l'educazione degli adulti spesso corre e dai quali
spesso è uscita e rischia di continuare ad uscire vittima e carnefice.
Il riferimento oggettivo al processo di sviluppo del proletariato non è — al limite —
neppure una scelta aprioristica, dottrinaria.
È una constatazione storica inevitabile: è stato possibile annullare l'alienazione totale
dell'uomo da se stesso, attraverso un processo che se all'inizio della società industriale
capitalistica ha visto lottare «i singoli operai ad uno ad uno»36 ha visto poi società intere «farla
finita... con la sua propria borghesia»37.
Di fronte a tale processo progressivo che ha portato e porta ad annullare le basi
strutturali della società industriale capitalistica, di fronte a tale processo intrinsecamente
dinamico che postula innovazione, la nostra scelta non può tendere che verso un'educazione
degli adulti tesa a contribuire allo sviluppo intellettuale della classe operaia perché è dimostrato
che di «tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe
veramente rivoluzionaria»38.
Certo, è stato necessario un periodo non breve per cominciare ad operare tale
mutazione; e, ciò, soltanto in alcune società, con tutte le conseguenze che una convivenza in
regime di «guerra fredda», di «coesistenza pacifica» o di guerra vera e propria39 doveva
comportare; un processo lungo, sanguinoso, denso di lotte contro strutture capaci di
trasformare in continuazione i congegni di sfruttamento sul piano internazionale; un processo
36
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 68.
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 74.
38
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 72.
39
L'attuale crisi economica (l’autore si riferisce alla crisi petrolifera degli anni ’70 ndt) presenta prospettive
drammatiche in campo internazionale.
37
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non immune da gravi contraddizioni, nei tempi lunghi necessari allo sviluppo sociale del
proletariato, attraverso i suoi «diversi gradi di evoluzione».
Ma tali contraddizioni (o «errori», come talvolta si dice con aria erroneamente
penitenziera) verificatisi in un periodo così esteso, in società cosi distanti non sono attribuibili al
nuovo che sopraggiungeva o si affermava, alla prassi rivoluzionaria, bensì alla persistenza del
vecchio strutturale e culturale.
Non sembra esservi un'analisi svolta da critici di società socialiste che possa vertere su
errori nell'innovazione reale; inevitabilmente tali analisi finiscono col rimproverare alle nuove
società che hanno abolito lo sfruttamento economico dell'uomo sull'uomo i difetti delle società
industriali capitalistiche, o delle società precedenti con le loro valenze educative di segno
conservativo.
Ed è soltanto apparentemente illogico che sia così.
È stata, infatti, la difficoltà oggettiva di una totale innovazione culturale (ma non solo
culturale) a riprodurre condizioni e processi formativi non liberatóri.
Difficoltà attribuibili, da una parte, all'assedio esterno; ma, dall'altra, allo svolgersi dei
tempi indispensabili all'innovazione culturale.
Non aveva detto, con piena consapevolezza, Lenin stesso che il « problema culturale
non può essere risolto con la stessa rapidità dei problemi politici e militari»? 40
Se siamo certi che una reale innovazione culturale può provenire soltanto da una
mutazione strutturale dell'attuale società industriale, se la capacità di cambiare è attribuibile al
proletariato perché le «altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il
proletariato ne è il prodotto più genuino»41, se riteniamo che le contraddizioni di un sistema
innovato strutturalmente discendano anche dalla persistenza di prassi conservative o imitative
di culture passate preesistenti o coesistenti, la nostra scelta di operare per lo sviluppo
intellettuale della classe operaia appare come l'unica funzionale ad una educazione degli adulti
rinnovata nelle sue finalità e nei suoi metodi e, quindi, capace di contribuire all'instaurarsi di
processi formativi non contradittòri.
D'altra parte, è soltanto in una società dove non regni la necessità del profitto che i valori
delle piccole comunità, le tradizioni stesse, e le possibilità di partecipazione reale alle scelte,
l'organizzazione sociale e politica, i bisogni individuali possono trovare occasione e campo di
espressione e di autoregolazione.
Qui il ritmo di conservazione e di innovazione può battere il suo tempo a misura umana: i
pregiudizi cederanno il campo alle analisi scientifiche, le repressioni alle prevenzioni, la
creatività nell'organizzazione sociale farà scomparire le parole stesse, indicative di pratiche
sociali dei duri, precedenti secoli dominati da signori e da dogmi.
Qui la necessità dell'«educazione degli adulti» scomparirà per cedere il posto a processi
formativi che saranno consustanziali allo svolgimento della vita; da tali processi liberatori
scaturiranno le innovazioni essenziali, le vere risposte a problemi per i quali, oggi, ci sembra
impossibile trovare soluzioni adeguate e per i quali, tanto spesso, si ricorre a forme «educative»
— anche nell'età adulta — ereditate, senza alcun correttivo sostanziale, dalle epoche e dalle
società più oscure.
Non si tratta di profezie; laddove «le contraddizioni in seno al popolo»42, sono affrontate
e risolte per tali, distinguendole da quelle «tra il nemico e noi», i processi formativi innovanti
sono già iniziati.
40
Cfr. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 236. Il brano è tratto dal
Rapporto al II Congresso pan-russo dell'educazione politica su La Nuova Politica Economica e i compiti dei
Politprosvet (Centri di educazione politica), tenutosi dal 17 al 27 ottobre 1921. Cfr. Lenin, La costruzione del
socialismo, Roma, Rinascita, 1956, pp. 185-202
41
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 72.
42
E, cioè: «le contraddizioni in seno alla classe operaia, le contraddizioni in seno alla classe contadina, le
contraddizioni tra gli intellettuali, le contraddizioni che oppongono gli operai e i contadini agli intellettuali, le
contraddizioni che oppongono gli operai e gli altri lavoratori alla borghesia nazionale, le contraddizioni in seno
alla borghesia nazionale, ecc. Il nostro governo popolare rappresenta veramente gli interessi del popolo, è un
Pagina 22 di 185
3.1.5 Creatività e intervento culturale
La nostra scelta per il «processo di sviluppo del proletariato» e per «lo sviluppo
intellettuale della classe operaia» è collegabile ad un altro riferimento oggettivo alla crisi
strutturale della società industriale capitalistica rispetto alla creatività, ed ai modi di restituire
ampio respiro ai procedimenti creativi rispetto alla prevalenza schiacciante dei prodotti creati.
Si tratta di un riferimento ampliamente verificato e verificabile nell'epoca della
riproducibilità tecnica dell'arte (e cioè del campo ove la creatività assume valore addirittura
emblematico), e non staremo a ripeterci.
Si è già detto che una funzione dell'educazione degli adulti rispetto ai prodotti creati può
essere soprattutto quella di sollecitare e organizzare processi formativi per una capacità di
risposta, di critica, di riappropriazione.
E, pur se attraverso tali procedimenti di responsabilizzazione, è impossibile prescindere
da una capacità creativa (per cui consideriamo questa come una delle vie per contribuire alla
mutazione delle strutture, già predisponendo atteggiamenti nuovi rispetto ai mezzi culturali che
la società industriale pone a nostra disposizione) tuttavia ciò non basta.
La resistenza e la difesa sono indubbiamente educative e creatrici, ma talvolta, in
particolare in alcuni settori, abbassano il livello delle nostre capacità creative alla virtualità dello
specchio nemico, di fronte al quale veniamo a trovarci.
Possiamo, così, ritrovarci con quell'oleografia, con quella declamazione, con quella
sintesi scientifica affrettata che soltanto il fervore e l'urgenza della battaglia inducono a ritenere
compiuta manifestazione delle nostre capacità creative più profonde.
Se vi sono ostilità naturali ancora avvolte nel mistero (per cui possiamo affermare che,
oggi, soltanto tendenzialmente: «l'uomo riproduce l'intera natura»43 ), nessun mistero avvolge i
rapporti di produzione ed i limiti che da essi scaturiscono per la creatività; da questo punto di
vista «la preistoria della società umana» si avvia a conclusione («I rapporti di produzione
borghesi - scriveva esattamente Marx — sono l'ultima forma antagonistica del processo di
produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un
antagonismo che scaturisce dalle condizioni sociali di vita degli individui.
Ma le forze produttive sviluppantisi nel seno della società borghese creano al tempo
stesso le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo.
Con questa formazione sociale si conclude, quindi, la preistoria della società umana»44 ).
governo al servizio del popolo; ma tra esso e il popolo esistono ugualmente delle contraddizioni. Queste
contraddizioni comprendono quelle esistenti tra gli interessi dello Stato, della collettività e dell'individuo, tra la
democrazia e il centralismo, tra chi dirige e chi è diretto, tra certi funzionari dello Stato che praticano uno stile di
lavoro burocratico e le masse popolari. Anche queste sono tutte contraddizioni in seno al popolo. In generale, le
contraddizioni in seno al popolo si basano sull'identità fondamentale degli interessi del popolo». Cfr. Mao Tse
Tung, Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, 27 febbraio 1957, Pechino, Casa editrice in
lingue estere, 1967, p. 3.
43
«La pratica produzione di un mondo aggettivo, la lavorazione della natura inorganica — scriveva Marx — è la
conferma dell'uomo come consapevole ente generico, cioè ente che si rapporta al genere come al suo proprio
essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l'animale produce: esso si costruisce un nido,
delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche ecc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna
immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce
solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e
produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo
riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo
confronta libero il suo prodotto». Cfr. Per la critica dell'economia politica con l'aggiunta di un capitolo finale sulla
filosofia di Hegel, in Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971,
pp. 199-200. Cfr. anche Marx e Engels, Sull'arte e la letteratura, Milano, Cooperativa del libro popolare, 1954,
pp. 7-8.
44
K.Marx-F.Engels, Sull'arte e la letteratura, Milano, Cooperativa del libro popolare, 1954, p. 2.
Pagina 23 di 185
I limiti alla creatività possono, dunque, essere dissolti purché tale liberazione avvenga
attraverso una mutazione strutturale che annulli le fondamenta stesse per ogni eventuale
riedificazione di strutture comportanti limitazioni.
Tale mutazione può avvenire ad opera del proletariato il quale può «impossessarsi delle
forze produttive sociali soltanto abolendo il loro modo di appropriazione attuale e con esso
l'intiero attuale modo di appropriazione», al contrario di tutte le classi che «finora
s'impossessarono del potere» cercando di «assicurarsi la posizione raggiunta assoggettando
tutta la società alle condizioni del loro guadagno»45.
Non, dunque, del «potere» per il proprio «guadagno», ma delle «forze produttive sociali»
per abolire «l'intiero attuale modo di appropriazione».
Sappiamo bene che il rapporto tra annullamento delle basi limitanti e sviluppo della
creatività non è, in generale, immediato; sappiamo bene che negli stadi di passaggio ci
troveremo ancora di fronte al problema oggettivo dell'utilizzazione dei mezzi e strumenti culturali
ingenti quanto ambigui che la stessa società industriale pone a disposizione.
Sappiamo ancor meglio, d'altra parte, che tali problemi esistono nella società
capitalistica, dove le basi strutturali sono operanti per piegare ai fini conservativi e del profitto
(industria culturale compresa) le stesse potenzialità, in astratto, liberatorie dell'arte.
Sappiamo infine che proprio qui l'educazione degli adulti può avere una funzione
specifica.
In proposito, dobbiamo tener conto di una realtà che, se postula processi lunghi e
tortuosi, richiede anche, proprio per questo, chiarezza di intervento per accelerare i processi di
sviluppo, e non per rallentarli, come spesso accade, piegandosi ai voleri sottintesi della
conservazione.
La durata educativa non può essere un alibi.
Uno degli elementi caratterizzanti di tale realtà è costituito dalle necessità soggettive di
recupero: delle privazioni secolari, delle tensioni quotidiane.
Un bisogno che sarebbe profondamente errato interpretare, o limitarsi aristocraticamente
ad interpretare, in chiave di rozzezza dei «gusti» che l'industria culturale costituisce e
predetermina.
Un bisogno orientato che, ad es., spiega certe grandi quantità (gli abbonamenti alla
radiotelevisione, le frequenze ai cinema, la motorizzazione, le vendite dei dischi di musica
leggera, le tirature dei rotocalchi, l'aumento dei viaggi attraverso i treni e gli aerei) e determinate
esiguità (le frequenze ai musei, alle biblioteche, le tirature dei quotidiani e delle pubblicazioni
specializzate, la diffusione della musica classica); ma un bisogno che non deve essere
staticizzato e inserito in una visione eterna della realtà, una realtà che — per noi — è
momentanea, che presenta nel suo dinamismo i motivi di sviluppo che bisogna saper leggere,
per i quali l'educazione degli adulti deve saper lottare con il movimento operaio.
Dinanzi a tale fenomeno, certo capace di rallentare l'espandersi di capacità creative,
l'intervento culturale ha una pesante responsabilità.
La sua presenza attiva è indispensabile per accelerare i processi di sviluppo intellettuale
nella misura in cui propone e predispone modi innovativi di recupero, tenendo presente che
l'intervento deve essere tempestivo affinché il recupero non divenga assuefazione, che — infine
— il nostro compito essenziale è quello di contribuire a promuovere il massimo delle condizioni
di creatività intellettuali e sociali.
3.1.6 Strutture e occasioni culturali nella società industriale capitalistica
Nella società industriale capitalistica, le condizioni di creatività tendono a scemare in
proporzione inversa all'aumento delle condizioni di fruizione.
45
K,Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti,Roma,Editori Riuniti,1969,pp.73-74.
Pagina 24 di 185
Soltanto le personalità eccezionali riescono ad esprimere il meglio delle loro possibilità
creative, e, per lo più, o la loro educazione nell'età giovanile si è svolta in condizioni oppositive
particolarmente favorevoli, o le scelte nell'età adulta sono maturate non attraverso un pensiero
genericamente divergente, ma sulla base di un'opposizione precisa, di un rifiuto totale delle
strutture condizionanti attraverso il cui fuoco si è riusciti a passare.
Nella generalità, ognuno può constatare lo spreco enorme di energie, di genialità, di
slancio; spreco che talvolta fa apparire la società industriale — irta di grattacieli, di stadi,
rumorosa di juke-box, carica di immagini fluenti — come una immensa «terra desolata».
Lo spreco è parte integrante del consumismo; l'utilizzazione delle energie, per converso,
può essere rischiosa.
Se una minima parte, infatti, della ricchezza deve essere ridistribuita affinché la
macchina possa funzionare, il controllo della macchina, il potere, non può correre l'alea di
essere posto in crisi — a lungo andare — dall'aumento di opposizione che scaturirebbe, nel
modo più articolato ed in tutti i settori dal culturale al sociale, da eventuali condizioni ottimali di
creatività.
Lo sviluppo delle condizioni di creatività, dunque, è compito essenziale dell'educazione
degli adulti nei limiti oggettivi che la società industriale capitalistica pone, ma, anche, nelle
contraddizioni, nei varchi che le stesse strutture sono costrette a presentare.
Tali possibilità appaiono — fin dall'età giovanile — nell'aumento della scolarizzazione e
— con riferimento all'età adulta — nell'utilizzazione degli strumenti di comunicazione, negli
investimenti dell'industria culturale e nella commercializzazione dei prodotti culturali, nella
necessità stessa di costituire strutture culturali (biblioteche, centri culturali, teatri, circuiti per
audiovisivi, musei ecc.).
Sono ben note le necessità di funzionamento che spingono la società industriale a
ridistribuire una parte minima, peraltro, della ricchezza nell'istituzione di strutture culturali; il fine
della produttività massima sollecita un intervento sul «fattore umano», sull'uomo reificato,
affinché renda al massimo delle sue possibilità.
Si tratta della stessa necessità oggettiva che, come si è visto, fu all'origine
dell'educazione degli adulti all'alba della grande industria; la logica è uguale, anche se i mezzi
sono aumentati in proporzione alle necessità di qualificazione della forza-lavoro.
Rispetto a tale logica, vi sono — per usare termini impropri, ma aderenti a spiegarsi in
poche righe — una strategia ed una tattica del movimento di educazione degli adulti nella
società industriale capitalistica, e l'una non deve mai essere confusa con l'altra.
Della prima — che identifichiamo con la politica culturale — ci occuperemo più avanti,
nell'ambito di un discorso più generale sul rapporto tra istituzioni pubbliche ed educazione degli
adulti46.
Diciamo soltanto che dobbiamo porci in modo antagonistico rispetto all'istituzione e alla
gestione delle strutture culturali; è necessario considerare, cioè, tali istituzioni non in assoluto,
come templi della cultura, ma in rapporto alla funzione liberatoria che in un determinato
ambiente e, soprattutto, in relazione ad un determinato pubblico, si pensa possano svolgere.
Non sono le stanze di riunione, o i film, o i libri, o i quadri che spalancano le porte alla
nuova cultura, ma i procedimenti, l'uso che il pubblico (un pubblico capace d'identificarsi
socialmente e politicamente) riesce a conquistare nella battaglia culturale cui la società
industriale lo impegna, in ogni momento.
La nostra tattica rispetto alle strutture culturali ci fa muovere, talvolta, come gli operai ai
primi « gradi di evoluzione» (i quali «non rivolgono soltanto i loro attacchi contro i rapporti
borghesi di produzione, ma li rivolgono contro gli stessi strumenti della produzione; essi
distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a pezzi le macchine,
incendiano le fabbriche, tentano di riacquistare la tramontata posizione dell'operaio del
Medioevo47»).
46
47
Cfr. il capitolo «Istituzioni pubbliche ed educazione degli adulti».
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 68.
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E le analogie con alcune tendenze di luddismo culturale sono trasparenti a sufficienza
perché convenga insistervi.
Una tattica fruttuosa, invece, deve consentire di porsi quotidianamente in reale
contrapposizione con le strutture condizionanti; nella misura in cui queste si propongono la
strumentalizzazione culturale (e, infatti; «ogni cosa sacra viene sconsacrata»48), l'educazione
degli adulti deve sapersi porre in rapporto operativo con le strutture culturali in modo da mutare
il loro indirizzo, da defunzionalizzarle rispetto alle finalità deformanti di partenza, da ricostruirle
come palestre di antagonismo politico, da rielaborarle quali occasioni di creatività.
Ma, detto questo, bisogna precisare che al movimento operaio non interessano, di per
sé, in assoluto e in astratto le strutture culturali, come istituzioni che, per forza propria, possano
trasformare il mondo; al massimo, esse possono giovare alla conoscenza del mondo; ma, come
sappiamo, le finalità di conoscenza e di trasformazione non sempre coincidono.
Negli equivoci, appunto, della conoscenza superficiale, le strutture culturali possono
anche risultare, al limite della mistificazione, gabbie culturalistiche, specchietti
dell'acculturazione, modesti spiragli per la nuova piccola borghesia, sfogatoi di umori
adolescenziali.
Le strutture culturali che la società industriale è costretta ad istituire interessano il
movimento di educazione degli adulti in relazione al pubblico con il quale si è scelto di operare,
in relazione cioè alla forza contestativa che il movimento operaio nel suo complesso dimostra
per mutare, nella prassi, la funzione attribuita alle istituzioni dalle agenzie del potere.
Sulla base di questa scelta fondamentale, e delle decisioni operative che da essa
conseguono, l'educazione degli adulti non deve essere coinvolta in iniziative che corrispondono
a precise necessità della società industriale capitalistica; essa è interessata — invece —
all'istituzione e alla gestione democratica di strutture culturali; ne sollecita anzi, nonostante la
natura problematica, l'impianto e il funzionamento.
Ma, anche quali operatori culturali, dobbiamo essere sempre molto cauti nell'attribuire
eccessiva importanza modificatrice alle strutture culturali, perfino a quelle che un pubblico
organizzato sia riuscito pienamente a trasformare facendo di uno strumento caduto, non a caso,
dall'alto, un proprio strumento di liberazione.
Dobbiamo sempre avere presente, infatti, che la modestia dell'intervento educativo (non
principio determinante, ma elemento inerente ad un complesso globale di fenomeni) non
permette esaltazioni fuori luogo; dobbiamo essere contrari a generalizzazioni sproporzionate
circa le valenze del lavoro culturale che possono ingenerare illusioni circa le capacità di
modificazione attraverso il solo nostro impegno.
Anche gli interventi culturali apparentemente più innovanti possono rischiare di far
rientrare nel gioco delle permissività, concesse dalle strutture economiche egemoni, lo slancio
di un gruppo, di un'ora, di un'isola in un ambiente distratto.
O, addirittura, di farlo strumentalizzare.
3.1.7 Una politica dell'educazione degli adulti
È evidente, da quanto precede, che porre il problema dell'educazione degli adulti in
relazione con la società industriale significa affrontare e tendere a risolvere esplicitamente
quello di una politica delle strutture e delle istituzioni nel campo specifico.
Ma teniamo presente che l'educazione degli adulti è soltanto la parte di un tutto che si
chiama educazione permanente; di un tutto che, globalmente, scaturisce dai rapporti di
produzione esistenti in questa società; di un movimento politico, nel senso più aperto, che si
48
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 61.
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propone di modificare l'attuale organizzazione classista, secondo linee innovatrici sempre più
largamente condivise.
Ed è da queste prospettive globali che l'argomento potrebbe essere compiutamente
affrontato.
È nostro compito, tuttavia, sollecitare l'esplicitazione di linee capaci di affrontare le
contraddizioni politiche che ognuno avverte nel campo dell'educazione degli adulti; è nostro
dovere esprimere un punto di vista circa i temi dell'educazione in età adulta, temi che —
nell'ambito della politica culturale dello schieramento democratico — ci sembra debbano essere
affrontati nella loro urgenza, nella loro specificità e, possiamo aggiungere, nella loro
drammaticità.
È inutile premettere che il nostro discorso è diretto non certo a quelle forze che all'interno
del movimento operaio già praticano educazione degli adulti attraverso tutti i mezzi reperibili e
disponibili, ma a quanti nello stesso movimento educativo, non abbiano ancora affrontato
compiutamente la questione onde promuovere, nelle presenti condizioni, una propria, lineare
azione oppositiva, onde poter opporre educazione a educazione, finalità a finalità, metodi a
metodi, strumenti a strumenti, tecniche a tecniche, onde non lasciare sguarnito un terreno
importante di lotta o, peggio ancora, come talvolta accade, onde non muoversi in modo non
riconoscibile nettamente, quando in modo addirittura mimetico rispetto alle strutture prevalenti.
In effetti, se riteniamo che nella società industriale esistano problemi di educazione
adulta in misura e in modi mai conosciuti in altre epoche, dobbiamo verificare quali sono in
proposito i nostri atteggiamenti politici.
Una domanda da rivolgerci — ad esempio — riguarda il modo in cui ci poniamo in
rapporto (e poniamo altri in rapporto) con i prodotti culturali, tra essi comprendendo non solo
quadri, libri, musica, ma la scienza e l'educazione stessa.
La risposta, verificabile nella pratica quotidiana — e non nella falsa coscienza, o nella
pura teoria —, ci indica che già nell'uso del linguaggio il nostro atteggiamento è legato ad un
rapporto feticistico ed erroneamente gerarchico; ci mostra che in molti atteggiamenti il mondo
delle idee e dei prodotti culturali è capziosamente scisso dalla condizione umana, e
realisticamente umana; ci denuncia che la nostra sollecitazione primaria ed immediata e
unidirezionale in questo rapporto non è di spiegare l'uomo al prodotto, ma il prodotto all'uomo;
non è di conoscerci per trasformarci, ma di conoscere la qualità della nostra contemplazione.
Altre domande potremmo porci, ed una esemplificazione estremamente lunga potrebbe
corredare queste osservazioni che non intendono farci entrare nella casistica o nell'aneddotica
dei nostri atteggiamenti e comportamenti quotidiani; esse tendono soltanto a richiamare
l'attenzione, a riflettere, sulla considerazione che, nella pluralità delle culture politiche, spesso
scegliamo proprio quelle più respingenti, meno progressive, incapaci di avviare processi
educativi liberatori.
Con un'affermazione che forse può scandalizzare, potremmo dire che nella pratica
dell'educazione nell'età adulta siamo ancora ad un livello politico premoderno.
Nel nostro settore, non è ancora avvenuta, in senso proprio, la rivoluzione pedagogica
che ha visto nell'educazione dell'età infantile il rovesciamento di prospettiva: dal bambino
oggetto al bambino soggetto di educazione49.
Se è vero che anche per i problemi dell'educazione nell'età infantile la rivoluzione
pedagogica non è ancora compiuta nei fatti (le strutture scolastiche, le strutture sociali
condizionate non riescono a liberare tutte le energie latenti), possiamo dire che per i temi
dell'educazione nell'età adulta la rivoluzione andragogica non è neppure iniziata, almeno in via
diretta.
Non solo nella pratica quotidiana, dove le pigrizie (usiamo eufemismi) e i
condizionamenti possono giocare brutti scherzi, ma nelle stesse impostazioni teoriche — dove
si ritiene di godere d'un margine maggiore di distacco —, talvolta esprimiamo o ascoltiamo
49
Cfr. capitolo “prospettive dell’educazione degli adulti”, quando riprenderemo questo problema, a proposito dei
compiti e delle prospettive dell'educazione degli adulti, sulla base di alcune osservazioni di L. Borghi
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affermazioni che comprovano questa drammatica realtà che postula con urgenza un
cambiamento.
A causa di questa nostra arretratezza di concezioni, a causa di questa rivoluzione
mancata, nella prassi educativa degli adulti ci troviamo sprovveduti.
E chiedersi il perché di tale mancato sviluppo politico, nonostante la spinta a cambiare
che proviene dal movimento operaio, significa compiere un'autoanalisi indispensabile quanto
impietosa.
Oggi molto appare, almeno teoricamente, più comprensibile; ma a nulla può servire una
chiarezza astratta e non verificabile; a nulla, evidentemente, ai fini di una rivoluzione
andragogica.
È necessario che l'educazione degli adulti, come movimento in estensione di forze e di
possibilità d'intervento, colga l'occasione che i motivi di sviluppo emergenti offrono.
È urgente che essa non spieghi se stessa, la propria necessità di esistere in relazione al
passato, ma in vista di nuove prospettive, che essa trovi — al limite — il modo di contribuire al
proprio annullamento in una società diversa.
Sono discorsi molto evidenti anche nella pratica, come può verificare ogni operatore
culturale nel proprio lavoro quotidiano, nel rapporto con operai e contadini.
Manca, tuttavia, la possibilità di utilizzare pienamente metodi e strumenti; manca un
rapporto sostanziale che può essere impostato su nuove basi soltanto attraverso
quell'innovazione dell'educazione degli adulti che i tempi richiedono.
Si tratta di un'innovazione per la cui realizzazione la nostra società può giovarsi del
contributo degli operatori culturali stessi, delle istituzioni e delle associazioni che hanno
introdotto e impostato in Italia finalità e metodi dell'educazione degli adulti, dell'università che
oggi inizia ad interessarsi in modo più sistematico al problema.
Ma una rivoluzione andragogica - che, in ogni campo, porti realmente a spostare il
discorso dall'adulto come oggetto all'adulto come soggetto educativo —, potrà essere realizzata
nella società industriale soltanto dal movimento operaio, nella coerenza del proprio impegno
politico, della sua storia e delle sue prospettive.
Attraverso le sue strutture organizzative di partito e di sindacato.
Attraverso una politica esplicita e verificata dell'educazione agli adulti.
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3.2 Il Lavoro e problemi educativi dell'età adulta
3.2.1 Le valenze creative del lavoro
Come diceva Engels nella Dialettica della natura, il lavoro è la fonte di ogni ricchezza,
accanto alla natura che offre al lavoro la materia greggia che esso trasforma in ricchezza.
«Ma il lavoro — soggiungeva Engels — è ancora infinitamente più di ciò.
È la prima, fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal punto, che
noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso uomo...»50.
Esaminando lo sviluppo dell'uomo da un'ipotesi che permette di vedere l'interazione tra
bisogni e sviluppo delle capacità umane di soddisfarli, siamo indotti a considerare i problemi
educativi dell'età adulta da un'angolazione propria, specifica, coerente.
L'esigenza di ricollocare i temi educativi nell'ambito di un'impostazione che sottolinei le
valenze creative del lavoro, scaturisce dal rifiuto di una pratica impropria che tende a scindere il
lavoro dalla realtà formativa, ad isolare la considerazione del lavoro — preso soltanto come
«fattore» assieme ad altri — dalla globalità dei processi educativi, sminuendo il rilievo
sostanziale e primario del lavoro stesso.
Sul ceppo tutt'altro che vitale di una siffatta diminuzione germinano, necessariamente,
orientamenti troppo contraddittori perché sia possibile utilizzarli in senso innovativo.
Seguendo tali indirizzi, da una parte ci troviamo talvolta ad orientarci sulla base di un
privilegiamento agnostico dell'intervento educativo, posto come esterno alle realtà conflittuali
che scaturìscono proprio dalle condizioni materiali, dai rapporti di produzione e — infine — dai
processi educativi di questa realtà.
Dall'altra, saremmo spinti a dover prescindere dalle valenze educative globali, ed a
considerare soltanto alcuni aspetti relativi al livello occupazionale, rivendicativo, economicistico,
ma non in riferimento alle valenze creative del lavoro stésso.
Chiedersi il perché di tali impostazioni significa ripercorrere l'iter storico, dalle origini,
dell'educazione degli adulti e valutare — come si è accennato — la sua ambiguità strutturale;
tale analisi può agevolmente condurre a comprendere il ruolo di ausilio alla conformità che essa
50
F. Engels, Dialettica della natura, Roma, Rinascita, 1955, pp. 162-167. Come nota M. A. Manacorda, II
marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 129: «L'interesse che essa presenta per la pedagogia
risiede, oltre che per il rapporto che vi si istituisce tra dialettica e scienze naturali, anche per il tentativo di
collocare lo sviluppo dell'uomo, e con esso, ovviamente, il problema dell'educazione, in una prospettiva in cui
storia naturale e storia umana vengono considerate unitariamente». Per determinare il senso educativo del
lavoro nella società capitali stica, tener presente quanto scriveva lo stesso Engels ne La situazione della classe
operaia in Inghilterra cit., pp. 138-140: «Non c'è quindi neppure da meravigliarsi se gli operai, trattati come
bestie, o divengono veramente tali o riescono a conservare la coscienza e il sentimento della propria umanità
soltanto mediante l'odio più ardente, mediante una perpetua rivolta interna contro la borghesia dominante. Essi
sono uomini soltanto fino a che provano ira contro la classe dominante; diventano bestie non appena si adattano
pazientemente al loro giogo cercando soltanto di rendersi piacevole la vita sotto il gioco, senza voler spezzare il
giogo stesso. Questo è dunque tutto ciò che la borghesia ha fatto per educare la classe operaia...». Ne La sacra
famiglia, K.Marx e F. Engels definendo il proletariato come «partito della distruzione*, affermavano che esso
«non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della
società attuale, che si riassumono nella situazione. Esso — aggiungevano — non frequenta invano la dura, ma
temprante scuola del lavoro»; cfr. La sacra famiglia, ovvero Critica della Critica critica. Contro Bruno Bauer e
Consorti, Roma, Rinascita,1954, pp. 39-41. A. Gramsci rilevava: «Quanto più il proletariato si specializza in un
gesto professionale tanto più sente la necessità dell'ordine, del metodo, della precisione, tanto più sente la
necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo
stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dovelavora...» (in «L'Ordine Nuovo»,
21 febbraio 1920).
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ha assunto e può assumere oggettivamente quando ci si rifiuti di individuare una specificità al
suo operare.
Sembra evidente che tale specificità non può essere definita distaccando il lavoro dai
processi formativi e accentrando l'attenzione prevalentemente sui temi, le strutture, le modalità,
gli strumenti educativi in senso stretto.
Ad esempio, considerando l'educazione degli adulti quale un meccanico prolungamento
della scuola molto difficilmente si possono enucleare linee d'intervento specifiche.
E ciò non solo perché a livello psicologico altri sono i problemi delle età infantile o
adolescenziale e altri sono quelli relativi alle età adulte; non solo perché a livello sociologico i
giovani hanno, nella nostra realtà, il loro epicentro di apprendimento nella scuola come
istituzione delegata alla formazione, mentre gli adulti hanno il loro nucleo essenziale nel lavoro
come impegno produttivo, ma perché il lavoro, considerato quale farsi dell'uomo, impregna delle
proprie valenze educative la società nel suo complesso, e cioè nelle sue diverse stagioni
esistenziali, nei rapporti familiari e sociali, nella dinamicità del suo continuum e delle sue
interrelazioni.
Se nell'ultimo quindicennio il concetto di educazione permanente è valso a spezzare
l'illusione di comodo che la vita fosse divisibile in due tronconi: quello della scuola e quello del
lavoro, non dobbiamo ritenere che il prolungamento della prima, sotto forma di educazione
permanente, sia di per sé in grado di risolvere i problemi dell'innovazione per un
soddisfacimento dei bisogni e dei motivi di sviluppo.
Al limite questa nuova illusione può produrre equivoci ancora più gravi; ad esempio
quello di teorizzare la necessità di occupare istituzionalmente ogni momento della giornata
dell'operaio ad uso, magari, della sua promozione individuale.
Bisogna guardarsi, insomma, da una tendenziale forma di mistificazione qual'è quella di
trasferire immediatamente alcuni valori e pratiche dal campo dell'età scolare a quello dell'età
adulta, come se in tal modo, per via soltanto o preminentemente educativa, si potessero
superare le differenze che esistono tra una visione preminentemente pedagogica ed una realtà
ben più articolata, tra i contenuti di un'istituzione come quella scolastica e quelli di una fabbrica.
È necessario, invece, il contrario: assumere tutte le valenze creative del lavoro e riferirsi
costantemente ad esse non solo in relazione ai problemi educativi dell'età adulta, ma a quelli
dell'età infantile e adolescenziale.
Per chiudere il circolo delle petizioni di principio dobbiamo partire dai rapporti di
produzione.
3.2.2 Le condizioni alienanti del lavoro
Soltanto assumendo con coerenza questo punto di vista ci è possibile individuare i limiti
dell'intervento educativo e il senso della sua potenzialità per contribuire ad una modificazione.
I limiti scaturiscono nella società dal «lavoro alienato», dalla «divisione capitalistica del
lavoro».
Anche «noi partiamo da un fatto economico, attuale»51 con il Marx dei Manoscritti,
evitando di «trasferirci come l'economista politico, quando vuole spiegarsi, in un inventato stato
originario» perché «Un tale stato originario non spiega niente.
Sposta semplicemente la questione in una grigia nebulosa lontananza»52.
«L'operaio — constatava, dunque, Marx — diventa tanto più povero quanto più produce
ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione.
L'operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci.
51
52
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 194.
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 194.
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Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione
del mondo degli uomini.
Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una
merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere»53.
Ma l'alienazione non si mostra solo nel risultato, nel rapporto coi prodotti del suo lavoro,
«bensì anche nell'ago della produzione, dentro la stessa attività producente.
Come potrebbe l'operaio confrontarsi come un estraneo col prodotto della sua attività, se
egli non si è estraniato da se stesso nell'atto della produzione stessa?
Il prodotto — risponde Marx — non è che il résumé dell'attività, della produzione.
Se, dunque, il prodotto del lavoro è la espropriazione, la stessa produzione dev'essere
espropriazione in atto, o espropriazione dell'attività, o attività di espropriazione»54.
L'espropriazione del lavoro consiste in questo: «che il lavoro resta esterno all'operaio» (e
cioè: «l'operaio non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice,
non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo
spirito»)55; in secondo luogo, che il lavoro dell'operaio «non è volontario, bensì forzato, è lavoro
costrittivo» («Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo
per soddisfare dei bisogni esterni ad esso»)56; infine, «L'esteriorità del lavoro al lavoratore si
palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in
esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro»57.
«Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni
bestiali» che «sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell'astrazione che
le separa dal restante cerchio dell'umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici»58.
Oltre al rapporto dell'operaio col prodotto del lavoro e a quello con l'atto di produzione nel
lavoro, vi è una terza caratteristica del lavoro alienato:
«Poiché il lavoro alienato 1) aliena all'uomo la natura, e 2) aliena all'uomo se stesso, la
sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all'uomo il genere; gli riduce così la vita
generica ad un mezzo della vita individuale.
In primo luogo estrania l'una all'altra la vita generica e la vita individuale, in secondo
luogo fa di quest'ultima nella sua astrazione lo scopo della prima, parimenti nella sua forma
astratta e alienata»59.
Proseguendo, Marx si chiede: «Se il prodotto del lavoro mi è estraneo... Se la mia
propria attività non mi appartiene... a chi appartiene allora?»60.
E risponde: «A un ente altro da me» che non è la Divinità e «Tanto meno la natura»;
poiché, aggiunge, «il rapporto dell'uomo a se stesso è aggettivo e reale soltanto per il rapporto
dell'uomo agli altri uomini»61, quando egli sta in rapporto «al prodotto del suo lavoro, al suo
lavoro oggettivato, come ad un oggetto estraneo, nemico, possente, da lui indipendente, sta in
rapporto ad esso così perché un altro uomo, a lui estraneo e nemico, possente, indipendente
da lui, è il padrone di questo oggetto.
Quando egli si riferisce alla sua propria attività come ad un'attività non libera, si riferisce
a essa come ad un'attività al servizio, sotto il dominio, la costrizione e il giogo di un altro
uomo»62.
Aggiunge, quindi, che «Attraverso il lavoro alienato l'uomo non istituisce, dunque,
soltanto il suo rapporto con l'oggetto e con l'atto della produzione come con un uomo estraneo
53
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 194.
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197.
55
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197.
56
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197.
57
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197.
58
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197.
59
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 199.
60
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 201.
61
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 201.
62
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 202.
54
Pagina 31 di 185
e nemico, ma istituisce anche il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e il suo
prodotto, ed il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini...»63, fino a definire la proprietà
privata come «il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato»64.
«Abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro espropriato (della vita espropriata)
dall'economia politica come risultato del movimento della proprietà privata.
Ma — spiega Marx — nell'analisi di questo concetto si mostra che, mentre la proprietà
privata appare come ragione e causa del lavoro espropriato, essa è piuttosto una conseguenza
di quest'ultimo, così come gli Dei sono in orìgine non causa ma bensì effetto dello smarrimento
dell'intelletto umano.
Poi questo rapporto si rovescia in un effetto reciproco.
Solo all'ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata questa mostra di
nuovo in risalto il suo segreto: cioè che, da una parte, essa è il risultato del lavoro espropriato, e
secondariamente ch'essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di questa
espropriazione»65.
Il manoscritto sul lavoro alienato, sul finire, presenta, tra l'altro, un problema:
«Noi — si afferma — abbiamo accettato l'alienazione del lavoro, la sua espropriazione,
come un fatto e abbiamo analizzato questo fatto: ci chiediamo ora come l'uomo giunga a
questo, a espropriarsi del suo lavoro, a estraniarsi da esso»66.
Nell'Ideologia tedesca, l'alienazione viene spiegata attraverso l'esame della divisione del
lavoro, dalla «concreta indagine storico-economica dell'evoluzione della forma sociale in cui con
oggettiva necessità si esprime l'attività collettiva degli uomini...»67.
Occupandosi dello sviluppo della coscienza come «prodotto sociale» che «tale resta fin
tanto che in genere esistono uomini»68, Marx afferma che la «coscienza da montone o tribale
perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell'accresciuta produttività,
dell'aumento dei bisogni e dell'aumento della popolazione che sta alla base dell'uno e dell'altro
fenomeno.
Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione del
lavoro nell'atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o "
naturalmente" in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del
caso, ecc.
La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una
divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale...»69; «... con la divisione del lavoro si da la
possibilità, anzi la realtà, che l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la
produzione e il consumo tocchino a individui diversi...»70; «La divisione del lavoro, che implica
tutte queste contraddizioni... implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la
ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la
proprietà...»71.
«Del resto — specifica più avanti — divisione del lavoro e proprietà privata sono
espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento al prodotto dell'attività esattamente
ciò che con l'altra si esprime in riferimento al prodotto dell'attività»72.
63
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 202.
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 202.
65
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 202-203.
66
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 204.
«Questo problema il giovane Marx non lo risolse né nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, né nella
successiva Sacra famiglia, scritta insieme con Engels», nota Jurij Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino, Einaudi,
1966, p. 66.
67
Jurij Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino, Einaudi, 1966, p. 67.
68
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 21.
69
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 21
70
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 22
71
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23
72
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23
64
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Un altro aspetto da considerare circa la divisione del lavoro è che con essa «è data
altresì la contraddizione fra l'interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l'interesse
collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste
puramente nell'immaginazione, come «universale», ma esiste innanzi tutto nella realtà come
dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso.
Appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l'interesse
collettivo prende una configurazione autonoma come Stato»73 che è separato dai reali interessi
singoli e generali ma sempre sulla base reale di legami esistenti, «e soprattutto... sulla base
delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni
raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre...»74.
«Appunto perché gli individui cercano soltanto il loro particolare interesse, che per loro
non coincide col loro interesse collettivo, questo viene loro imposto come un interesse
"generale", anch'esso a sua volta particolare e specifico...»75.
E infine conclude Marx: «la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che
fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale» fin tanto che l'attività è divisa non
volontariamente ma naturalmente, l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui
estranea, cioè: «appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività
determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire»76.
La divisione del lavoro, questo «fissarsi dell'attività sociale, questo consolidarsi del nostro
proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta» è stato — dice Marx — «uno dei
momenti principali dello sviluppo storico», momento che può essere superato; (dirà più avanti:
«soltanto sotto due condizioni pratiche»).
Ma vogliamo sottolineare il fatto che nell'attuale fase, in cui la cooperazione stessa non è
volontaria ma naturale: «Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine
attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a
questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro
proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale
essi non sanno donde viene e dove va...»77.
È stato sottolineato78 che nell'Ideologia tedesca, l'«alienazione» è dedotta dalla
«cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro».
La sua causa è individuata in ciò che «la cooperazione stessa non è volontaria ma
naturale».
Ed è stato ricavato che «il problema del "superamento" di questa alienazione trapassa
nel problema dell'organizzazione di una cooperazione degli uomini che si determini non per
forza di natura, ma in modo volontario, consapevole e pianificato».
Marx aveva indicato che l'«estraniazione» «può essere superata soltanto sotto due
condizioni pratiche.
Affinché essa diventi un potere "insostenibile", cioè un potere contro il quale si agisce per
via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell'umanità affatto "priva di proprietà"
e l'abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura,
due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado
del suo sviluppo... presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso
si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per
il necessario...»79.
73
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23.
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23.
75
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23
76
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 24.
77
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 24
78
Da Davydov, op. cit., p. 67.
79
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, pp. 24-25.
74
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D'altra parte è stato notato80 che «finché della forma sociale d'attività degli individui si
"appropriano" gruppi sociali più o meno cospicui — le "classi" —, questi organizzano tale attività
in modo che essa continui a garantire il loro dominio...», e che «finché lo strato degli uomini
che, in modo consapevole o no, si "appropriano" della forma sociale d'attività degli individui (e la
"organizzano" conformemente) non coincide con tutta la società nel suo complesso, si ha
un'opposizione degli interessi di chi svolge un immediato lavoro e di chi si serve dei risultati
dell'attività lavorativa degli individui, determinando la forma di quell’ “opera" comune in cui
questi risultati necessariamente sfociano.
Il problema si riduce, quindi, a determinare quale classe sociale si "appropria" dei risultati
generali dell'attività dei produttori e in quali condizioni sociali se ne "appropria"».
Quanto dire, secondo questa inter-pretazione, che il problema non sta tanto nel controllo
della forza produttiva sociale, «quanto nella forma sociale in cui questo controllo si realizza, il
problema è se una data forma sociale rende possibile un controllo di massa — di tutto il popolo
— della forza produttiva di massa oppure no.
Poiché soltanto nel caso in cui questo controllo sia realizzato da tutti gli individui
partecipanti alla produzione sociale, ne possono trarre vantaggio tutta la società nel suo
complesso e ogni suo membro».
Ovvero, come dirà Lenin, si tratta di «stabilire l'unico controllo veramente reale, dal
basso, attraverso l'unione dei dipendenti, attraverso gli operai»81.
A questo punto, chiedersi come o in che misura «gli stessi individui sono preparati — o
possono essere preparati — dallo sviluppo oggettivo a realizzare questo controllo veramente di
massa e veramente democratico della propria produzione e delle proprie relazioni» significa
considerare tale questione come si presenta a Marx, quale «problema delle tendenze di
sviluppo della divisione del lavoro sociale e delle prospettive di formazione della persona
totalmente sviluppata»82.
«Questo motivo ritorna in tutto il corso della ricerca marxista, riproponendo formulazioni
analoghe e sempre ricorrenti, in cui all'uomo unilaterale (ovvero, disumanizzato, alienato,
estraniato, diviso, parziale, isolato, localmente limitato, privato della propria natura, spogliato di
ogni reale contenuto di vita, posto fuori di sé, escluso da ogni manifestazione personale,
appropriato a una funzione unilaterale, annesso a una operazione di dettaglio, sussunto sotto
rapporti di classe determinati, smembrato, tìsicamente spezzato e spiritualmente abbrutito,
ridotto a frammento del suo stesso corpo, rattrappito, minorato, subordinato servilmente, ecc.)
si contrappone l'uomo onnilaterale (ovvero universale, totale, multilaterale, sviluppato
completamente, pienamente, liberamente, in tutti i sensi, ecc.)»83.
Se Marx esamina il problema suesposto esprimendo «una soluzione positiva»84; se è
vero che «la pedagogia si presenta come forma e metodo della reintegrazione dell'uomo nel
lavoro, in opposizione a un lavoro che ha diviso l'uomo»85, si tratta di studiare le determinazioni
attuali di tali fondamentali questioni per quanto riguarda l'educazione nell'età adulta.
L'importante è muovere dalla consapevolezza che i limiti e il senso della potenzialità
dell'intervento educativo per contribuire ad una modificazione sono strettamente correlati al
lavoro e ai suoi problemi nell'ambito di una società industriale a struttura capitalistica.
Il dato fondamentale da tener sempre presente consiste nella realtà dei rapporti di
produzione che per l'adulto (ma non solo per l'adulto) si presenta con precise valenze
educative, permeando della sua globalità formativa tutti gli aspetti e i momenti dell'esistenza.
80
Cfr. J. Davydov, op. cit, p. 71.
V.I. Lenin, Socinenija (Opere complete), Moskva 1957-63, vol. 25, pp. 328-29; cit. in J. Davydov, p. 110.
82
J. Davydov, op. cit, p. 73.
83
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 9.
84
J. Davydov, op. cit, p. 73.
85
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 9.
81
Pagina 34 di 185
3.2.3 Le condizioni alienanti del cosiddetto «tempo libero»
Accanto all'equivoco di considerare l'educazione degli adulti quale un meccanico
prolungamento del periodo scolastico, astraendola dalle condizioni del lavoro e privilegiando
una sua presunta agnosticità formativa, sussiste un altro equivoco che assume mistificanti
coloriture pedagogistiche: quello del cosiddetto «tempo libero».
Tale equivoco ha la propria orìgine dal rapporto conflittuale tra i risultati positivi raggiunti
dal movimento operaio nelle sue lotte per la diminuzione delle ore di produzione in fabbrica e la
tendenza di segno opposto ad impegnare tali spazi nell'orbita dell'accumulazione, della
produttività, dell'autoconservazione del sistema.
Si tratta di un rapporto estremamente problematico che nella fase e nella situazione
attuali non ha possibilità di risoluzione di per sé perché esso rispecchia l'opposizione classista
di base; l'opposizione tra lavoro e «tempo libero» come tra diverse pratiche e concezioni del
«tempo libero» stesso deve essere quindi esaminata e valutata all'interno di una struttura
sociale e politica antagonistica.
Se, quindi, deve essere attribuito un valore progressivo alla diminuzione delle ore
lavorative in fabbrica, non può essere assegnato, immediatamente, valore progressivo al
«tempo» che viene definito «libero».
Si tratta di valutarne il valore nell'uso che nelle attuali strutture, qui e oggi, viene
effettuato.
È stato scritto86, ad esempio, che vivere il «tempo libero» come l'antitesi assoluta del
lavoro è soltanto una illusione compensatrice perché il «tempo libero» resta segnato dal lavoro
non solo per la fatica quotidiana, ma anche per una tale ricerca dell'insignificanza, per una tale
sottomissione a ogni genere di determinazioni esteriori che l'atteggiamento nei confronti del
«tempo libero» diviene identico a quella verso il lavoro: passività, irresponsabilità, conformismo,
inserimento in una gigantesca macchina; in questo modo, ciò che si ritiene sia contestazione
delle condizioni di lavoro risulta essere invece una giustificazione involontaria di ciò che si è
subito per necessità nel corso della situazione di lavoro.
A noi sembra che un'analisi che muova prevalentemente dal sentimento del «tempo
libero» non possa condurci molto lontano, alla ricerca di interventi educativi capaci di
contrastare non il sentimento del «tempo libero», ma la realtà classista che è causa dei
processi formativi alla passività, all'irresponsabilità, al conformismo, all'inserimento nella
gigantesca macchina del lavoro e del «tempo libero» alienati.
Dobbiamo, peraltro, rilevare che sono proprio analisi soggettivistiche di analoga
drammaticità e provenienza (sono, infatti, quelle analisi che tendono a considerare il «tempo
libero» quale «un fenomeno al disopra delle distinzioni di classe e di regime» e che, pertanto,
sono portate a ritenere che «un'analisi di classe non ci porterebbe lontano», magari
appoggiandosi surrettiziamente sulla non totale risoluzione del problema nelle società
socialiste87) a incentivare un flusso di equivoci pericolosi nella catena produttiva della falsa
coscienza.
Cosi, ad esempio, può accadere che nel momento in cui si drammatizzano i guasti del
«tempo libero», la drammaticità della denuncia si capovolge nel grottesco, poiché al fenomeno
si attribuisce una valenza positiva in quanto esso attuerebbe «una nuova corrente di valori,
nuove correnti di assimilazione, al di fuori dei rapporti tradizionalmente legati alla divisione del
lavoro»88.
Ora a noi sembra evidente che se di fronte all'ampia fenomenologia dell'industria e del
commercio del divertimento riusciamo ad individuare aspetti positivi, questi non sono attribuibili
ali'«offerta», ma alla contestazione di tale offerta da parte delle forze, associate o individuali,
86
Cfr. J.-M. Domenach, Loisir et travaii, in «Esprit» n. 274 ( giugno 1959), p. 1104
Ivi, p. 1104: «II s'agit plutót d'un phénomène qui, par dessous les ilistinctions de classe et de regime, pénètre les
mentalités...».
88
Ivi, p. 1104.
87
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che nei confronti del «tempo libero» alienato si comportano come nei confronti del lavoro
alienato.
Quanto dire, appunto, che il fenomeno di per sé non è neppure valutabile, se non lo
poniamo in rapporto all'uso che siamo capaci di farne.
Ma, ovviamente, tale uso non è valutabile in termini moralistici, perché questi sono gli
sbocchi inevitabili delle analisi che o prescindono dalla realtà dei rapporti di produzione o la
aggirano cercando scorciatoie pedagogistiche.
Risultano essere inutili, ad esempio, quelle multiformi, sebbene analoghe, concezioni e
pratiche del «tempo libero» che, dal più al meno, tendono a distaccare il «momento» del lavoro
dal «momento» del «tempo libero», quasi ponendosi di fronte ad una globalità di situazione con
l'orologio alla mano, con la pseudoconcreta praticità di chi ritiene di poter ricomporre l'unità
dell'operaio sul quadrante del tempo, frazionando le ventiquattro ore quotidiane negli spicchi del
lavoro, del «tempo libero», del riposo ecc.
Il risultato, ovviamente, non è la ricostituzione dell'individuo per sé e nella società
progressiva, ma la sua restaurazione per la produttività nel «lavoro alienato».
In sostanza, queste concezioni e pratiche, pur ammantate di nobili propositi, tendono
scientemente o inconsapevolmente a estendere alla giornata intera dell'operaio il controllo del
cronometrista, lo Scientific Management del taylorismo.
Esse sono inutili, dicevamo, in relazione ad una finalità opposta all'«organizzazione del
surmenage»; finalità che non può essere raggiunta sia perché, in generale, la divisione del
tempo è analoga alla divisione del lavoro, ma anche perché nessuna singola iniziativa di
«tempo libero» che prescinda, per scissione, dal «lavoro alienato» può avere reali prospettive di
sviluppo, neppure nella sua specificità promozionale.
Cosi, non solo le passività dello svago, le diversioni del divertimento ci appaiono chiuse
in se stesse, schiacciate al recupero delle forze psico-fisiche, ma anche le attività culturali non
possono avere altro respiro al di là di se stesse.
Certo questa della cultura fine a se stessa è stata una concezione storica della borghesia
illuminata, ma per valutarne la portata educativa attuale è necessario porre in relazione tale
ideologia con una realtà da trasformare in molti, più che da godere in pochi.
D'altra parte, pur volendo accentrare l'attenzione sul gioco, non possiamo fare a meno di
tener conto delle considerazioni negative che Huizinga89 svolgeva rispondendo alla domanda:
«Il secolo precedente, a nostro vedere, aveva sacrificato molti di quegli elementi ludici che
distinsero tutti i secoli anteriori.
Orbene, si è ristabilito quel deficit, o è aumentato invece? ».
Rispetto ad un aumento nel nostro secolo di questo deficit, causato — anch'esso — dalla
«funzione sommamente rivoluzionaria» della borghesia che «ha distrutto tutte le condizioni di
vita feudali, patriarcali, idilliache» che «ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi
fremiti dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalieresco»90, nessuno può fingere — se
non per tornaconto - che alcunché possa essere autonomo, non interrelato, in un sistema tanto
complesso quanto compiuto quale il presente.
Rifletteremo ancora su tali problemi, ma intanto ciò che intendevamo sottolineare era il
fatto che neppure l'attività culturale apparentemente più disinteressata può sussistere
positivamente quando sia considerata e praticata illusoriamente come distaccata o distaccabile
dal «lavoro alienato».
Tali concezioni e pratiche, dunque, si rivelano per essere non solo inutili, ma nocive al
superamento delle condizioni alienanti del lavoro e del «tempo libero» nella misura, almeno, in
cui distraggono dai problemi storici e rallentano i processi di acquisizione di consapevolezza, di
controllo e di dominio sui fenomeni in atto e in fieri.
E ciò non per una scelta volontaristica, ma perché oggettivamente il «tempo libero», da
un punto di vista educativo, è il frutto ideologico di una realtà di rapporti di produzione in cui il
89
90
J. Huizinga, op. cit, pp. 241-247.
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 59.
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lavoratore è forza-lavoro; in cui questa capacità produttiva viene sviluppata — non ai fini
dell'interesse collettivo — in ogni frazione di secondo dell'esistenza lavorativa, e con ogni
mezzo; in cui il capitale variabile rappresentato dalla forza-lavoro deve rendere direttamente o
indirettamente plusvalore per la costante crescita del profitto; in cui il «tempo libero» è in realtà
un modo di produzione — magari sub specie consumistica — in una realtà globale
onnilavorativa 91.
Le determinazioni marxiane possono esserci utili per operare verso il superamento delle
false antinomie: «
1)
Il libero sviluppo delle individualità, e quindi non la riduzione del tempo di
lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in generale la riduzione del
lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la
formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo
divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro".
2)
"La vera economia — il risparmio — consiste nel risparmio di tempo di lavoro
(il minimo - e la riduzione al minimo — delle spese di produzione); ma questo
risparmio è identico allo sviluppo della forza produttiva. Quindi per null'affatto la
rinuncia al godimento, ma sviluppo di power, sviluppo della capacità produttiva
e quindi sia delle capacità che dei mezzi di godimento".
3)
"II risparmio di tempo di lavoro equivale all'aumento del tempo libero, cioè del
tempo utilizzabile per il pieno sviluppo dell'individuo che come massima forza
produttiva a sua volta reagisce sulla produttività del lavoro. Dal punto di vista
del diretto processo produttivo esso può essere considerato come produzione
di capitale fisso; questo capitale fisso being man himself".
4)
"È evidente che il tempo di lavoro immediato non può restare nella astratta
opposizione al tempo libero in cui si pone dal punto di vista dell'economia
borghese... Il tempo libero, che è sia tempo per l'ozio sia tempo per un'attività
superiore, ha trasformato naturalmente chi ne dispone in un diverso soggetto,
e come diverso soggetto esso entra anche nel diretto processo produttivo"»92.
Il problema, dunque, per noi è come contribuire nelle attuali condizioni alienanti del
lavoro e del «tempo libero», in una realtà onniproduttiva, nei limiti dell'intervento educativo,
all'instaurarsi di una forma sociale in cui, capovolgendo gli attuali rapporti, «capitale fisso being
man himself», lavoro e tempo libero siano al servizio dell'uomo onnilaterale.
3.2.4 Valenze educative nei problemi attuali del lavoro
Il primo impegno per individuare gli sbocchi e i campi d'intervento dell'educazione degli
adulti, di fronte alla sfida negativa che le attuali condizioni presentano, è quello teso a
individuare le condizioni attuali e locali del lavoro, nell'ambito dei processi di sviluppo e delle
loro contraddizioni.
Nell'analisi di tali condizioni, nelle particolarità dei vari settori, l'impegno sarà indirizzato
ad enucleare le valenze educative di ciascuna realtà di rapporti e di modi di produzione, con i
riflessi che tali condizioni hanno nei rapporti sociali e politici, e, quindi, le valenze educative
globali che scaturiscono dalle condizioni di lavoro, o di non lavoro.
E’ evidente che queste valenze educative sono insite nei rapporti in parola, e non sono
manifeste e tanto meno dichiarate; vanno enucleate e rivelate alla luce del sole affinché i
processi formativi per l'età adulta, che vengono posti in essere dal sistema, divengano leggibili
come i programmi stabiliti per le età scolari.
91
92
Cfr. il capitolo «Pubblico, prodotti culturali e intervento educativo».
Cfr. J. Davydov, op. cit, pp. 126-127.
Pagina 37 di 185
E come a questi — e alle loro attuazioni — è possibile attribuire un significato rispetto al
fine che si propongono, così è essenziale per noi, e deve esser reso possibile concretamente,
l'individuare il senso formativo, e il fine, di fenomeni e situazioni che non sono direttamente
formativi, come quelli inerenti alle strutture scolastiche, ma che sostanzialmente hanno un
rilievo di formazione sociale globale.
È, peraltro, dal controllo di questa realtà di formazione sociale globale che si possono
valutare le strutture educative formali; queste traggono i modi della loro esistenza dall'articolarsi
dei rapporti di produzione.
Uno dei compiti essenziali dell'educazione degli adulti è, quindi, quello di estrarre, nel
lavoro pratico e nella riflessione sulle esperienze, i significati educativi delle situazioni e dei
problemi attuali del lavoro.
È evidente che essi sono compresi nelle analisi economiche, inclusi come sono nelle
realtà strutturali.
Ma si tratta di estrapolarli storicamente, localmente, nella loro specificità formativa.
Si tratta, cioè, di comprendere, nel loro realizzarsi quotidiano, i metodi che consentono la
formazione della forza-lavoro in quanto tale, che garantiscono il consenso o che permettono di
riassorbire il dissenso, che assicurano trasformazioni culturali nei temi più custoditi, che
facilitano il permanere nonostante tutto delle possibilità di sfruttamento nei termini più
inconcepibili, che legittimano l'emarginazione di individui, di gruppi, di popolazioni.
Si tratta in altre parole di comprendere i metodi, le tecniche, gli strumenti, le stesse
strutture che, al di là dell'occasione lavorativa, proiettano il rapporto di lavoro in una dimensione
formativa prospettica che vale, appunto, per la produzione di uomini-lavoratori93, oltre che per la
produzione di oggetti; che vale per il pluslavoro di domani, oltre che per il plusvalore di oggi.
Si tratta, per converso, di recepire le valenze educative dell'organizzarsi, dell'operare, del
lottare del movimento operaio.
Ma, qui, rispetto a finalità antagonistiche, il compito dell'educazione degli adulti è quello
di enucleare, comprendere, valutare le procedure e i modi di affermazione del controllo,
dell'opposizione, dell'emergere e dello strutturarsi delle prospettive alternative alle attuali
condizioni di lavoro.
Il passato e il presente delle strutture organizzative operaie e contadine sono una miniera
di iniziative creative volte a formare nella lotta e in vista della lotta; è necessario studiare nella
situazione specifica la rispondenza delle iniziative ai bisogni formativi che l'articolazione della
risposta operaia alle nuove forme di sfruttamento rende sempre più complessi e impegnativi.
Nello stesso tempo, bisogna farsi carico dell'analisi rispetto alle valenze educative che
posseggono le attività non esplicitamente e non direttamente formative.
In particolare, appurare se, come, perché la contestazione operaia alla pressione
padronale risulta essere globalmente antagonistica, ovvero se oppositiva soltanto limitatamente
al settore e al momento; ciò per definire il senso Ideologico delle valenze educative, la loro
rispondenza alle finalità globalmente e prospettivamente liberatorie secondo la tradizione del
movimento operaio.
Uscendo dagli apprezzamenti generici o autoesaltanti, impegnarsi per individuare i
metodi, le tecniche, gli strumenti che impediscono passi indietro e che, invece, producono un
«diverso soggetto» capace di contribuire all'instaurarsi di nuove forme sociali.
Sembra evidente che soltanto definendo prioritariamente le valenze educative delle
condizioni di lavoro e dell'opposizione a tali condizioni è lecito porsi prospettive concrete
d'intervento educativo nell'età adulta nel settore specifico del «lavoro culturale», come — del
resto — in quelli sindacale e politico.
93
Marx scriveva che «l'uomo, come la macchina, si logora, e deve essere sostituito da un altro uomo. In più della
quantità di oggetti d'uso corrente, di cui egli ha bisogno per il suo proprio sostentamento, egli ha bisogno di
un'altra quantità di oggetti d'uso corrente, per allevare un certo numero di figli, che debbono rimpiazzarlo sul
mercato del lavoro e perpetuare la razza degli operai». Cfr. Salario, prezzo e profitto, Mosca, Edizioni in lingue
estere, 1947, p. 48.
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Ma tenendo ben presente che questa priorità non deve essere la ricerca di un a priori
teorico, bensì il risultato della pratica educativa, di un conoscere facendo.
Dicevamo che il primo impegno nel nostro campo è quello teso a individuare le
condizioni attuali e locali del lavoro, estraendo le valenze educative dalle specifiche realtà nelle
quali intendiamo operare, dalle contraddizioni economiche sociali ed educative delle tendenze
di sviluppo.
Ciò significa porsi nel modo più coerente rispetto ai problemi organici dell'età adulta, in
quanto è nel lavoro che l'uomo e la donna del nostro tempo si realizzano o, meglio, possono
positivamente realizzarsi.
Ma questo procedimento non è consueto nella prassi dell'educazione degli adulti che,
normalmente, è portata dalle proprie interne ambiguità e contraddizioni ad interrogarsi allo
specchio, dando per scontati i problemi di fondo, quasi delle acquisizioni teoriche sulle quali sia
inutile ritornare; senza tener ben presente che è il rapporto condizioni di lavoro-condizioni
educative nell'età adulta a qualificare di fatto la vitalità del nostro intervento e che è questo
rapporto che dobbiamo controllare attivandone le potenzialità di risoluzione; vi è, dunque, per
noi, l'impossibilità di prescindere praticamente dal nesso storico lavoro-educazione, pena la
sordità, la mancanza di qualsiasi eco sociale ai nostri sforzi e la vacuità dei nostri conati,
l'asservimento sostanziale — in realtà — alle ragioni della educazione alla conservazione.
Essendo questo procedimento inconsueto, esso presenta difficoltà che dobbiamo porre
in evidenza; a tale scopo riesamineremo alcuni fondamentali problemi del lavoro cercando di
estrarre alcune valenze educative che attualmente ci appaiono rappresentative delle tendenze
in atto.
Nei limiti della sintesi cui siamo costretti, cercheremo di estrarre i significati formativi insiti
nel rapporto tra il lavoro e lo sviluppo economico, il progresso scientifico e tecnologico, la
formazione professionale; altri campi di indagine saranno il lavoro nell'industria, nell'agricoltura,
nel terziario; ma sarebbe essenziale considerare le valenze educative nel rapporto tra il lavoro e
i fenomeni più macroscopici della nostra società: la stessa disoccupazione, innanzi tutto;
l'urbanesimo; l'emigrazione; la condizione femminile e la famiglia.
3.2.5 Valenze educative nel rapporto lavoro-sviluppo economico
I temi relativi allo sviluppo economico caratterizzano gli anni dal dopoguerra ad oggi; ma
la percezione dei problemi e il modo di affrontarli sono tutt'altro che univoci, a seconda che
l'analisi venga svolta nei paesi a economia capitalistica o dall'angolazione neocapitalistica,
ovvero dal punto di vista dei paesi socialisti con differenze rilevanti anche tra di essi, ovvero ancora — dall'interesse dei paesi del «Terzo mondo».
Nonostante, dunque, la contemporaneità storica dell'argomento che l'opinione pubblica
ha recepito con il rilievo e la capillarità di un dato conoscitivo mondiale di cultura economica,
pesa sulle soluzioni reali l'opposizione tra paesi «sottosviluppati» e paesi «sottosviluppanti»
capitalistici.
Ed è più che comprensibile che i primi guardino con estremo sospetto lo stesso concetto
di «sviluppo economico», quasi una bandiera del vecchio mondo dietro la quale i secondi
nascondono la loro egoistica soluzione alle fluttuazioni cicliche, alle crisi periodiche del sistema;
è un amaro scetticismo che somiglia a quello che si nutre verso l'ottocentesco «progresso».
Anche qui, infatti, i popoli, le regioni, gli strati sociali sfruttati hanno ragione di chiedersi:
«sviluppo economico» per chi?
per che cosa?,
di fronte alla questione che invece assilla i «sottosviluppanti» ed i loro tecnici economisti:
come realizzare lo sviluppo economico senza perdere il profitto?
All'interno di una struttura sociale come la nostra, il movimento operaio lotta contro una
pratica economica dello sviluppo che tende a risolversi a svantaggio della remunerazione del
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lavoratore; il numero delle giornate di sciopero è elevato, rispetto ad altri paesi (ad es., nel
decennio «che va dal 1954 al 1964, gli scioperi effettuati in Italia costituiscono, per la loro
ampiezza, il 55 per cento di tutte le astensioni verificatesi nei sei paesi del Mec»; e negli anni
seguenti il rapporto è ancora salito: nel '66, ad es., è giunto oltre l’82 per cento delle ore di
sciopero effettuate nella stessa area, pari a 14 milioni di giornate in Italia, a 2 milioni in Francia,
a 27 mila circa in Germania occidentale94).
Ciò prova, da una parte, la combattività dei lavoratori e — in particolare — la valenza
educativa delle lotte che nel dopoguerra hanno svolto la più rilevante funzione educatrice di
larghi strati della popolazione nei confronti della rassegnazione, del fatalismo, frutti — anch'essi
— dei processi formativi imposti dalle precedenti dominazioni storiche nelle precedenti strutture
economiche.
Dall'altra, però, ciò prova la capacità di dominio — negli adattamenti politici opportuni:
dallo Statuto albertino, a Giolitti, al fascismo, alla Costituzione repubblicana — delle strutture
economiche prevalenti; basti ricordare che il livello salariale reale è tuttora tra i più bassi
nell'area della Comunità europea95, senza volersi riferire alla destinazione del profitto, sempre
prevalentemente assorbito nel «privato» o nel «pubblico» al servizio del «privato», e in minima
parte destinato alle esigenze generali, alle riforme sociali.
Ciò vuoi dire, per quanto riguarda il nostro discorso, che il tipo di sviluppo economico che
si cerca d'imporre filtra con risultati educativi a sé confacenti attraverso le maglie del controllo,
della resistenza, dell'opposizione del movimento operaio?
Al di là dell'azione formativa dei mezzi d'influenza (dei quali parleremo più avanti) in
mano «privata» o — di fatto — pseudopubblica, al di là dell'«industria culturale» che, talvolta, e
proprio per questo, assume un valore esorcistico, non esistono altre determinazioni di dominio
le cui valenze educative non siano state sufficientemente soppesate, analizzate e, perciò,
controllate dal movimento operaio?
Al di là delle comunicazioni audiovisive, sappiamo bene che sono le stesse condizioni del
lavoro che operano educativamente per l'accettazione, o il rifiuto, di un tipo di sviluppo
economico.
E necessario conoscere, anche attraverso il lavoro di educazione degli adulti, le
determinazioni specificatamente formative delle condizioni del lavoro.
Perché conosciamo solo parzialmente queste valenze educative insite nel rapporto
lavoro-sviluppo economico?
Zygmunt Bauman osservava che il contributo maggiore della sociologia marxista è
«quello della scoperta e dello studio del ruolo svolto dalla struttura sociale, considerata come un
sistema di interdipendenze tra ampi gruppi umani formatisi nel corso della produzione, della
distribuzione e dell'appropriazione dei beni richiesti per la soddisfazione dei bisogni umani nel
determinare i processi sociali»; ma, soggiungeva, che concentrando l'attenzione su queste
determinazioni del comportamento umano «alcuni studiosi marxisti hanno trascurato l'altro
sistema di determinazioni che interviene in ogni situazione sociale, il sistema della cultura»96.
Come si concilia questo rilievo con l’Ideologia tedesca («Le idee dominanti non sono
altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque
l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono
le idee del suo dominio»97) ?
94
Cfr. C. Falaschi, Perché gli italiani scioperano, in «l'Unità», 29 novembre 1967. «Nel 1969 gli scioperi
raggiunsero 195 milioni di ore (circa 26 milioni di giornate con gli orari dell'epoca e nel 1970 146 milioni di ore,
circa 20 milioni di giornate)... Nel 1971 in Italia si sono avuti scioperi per 103 milioni di ore, pari a circa 15 milioni
di giornate lavorative»; cfr. R. Stefanelli, L'Europa dei proletari, in «l'Unità», 23 aprile 1972.
95
Dai dati dell'Office statistique della C.E.E., nel 1973 emergeva che mentre nel 1966 e nel 1969 il «costo
salariale» dell'operaio italiano era il più basso nel raffronto con la situazione della Repubblica federale tedesca,
della Francia, dei Paesi Bassi, del Belgio, del Lussemburgo, nel 1971 risultava che il «costo salariale» più basso
era quello per l'imprenditore francese; cfr. «Le Monde», 30 gennaio 1973, p. 18.
96
Z. Bauman, Marx e la teoria contemporanea della cultura, in Marx vivo, vol. II, Milano, Mondadori, 1969, p. 83.
97
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, pp. 35-36.
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Questo «sistema della cultura», insito nei rapporti di produzione, va dunque ricavato e
controllato nelle stesse condizioni di lavoro le cui valenze educative vanno esplicitate nel loro
farsi quotidiano e prospettico; e questo al di là delle cause che possono essere addotte per
spiegare le attuali carenze.
Per individuare tali realtà formative e i varchi che dobbiamo aprirci nelle attuali
condizioni, possiamo partire estendendo alla formazione generale il discorso che nel Capitale si
svolge a proposito della «formazione professionale»?
Marx scriveva che «Per modificare la natura umana generale in modo da farle
raggiungere abilità e destrezza in un dato ramo di lavoro, da farla diventare forza-lavoro
sviluppata e specifica, c'è bisogno d'una certa preparazione o educazione, che costa a sua
volta una somma maggiore o minore di equivalenti di merci.
Le spese di formazione della forza-lavoro differiscono secondo ch'essa abbia carattere
più o meno complesso.
Queste spese di istruzione, infinitesime per la forza-lavoro ordinaria, entrano dunque nel
ciclo dei valori spesi per la produzione della forza-lavoro»98.
Nelle attuali strutture produttive, il bisogno di una «forza-lavoro sviluppata e specifica» è
particolarmente elevato, qualitativamente e quantitativamente, mentre forse mai, come oggi «è
evidente che l'operaio, durante tutto il tempo della sua vita, non è altro che forza-lavoro, e
perciò, che tutto il suo tempo disponibile è, per natura e per diritto, tempo di lavoro, e dunque
appartiene alla autovalorizzazione del capitale»99.
Tale autovalorizzazione si determina e si accresce non solo attraverso l'istruzione
tecnologica, ma anche attraverso l'introiezione sul lavoro delle «idee dominanti», quella — ad
es. — dello «sviluppo economico», con le sue varie articolazioni: quella — ad es. — della
«produttività»; o quella — addirittura — della concomitanza d'interessi tra operai e padrone.
I varchi possibili in tale «sistema della cultura» originato dai rapporti di produzione, sono
anch'essi interni, intrinseci a tali rapporti, oggi improntati ad uno «sviluppo economico» che,
nonostante le ipocrisie umanitaristiche, se può essere tecnicamente accettato, non deve,
tuttavia, scalfire l'entità del profitto.
La techne padronale — come «arte della manipolazione e della trasformazione» della
forza-lavoro — è quindi in rapporto stretto con «il ciclo dei valori spesi per la produzione della
forza-lavoro».
Essa non può contraddirsi prevedendo «spese di formazione della forza-lavoro» che in
qualche misura intacchino il profitto, ed è costretta ad accettare una sorta di rendita formativa
che è quella che scaturisce da una «educazione naturale» che il complesso della situazione
lavorativa fornisce, sia all'interno come all'esterno della fabbrica.
Tale «educazione naturale» rientrerebbe, addirittura, tra le «economie esterne» e le
«economie interne» del Marshall, se è condivisibile l'esempio che viene avanzato100 per
spiegare il concetto di «economie esterne»: «Si faccia il caso delle attività industriali in una
plaga evoluta come quella che sta fra Milano e Torino.
È chiaro che chi impianta uno stabilimento colà, può fruire di una serie di vantaggi locali,
che gli mancherebbero se andasse a impiantarlo in Sardegna: vi è una «atmosfera» (per usare
una felice espressione di Marshall) propizia alla produzione industriale», per concludere con
un'esclamazione che dal nostro punto di vista è illuminante: «la gente sembra nascere con le
attitudini per il lavoro nell'industria».
98
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, p. 189.
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 288-289; il capitale, scriveva
Marx: «scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici.
Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è
indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei pasti, e lo incorpora dove è
possibile nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore viene dato il cibo come a un puro e semplice
mezzo di produzione, come si da carbone alla caldaia a vapore, come si da sego e olio alle macchine...».
100
Cfr. F. Forte, Introduzione alla politica economica. Il mercato e i piani, Torino, Einaudi, 1964, p. 322.
99
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Questo modo di dire, infatti, copre e svela — nello stesso tempo — una realtà formativa
in atto che possiede un passato e che avrà i suoi effetti per il futuro, addirittura generazionale.
Che tale «educazione naturale» non sia un fenomeno spontaneo, ma rientrante nella
logica «naturale» dello sviluppo capitalistico, è abbastanza ovvio.
E, tuttavia, l'asserzione è sempre verificabile.
Riscontriamola nel momento in cui, ad esempio, si spiega il rapporto tra possibilità e
impossibilità che «un sistema economico si possa espandere uniformemente»101; esso, deve
tener conto di condizioni economiche in senso stretto, ma anche di variabili legate a quelli che
possiamo definire i tempi educativi.
Cosi, alcune industrie «non sono suscettibili di espansione allo stesso modo; si possono
espandere solo aumentando di continuo la forza lavorativa occupata, o (e) impiegando in esse
una rilevante quantità di capitale, per ogni unità addizionale di prodotto e lasciando passare un
certo tempo, per adattare i fattori umani e organizzativi e portare a termine le lunghe
trasformazioni tecniche richieste102.
Ovvero: «Il sistema economico reale è diverso da quello dell'astrazione, per cui ci sono
una serie di situazioni storiche, di istituzioni, di attitudini, di caratteri... che fanno sì che in un
certo paese date possibilità sussistano in maggior grado, che in un altro»103.
Questo adattamento dei «fattori umani», questa «serie di situazioni storiche»
costituiscono per un sistema capitalistico le variabili e, nello stesso tempo, per noi, le valenze
educative in senso conservativo nel momento in cui l'uomo diviene un «fattore» e la sua storia
soltanto uno tra gli elementi da considerare.
Una logica, peraltro, accentrata sul profitto che per lo sviluppo economico deve basarsi
soprattutto sull'«educazione naturale» delle condizioni di lavoro (mentre per altri interventi
educativi, ottenibili all'esterno della fabbrica, anche attraverso agenzie delegate — cinema,
televisione, stampa, radio —, può realizzare ulteriori profitti, mentre provvede ad educare), offre
varchi di cui il movimento operaio ha saputo e saprà sempre meglio servirsi, e di cui anche
l'educazione degli adulti dovrà tener conto.
Questa «educazione naturale», infatti, che rientra nella logica naturale dello sviluppo
capitalistico, è il frutto della divisione del lavoro; anch'essa può apparire agli individui «come
una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove
va...», come una facies dell'alienazione.
Ma essa è parte integrante di quella «cooperazione naturale», cioè «non volontaria»,
nell'ambito di una forma sociale storica, modificabile.
E, rispetto a questa «educazione naturale», è stata dimostrata possibile un'educazione
volontaria, determinata consapevolmente, di senso contrario, capace di contribuire a profonde
mutazioni nella forma sociale.
Il compito può essere assolto riferendosi continuamente alle valenze educative operanti
nelle condizioni lavorative del processo di sviluppo economico in una società come la nostra.
3.2.6 Condizioni di lavoro e scienza
Strettamente interrelato allo sviluppo economico, tanto da confondersi nella prospettiva, il
progresso scientifico e tecnico è un altro aspetto di cui è necessario considerare le valenze
educative, in relazione al lavoro.
Tali significati formativi, infatti, non scaturiscono se non univoci, e pertanto distorti,
dall'esame dei problemi della scienza, della tecnica prese a sé.
E il fatto che tale rapporto oggi ci appaia elementare, non significa che sempre riusciamo
ad articolarlo nel modo più conseguente per la costruzione di un uomo onnilaterale.
101
Ivi, p. 376.
Ivi, p. 377.
103
Ivi, p. 378.
102
Pagina 42 di 185
Basti pensare alla disputa, risolta soltanto di fatto, sull'utilità dei viaggi interplanetari; o al
lavoro estremamente problematico di scienziati e tecnici al servizio dei «signori della guerra».
D'altra parte, il rapporto tra condizioni del lavoro e progresso scientifico e tecnico,
coetaneo alla nascita della società industriale, non sempre è stato così presente e pienamente
consapevole.
La sua non considerazione — agli albori della civiltà industriale — è stata per più versi
occasione di scandalo.
G. Friedmann definisce «strabiliante» il dato «che studiosi professionalmente avvezzi
all'analisi complessa del reale abbiano fatto con tanta tranquilla baldanza tabula rasa
dell'interrelazione dei diversi fatti della civiltà, e sacrificato cosi tutto un ordine di ripercussioni
economiche e di contraccolpi morali che un osservatore penetrante avrebbe potuto discernere
fin dall'epoca in cui si levavano i loro inni al progresso continuo e, per cosi dire, fatale»104.
Il fatto è che la loro fiducia era totale: «Lo scienziato non cessa di aumentare il
patrimonio e il capitale collettivo dei popoli», scriveva M. Berthelot nel 1897, in un libro intitolato
Science et Morale, e non a caso; la fiducia era così totale da rasentare il cinismo.
Il sociologo francese sottolinea come, accanto a molti scienziati e filosofi dell'epoca,
dominati come il celebre chimico da speranze «che dovevano apparire troppo semplicistiche»,
vi erano ingegneri che, indifferenti «a qualunque modificazione di struttura, ignari perfino dei
problemi posti da questa, pieni di sincera buona volontà (Taylor — ad esempio — non ne
mancava davvero)», «immaginavano di poter tranquillamente sovrapporre al caos del loro
tempo un ordine quasi matematico, superare mediante un incessante sviluppo del rendimento i
conflitti fra padroni e operai, e portare cosi il successo della "scienza industriale" allo stesso
livello dei trionfi delle scienze meccaniche.
Il loro errore tecnicista, isolante l'impresa dall'insieme dei fenomeni fisiologici, psicologici,
sociali e morali del gruppo umano di cui è parte, è stato omologo (per quanto più spiegabile) al
grande errore degli scientisti»105.
Il problema, non si pone soltanto e semplicemente in termini deontologici; sappiamo
bene che la responsabilità degli scienziati e dei tecnici deve essere inserita nel quadro di
riferimento della «grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva
indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale»106.
Questo processo di scissione del lavoro dalla scienza è riscontrabile nel momento in cui
le «cognizioni, l'intelligenza e la volontà che il contadino indipendente o il maestro artigiano
sviluppano, anche se su piccola scala .. sono richieste soltanto per il complesso dell'officina»107.
Così «Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale di contro a loro.
Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione
agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione
del lavoro di tipo manufatturiero»108.
È un processo di scissione che «comincia nella cooperazione semplice dove il capitalista
rappresenta l'unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa
nella manifattura che mutila l'operaio facendone un operaio parziale- si completa nella grande
industria...»109 che costringe la scienza a entrare al servizio del capitale.
Insomma, come detto in uno studio del 1824 citato dallo stesso Marx: «L'uomo di scienza
e l'operaio produttivo sono separati da ampio tratto, e la scienza, invece di aumentare, in mano
all'operaio, la sua forza produttiva a suo favore, gli si è quasi dappertutto contrapposta… la
104
G. Friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale, Torino, Einaudi, 1949, p. 31.
Ivi, pp. 21-31.
106
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64.
107
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64
108
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64
109
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64
105
Pagina 43 di 185
conoscenza diviene uno strumento che può esser separato dal lavoro e contrapposto ad
esso»110.
Oltre al rapporto scienza-lavoro, è necessario considerare l'articolazione del rapporto tra
«base tecnica» dell'industria moderna e condizione operaia, tra progresso tecnico e dinamica
trasformativa delle condizioni di lavoro.
La relazione presenta un «aspetto negativo» e aspetti di potenziale progressività.
Tale rapporto emerge dalla considerazione che l'industria moderna «non considera e non
tratta mai come definitiva la forma esistente di un processo di produzione.
Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di
produzione era sostanzialmente conservatrice.
Con le macchine con i processi chimici e con altri metodi essa sovverte costantemente,
assieme alla base tecnica della produzione, le funzioni degli operai e le combinazioni sociali del
processo la-vorativo.
Così essa rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e
getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della produzione
nell'altra.
Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle
funzioni, mobilità dell'operaio in tutti i sensi.
Dall'altra parte essa riproduce l'antica divisione del lavoro con le sue particolarità
ossificate, ma nella sua forma capitalistica»111.
Questa «contraddizione assoluta» elimina ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle
condizioni di vita dell'operaio, minaccia di render superfluo l'operaio stesso rendendo superflua
la sua funzione parziale.
Ma «la natura della grande industria» presenta aspetti di potenziale progressività; e infatti
«se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con
l'effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande
industria, con le sue stesse catastrofi, fa si che il riconoscimento della variazione dei lavori e
quindi della maggior versatilità possibile dell'operaio come legge sociale generale della
produzione e l'adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino
una questione di vita e di morte»112.
Essa insomma deve «sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione
operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la
disponibilità assoluta dell'uomo per il variare delle esigenze del lavoro»; e, sempre
potenzialmente: «sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di
dettaglio, l'individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di
attività che si danno il cambio l'uno con l'altro»113.
È evidente che il senso positivo delle valenze educative del rapporto in parola non è da
ricercarsi in questa potenzialità presa in senso assoluto, ma nell'ambito del suo
condizionamento dettato dalla finalità; finché, infatti, il «variare delle esigenze di lavoro» sarà
soggetto al «variabile bisogno di sfruttamento», difficilmente la potenzialità liberatoria implicita
nella «base tecnica» della grande industria potrà risolversi nella formazione di individui
totalmente sviluppati.
Non sono, infatti, le «écoles d'enseignement professionnel» (di cui Marx parlava come di
un «elemento di questo processo di sovvertimento»114 dovuto alla base tecnica rivoluzionaria)
di ieri, o la «formazione (professionale) permanente» di oggi che potranno risolvere, prese a sé,
la contraddizione di fondo del rapporto tra una scienza asservita, una base tecnica il cui
110
W. Thompson, An Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth, London, 1824, p. 274; cfr. M. A.
Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 105, nota 2.
111
Ivi, p. 97.
112
Ivi, p. 97.
113
Ivi, p. 97.
114
Ivi, p. 97.
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comportamento è analogo a quello d'un terremoto continuo, e una condizione di lavoro per
forza di struttura assoggettata, comunque, all'una e all'altra.
Dobbiamo riflettere, d'altra parte, che il rapporto con la base tecnica può offrire alla
presenza operaia valenze educative almeno di relazione diretta; anche nel momento
dell'apprendimento di nuove tecniche, di nuovi strumenti, di nuovi processi produttivi; ma,
soprattutto, nel momento della lotta contro l'intensificazione dello sfruttamento che il capitale
cerca di attuare proprio sulla base tecnica innovata: dal licenziamento all'intensificazione dei
ritmi produttivi; in questa relazione diretta di scontro è, almeno, riscontrabile una valenza di
sollecitazione sia ad analizzare la condizione di lavoro, sia ad organizzare una risposta
associata, sia a controllare gli sviluppi del rapporto dentro e fuori la fabbrica.
Il rapporto con la scienza, nel senso anzidetto, è — invece - illusorio, estremamente
mediato; praticamente, come possibilità di manipolazione, di agibilità diretta da parte operaia,
esso è inesistente e, nelle attuali strutture, inesistibile.
Poiché il processo di scissione è incontrollato, in atto e ad un grado tendenzialmente
crescente, le valenze educative implicite nel rapporto scienza-lavoro appaiono estremamente
problematiche.
E ciò per più aspetti, alcuni dei quali sopravanzano lo stesso immediato processo
produttivo innovante, la stessa «invenzione» tecnico-scientifica.
Ad esempio, la scienza (ripetiamo: intesa come «potenza produttiva indipendente dal
lavoro») può caricarsi di significati simbolici al di là del suo, strumentale; e proiettare all'indietro
nel tempo il proprio valore sociale.
Se teniamo presente il fatto «caratteristico che i mestieri particolari si chiamassero fino
nel secolo XVIII mysteries (mystères) nella cui oscurità poteva penetrare soltanto chi era
iniziato con l'esperienza e con la professione»115, dobbiamo davvero interrogarci, come è stato
ipotizzato, su un ritorno al medioevo tramite quella scienza che aveva contribuito a snebbiarlo
proprio negli aspetti conoscitivi?
Al di là delle ipotesi più paradossali, l'aspetto da considerare non riguarda, per i problemi
educativi dell'età adulta, la scienza in sé, ma il rapporto con le condizioni di lavoro e, in questo,
la possibilità di reale, diretta controllabilità di tale relazione da parte operaia.
In mancanza di tale possibilità — per la quale e nella quale deve lavorare l'educazione
degli adulti —, ci si trova dinanzi ad una valenza educativa d'impotenza, occasione di impliciti
condizionamenti, terreno di facile coltura dell'indifferenza e della rassegnazione.
Una educazione adulta deve considerare questo aspetto come uno dei più critici rispetto
ai processi di crescita; nella limitatezza sperimentale delle odierne strutture, deve tener conto di
altre esperienze realizzate nell'ambito di altre forme sociali; considerare questo aspetto,
insomma, storicamente e prospettivamente per ciò che può e potrà significare nella sua
globalità, chiamando ad assunzioni di responsabilità, nel loro interesse di uomini liberi,
scienziati e tecnici, consapevoli della condizione distorta della loro funzione sociale116.
3.2.7 «Formazione permanente» ed educazione degli adulti
Rispetto allo sviluppo economico ed al progresso scientifico e tecnico, ciò che si richiede
al lavoratore è il suo aggiornamento, la sua riqualificazione, la sua disponibilità a favorire
sviluppo e progresso stessi.
La considerazione delle valenze educative insite nella «formazione permanente» è,
quindi, strettamente interrelata con quelle svolte a proposito dei problemi relativi allo sviluppo e
al progresso, problemi che emergono e che il movimento operaio affronta, per le loro implicanze
classiste, con le questioni: per chi?
115
116
Ivi, p. 96.
Cfr. il capitolo «Scienza, tecnica ed educazione degli adulti».
Pagina 45 di 185
per che cosa?
Non intendiamo, per ora, occuparci dell'istruzione professionale in generale-compresa
quella relativa all'età scolare; ma limitarci a riflettere sulla realtà formativa in atto per l'età
lavorativa; anche se, in tal modo, il discorso può risultare monco, essendo la parte di cui
vogliamo occuparci collegata a tutto il sistema «scolastico», istituzionale e informale, privato e
pubblico, per ogni età.
Ci sembra essenziale individuare subito le valenze educative della situazione in parola
perché, rispetto all'attuale pratica dello «sviluppo economico» e del «progresso tecnicoscientifico», questo è il settore che, a livello individuale e sociale, postula una partecipazione
diretta del lavoratore come singolo e dei lavoratori organizzati nelle loro strutture associative.
Sappiamo bene che senza una partecipazione diretta si può realizzare — si è fatto e si fa
— «sviluppo» e «progresso» imposti, per mere finalità private, ai lavoratori; ma senza interesse
non si può apprendere né insegnare, almeno nelle istanze formali.
Poiché le occasioni informali tendono a scomparire (lo stesso «istituto dell'apprendistato
è anacronistico e superato rispetto alle esigenze produttive di una società industriale di tipo
avanzato»)117, mentre tendono ad affermarsi, ad organizzarsi, a svilupparsi forme istituzionali e
formali, promosse dalle stesse aziende, dallo Stato, dalle Regioni, dagli stessi sindacati, è
evidente che il postulato rogersiano della «freedom to learn»118, della libertà per apprendere,
può essere considerato un punto di riferimento utile.
Tanto più che, e citiamo alcune osservazioni119 di fonte sovietica (d'una realtà cioè dove
questi problemi si pongono in modo socialmente diverso): «le cognizioni e la conoscenza delle
leggi dello sviluppo della società non possono essere acquisite una volta per tutte; occorre
arricchirle continuamente.
Tale necessità è dettata anche dall'impetuoso progresso della scienza e della tecnica.
Alcuni sociologi affermano che, attualmente, l'insegnamento delle cognizioni scientifiche
cessa d'essere attuale e viene sostituito da cognizioni nuove nel corso di un quarto di secolo.
Occorre tener presente anche il fatto che l'odierno sviluppo della produzione richiede dai
lavoratori un'alta cultura generale, e la capacità di assimilare rapidamente le nuove
tecnologie...».
Bisogna tener presente, infine, che «due terzi della conoscenza scientifica di tutta la
storia dell'umanità sono il frutto degli ultimi venti anni...».
Se in una società a struttura economica socialista si è risposto a questi interrogativi con
una riforma dei programmi tecnico-scientifici, attribuendo loro «una maggiore apertura,
chiedendo la collaborazione dello studente, facendolo divenire parte attiva del processo di
istruzione...», a maggior ragione la questione della partecipazione all'apprendimento si pone in
società dove anche la corresponsabilità è un controsenso rispetto alle strutture classiste.
Necessità, dunque, di partecipazione, cioè di libertà di scelta, per poter maturare una
volontà di apprendere; ovvero, condizioni di urgenza tali da costituirsi esse stesse come
apprendimento della necessità della partecipazione all'apprendere?
Tali condizioni di urgenza sono dettate dal rapporto formazione-lavoro; dal predisporre,
cioè, una forza-lavoro adeguata alle esigenze di mercato sul quale il salariato potrà vendere la
mercé per esigenze di sopravvivenza.
Sicché il prodotto della sua attività, anche di quella formativa, non è lo scopo della sua
attività; è una prospettiva di salario, un salario differito, nella logica di uno «sviluppo» che, come
condiziona il mercato di lavoro, così condiziona la formazione della mercé-lavoro.
Insomma, anche un processo così «personale» come quello formativo vive il «convertirsi
del rapporto individuale nel suo contrario, in un rapporto puramente oggettivo»; e dobbiamo
constatare che «nell'epoca presente la dominazione dei rapporti oggettivi sugli individui, il
117
I. Pisoni, Quali vie di soluzione per l'apprendistato?, in «Formazione e qualifica», 7-8, gennaio-aprile 1970, p. 3.
Cfr. C. Rogers, Freedom to Learn?, New York, Merrill, 1969; trad.it. Libertà nell'apprendimento, Firenze, GiuntiBarbèra, 1973.
119
Cfr. «l'Unità», 11 settembre 1970.
118
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soffocamento dell'individualità da parte della casualità, ha assunto la sua forma più acuta e più
generale»120.
All'interno di tale rapporto, un rapporto di forza, la libertà di scelta è evidentemente
limitata al soddisfacimento dei minimi motivi di deficit, come dice lo psicologo, cioè a quello
dell'esigenza — si legge nell'Ideologia tedesca: del «"che io mi sviluppi", cosa che ogni
individuo sinora ha fatto...»121.
Le valenze educative si evidenziano nella strumentalizzazione di fatto emergente dalla
relazione tra lavoro e formazione che caratterizza l'attuale realtà dell'istruzione professionale.
E evidente, infatti, che una volontà d'apprendere ridotta all'acquisizione di capacità
ripetitive, anche delle mansioni complesse richieste dagli attuali processi produttivi, non solo
non garantisce spazi, ma tende a restringere il rapporto discente-docente al passaggio
nozionistico, ad escludere ogni altro elemento di ricerca in comune al di fuori della
professionalità e dei campi ad essa più prossimi.
L'atteggiamento nei confronti della materia «educazione civica», sempre scarsamente
considerata, è sintomatico: essa — e non solo il modo in cui viene insegnata — da una parte
non aggiunge e non sottrae alcunché alle nozioni offerte e richieste, dall'altra è contrattata dal
discente — e perfino respinta — come un inutile aggravio; ma, soprattutto, e non a torto date le
condizioni generali del rapporto formazione-lavoro, come un grottesco proporre alle capacità
mnemoniche dell'allievo una sequela di diritti formali che la stessa realtà formativa, li e in quel
momento, contraddice.
Il rifiuto, peraltro, che talvolta viene interpretato soprattutto da parte padronale come una
prova di «praticità», di «concretezza», può essere invece interpretato come l'ultima difesa dallo
scherno, un'affermazione di estraneità sociale.
Le condizioni d'urgenza — che si costituiscono esse stesse come apprendimento della
necessità della partecipazione all'apprendere — assumono anche forme non immediatamente
economiche.
Nel quadro della prospettiva del salario, del « guadagnare» che — in questo modo — ha
assunto un valore prioritario nella cultura della società industriale capitalistica, esse contengono
valenze educative che dobbiamo valutare in quanto tali.
Cosi, ad esempio, l'ansia di ricevere riconoscimenti di qualità personali (intelligenza,
memoria, forza, agilità, prontezza di riflessi ecc.) o il desiderio di affermazione individuale
(ascesa sociale, soddisfazione consumistica, desiderio di eccellere, ecc.) si coniugano con
l'esistenza di strutture facilitanti, già esistenti e comunque tendenzialmente in sviluppo (scuola e
corsi aziendali e pubblici, forme di congedo retribuito, attività di aggiornamento ecc.), sulla base
della necessità reale di trovare acquirenti della propria forza-lavoro riqualificata quando
disoccupati, o, quando occupati, di vendere le proprie capacità a condizioni più vantaggiose.
Insomma, se le valenze educative insite nella teoria e nella pratica dello «sviluppo
economico» e del «progresso tecnico-scientifico» sono storicamente esplicite, quelle relative
alla «formazione professionale» sono impregnate di ambiguità, proprio perché i processi
formativi richiedono un quid di partecipazione.
Probabilmente è dovuto a tali valenze educative il fenomeno secondo cui esisterebbero
«contraddizioni che costringono i lavoratori studenti a un certo grado di isolamento sociale»122;
ossia, contraddizioni socialmente irrisolte.
Certo il problema non è quello di porsi luddisticamente contro la «formazione
professionale», la promozione del rapporto lavoro-scuola, le scuole per i lavoratori, o contro lo
sviluppo e il progresso.
Nell'ambito delle scelte innovative del movimento operaio, compito di chi intende
contribuire anche con l'educazione adulta è quello di considerare, riflettere, operare
120
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 429.
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 430.
122
V. Foa, Introduzione a / lavoratori studenti di G. Levi Arian, G.Alasia, A. Chiesa, P. Bergoglio, L. Benigni, Torino,
Einaudi, 1969.
121
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sull'influenza educativa, come dire di conservazione, che l'uso classista, nelle attuali strutture,
può realizzare anche della «formazione permanente».
3.2.8 La condizione educativa nella fabbrica
La fabbrica è l'epicentro di ogni discorso politico, sindacale, e anche educativo; è qui
dove «la dominazione dei rapporti oggettivi sugli individui» ha raggiunto «la sua forma più acuta
e più generale»; ed è da qui che può svolgersi «il compito di liberarsi da un modo
determinatissimo dello sviluppo»123.
Attraverso il passaggio dal macchinismo all'automazione, attraverso le varie rivoluzioni
industriali, l'antinomia tra ragioni dell'uomo e ragioni della produzione non è stata risolta; sicché
è ancora interessante, per noi, il raffronto tra forma sociale — e cultura — dell'antichità grecoromana, e forma sociale — e cultura — della nostra realtà:
«Presso gli antichi non troviamo mai un'indagine su quale forma di proprietà fondiaria,
ecc., crei la ricchezza più produttiva, maggiore...
L'indagine è sempre volta a stabilire quale forma di proprietà crei i migliori cittadini...
Perciò la vecchia concezione secondo cui l'uomo, anche se inteso in un senso molto
limitato dal punto di vista nazionale, religioso, politico, è lo scopo della produzione, appare
molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo
degli uomini e la ricchezza come scopo della produzione»124.
Il nostro contributo deve tendere a riattribuire alla «ricchezza» il significato di «pieno
sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia
su quelle della propria natura...»125; il significato di «estrinsecazione assoluta delle sue doti
creative, senz'altro presupposto che il precedente sviluppo storico, la quale rende fine a se
stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non
misurate su di un metro già dato..., nella quale l'uomo non si riproduce entro una
determinatezza, ma produce la propria totalità... non cerca di rimanere qualche cosa di
divenuto, ma è nell'assoluto movimento del divenire»126.
La fabbrica, dunque, è l'epicentro di un processo storico liberatorio; non a caso, tra le
principali misure trasformative, Engels, per quanto riguarda le soluzioni ai problemi formativi,
indicava «Educazione e lavoro di fabbrica insieme»127.
E ciò perché, allo scopo di portare la produzione al livello di soddisfacimento dei bisogni
di tutti, «non bastano da soli gli ausili meccanici e chimici; debbono essere sviluppate in misura
corrispondente anche le capacità degli uomini che fanno funzionare quegli ausili»128; tale
capacità si sviluppa superando la divisione del lavoro attraverso «l'esercizio comune della
produzione (che) non può essere attuato da uomini come quelli di oggi, ognuno dei quali ha
sviluppato una sola delle sue attitudini a spese di tutte le altre, e conosce soltanto un ramo, o
soltanto un ramo di un ramo della produzione complessiva»129.
123
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 430.
Da Forme che precedono la produzione capitalistica, VI quaderno dei manoscritti economici, redatto da Marx tra
l'ottobre 1857 e il marzo 1858; cfr. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I,
p. 80. Osserva Manacorda: «Interessante, ai fini pedagogici, la relazione istituita tra forme di produzione e
sviluppo dell'individuo, il quale non può essere totale in una situazione produttiva limitata, e l'osservazione che la
situazione dell'antichità classica, ponendo l'uomo, per quanto limitato, come scopo della produzione, e non
viceversa,come avviene nella società capitalistica, è più elevata di quella moderna» (ivi,pp. 79-80).
125
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 80.
126
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 80.
127
F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di
P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 297.
128
F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di
P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 300.
129
F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di
P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 300.
124
Pagina 48 di 185
«L'istruzione potrà far seguire ai giovani rapidamente l'intero sistema della produzione, li
metterà in grado di passare a turno dall'uno all'altro ramo della produzione, secondo i motivi
offerti dai bisogni della società o dalle loro proprie inclinazioni.
Toglierà ai giovani il carattere unilaterale impresso ad ogni individuo dall'attuale divisione
del lavoro»130.
Se le prospettive sono chiare, verso la costruzione dell'uomo onnilaterale (ed è sempre
costruttivo sottolineare la necessità che l'educazione degli adulti maturi prospettive globali;
vogliamo ricordare qui questo impegno, in relazione ai problemi del rapporto fabbricaeducazione) quali sono oggi le valenze educative della fabbrica come struttura formativa?
Quali sono gli elementi costitutivi che assicurano la possibilità di produrre uomini, mentre
questi producono oggetti, e plusvalore?
In generale, ci è noto che i processi produttivi contribuiscono a modificare il lavoratore, e,
infatti, «i contadini e gli operai manufatturieri del secolo passato hanno mutato tutto il loro tipo di
vita e sono diventati essi stessi uomini del tutto nuovi quando furono trascinati nella grande
industria...»131.
Ma, oltre al processo formativo oggettivo, dobbiamo riscontrare un'intenzionalità che
rafforza ed accelera questo processo.
Per comprendere tale componente soggettiva, è opportuno rifarci alle linee di tendenza
dell'«educazione dell'avvenire», alle impostazioni di Robert Owen che — come si legge nel
Capitale —, dal sistema della fabbrica aveva tratto quel germe di impostazione educativa « che
collegherà, per tutti i bambini oltre una certa età, il lavoro produttivo con distruzione e la
ginnastica, non solo come metodo per aumentare la produzione sociale; ma anche come unico
metodo per produrre uomini pienamente sviluppati»132.
È necessario riferirsi alla definizione di una pratica educativa come l'«istruzione
politecnica»133 che era e rimane rivoluzionaria, sia rispetto alla pratica usuale del tempo e di
oggi, sia rispetto alle necessità del processo industriale.
È un riferimento comprovante quanto il settore educativo sia in rapporto di dipendenza
dalle strutture economiche.
E, infatti, se in società progressive tali impostazioni innovanti possono essere realizzate
al fine di «produrre uomini totalmente sviluppati», nelle società conservative esse tendono ad
essere rovesciate nella loro stessa pratica, verso scopi del tutto opposti.
Così, un progetto che doveva valere per i fanciulli e per gli adolescenti (anche con la
specificazione delle età: «La prima classe deve estendersi ai fanciulli dai 9 ai 12 anni, la
seconda dai 13 ai 15 anni e la terza deve comprendere i giovanetti e le ragazze dai 16 ai 17
anni»134) e che veniva proposto in quanto «la parte più illuminata degli operai comprende
perfettamente che il futuro della sua classe, e perciò dell'umanità, dipende totalmente dalla
formazione delle nuove generazioni»135, viene realizzato attualmente per educare gli adulti, nel
senso contrario a quello costitutivo del progetto, affinché dal risultato di questa particolare
educazione dipenda una precisa, omogenea e conservativa, educazione dei giovani, sia nel
quadro di strutture scolastiche immodificate, sia nel cerchio familiare e ambientale anch'essi
controllati dai risultati di tale educazione sugli adulti.
130
F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di
P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 300.
131
F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di
P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 300.
132
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 95.
133
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 84; tratto da Istruzioni ai delegati
del Consiglio generale provvisorio su singole questioni, scritte da Marx «per il I Congresso dell'Associazione
Internazionale dei lavoratori, tenutosi a Ginevra dal 3 all'8 settembre 1866, che le approvò come propria
risoluzione».
134
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, pp. 82-83.
135
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 83.
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Il progetto — infatti — muoveva dalle considerazioni che in «una situazione razionale
della società, ogni fanciullo senza distinzione a partire dai nove anni, dovrebbe diventare un
operaio produttivo; alla stessa maniera nessuna persona adulta dovrebbe essere esclusa dalla
legge generale della natura; cioè di lavorare per essere in condizione di mangiare, e di lavorare
non soltanto col cervello, ma anche con le mani»136.
Soggiungeva, poi, che tuttavia «nel momento presente noi abbiamo a che fare.soltanto
coi fanciulli della classe operaia»137.
L'appropriazione e il rovesciamento della «tendenza della industria moderna ad attrarre
fanciulli e adolescenti dei due sessi alla collaborazione nell'opera della produzione sociale» che
Marx riteneva fosse «progressiva, salutare e giusta», valutando, peraltro, «orribile», «il modo in
cui questa tendenza viene attuata sotto il dominio del capitale»138, sono stati ottenuti -da quel
«momento presente» a oggi — attraverso diversi interventi che vogliamo esaminare, a livello di
ipotesi, dal nostro punto di vista.
Secondo una prima ipotesi, considerando, nella pratica, il tempo reso onnilavorativo
(compreso quello non immediatamente produttivo) come tempo di formazione: dal «metà scuola
e metà lavoro»139 per i giovani al tutto lavoro e tutto scuola — contemporaneamente — per gli
adulti.
Ciò, sia — e in primo luogo — per le valenze educative specifiche della condizione di
lavoro nella fabbrica.
Sia per la programmazione dell'aggiornamento professionale a cura diretta dell'azienda o
dello stato, durante l'occupazione, o durante la disoccupazione (invece di garantire una
«istruzione politecnica» nell'età scolare, si preferisce, e non a caso, offrire un interessato
recupero nel momento in cui l'efficienza aziendale o la produttività lo richiedono).
Sia per i processi educativi che la politica dell'informazione e della «cultura» avvia,
suggerisce, incanala, controlla in correlazione funzionale a quelli della condizione di lavoro.
La seconda ipotesi — che riprendiamo dalla similitudine — forse impropria, ma
espressiva — emersa durante le lotte degli studenti -vede la scuola, trasformata da centro
formativo per le èlites a «scuola di massa», divenire una gigantesca fabbrica.
In tale struttura, ad esempio, un metodo di studio quale il lavoro di gruppo non viene visto
ed utilizzato in funzione dello sviluppo del discente, ma, tendenzialmente, in funzione della
produttività programmata della fabbrica-scuola; in tale struttura, l'accento viene posto
soprattutto sull'istruzione professionale, più che sulla formazione dell'uomo in senso
onnilaterale, ma, nel contempo, tale istruzione viene impartita — per carenza di strutture, di
personale, di strumenti — ad un livello talmente minimo da far supporre, poiché niente può
verificarsi casualmente oltre un certo limite, che in questo modo si intenda, da una parte,
assicurarsi le sacche di disoccupazione indispensabili all'equilibrio del sistema del profitto e,
dall'altra, rinviare un'istruzione politecnica al momento dell'urgenza produttiva per limitare la
spesa allo stretto necessario (l'istruzione pubblica per tutti diviene l'istruzione per tutti gli operai
e i lavoratori strettamente indispensabili).
In tal modo quel sistema della fabbrica da cui «come si può seguire nei particolari negli
scritti di Robert Owen, è nato il germe della educazione dell'avvenire»140, tende a impregnare di
sé, in modo non meno «orribile», tutta la forma sociale, e ad imprimere, anche sui momenti e gli
aspetti che tutte le culture storiche avevano salvaguardato, le stimmate dello sfruttamento e
della preparazione formativa allo sfruttamento.
Per la verità, il «lavoro minorile» non viene più proclamato come necessario almeno nei
paesi «sviluppati», anche se viene praticato ancora su scala paleocapitalistica in molti paesi
136
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 82.
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 82.
138
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 82.
139
Cfr. Il Capitale, pp. 195-198; in M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p.
94 e nota 17.
140
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 95.
137
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(basti pensare che una recente relazione del BIT faceva ammontare a 43 milioni i bambini e i
minorenni al lavoro nel mondo)141.
Per converso, si tende a interpretare univocamente l'«educazione degli adulti», come
una necessità storica di «educazione permanente» o — meglio — di «formazione permanente»
ai valori e ai bisogni della produzione.
Assistiamo così, in generale, ad un processo di infantilizzazione o di adolescentizzazione
dell'adulto (ci sembra pertanto allarmante la percezione, avvertita da non pochi, che oggi la vita
preveda soltanto due età: l'infanzia e la vecchiaia, con un passaggio rapido ed impercettibile
dall'una all'altra).
L'analisi particolareggiata delle valenze educative nella fabbrica ci fornirebbe ampio
materiale di approfondimento.
Dovendo noi indagare sulla questione se e come la condizione di lavoro si costituisca
anche quale condizione formativa, non potremmo certo rispondere che tali condizioni sono oggi
intese a rendere concretamente edificabile l'uomo dal giovane, il maturo dall'immaturo,
l'illimitato dal limitato, il padrone di se stesso e dell'ambiente dal bisognoso di provvidenze e di
servizi assistenziali, l'onnilaterale dall'unilaterale.
Dovremmo, invece, replicare che le intenzioni risultano del tutto opposte.
È proprio rispetto a questa intenzionalità che — in opposizione — si precisa il significato
innovativo dell'educazione degli adulti, sia con lo storico riferimento all'esperienza propria e
specifica del movimento operaio, sia, soprattutto, in organicità d'intenti con le lotte operaie
attuali per contrastare quelle tendenze in atto e quelle intenzioni.
Per aver chiaro il senso di una risposta negativa a quella domanda, è necessario aver
presente alcuni elementi di giudizio dei quali raramente si parla sulla stampa o dalla televisione,
e dei quali, raramente, al di fuori degli ambienti direttamente interessati, si ha una percezione
globale adeguata.
Non si possono comprendere le valenze educative della condizione di lavoro
nell'industria, e non è possibile effettuare lavoro educativo reale negli ambienti operai, senza
considerare, ad esempio, il rilievo generale che hanno — in primo luogo — i dati relativi ai casi
di infortunio sul lavoro.
Quando si rifletta che nel decennio 1954-1964, in coincidenza con lo svilupparsi del
cosiddetto «miracolo economico», abbiamo avuto un bilancio di oltre 50 mila operai morti sul
lavoro e di oltre 14 milioni di infortunati, più o meno gravi; che queste cifre sono aumentate negli
anni successivi, nel 1967 — ad esempio — i casi d'infortunio sono stati 1 milione e
duecentomila circa, di cui ben 2.595 mortali, con un aumento del 9%; che dai raffronti effettuati
sul piano internazionale risulta che il numero degli «omicidi bianchi» è stato superiore, durante il
periodo bellico, a quello delle vittime di guerra (ed è significativo verificare il fenomeno in paesi
come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: nel primo, durante gli anni 1942-44, si ha una media
mensile di 160.747 vittime — di vario grado — sul lavoro, contro le 24.896 vittime — feriti o
uccisi — della guerra; in Gran Bretagna, nel periodo 1939-44, si riscontra una media mensile di
22.109 vittime del lavoro e di 10.667 vittime della guerra)142.
A parte la rilevanza umana di questa vera e propria strage, sulla quale si esercita una
equivoca retorica carica, essa stessa, di valenze formative: da quella della stampa padronale
che piange sul caso individuale, senza mai fornire dati statistici globali, a quella caratteristica
del fascismo che chiamava «caduti sul lavoro» le vittime degli «omicidi bianchi», come se la
causa fosse il «lavoro» in astratto.
A parte la rilevanza sociale, per tutte le implicazioni che comporta sul piano personale,
familiare.
141
142
Cfr. «l'Unità», 30 maggio 1972.
Cfr. «Avanti!», 23 luglio 1965. Secondo i dati più recenti —forniti dal Ministro della Sanità il 29 settembre 1974
— in Italia gli infortuni sul lavoro ammontano a due milioni con quattromila morti; cfr. «l'Unità», 30 settembre
1974.
Pagina 51 di 185
A parte quella economica, con tutto l'implicito cinismo che la considerazione di questo
fenomeno comporta (ad es., nel 1968, ponendo in relazione il problema degli infortuni con il
«programma di sviluppo quinquennale», si affermava la possibilità di una «previsione di
risparmio per la collettività» che sarebbe derivata da una «efficiente organizzazione della
prevenzione, armonicamente [sic] integrata nel contesto più ampio della sicurezza sociale» e
che avrebbe permesso di «ridurre del 5%... il costo annuo degli incidenti, infortuni e malattie
professionali — 50 miliardi su 1000 —», ciò avrebbe posto a disposizione «una somma
notevole da destinare, secondo le indicazioni del piano, ad altre forme di investimento sociale o
[sic] direttamente produttivo», e, cioè, neppure spese, per ipotesi, allo scopo di ridurre almeno
di un altro 5% gli «omicidi bianchi»)143.
A parte, dunque, tutti questi aspetti, ognuno dei quali importante, vi e una rilevanza
educativa del fenomeno che andrebbe studiata in profondità, e che, comunque, deve essere
considerata; esistono rilevanti contraddizioni da spiegare.
Ad es., comprendere sulla base di quali altre motivazioni (la loro entità, i processi della
loro introiezione) è stato possibile per un soldato inglese combattere fino alla morte contro gli
assassini nazisti e, nel contempo, ad un operaio inglese non combattere contro le cause degli
«omicidi bianchi» nel paese, fino alla scomparsa del capitalismo.
Oppure: comprendere come una larga parte dell'opinione pubblica faccia proprio il
discorso della lotta contro gli infortuni attribuendo possibilità risolutive all'intervento educativo a
base di «sensibilizzazione», «informazione» ecc., e non a quello dei processi produttivi da
eliminare nella loro pericolo-sita; non avvedendosi, in questo, di aver subito essa stessa un
intervento educativo da parte delle forze interessate a non impegnare alcunché per evitare
danni rilevanti alle persone e alla collettività.
Non si tratta, in proposito, per noi, di emettere giudizi moralistici sull'operaio inglese non
combattivo o — per converso — sul piccolo-borghese italiano che si sente «danneggiato»
dall'operaio che «non sta attento», ma di comprendere, lavorando, quali sono stati e sono le
strumentazioni e i processi educativi che possono condurre a determinati risultati.
E, accentrando il proprio interesse sulle condizioni di lavoro, promuovere, nell'ambiente
ove si opera, inchieste partecipate sulle valenze educative della realtà infortunistica rispetto ai
processi di emancipazione della classe operaia; appurare direttamente, oltre ai danni umani,
sociali, economici della persona uccisa o ferita, quali danni educativi subisce il movimento
operaio nel suo insieme.
Un settore, per noi, merita particolare attenzione, quello delle malattie mentali; nel lavoro
industriale, esse registrano un aumento considerevole144, attestando l'incidenza anche
educativa (deformativa) dello sfruttamento realizzato attraverso il macchinismo, l'automazione, i
processi produttivi che creano l'uomo unilaterale, l'uomo diviso.
Lo Scientific Management145 sembra abbia puntato, oltre che sul rendimento del
lavoratore attraverso la cosiddetta razionalizzazione nella singola azienda, sul rendimento
educativo, nei tempi lunghi, della propria pratica, nell'ambito dell'intero sistema economico
capitalistico.
Indubbiamente, lo scopo diretto è stato ed è quello della massima produttività (Taylor
riteneva di poter superare l'antinomia di classe attraverso l'aumento della produttività); ma si
tratta di uno scopo della proprietà che, in quanto tale, con nessuno sforzo educativo diretto
avrebbe potuto e potrebbe essere imposto, né tanto meno fatto proprio dall'operaio singolo,
neppure dall'individuo meno consapevole della condizione in cui si trova.
Occorre una condizione educativa specifica che, permetta di ottenere una
massimizzazione dello sforzo, attraverso il controllo del costo psichico del lavoro, spinto fino al
limite della sopportabilità.
143
Cfr. «Avanti!», 22 maggio 1968.
Anch'esso coincidente con il cosiddetto «miracolo economico».
145
G. Friedmann, op. cit., p. 28.
144
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Questa condizione educativa sembra legata nella fabbrica ad una ratio (e ad una
aproblematicità) che il taylorismo ha permesso di spingere all'estremo (affermava che l'operaio
non doveva pensare, altri lo avrebbero fatto per lui), e che ha la possibilità di presentarsi
all'individuo come un mondo risolto in cui l'unico sforzo — apparentemente — è quello di
riuscire ad inserirsi, senza disturbare l'ordine delle cose prestabilite.
Un universo eccezionale — rispetto a quello quotidiano, irto di problemi, di dubbi, di
interrogativi — in cui il do ut des, la vendita non ha riferimenti ad aspettative future, a speranze,
ma al salario con scadenza fissa.
Una razionalità, peraltro, di cui il sistema economico nasconde la logica, e lo scopo
produttivistico; nasconde e mistifica, incrementando lo sfruttamento, fino ad un limite di
sopportabilità che non è, tuttavia, conoscibile e prevedibile nel suo massimo, legato com'é al
costo psichico del lavoro, al rapporto individuo-macchina, ad un «dispendio di forze non
quantificabile».
Una razionalità, dunque, alla base delle condizioni educative che nella fabbrica volentem
ducunt, nolentem trahunt fino al limite della rottura dell'equilibrio mentale.
Una ideologia che si autogiustifica e che è arduo contestare in blocco dall'interno della
sua ratio; se è stato possibile per i sindacati e per molti scienziati contrastare di fatto l'analisi del
comportamento sul lavoro fino a negare la stessa presunta scientificità del taylorismo e dei suoi
derivati, se è possibile lottare contro le applicazioni di quelle analisi sui ritmi e sui salari, di fatto
è estremamente complesso opporsi alla razionalità aziendale come condizione educativa,
dall'interno della sua logica, dall'interno di una singola azienda, dall'interno del singolo reparto.
Ciò è possibile, indubbiamente, partendo da un'altra, opposta razionalità, esterna a
quella, e globale rispetto a quella, che nella prospettiva di mutazione dei rapporti di proprietà
affronti subito i problemi della divisione del lavoro.
Come affermava recentemente il sindacalista Trentin: «II problema è di attaccare
immediatamente le contraddizioni esistenti tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, nella piena
coscienza che, una volta superate nella loro forma più frusta, queste contraddizioni si
riproporranno al movimento operaio sotto una forma più avanzata e, nello stesso tempo, più
acuta, come l'esperienza dimostra»146.
E ciò è possibile oggi per la concretezza storica della prospettiva di mutazione dei
rapporti di proprietà, e per la visione del mondo che permea tale mutazione.
Per questo: «L'operaio specializzato di oggi ha un livello intellettuale medio, una nozione
del mondo che lo circonda, molto superiori a quelli del lavoratore di cinquant'anni orsono.
Per un giovane, il lavoro parcellizzato è una condanna che ferisce direttamente la sua
coscienza e la sua intelligenza...
Mentre lo spreco, al livello della società, non fa che aumentare, la contraddizione
tradizionale si è capovolta, da un punto di vista soggettivo: la semplice mortificazione delle
capacità intellettuali attuali del lavoratore diviene l'elemento principale»147.
Aumentare questo livello intellettuale, sviluppare la cognizione di una visione del mondo,
contribuire — dunque — attraverso interventi educativi, significa incrementare la percezione di
una realtà mortificante, fornire strumenti di consapevolezza per uscire all'esterno della
razionalità della fabbrica di modello tayloristico; e uscirne non per «incentivi materiali (cottimo
collettivo che può divenire... partecipazione indirizzata ai risultati produttivi dell'intera
azienda)»148, ma perché si rifiutano le valenze educative di quella struttura e si cercano
occasioni educative antagonistiche, capaci di contribuire ai processi di mutazione della forma
sociale.
Qui non ci è dato sviluppare un'analisi sui singoli aspetti formativi delle condizioni di
lavoro nell'industria; né avrebbe senso occuparsi del lavoro a catena, dei ritmi, del problema
delle qualifiche, dei processi di automatizzazione e dei mille problemi della fabbrica in rapporto
146
Le taylorisme remis en cause de l'autre còte des Alpes, «Le Monde». 14 dicembre 1971, p. 20.
Le taylorisme remis en cause de l'autre còte des Alpes, «Le Monde». 14 dicembre 1971, p. 20.
148
R. Stefanelli, Quando la merce-uomo si ribella al capitale, in «l'Unità», 17 aprile 1968.
147
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alle loro valenze educative, senza un riferimento preciso e contingente ad una fabbrica ed alla
risposta operaia alle condizioni di questa fabbrica, e, per noi, senza un rapporto di conoscenza
diretta.
Si tratta di legare un'analisi globale ad una determinata situazione storica, ambientale ed
al rapporto tra intervento educativo innovante e valenze educative dei rapporti in atto.
A noi sembra, peraltro, che l'educazione degli adulti debba ancora scoprire tutte le sue
possibilità in questo senso, e che queste potenzialità hanno garanzia di emergere soltanto sul
terreno sperimentale, senza deleghe ad elaborazioni altrui, affrontando direttamente problema
dopo problema.
A titolo di esempio, un nostro modo di accertare la consistenza delle valenze educative in
fabbrica potrebbe esser quello di operare fin dai primi rapporti di assunzione nell'azienda; e
passando attraverso tutti i problemi esistenti ed emergenti.
Dall'analisi del periodo dell'assunzione (come iniziazione alla razionalità
dell'organizzazione della fabbrica, attraverso le sue «prove» — i «tests» psicologici —, o,
perfino, le sue «protezioni» — le lettere di raccomandazioni di notabili) probabilmente
scaturirebbero indicazioni su quell'insieme di condizioni educative iniziali ed iniziatiche da cui
discende, per logica coerenza interna, l'accettazione di altri aspetti di una ratio che, altrimenti,
sarebbe insopportabile.
Da una siffatta ricerca partecipata potrebbe precisarsi il nostro compito che non «sta al di
sopra della società», ma in rapporto organico di educazione contro la deformazione, per
iniziativa dei soggetti di tale rapporto.
3.2.9 Valenze educative nella realtà dell'agricoltura
L'analisi delle valenze educative esistenti nelle condizioni di lavoro agricolo, non può non
essere interrelata con quella delle valenze educative dell'industria, perché la «più grande
divisione del lavoro materiale e intellettuale è la separazione di città e campagna»149.
Tra città e campagna vi è un antagonismo che «comincia col passaggio dalla barbarie
alla civiltà, dall'organizzazione in tribù allo stato, dalla località alla nazione, e si protrae
attraverso tutta la storia della civiltà fino ai nostri giorni...»150.
Un antagonismo che «è la più crassa espressione della sussunzione dell'individuo sotto
la divisione del lavoro, sotto una determinata attività che gli viene imposta; sussunzione che fa
dell'uno il limitato animale cittadino, dell'altro il limitato animale campagnolo, e che rinnova
quotidianamente l'antagonismo tra i loro interessi»151.
Una relazione antagonistica che in Italia è sempre stata, ed è tuttora, testimoniata dalla
cosiddetta «questione meridionale», e che sul piano internazionale è rappresentata dalla
problematica relativa al cosiddetto «Terzo mondo»; una relazione, «fondata direttamente sulla
divisione del lavoro e sugli strumenti di produzione», in cui la città (i paesi e le regioni
capitalisticamente industrializzati) si distingue per «il fatto della concentrazione della
popolazione, degli strumenti di produzione, del capitale, dei godimenti, dei bisogni, mentre la
campagna fa apparire proprio il fatto opposto, l'isolamento e la separazione»152.
Anche a causa di tale rapporto, l'individuazione delle valenze educative nell'agricoltura è
ancora più complessa di quanto non sia quella nella realtà industriale; e, tuttavia, soprattutto nel
nostro paese, è un impegno che l'educazione degli adulti non può fare a meno di assolvere.
Nello scontro tra città e campagna, è proprio il mondo contadino che, in un modo o
nell'altro, ha subito e subisce le maggiori spese, anche in termini educativi, dei processi di
trasformazione.
149
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 40
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 40
151
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p.41
152
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p.41
150
Pagina 54 di 185
Sicché, chiunque si trovi ad affrontare i problemi relativi al rapporto tra intervento
educativo e gli stessi processi d'industrializzazione, o il fenomeno dell'emigrazione, o
l'urbanesimo, o l'esodo dalle campagne, o ogni altra questione della odierna realtà italiana, non
potrebbe omettere di considerare il passato sociale, economico, culturale, e, cioè, dimenticare il
rilievo che le valenze educative presenti nelle condizioni di lavoro agricolo hanno avuto, in un
senso o nell'altro, sulla formazione dei genitori degli attuali operai, o sugli stessi attuali operai,
passati dal bracciantato al complesso industriale nel giro di un viaggio di alcune centinaia di
chilometri, e magari in età non più giovanile.
Tali valenze educative hanno influito enormemente per costruire un «limitato animale
campagnolo» sulla base dell'«isolamento» e della «separazione», se i risultati sono riscontrabili
sia al di fuori dell'ambiente d'origine, sia sul luogo di residenza rispetto ai tempi, all'evolversi
ambientale sulla base delle scelte della città.
Una delle scelte più tipiche, da questo punto di vista, è quella «riforma dell'agricoltura
nella Comunità Economica Europea» nel cui Memorandum del 1969153 si legge, a proposito
della piramide delle età delle persone occupate nell'agricoltura, che essa presenta, rispetto a
quella della popolazione complessiva della Comunità, una «netta contrazione per le persone tra
i 40 e 55 anni e un anormale ampliamento per le persone più anziane.
La metà di tutti i capi di aziende agricole ha già più di 57 anni»; per lamentare, tra l'ovvio
e lo sdegnato, che, per questo:
«Spesso essi non hanno la formazione che consente loro di adeguarsi facilmente alle
mutevoli condizioni sociali ed economiche».
Laddove non si sa: se sottolineare l'atteggiamento lunare di fronte alla mutevolezza delle
condizioni, come se queste non fossero volute e imposte da quel potere economico che un
tempo veniva definito «blocco agrario» (e che formava un certo tipo di contadino), e che oggi,
assumendo altre forme si sdegna di quella «formazione», e ne vorrebbe imporre un'altra, per un
contadino agile, pronto all'adattamento.
Ovvero sottolineare l'acre sincerità della contradittoria pretesa che «formazione»
equivalga a facilità di adeguamento, come se questa non fosse anche frutto educativo del
passato, imposta nella logica del latifondo.
Il fatto è che, nonostante in questo Memorandum si parli di misure e provvedimenti intesi
a «contribuire efficacemente al miglioramento dell'avvenire della popolazione agricola», in realtà
questa popolazione sarebbe oggetto, da un Piano all'altro, di modificazioni sostanziali, se non
fosse in grado di opporre una articolata resistenza nelle forme più diverse, maturate attraverso
le valenze educative della propria storia e l'esperienza del movimento contadino
(dall'occupazione delle terre alle lotte bracciantili del 1969).
Modificazioni sostanziali che hanno visto, in venti anni, il passaggio dal 49 per cento
della popolazione attiva occupata in agricoltura al 19,4 per cento.
«In tutto sono 3 milioni e 683 mila addetti, che secondo certe previsioni dovrebbero
diminuire ancora, di due milioni, per attestarsi su una percentuale oscillante tra l'8 e il 12 per
cento.
Sono dati questi che danno un'idea dei profondi sconvolgimenti che hanno colpito le
nostre campagne.
Niente però — proseguiva il presidente dell'Alleanza dei contadini — è avvenuto a caso.
Lo sconquasso è il risultato di un meccanismo di sviluppo ben preciso che vede
l'agricoltura e i contadini in posizione di netta subordinazione economica e sociale nei confronti
del grande capitale monopolistico»154.
153
Cfr. Memorandum sulla riforma dell'agricoltura nella Comunità, Ufficio per l'Italia della Direzione generale
stampa e informazione delle Comunità Europee, Roma, luglio 1969 (ristampa), pp. 6-7
154
Relazione di A. Esposto, presidente dell'Alleanza dei contadini, svolta presso la Facoltà di Agraria
dell'Università di Piacenza; cfr. R. Bonifacci, / contadini all'università, «l'Unità», 24 marzo 1971. Nel 1973, l'«
esodo agricolo ha riguardato 300 mila persone attive di cui 130 mila all'estero», cfr. «l'Unità», 7 febbraio 1974
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E, riferendosi all'emigrazione dalle campagne: «L'esodo si è trasformato in fuga che
investe prima di tutto le forze giovani: in un solo anno — aggiungeva il segretario generale della
Federbraccianti — 470 mila addetti sono usciti dall'agricoltura e 500 mila lavoratori sono
emigrati dal Mezzogiorno...
Le cause risiedono nella condizione sociale e civile dei lavoratori della campagna e del
Sud -che hanno salari annui pari in media al 50 per cento di un operaio dell'industria e, in
alcune regioni, lavoro solo per una media di 120 giorni l'anno — e nel livello bassissimo del
reddito di lavoro di grandi masse di contadini»155.
Può anche darsi che l'estensore del Memorandum sia convinto in buona fede —
analogamente al Taylor di altri tempi e campi — di poter «contribuire efficacemente all'avvenire
della popolazione agricola», di quella, almeno, che non abbandonerà; ma quando si pensi che
negli Stati Uniti, il reddito medio di una famiglia agricola — compresi i guadagni esterni alla
fattoria — resta ancora inferiore del 15 per cento alle risorse delle altre categorie socioprofessionali, si comprende come il desiderio possa anche essere quello, ma che la tendenza
reale è ben altra: negli Stati Uniti, ad esempio, negli anni 1960-69 le aziende con un giro di
affari di più di 40 mila dollari sono aumentate dal 2,9% al 7,1%; quelle con un giro da 10 a 40
mila dollari sono aumentate dal 18,2% al 29%.
Queste aziende assicurano l'85% delle vendite dell'agricoltura.
L'altro 15 per cento è assicurato dalle aziende medie (da 2500 a 10.000 dollari) e piccole
(meno di 2.500); entrambe sono in costante diminuzione156.
Questa tendenza è in atto anche nel nostro paese ed è «il frutto di una politica nazionale
e comunitaria di classe che ha affidato e vorrebbe continuare ad affidare le sorti di milioni di
uomini alle decisioni della grande industria e del capitale agrario»157.
Rispetto a questa tendenza, a questo «sconquasso», e rispetto alla resistenza del
movimento contadino all'una e all'altro, è fondamentale estrarre le valenze educative delle
realtà in atto e in opposizione.
Bisogna, a tal fine, tener sempre conto delle valenze educative operanti nel passato
contadino, quando questo mondo era sinonimo di staticità, e di iterazione senza innovazione.
Un passato che è prossimo perché risale alla vigilia della motorizzazione, della
meccanizzazione, della televisione; e, cioè, dei fattori potenzialmente progressivi perché capaci
di contribuire al superamento dell'«isolamento» e della «separazione», ma in realtà tendenti ad
agire, nelle attuali strutture, nel senso di nuove forme di «isolamento» e di «separazione».
Si tratta, dunque, di individuare le valenze educative di tre momenti, e delle loro
interrelazioni, nelle condizioni di lavoro dell'agricoltura; questi tre momenti sono dipendenti dal
rapporto città-campagna.
Nel primo momento (per il cui esame l'apporto di Gramsci è fondamentale, assieme ad
una vasta e pur contradittoria letteratura, sia economica, sia sociologica, sia letteraria),
potremmo dire — in sintesi e grosso modo — che le condizioni di lavoro, già legate alla
produzione — non sempre controllabile — di vegetali e animali, sono esposte all'arbitrio
padronale che, collegato all'esterno con il capitale industriale, si impone all'interno delle
strutture agricole nei modi più chiusi.
Le condizioni di lavoro che ne scaturiscono, più che legate — come si può ritenere — ai
ritmi biologici e stagionali, hanno una rigida unità di misura in se stesse, nel lavoro.
La valenza educativa in cui si sostanzia tale condizione è misurabile sulla «fatica»; il
tempo non esiste al di fuori della condizione lavorativa stessa, né è misurabile altrimenti.
155
Relazione di F. Rossitto, Segretario generale della Federbraccianti-CGIL, alla «Conferenza nazionale dei
delegati d'azienda e membri delle commissioni per il collocamento e la gestione dei contratti», Roma, 19
settembre 1970. Atti in «Collana documenti», fascicolo: Le conquiste dei braccianti sono il frutto di lotte interne.
Una loro rigorosa gestione è condizione per una grande avanzata sulla via dell'unità e delle riforme, pp. 11-34
156
Cfr. L'agricolture américaine aufutur, III: Lesfermiers de l'aube et du crepuscule, inchiesta di P.-M. Doutrelant, in
«Le Monde», 16 luglio 1972, p. 26
157
F. Rossitto, op. cit.
Pagina 56 di 185
È chiaro che questa valenza educativa, con tutto il suo rilievo etico, è destinata a
prolungarsi oltre il suo originario momento strutturale.
Anche in quello che possiamo considerare come secondo momento, quando la «città»
invade la «campagna» con la motorizzazione, la meccanizzazione, la televisione; le condizioni
di lavoro nell'agricoltura vedono aumentare il livello di sfruttamento che viene praticato sia
all'interno delle strutture economiche agricole, sia, all'esterno, da parte delle strutture industriali;
le valenze educative di questa nuova situazione sono evidentemente rese più complesse da
quelle stesse lezioni che vengono introdotte attraverso l'invasione in parola; all'autoritarismo, al
paternalismo tradizionalmente vigenti nelle campagne si unisce l'educazione attraverso altre
forme di paternalismo e di autoritarismo: la pubblicità, il tecnicismo, l'introiezione di modelli
cittadini, il rapporto passivo e passivizzante con la televisione.
Nel terzo momento, attraverso la cosiddetta «fuga dalle campagne», la ricerca delle
valenze educative nelle condizioni di lavoro agricolo si intreccia con quella da svolgersi in
relazione ai fenomeni dell'emigrazione, dell'urbanesimo; tale situazione dinamica è in atto ed è
fatta di apporti dall'esterno all'interno e dall'interno all'esterno dell'agricoltura, ad opera di quei
contadini che, un tempo, svolgevano tale funzione soltanto subendo la vita militare, occasione
educativa che un G. Fortunato propugnava seriamente quale coadiuvante alle soluzioni del
problema del Mezzogiorno158.
3.2.10
Responsabilità e scelte educative nel terziario
L'individuazione del significato, dell'entità, delle capacità riproduttiva e diffusiva delle
valenze educative esistenti nelle condizioni di lavoro delle attività terziarie è, per il nostro lavoro,
interessante per due ordini di ragioni.
Per ragioni oggettive, innanzi tutto, in quanto lo spostamento delle forze di lavoro da un
settore all'altro e, in particolare, dall'agricoltura verso l'industria e le attività terziarie, cosi
rilevante in Italia dal dopoguerra, assume valore educativo di per sé, per la modificazione
globale che comporta un cambiamento economico, sociale e culturale di vasta portata.
In secondo luogo, per ragioni soggettive, in quanto la multiformità delle condizioni di
lavoro, in questo settore, e nella società di classe, propone una gamma di situazioni particolari,
di varia consapevolezza e di ambiguità delle stesse valenze educative.
Da qui l'utilità del tentativo di ricondurre la visione di tali situazioni ad una prospettiva
unitaria.
Ciò è complesso, ad es., per la composizione estremamente mista degli interessi del
ceto medio, fornitore di forza-lavoro per larga parte delle attività terziarie (gli interessi
dell'insegnante, del dirigente d'azienda, del cameriere, del commerciante ecc.); oppure, per
l'equivocità dello status che può sollecitare, indifferentemente, ad avvicinarsi al mondo operaio
o ai detentori dei mezzi di produzione; o, infine — ma la ricerca di questi aspetti sarebbe più
complessa — per la relazione stretta esistente tra condizione di lavoro nel terziario e processi
formativi, relazione che vede gli addetti del settore in funzione diretta o indiretta — ma
comunque reale — di agenti educativi.
O, meglio, al servizio delle agenzie educative: scuola, altre strutture formative pubbliche
(dalle biblioteche ai mezzi di comunicazione).
158 Pur non avendo «nulla a che fare con uno spirito naturalistico», G. Fortunato sembra ritenesse che «la
soluzione vera della questione meridionale stava in un mutato intendimento morale degli Italiani, chel'esercito,
accostando uomini giovani delle più distanti regioni, fosse realmente "il fattore più valido dell'educazione
nazionale", presso cui "più vivo e più intenso batte il cuore della Patria", poiché esso "è sangue ed è carne del
nostro sangue e strumento di alta educazione civile e patriottica". E, in particolare, l'esercito era ai suoi occhi "il
grande educatore" dei contadini, che senza di esso rimarrebbero come murati nella solitudine dei loro campi,
mai arrivando ad una nozione della nuova Italia»; cfr. M.L. Salvadori, II mito del buongoverno, La questione
meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi, 1963, p. 179.
Pagina 57 di 185
Il terremoto settoriale che ha investito l'Italia negli ultimi venti anni, con l'aumento del
terziario e l'abbandono delle campagne, con l'emigrazione dal Sud verso il Nord industrializzato
— sia nazionale che estero —, con l'urbanesimo, con il problema del lavoro femminile, con
l'aumento stesso della scolarizzazione, ha provocato un gigantesco sforzo sociale di
riqualificazione individuale, di adattamento a nuove condizioni di lavoro e a diversi modi di
vivere, di apprendimento all'uso di strumenti culturali inediti per larghi strati della popolazione, di
percezione dei modi moderni dell'associarsi politico e sindacale nonché di scelta personale tra i
diversi schieramenti.
Peraltro i processi di proletarizzazione hanno investito zone e strati sociali che il «blocco
agrario» e le amministrazioni borboniche avevano mantenuto per lunghi anni a regime feudale
di sopravvivenza.
Tutto ciò, un insieme di fenomeni compositi e contraddittori, nella logica del tipo di
sviluppo imposto dall'interesse del capitale interno e internazionale, ha postulato soprattutto per
la classe operaia e, in generale, per i lavoratori dei ceti soggetti, un impegno duplice: di
interpretazione dei dati che la complessa realtà andava fornendo, e di risposta al senso
conservativo e, nel loro interesse, peggiorativo che tali elementi possedevano.
Un impegno che, per quanto riguarda la risposta, il movimento operaio, nel suo
complesso, ha svolto nell'interesse collettivo; ma, nel contempo, uno sforzo d'interpretazione
che gli individui stessi venivano chiamati a compiere attraverso le diverse occasioni, le varie
capacità, i plurimi spunti di rapporti, le più opposte forme di mediazione.
Il rilievo di una ricerca da compiersi costantemente sulla condizione di lavoro nel terziario
discende dal ruolo educativo cui i lavoratori di questo settore sono stati chiamati, e saranno
chiamati, dalle forze egemoni economicamente, perdurando l'attuale tipo di sviluppo.
Il senso della valenza educativa di questo ruolo formativo dei lavoratori del terziario è
evidentemente conservativo, del che tutto cambi purché nulla cambi; il loro ruolo educativo
nasce dal bisogno di larghi strati della popolazione di adeguarsi al tipo di sviluppo in atto per le
esigenze di sopravvivenza individuale e familiare; le occasioni formative di questo tipo, infine,
sono costituite da ogni e qualsiasi momento in cui gli adulti entrano in rapporto con una società
di classe, e, cioè, praticamente dall'alba al momento di chiudere gli occhi, eccezion fatta per
quelle ore che i consapevoli dedicano allo studio, all'organizzazione dei modi e all'azione per
modificare la realtà strutturale in cui sono oppressi.
Lo sforzo d'interpretazione che, a livello individuale, il tipo di sviluppo chiama a compiere
avviene, dunque, attraverso la mediazione dell'«impiegato» (che prendiamo a simbolo della
categoria terziaria) il quale diviene una sorta di maestro della riqualificazione sociale nel senso
anzidetto.
I luoghi deputati all'insegnamento sono i più diversi: il posto di lavoro, la strada, il cinema,
il grande magazzino, la sala da ballo, la casa, l'officina meccanica, il bar ecc. e il ruolo viene
ricoperto di volta in volta, dal dirigente d'azienda, dal cartellonista, dal regista cinematografico,
dalla commessa, dal cantante, dalla presentatrice o dal giornalista televisivo, dal tecnico del
frigorifero o dell'automobile, dal cameriere ecc.
Mentre, come sappiamo, il bisogno di interpretare per esigenze di sopravvivenza pone
problemi di chiavi di lettura dei messaggi più diversi attraverso i veicoli più vari: il regolamento
scritto o la busta paga in fabbrica, i manifesti pubblicitari o la diversità del dialetto — quando
non della lingua — nella strada, i «generi» cinematografici con i loro significati attuali, la
situazione di bengodi consumistica del grande magazzino, la canzone scacciapensieri o quella
con pseudopensieri della sala da ballo, il telegiornale o il carosello, il funzionamento e il guasto
degli apparecchi elettrodomestici o dell'automobile, le bibite dai mille colori nel bar, e cosi via.
Si può affermare che la semiologia ha origine da questo bisogno d'interpretare, un
bisogno di massa, più che dalla teoria?
Fatto è che tutti siamo alle prese, in qualche momento dell'esistenza, con il bisogno
d'interpretare per poter scegliere, per trovare il comportamento giusto a livello individuale,
quello che più e meglio ci aiuti a sopravvivere.
Pagina 58 di 185
E, ovviamente, tale bisogno è tanto più ingente quanto più le situazioni sono inedite per
le più diverse ragioni, e quanto più pesa sull'individuo una carenza di consapevolezza che, in
generale, possiamo definire politica.
Si tratta di un bisogno che può essere soddisfatto attraverso la mediazione del
«lavoratore commerciale», quello stesso che ha steso il regolamento o predisposto la busta
paga, o che — in sintesi — nella complessa morfologia dei processi di produzione e del
consumo, «compie un lavoro, in parte non pagato» con il quale «non produce direttamente del
plusvalore», ma rende perché «contribuisce a diminuire le spese della realizzazione del
plusvalore»159.
E’ un esercito di piccoli esperti di cui ci si può servire per avere più informazioni, più
interpretazioni, e, quindi, più educazione unidirezionale e interessata, e, infatti, «il capitalista
aumenta il numero di questi lavoratori, quando vi sia da realizzare più valore e profitto»160.
Vi è, infine da tener presente che «La generalizzazione dell'istruzione popolare permette
di reclutare questa specie di salariati da classi che prima ne erano escluse ed erano abituate ad
un tenore di vita peggiore»161, mentre questa stessa generalizzazione «accresce l'afflusso e
con ciò la concorrenza»162.
Nonostante risulti che i «lavoratori commerciali veri e propri appartengono alla classe di
salariati meglio pagati, di quelli il cui lavoro è qualificato, superiore al livello medio»163, la loro
condizione di lavoro è precaria e ambigua e la valenza educativa di questa realtà di rapporti è
altrettanto precaria e ambigua.
Di fronte a questa oggettività di condizioni strutturali ed educative, e a questa funzione di
mediazione — di fatto, unidirezionale e coerente allo scopo di contribuire a «diminuire le spese
della realizzazione del plusvalore» —, la tensione soggettiva può avere valore innovativo se è
rieducata in un rapporto organico alle ragioni del movimento operaio.
Intendiamo dire che non può esservi autonomia, ad esempio, per l'operatore culturale
che presuma di esplicare il proprio «servizio» senza compiere scelte di campo.
Vogliamo aggiungere che egli può contribuire a conquistare uno spazio liberatorio
tenendo conto dei rapporti di forze in cui è inserito se diviene consapevole del suo preciso
bisogno di essere educato, e ciò proprio perché dal sistema gli è stata assegnata la funzione
eteronoma di maestro di adattamento ad un tipo di sviluppo particolare.
Analogamente si può dire per il giornalista, per il regista, per il cantante, per il
commerciante.
Se un tempo il ceto «di mezzano stato» frequentava le Università Popolari per
acculturarsi ai valori borghesi, per ascendere verso strati socio-culturali superiori, oggi gli
appartenenti allo stesso ceto debbono trovare le occasioni di crescita in rapporto ai motivi di
sviluppo delle classi popolari.
E l'educazione degli adulti deve contribuire allo sviluppo di questo rapporto,
all'acquisizione della consapevolezza necessaria verso uno schieramento di forze capace di
opporsi al «grande capitale monopolistico».
159
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363. Cfr. M. A.
Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, pp. 102-103
160
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363
161
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363
162
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363
163
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363
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3.3 La scuola nel rapporto tra produzione e formazione
3.3.1 Istituzione formativa diretta e agenti educativi indiretti
La configurazione della scuola, come istituzione formativa diretta, emerge dalle strutture
produttive e dalle condizioni di lavoro; è quotidianamente constatabile che nella società
industriale è operante la tendenza a rendere il sistema scolastico conforme alle necessità dei
rapporti e dei processi di produzione, a questi assoggettando — nelle società capitalistiche — la
specificità di funzionamento della scuola stessa164.
È necessario, quindi, chiedersi quali siano, nell'ambito di tale tendenza, i rapporti tra
produzione e formazione, perché è nell'articolarsi di tali relazioni che si chiariscono i termini del
rapporto tra scuola ed educazione degli adulti.
A noi sembra che, per esaminare questo complesso articolato di rapporti, i contributi di
taglio prevalentemente psicologico o pedagogico siano da utilizzare all'interno di una visione
che consenta di scorgere le determinazioni essenziali del rapporto tra scuola ed educazione
degli adulti.
Sia per quanto riguarda le caratteristiche delle età infantile o adolescenziale in relazione
a quelle dell'età adulta, sia per quanto attiene alle specificità dei processi formativi in età e
condizioni differenti.
Da una parte abbiamo un continuum formativo che dobbiamo considerare per tale;
dall'altra ci troviamo di fronte ad un frammentarsi di occasioni educative che non solo non si
presentano con una facies unitaria, ma che tendono a occultare tale facies o dietro formule
ambigue (la descolarizzazione) ovvero dietro false scissioni (lavoro e tempo libero; produzione
e consumo).
L'angolazione andragogica — e l'intervento dell'educazione degli adulti — può essere
utile per ricondurre ad unità gli agenti educativi diretti e indiretti; e per contribuire a modificare il
senso politico di tale, attuale unità.
Affermando che la configurazione del sistema scolastico emerge dalla logica delle
strutture produttive, intendiamo riprendere il significato qualificante attribuito al lavoro, come
condizione che crea l'uomo; come elemento che attribuisce valori e disvalori agli altri agenti
educativi diretti, come la scuola, o indiretti, come l'ambiente.
E ciò sulla base della determinazione secondo la quale in una società di classe coloro
che dispongono dei mezzi di produzione dispongono «con ciò, in pari tempo, dei mezzi della
produzione intellettuale» e «dominano anche come pensanti, come produttori di idee che
regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo»165.
Rispetto a questa unità educativa orientata e tendenzialmente controllata dalle strutture
economiche dominanti, i diversi agenti educativi, diretti e indiretti, si differenziano a seconda
delle funzioni loro affidate, e si caratterizzano per il loro rilievo così come per le loro
contraddizioni.
Ad esempio, i mezzi di comunicazione (dalla televisione, al cinema, alla radio, alla
stampa) mostrano una realtà di «distribuzione delle idee» che, grazie allo sviluppo tecnologico,
mai come oggi è stata tanto disponibile per i detentori dei mezzi di produzione; e, nello stesso
tempo, lasciano intravedere una potenzialità innovativa che si tratta di controllare e di dirigere.
164
Ovvero, la specificità della sua crisi; con Gramsci, possiamo dire che «la crisi scolastica che oggi imperversa è
appunto legata al fatto che questo processo di differenziazione e particolarizzazione avviene caoticamente,
senza principi chiari e precisi, senza un piano bene studiato e consapevolmente fissato: la crisi del programma e
dell'organizzazione scolastica, cioè dell'indirizzo generale di una politica di formazione dei moderni quadri
intellettuali, è in gran parte un aspetto e una complicazione della crisi organica più comprensiva e generale» (cfr.
Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura,Torino, Einaudi, 1949, p. 99).
165
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, pp. 35-36.
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Nell'ambiente, le condizioni che scaturiscono dalla politica sociale ed economica tendono
ad imporre valenze educative improntate all'isolamento — il divide et impera delle
agglomerazioni urbane —, e, nello stesso tempo, possono dar luogo a riaggregazioni di tipo
nuovo, con valenze educative improntate ad una visione collettiva.
La scuola, peraltro, pur essendo il frutto storico dei processi di sviluppo industriale — con
tutte le loro caratteristiche deformanti e conformanti — subisce una critica alla propria efficienza
nella preparazione al lavoro anche da parte di quelle strutture industriali che debbono
constatare enormi ritardi nell'approntamento della forza-lavoro qualificata; ritardi di cui le
strutture economiche sono le principali responsabili.
D'altra parte, rispetto alla globalità dell’unità educativa, la scuola è stata isolata dalla
società degli adulti, tradizionalmente e tendenzialmente senza controllo esterno, se non per i
risultati produttivi finali.
In ciò, essa si diversifica dagli altri agenti educativi; dai mezzi di comunicazione, ad
esempio, nella misura in cui ciascun messaggio può essere controllato e contestato dall'utente
nel momento del suo arrivo, e lo è di fatto, pur se questo controllo e questa contestazione non
sempre raggiungono forme organizzative dirette; dall'ambiente, dove le aggregazioni di interessi
possono giungere a sconvolgere i programmi formativi, impliciti o espliciti, degli economisti o
degli urbanisti facendo scoppiare contraddizioni difficilmente sanabili; dal lavoro poi, ed
evidentemente, dove il controllo operaio consente di soppesare gli stessi processi di isolamento
cui si cerca di sottoporre il singolo lavoratore, il singolo reparto, la singola fabbrica.
L'isolamento della scuola dagli adulti viene postulato ideologicamente attraverso il
rovesciamento della laicità che, se per un Salvemini166 voleva dire il garantire alle generazioni
che sorgono il bisogno di tutto comprendere per poter tutto dominare, significa, nella scuola,
isolata asetticità, distanza dai problemi della società, apoliticità, neutralità programmatica.
Tali sono le caratteristiche che coprono una realtà formativa interessata privatisticamente
alla conservazione dello status quo.
Nel constatare gli aspetti più rilevanti del distacco tra scuola e società degli adulti,
troviamo altri elementi che convalidano quella separazione e la precisano nella sua
intenzionalità: dividere i processi produttivi da quelli formativi, nell'affermazione di quel processo
di scissione (come «contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di
produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina») che «si completa
nella grande industria» la quale «separa la scienza, facendone una potenza produttiva
indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale»167.
La scuola, in sintesi, rispetto agli altri agenti educativi usufruisce di un falso privilegio che
è il suo specifico condizionamento.
Potremmo aggiungere che mentre la sostanza formativa degli altri agenti può essere di
fatto mistificata dietro varie esigenze, ragioni, logiche interne (ad es., per il lavoro, la
produttività; per i mezzi di comunicazione, il divertimento o addirittura la «cultura»; per
l'ambiente, il benessere e la sicurezza), per la scuola essa non può essere celata; viene
pertanto isolata nella sua finalità direttamente educativa, privilegiata — appunto — nel suo ruolo
di «pubblico servizio» formativo, conclusa in se stessa, nel ghetto della comunità scolastica168.
3.3.2 Il «processo di scissione» tra ed.permanente e descolarizzazione
Può essere utile verificare il senso storico del rapporto tra scuola ed educazione degli
adulti riesaminando il processo di scissione tra formazione e produzione rispetto a due
tendenze contemporanee: l'«educazione permanente» e la «descolarizzazione».
166
Cfr. G. Bini, Contro i catechismi confessionali e «laici», in «l'Unità»,9 dicembre 1966.
K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64.
168
La potenzialità innovativa dei recenti «decreti delegati» si collega e deve essere contrapposta alla tradizionale
condizione di isolamento della scuola.
167
Pagina 61 di 185
Entrambe hanno acquisito forza politica e rilevanza pedagogica per le diverse e
contrastanti interpretazioni che le contraddittorie spinte dello sviluppo economico hanno
sollecitato e per le risposte che a tali spinte sono state opposte dal movimento operaio.
Entrambe hanno avuto origine dall'insoddisfazione nei confronti del sistema scolastico, e
in genere formativo, sia da parte delle strutture produttive, sia da parte delle forze organizzate
del lavoro, sia da parte degli stessi studenti e docenti.
Una insoddisfazione motivata da opposte analisi e finalità, evidentemente; e, tuttavia, un
fuoco concentrico di critiche e proposte che, appoggiandosi sulle lotte del movimento
studentesco, hanno costituito un ponte tra scuola e società adulta; un raccordo problematico
che, grazie alle lotte degli anni '60, difficilmente potrà essere annullato, riportando la percezione
dei problemi alle carenze della situazione precedente.
Un rapporto con l'esterno, d'altro canto, è oggi tendenzialmente ricercato dalla scuola
stessa, anche la più tradizionalmente asettica, in quanto ci si avvede che, a differenza di quanto
si verificava alcuni anni orsono, i problemi da affrontare e da risolvere non sono soltanto di
ordine pedagogico, ma sostanzialmente politico.
E se l'uomo di scuola «apolitico» dirà — restando in attesa — che in questa realtà non
riesce a comprendere nulla, chi è minimamente consapevole non si illude che gli attuali rapporti
di forza potranno essere risolti attraverso innovazioni interne, di ordine metodologico o
organizzativo.
Peraltro, dall'esterno, la pressione è tanto elevata che il dibattito sui temi educativi, sulle
soluzioni relative alle strutture scolastiche è entrato, per un verso o per l'altro, nella vita
familiare, nel quartiere, nella borgata, e, in generale, nella comunicazione collettiva.
Ma, anche se la percezione sociale della rilevanza e della vitalità della questione
scolastica non è più quella di ieri, quando essa costituiva materia di lotta, di ricerca, di
elaborazione soltanto per le forze politiche organizzate e per gruppi di pedagogisti e di
docenti169, ciò non significa che, pur di fronte ad una ampia mobilitazione d'interessi personali e
familiari, il «processo di scissione» non prosegua il proprio corso.
L'aumento quantitativo della popolazione adulta che sente l'importanza di penetrare
nell'isolamento della comunità scolastica (almeno per comprendere il perché di determinate
sofferenze individuali) è, infatti, in stretto rapporto con l'aumento della popolazione scolastica,
con il cosiddetto fenomeno della « scuola di massa».
Questa sensibilità di pura sopravvivenza personale non può avere capacità d'incidere sui
processi oggettivi che tendono ad innovare nella struttura scolastica soltanto a fini particolari.
Per poter bloccare il «processo di scissione» tra formazione e produzione, tra scienza e
lavoro, il movimento operaio è impegnato a trovare e sviluppare i modi operativi (ad es. i
Consigli di zona) affinché questa sensibilità, agli albori della consapevolezza, maturi verso un
rapporto sociale più profondo e più saldo tra adulti e scuola.
In un quadro di riferimento politico (come quello di «Consigli di zona» diffusamente
operanti), l'intervento educativo nell'età adulta potrà contribuire per raccordare i momenti,
attualmente divisi, della formazione: da quella infantile, all'adolescenziale, all'adulta, nelle
interrelazioni tra le diverse situazioni (di produzione o di consumo; di figli o di genitori; di docenti
o di discenti).
E, in questo apporto specifico, attribuire una valenza innovativa, dal senso politico
determinato, all'«educazione permanente».
In proposito può certamente avere un peso raffermarsi della consapevolezza che una
educazione permanente è già in atto, sia nelle forme dirette che indirette, secondo un
programma conservativo che tende a realizzare formazione e produzione — nei modi più
adeguati ai processi di sviluppo economico, scientifico e tecnico — nella loro scissione.
Tale consapevolezza, che è essenziale rispetto alle valenze educative di segno adattivo
— operanti nelle condizioni di lavoro, nel rapporto ambientale, nel consumo per la
169
Basti ricordare I'ADESSPI e TMCE.
Pagina 62 di 185
sopravvivenza, nella relazione problematica con i mezzi di comunicazione —, rafforza una
visione politica globale e fornisce risposte specifiche all'esigenza di contrastare il processo di
scissione in atto, nella globalità delle sue articolazioni.
Essa attribuisce alla descolarizzazione il significato particolare di una resistenza ad un
determinato programma ad uso di interessi storici particolari, più che di rivolta inconsulta contro
la struttura scolastica presa in sé e per sé; un programma che tende a realizzarsi — infatti —
non solo dentro, ma fuori della scuola, e ciò in modo precipuo per quantità e per entità
costrittiva delle occasioni di «apprendimento»: nella realtà del lavoro, dell'ambiente, della
comunicazione audiovisiva.
Da questa angolazione, l'opposizione che sembra esservi tra educazione permanente (la
scuola per tutta la vita) e descolarizzazione (tutta la vita senza scuola) risulta essere
sostanzialmente esterna al processo di scissione tra formazione e produzione, ed inerte ai fini
di un risarcimento da parte di chi subisce, da giovane, la carenza di strutture scolastiche
rispondenti ai bisogni, e, da adulto, di fatto, una realtà educativa permanente.
Se l'establishment ha ancora bisogno dell'istituzione scolastica, usufruisce di occasioni
— altrettanto cogenti per le valenze educative che contengono — che, possono essere, tendenzialmente, conformanti quanto la scuola.
Il sistema socio-economico, d'altro canto — sotto il segno di slogan vuoti (come la
«descolarizzazione»), o troppo pieni (come la «società educante») —, si avvia ad individuare
per le esigenze del proprio sviluppo, modalità formative più efficienti del sistema scolastico
tradizionalmente utilizzato.
Queste tendenze, se da una parte provano che la formazione ai fini della produzione
deve essere realizzata conformemente alle oggettive esigenze del progresso scientifico e
tecnico, dall'altra confermano — per le modalità che vengono affacciate, ipotizzate e, in alcuni
luoghi e circostanze, già realizzate — la realtà delle valenze educative in atto al di fuori della
scuola.
Si tratterebbe, soltanto, di organizzare queste potenzialità, di attribuire loro una
consequenzialità capace di irregimentare la «naturalità» dei processi d'apprendimento, di
segnare i tempi della formazione, di separare nuovamente, e in modi nuovi, formazione e
produzione, di realizzare più compiutamente il processo di scissione tra scienza e lavoro.
Attraverso un esame — pur succinto, necessariamente — delle singole tendenze
dell'«educazione permanente», della «descolarizzazione» nonché delle proposte che sono state
suggerite per realizzare l'una aspirazione e l'altra, altri stimoli potranno emergere per esaminare
il complesso rapporto tra educazione infantile-adolescenziale e adulta.
3.3.3 L'educazione permanente tra utopia e realtà
Negli organismi internazionali, l'educazione permanente - in quanto tale — è definita
come «un concetto globale integrante i differenti aspetti e momenti del processo educativo in un
continuum coerente»170, ovvero, come spiega Paul Lengrand, «un ordre d'idées, d'expériences
et de réalisations bien spécifiques, c'est-à-dire l'éducation dans la plénitude de son concept,
dans la totalité de ses aspects et de ses dimensions, dans la continuitè ininterrompue de son
développement depuis les premiers moments de l'existence jusq'aux derniers et dans
l'articulation intime et organique de ses divers moments et de ses phases successives»171.
Una concezione, quindi, che va molto al di là della «educazione continua» della
«educazione ricorrente», della «educazione ininterrotta» della «formazione permanente», della
tendenza al semplice prolungamento della scuola per tutta la vita.
170
171
Unesco, Bibliographie sur l'éducation permanente, Paris, ED/WS/359, ottobre 1972, p. 3.
P. Lengrand, A la découverte de l'éducation permanente, Unesco, ED/WS/354, «Colloque interdisciplinaire sur
l'éducation permanente», Parigi, settembre 1972, p. 12. Cfr. Introduzione all'educazione permanente, Roma,
Armando, 1973, p. 34.
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Una visione dell'educazione che tende a superare la ristrettezza del rapporto e
dell'identificazione educazione-scuola, nonché la limitatezza dell'educazione degli adulti intesa
quale forma di rimedio agli effetti deprivanti del classismo sull'età infantile e adolescenziale
degli appartenenti agli strati proletari e alle regioni meridionali.
Una prospettiva — afferma Suchodolski172 — che, superando le ideologie educative sia
della «società di produzione» (che risale all'«etica calvinista-puritana e all'economia ascetica
dei pionieri del capitalismo») sia, della «società dei consumi», tende a prefigurare l'educazione
come «un bene specifico avente un valore intrinseco singolare e invidiabile»; noi ci rendiamo
sempre più conto — egli aggiunge — che l'istruzione non deve limitarsi alla formazione per la
produzione e per il consumo, ma che essa deve realizzare funzioni di ordine più generale, nello
sviluppo più multilaterale dell'uomo.
La concezione nuova della «società dell'educazione» prende in considerazione proprio
questi due aspetti: non si tratta soltanto del fatto che la civiltà moderna esige dagli uomini uno
sforzo continuo di perfezionamento professionale, ma ugualmente che essa crea condizioni e
incoraggiamenti ad approfittare dei multipli beni della vita e che ciò diviene possibile grazie
unicamente all'istruzione.
La concezione di una società dell'educazione — prefigura Suchodolski — promette di far
uscire gli uomini dall'impasse nella quale li avevano condotti le loro visioni della «società di
produzione» e della «società di consumo».
Contenendo nei limiti della ragione i compiti della produzione e i bisogni del consumo,
questa concezione considera la vita umana come esistenza soggettivamente preziosa grazie
all'intensificazione di tutte le forze dell'uomo che devono servire il suo sviluppo.
L'affermazione degli uomini nella produzione e nel consumo, ma anche nelle attività che
vanno al di là del quadro di queste due funzioni, nel lavoro sociale e nell'attività creatrice,
divengono la base che precisa all'educazione permanente gli obiettivi e un contenuto
assolutamente nuovi.
La dottrina dell'educazione permanente — conclude — diviene cosi una sorgente di
revisione critica delle nozioni pedagogiche essenziali e un fattore cooperante alla comprensione
moderna dell'educazione come processo di sviluppo della vita umana integrale nei suoi
contenuti umanistici.
Questa teoria dell'educazione si collega con le tradizioni più feconde del pensiero
pedagogico — da Socrate e Dewey, passando per Comenio — alle migliori prove ed
esperienze intraprese nei differenti paesi.
Ma tale concezione di un'educazione permanente che si realizza in una «società di
educazione», in — potremmo dire — un «regno della libertà» formativa, deve fare i conti, oggi,
e in particolare nel nostro paese, con le strutture della realtà sociale.
Proprio perché la sua dimensione reale non è quella strettamente pedagogica, ma quella
«umana» «nella quale si opera la principale scelta dei valori», le condizioni politiche del divenire
e dell'affermarsi di un'«educazione permanente» devono essere attentamente studiate nel
tempo e nel luogo.
Ci avvediamo, allora, che il «permanente», il «globale», il «coerente» attribuiti ad
un'educazione del futuro non sono specificazioni risolutive dei problemi attuali.
I riferimenti temporali («permanente»), spaziali («globale») e anche quelli interni al
processo formativo («coerente») posseggono una valenza indubbiamente progressiva rispetto
alla mera identificazione riduttiva scuola-educazione, ovvero studio-età giovanile; oppure
rispetto alla claustrizzazione della scuola rispetto all'ambiente, alla scissione della istituzione
formativa dalla società, all'accettazione fatalistica della divisione tra scuola ufficiale, riconosciuta
e «scuola parallela» dei media; oppure rispetto alle incongruenze metodologiche all'interno del
sistema scolastico.
172
B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3,
Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972.
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Ma tale progressività non è immediatamente e sempre tale; essa può assumere due
significati diametralmente opposti, o, comunque, divergenti: da una parte, quello di una
semplice tendenza alla ristrutturazione, alla riorganizzazione, all'aggiornamento delle istituzioni
educative in risposta alle esigenze dei processi produttivi, alle suggestioni scientifiche, alle
pressioni della «scuola di massa».
Dall'altra, quello di una piena assunzione dei valori trasformativi che può avere
l'incentivazione dei processi di affermazione di una «educazione permanente» verso una
«società dell'educazione» che, delimitando la produzione e il consumo, tenda a riattribuire
all'uomo tutte le sue capacità creative, contro lo sfruttamento dell'homo faber e dell'homo
ludens.
Se fosse la prima tendenza a prevalere, il ritmo educativo di conservazione-innovazione
sarebbe completamente falsato e distorto, a vantaggio delle finalità conservative, in una
conferma di tali finalità insite nell'«educazione permanente» che è già in atto, che possiede una
propria «globalità», una propria «coerenza» e che avrebbe semplicemente bisogno di
restaurare le proprie strutture, di rielaborare i propri metodi, di utilizzare i nuovi strumenti.
Sembra evidente che qualora utilizzassimo il concetto di «educazione permanente»
senza porre attenzione alle appropriazioni possibili non soltanto non salvaguarderemmo le
aspirazioni al cambiamento, ma forniremmo alibi, sostegno, strumenti al disegno
dell'immodificazione capitalistica.
L'attenzione di chi opera nel campo dell'educazione degli adulti si esercita, innanzi tutto,
sulla base della consapevolezza che, come sottolinea Suchodolski, se «l'organizzazione
dell'insegnamento scolastico dipende in primo luogo dall'amministrazione dell'istruzione
pubblica e dai quadri insegnanti, la realizzazione dell'ambizioso programma dell'educazione
permanente dipende prima di tutto dai fattori che determinano le condizioni e l'orientamento
dell'esistenza umana», e che tali «fattori non hanno un carattere pedagogico immediato e non
dipendono dagli educatori»173.
Questa considerazione, evidentemente, non deresponsabilizza gli educatori, ma tende
ad evitare le ricorrenti illusioni pedagogistiche che sarebbero particolarmente miopi dinanzi ai
problemi dell'educazione permanente.
Questo concetto — nelle prefigurazioni più condivisibili — postula, infatti, un rapporto
così intensamente organico tra educazione e società, tra formazione e lavoro, che sarebbe
oggettivamente assurdo tentare di estrapolare un momento dall'altro, un aspetto dall'altro.
Questa considerazione comporta, al positivo, l'esigenza imprescindibile per un educatore
di impostare il proprio lavoro senza indulgere a false oasi pedagogiche, ma correlando
organicamente il proprio intervento ai processi globali, operando affinché le scissioni non
trovino avalli da parte nostra.
D'altra parte, tale attenzione si esercita per una sorta di mandato storico; se è vero, come
noi riteniamo, che l'esigenza moderna di una educazione permanente ha avuto origine dalla
pratica dell'educazione degli adulti174, a questa tocca farsi carico — più di altri settori:
universitario, superiore, medio, elementare, ma auspicabilmente insieme ad essi — del
controllo sui processi realizzativi dell'educazione permanente, che certo nelle nostre strutture
socio-economiche non avranno corso immediatamente progressivo.
173
B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3,
Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972
174
«II contributo dell'educazione degli adulti all'insieme dell'educazione è decisivo ed insostituibile. Si è visto che in
tale ambiente ed a partire da una serie di analisi sulla natura, le condizioni e il funzionamento del lavoro in corso
e sugli ostacoli incontrati, che si sono elaborate e si continuano ad elaborare la teoria, e in una certa misura, la
pratica dell'educazione permanen te. Ma il contributo dei programmi e delle attività di questo settore alla
collettività educativa ha un carattere nello stesso tempo concreto ed immediato. Le più importanti innovazioni
pedagogiche del nostro tempo sono nate in questo contesto» (cfr. P. Lengrand, Introduzione all'educazione
permanente cit., pp. 35-36).
Pagina 65 di 185
Ci sembra importante sottolineare la pratica, perché come rileva P. Lengrand, è nel corso
della propria evoluzione che l'educazione degli adulti segna le proprie distanze nei confronti dei
modi tradizionali dell'educazione.
Le generazioni di lavoratori che cercavano il mezzo, grazie all'istruzione, di ottenere le
migliori condizioni di vita e soprattutto di sicurezza, sia perché cercavano un alimento al loro
desiderio di conoscere e di comprendere, sia perché dovevano acquistare gli strumenti di lotta,
hanno scoperto nelle organizzazioni di mutuo insegnamento, nelle istituzioni di educazione
operaia o cooperativa, nei movimenti ed associazioni di educazione popolare «attraverso,
insomma, le esperienze di queste istituzioni inedite», un «nuovo genere di relazione
educativa»175.
Ma prima di giungere a questo risultato (ben prima dell'esplosione studentesca degli anni
'60), i lavoratori hanno verificato che l'insegnamento «è un potente strumento di assimilazione e
di conformismo.
Hanno rifiutato di lasciarsi assimilare da una cultura dal carattere borghese e
conservatore che privilegia i valori del passato, dell'eredità, dell'ordine e della sicurezza, a
detrimento dei valori della lotta, dell'innovazione e dell'apertura.
Hanno sentito il pericolo di una cultura disincarnata che si pretendeva oggettiva e
disinteressata, mentre era un'arma di scelta per la difesa degli interessi della classe al potere.
Hanno, denunciato i miti e le mistificazioni della ragione universale, estranea alle
congiunture e alle lotte per il riconoscimento dei diritti e la giustizia sociale»176.
Un altro rifiuto è maturato nei confronti del sistema educativo e dei modi tradizionali
dell'istruzione distribuita ai fanciulli: «la trasmissione a senso unico del sapere, gli esercizi, i
compiti, la verifica delle conoscenze, gli esami e i diplomi»177.
E, conclude Lengrand, è stato «contro queste strutture mentali, ideologiche, culturali e
metodologiche che si è progressivamente costituito un nuovo tipo di educazione degli adulti»178.
Attraverso il non breve e contraddittorio processo della propria evoluzione, l'educazione
degli adulti, in quanto emersa dai bisogni formativi della classe operaia, ha raggiunto una
consapevolezza storica che può permetterle un controllo non ingenuo sui modi di realizzazione
di un'educazione permanente.
E, nello stesso tempo, una consapevolezza delle forze sulle quali poter contare per
ostacolare i disegni conservativi.
Tale verifica deve essere effettuata sull'emergenza degli attuali e prospettici bisogni
formativi, sulle spinte e controspinte che delineano un progetto di educazione permanente.
Indubbiamente esse non potrebbero essere individuate, oggi, nella visione di una «Pampaedia»
dell'«educazione universale» secondo Comenio179; ovvero limitarsi alle motivazioni del Report
inglese del 1919 dove si leggeva, a proposito dell'educazione adulta che essa «non può essere
considerata come un lusso per poche eccezionali persone qui e adesso, e neppure come
qualcosa che riguardi soltanto un breve periodo della vita giovanile, ma che l'educazione adulta
è una permanente nazionale necessità, un inseparabile aspetto della "citinzenship" e quindi
dovrebbe essere insieme universale e permanente»180.
175
B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3,
Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972
176
B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3,
Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972
177
B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3,
Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972
178
B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3,
Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972
179
J. Kotasek, L'idèe d'éducationpermanente dans la réforme actuelle des systèmes éducatifs et de laformation
des maìtres, in L'école et l'éducation permanente, Quatre études, Paris, Unesco, 1972, p. 187.
180
Cfr. Adult Éducation Committee, Ministry of Reconstruction, Great Britain, 1919, p. 55.
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Le attuali e prospettiche sollecitazioni al delinearsi teorico e al realizzarsi strutturale di
un'educazione permanente non possono essere raffrontate alle indicazioni umanistiche,
illuministiche, o a quelle funzionali agli albori della società industriale.
È necessario rifarsi agli attuali processi di produzione e di consumo per contribuire a
superarli; alla dialettica del cambiamento e della stasi che mai, come in questo scorcio di
contemporaneità, ha investito con tanto interesse e con tanta veemenza i processi formativi.
3.3.4 Educazione, non istituzione scolastica?
Rispetto al concetto di educazione permanente, nelle sue prospettive utopiche e nelle
sue contraddizioni storiche, acquista un particolare valore, nell'ambito del rapporto scuolaeducazione degli adulti, il proposito di smantellamento dell'istituzione formativa scolastica, nelle
varie versioni più o meno recenti (Ivan Illich, Paul Goodman, Everett Reimer)181.
Tale smantellamento è, secondo Illich, «ormai inevitabile, e si verificherà molto prima di
quanto si pensi.
Non si può più infatti rimandarlo di molto, e non è neanche necessario dare una forte
spinta a provocarlo perché questo già viene fatto.
Piuttosto — egli aggiunge — sarebbe opportuno cercare di orientarlo in una direzione
promettente, dal momento che potrebbe ancora attuarsi in due maniere diametralmente
opposte»182.
Da una parte, infatti, potremmo avere un «allargamento del mandato del pedagogo» e
sostanzialmente un «accrescimento del suo controllo sulla società, anche fuori della scuola.
Con le migliori intenzioni e con la semplice estensione della retorica oggi in uso nella
scuola, l'attuale crisi scolastica potrebbe fornire agli educatori un pretesto per servirsi di tutte le
reti della società contemporanea al fine di incanalare verso di noi i loro messaggi, s'intende per
il nostro bene.
La descolarizzazione... significherebbe in tal caso l'avvento di un "mondo nuovo"
huxleyano, dominato dai ben intenzionati gestori dell'istruzione programmata».
Dall'altra parte, si potrebbe avere la «straordinaria possibilità» per «grandi masse di
gente» di «preservare il diritto di accedere su un piede di eguaglianza agli strumenti che
permettono sia di apprendere sia di rendere partecipi gli altri di ciò che si conosce o si
crede»183.
Ci sembra che il tema della «descolarizzazione» vada, oggi, ripreso e discusso a questo
punto, più che all'origine delle sue motivazioni.
Sia, infatti, che queste fossero basate su constatazioni d'inefficienza e di spreco («Tra il
1965 e il 1968, per esempio, nelle scuole degli Stati Uniti sono stati spesi oltre tre miliardi di
dollari per compensare la situazione di svantaggio di quasi sei milioni di bambini.
Questo programma, noto come "Title One", è il più costoso tentativo di recupero che sia
mai stato tentato nel campo dell'istruzione, e tuttavia non si è notato alcun progresso
significativo nell'apprendimento dei piccoli "svantaggiati".
Anzi, in confronto ai compagni provenienti da famiglie di medio reddito, sono andati
ancora più indietro».
Sicché abbiamo «il fallimento totale del tentativo di migliorare l'istruzione dei poveri con il
più costoso degli interventi»184.
181
Cfr. I. Illich, Distruggere la scuola, Pistoia, s.d., Centro di documentazione; Descolarizzare la società. Per una
alternativa all'istituzione scolastica, Milano, Mondadori, 1972. Rovesciare le istituzioni, Roma, Armando, 1972. E.
Reimer, La scuola è morta, Roma, Armando, 1972. Cfr. La descolarizzazione nell'era tecnologica, a cura di M.
Laeng e W. K. Richmond, Roma, Armando, 1972.
182
I. Illich, Descolarizzare la società cit., p. 163.
183
Ivi, pp. 163-164.
184
Ivi, p. 26.
Pagina 67 di 185
Sia che provenissero da rilievi sulle distorte finalità educative dell'istituzione scolastica in
USA («Molti studenti, specie se poveri, sanno per istinto che cosa fa per loro la scuola: gli
insegna a confondere processo e sostanza.
Una volta confusi questi due momenti, acquista validità una nuova logica: quanto
maggiore è l'applicazione, tanto migliori sono i risultati; in altre parole, l'escalation porta al
successo.
In questo modo si "scolarizza" l'allievo a confondere insegnamento e apprendimento,
promozione e istruzione, diploma e competenza, facilità di parola e capacità di dire qualcosa di
nuovo»185.
In un caso o nell'altro, insomma, sarebbe arduo non condividere le motivazioni iniziali.
Soprattutto riferendosi al nostro paese dove, cambiando quanto vi è da cambiare, le
critiche rivolte — da diverse parti — alla scuola convergono sui punti essenziali delle analisi
descolarizzanti di Illich e di altri; ovviamente, per le zone della penisola dove le strutture
scolastiche esistono.
Da un'angolazione di educazione permanente, e, cioè, di implicita modificazione delle
attuali strutture formative, è indispensabile muovere da una critica, scientificamente radicale,
alla situazione presente; ma è anche necessario e saggio che l'analisi dell'assoggettamento
della scuola alle strutture e alla logica del profitto schiuda orizzonti realmente innovativi.
Si verifica tale processo in Illich?
Egli — osserva L. Lombardo Radice — «combatte il consumismo, il progresso tecnico
fine a se stesso, l'inquinamento dell'ambiente e la manipolazione degli uomini.
Vede, e denuncia, i guasti e le contraddizioni del capitalismo maturo, ma non li
attribuisce al capitalismo in quanto tale, bensì — genericamente — al modo di produzione
industriale…
Secondo Illich, la crisi generale attuale non è da ricercare nei rapporti di proprietà, bensi
nel modo di produzione... la soluzione non consisterebbe nel dominare le forze produttive
scatenate, ma nel ridurle; non in un diverso sviluppo, ma in un arresto, e anche in arretramento,
dello sviluppo produttivo stesso»186.
Le prospettive, pur suggestive, di una società senza scuola dove l'alternativa
all'istituzione scolastica sarebbe fondata su quattro reti formative (capaci di garantire: gli oggetti
educativi, lo scambio delle conoscenze, la discussione tra pari, la disponibilità di maestri)187
presentano gli stessi rischi di quelle di un'educazione permanente chiusa in se stessa.
Non si comprende, infatti, come un tipo di società che ha elaborato una scuola (e una
mancanza di scuole) a proprio uso e autoconservazione potrebbe distruggere volontariamente
una istituzione storica senza intaccare il proprio sistema, la propria organizzazione.
Allo stesso modo in cui sarebbe superficiale non riferire la «coerenza» dell'educazione
permanente ad un termine di confronto capace di scoprirne il senso, cosi è necessario chiedersi
quale utilizzazione potrebbe essere fatta — ed è fatta — sia della critica sentimentalmente
radicale, sia delle ipotesi sostitutive avanzate da Illich. In altre parole, la «società senza scuola»
appare come il rovescio ingenuo di una «società educante» già esistente ed operante.
Senza una modificazione strutturale, la sostanza, la finalità, le direzioni educative
rimarrebbero — scuola o non scuola — identiche a se stesse.
Come si può partire dalla scuola (l'effetto), sia per abolirne le strutture sia per
incrementarne alternativamente le funzioni per l'intero arco dell'esistenza, allo scopo di mutare
quella società capitalistica (la causa) che ha creato un tipo di istituzione formativa, e che tende
a riprodursi?
Le forze consapevoli e organizzate della società adulta constatano quotidianamente che
la «riproduzione» — come tendenza e non come deterministico risultato — agisce nell'ambito
185
Ivi, p. 21.
L. Lombardo Radice, La descolarizzazione a chi gioverebbe?, in «La Riforma della Scuola» 11, 1972, pp. 19-24
187
I. Illich, Distruggere la scuola cit., p. 130.
186
Pagina 68 di 185
dei più larghi tempi e spazi, attraverso strutture e strumenti che non sono soltanto quelli
meramente scolastici, nonché attraverso metodi che sono ben lontani — apparentemente — da
quelli tradizionali.
Dalle verifiche sulle valenze educative agenti nei rapporti di lavoro (la ricerca del posto
da parte del disoccupato, quella del giovane alla prima occupazione, le condizioni di lavoro in
fabbrica, gli omicidi bianchi, le malattie professionali, l'emigrazione, le condizioni di
pensionamento); o sulle valenze educative del rapporto familiare (gestito da genitori che
soffrono di condizioni formative costrittive e non liberanti); o sulle valenze educative
dell'ambiente (le strutture urbanistiche, l'intrecciarsi comunicativo degli audiovisivi, della stampa,
della pubblicità), da tali verifiche sembra, talvolta, scaturire, la constatazione che la semplice e
generica richiesta di «descolarizzazione» (o di «educazione permanente») sia una grottesca
irrisione.
L'importante, ci sembra, non è il distruggere; ma il costruire una capacità e una forza di
controllo sui processi educativi in atto, o in fieri (dall'ambito scolastico — da sviluppare anche
quantitativamente —, a quello delle strutture educative per l'età adulta, da creare o rafforzare).
L'importante è l'essere in grado di gestire processi formativi oppositivi a quelli attuali.
Educazione senza questa scuola, cosi come essa è venuta strutturandosi parallelamente
allo sviluppo di tipo capitalistico, non può voler dire soltanto il rifiuto; si tratta di un'aspirazione
che deve muovere dal concreto della contraddizione di classe insita in questa società.
Per realizzare una società positivamente educativa, non basta cancellare con un tratto di
penna le situazioni e le istituzioni educative che ostacolano oggettivamente ogni processo
liberatorio, ma creare le condizioni reali perché l'acquisizione di consapevolezza sulle valenze e
sulla direzione delle situazioni e delle istituzioni educative proceda di pari passo ai movimenti
trasformativi degli attuali rapporti di produzione.
Senza questo tipo di impegno, educazione permanente e richiesta di descolarizzazione
possono essere non solo comodamente assorbite dalla conservazione, ma possono risolversi in
un corroborante per un sistema formativo che sappia realizzare quel quid di riforma sufficiente a
superare alcuni momenti e aspetti delle proprie periodiche crisi.
3.3.5 Crisi della scuola e tendenze strutturali di riforma
Le tendenze di riforma delle strutture scolastiche tradizionali sono, peraltro, già in atto, e
non da oggi.
Esse variano d'intensità e di significato (sempre nell'apparenza della trasformazione) a
seconda delle latitudini e delle longitudini pedagogiche, in stretta correlazione con le soluzioni
che nei singoli paesi capitalistici si individuano per controllare i rapporti tra formazione e
occupazione, tra scuola e mercato del lavoro, tra formazione professionale e modi di
produzione, tra mano d'opera giovanile e adulta, tra donna e uomo, tra agricoltura e industria,
tra zone depresse e sviluppate, tra mercato del lavoro interno e internazionale, e tra i nessi tra
l'uno e l'altro settore.
Nel nostro paese, ad esempio, siamo evidentemente ben lontani da un'educazione
considerata come un bene in sé, secondo la prospettiva del Suchodolski.
Le strutture formative sono una variabile del profitto; ciò conduce ad una alternanza di
sollecitazioni e di freni, di timide riforme e di costanti tentativi di controriforma sia nelle strutture
come nei metodi d'insegnamento.
Non intendendo trovare soluzioni reali ai problemi dell'occupazione, si tenta di tornare al
«numero chiuso»; le «circolari» sulle sperimentazioni vengono continuamente contraddette a
spese degli insegnanti che, nonostante le difficoltà, si impegnano ad attuarle.
Pagina 69 di 185
La crisi dell'occupazione giovanile viene addossata allo sviluppo della scolarità; ma se
«si considerano — notava Chiarante188 — le linee di sviluppo complessive del sistema
scolastico italiano, in effetti il dato emergente non è tanto quello — generico — del forte
incremento della scolarizzazione verificatosi negli ultimi due decenni (che è dato comune a tutti
i paesi), bensì è quello di uno sviluppo scolastico fortemente squilibrato, che nel confronto con
altri paesi fa registrare, accanto a ritmi abbastanza elevati di crescita dell'istruzione media
superiore e di quella universitaria, il permanere di forti ritardi e di gravissime carenze proprio nel
settore dell'istruzione di base: e se si considera la rilevanza di questo settore è giusto dire che
siamo in presenza, per quel che riguarda i livelli di istruzione della grande massa della
popolazione, non già di un'espansione scolastica troppo estesa o troppo rapida, bensì, al
contrario, del persistere di carenze gravi e diffuse del sistema scolastico e del sistema formativo
nel suo complesso rispetto ai bisogni di una società ad avanzato sviluppo economico e
sociale».
E, infatti, anche per il periodo più recente in cui si è parlato iperbolicamente di
«esplosione scolastica», i dati relativi al rapporto tra mutamenti intervenuti nelle strutture
dell'occupazione e livelli di istruzione sono molto significativi.
All'inizio del decennio 1960-1970, abbiamo, «rispetto al totale degli occupati, una
percentuale estremamente elevata — oltre l'81% — di lavoratori privi di qualunque titolo di
studio o forniti solo della licenza elementare: ma anche al termine del decennio tale percentuale
rimaneva assai alta, pari a quasi il 72% del totale degli occupati.
La tendenza alla stagnazione risulta ancora più accentuata se si limita il confronto solo ai
lavoratori dipendenti: in questo caso si vede infatti che i lavoratori senza titolo o forniti solo della
licenza di scuola elementare erano nel 1961 il 92% del complesso dei lavoratori dipendenti ed
erano ancora l’86% nel 1970».
Forse, per riflettere al significato sociale complessivo, vale la pena di tener presente che
in valore assoluto gli occupati con licenza elementare o senza nessun titolo di studio
ammontavano nel 1970 a 13 milioni e 555 mila su un totale di 18 milioni e 954 mila.
Di fronte a questa realtà, i problemi dell'educazione permanente assumono significati
sociali e storici precisi perché le tendenze alla stagnazione formativa sono oggettivamente
prevalenti rispetto ad altre che siano, almeno, riformatrici delle più evidenti storture che, non
certo casualmente, vanno a colpire gli appartenenti ai ceti contadini e operai; è tra gli occupati
di questi ceti che si riscontravano, nel 1970, ben 2 milioni e 911 mila lavoratori privi di qualsiasi
titolo di studio.
Per essi vi è necessità, sia di possedere gli strumenti di comunicazione essenziali per far
sentire la loro voce; sia di possedere occasioni e strutture formative che non siano quelle della
pura trasmissione dei valori conservativi, ma quelle capaci di garantire l'aprirsi al nuovo, la
creazione di una società in cui l'educazione permanente sia garantita a tutti.
Se nel nostro paese non interpretassimo in senso innovativo il rapporto scuoladescolarizzazione, nella contraddizione classista che lo permea, la crisi della scuola ricadrebbe,
come già accadde al tempo della florida scuola per pochi, sulle teste dei diseredati, sia per
escluderli culturalmente, sia per sfruttarli economicamente a beneficio delle aristocrazie
intellettuali e sociali.
Descolarizzazione, dunque, nel senso di destrutturazione di questo sistema scolastico
come variabile del profitto, come istituzione di discriminazione, nel senso di creazione di
strutture, occasioni, metodi di formazione alternativi.
D'altra parte, se nel nostro paese le spinte verso soluzioni riformatrici sono ingenti, e si
può credere che esse riusciranno a vincere le resistenze più chiuse ed arroccate, altrove le
sollecitazioni contro le strutture e i metodi obsoleti hanno trovato udienza, almeno per ragioni di
efficienza e almeno a titolo sperimentale.
188
G. Chiarante, Istruzione e sbocchi professionali. Più scuola e più occupazione, in «Rinascita» 5, 2 febbraio
1973, pp. 19-20
Pagina 70 di 185
Sulla strada, certo non della descolarizzazione, ma dell'allentamento delle maglie
metodologiche dell'istituzione scolastica si sono posti alcuni progetti negli Stati Uniti come
quello dell'«Università senza mura», realizzato da Samuel Baskin dell'Antioch College di Yellow
Springs, con l'aiuto del governo americano e della Fondazione Ford, o come quello dell’
«Empire State College» organizzato dalla State University dello Stato di New York, con un
contributo delle Fondazioni Ford e Carnegie.
Il primo rifiuta la pratica dell'istruzione secondo il modello del «college», sia nel senso
che non richiede residenza o frequenza, sia nel senso che comprende nella docenza persone
estranee al college; gli studenti possono frequentare corsi presso altri colleges convenzionati in
quanto associati al progetto, possono lavorare presso istituti pubblici o aziende private — dagli
ospedali ai musei —, possono studiare individualmente servendosi delle apparecchiature fornite
loro. Il secondo progetto acquisisce alcuni principi delle tendenze innovative sul piano
metodologico, e cerca di realizzarli; ad esempio, pur riconoscendo l'importanza dello studio
nell'ambito della struttura, ritiene che tale modo di acquisire conoscenze non sia più l'unico e il
più importante, che il periodo quadriennale di studio non debba essere considerato
immodificabile ma abbreviato, prolungato o intervallato da altre occasioni educative, che il
curriculum non debba essere definito dall'istituzione, e per essa dai docenti, ma con gli studenti,
che nessun esperto che insegni possa essere accettato quale un puro trasmettitore, e così via.
Sembra, qui, di udire l'eco delle proposizioni di quanti hanno affermato le più avanzate
aspirazioni all'educazione permanente; sembra di percepire il riecheggiare delle aspirazioni
degli Illich.
Di fronte ai problemi degli scompensi — riscontrabili anche nel campo educativo —
provocati da precise cause strutturali, la contraddizione non consente di rimuovere queste
ultime, ma accetta che si tenti di attenuare, controllare, indirizzare gli effetti.
Ciò si verifica, puntualmente, attraverso i processi di asservimento della scienza e della
tecnologia, nella condizione della proletarizzazione intellettuale, attraverso l'appropriazione
delle prospettive innovanti circa le strutture, le metodologie, gli strumenti; sicché mentre tali
prospettive di rinnovamento emergono dalla condizione oggettiva scaturente dai rapporti di
produzione (nella sofferenza per tale condizione, e dalla creatività oppositiva a tale condizione
oggettiva) la loro utilizzazione viene soggettivamente piegata all'interesse delle strutture
conservative dominanti.
Le tendenze strutturali di riforma della scuola nascono con tali stimmate non solo negli
Stati Uniti, come esemplificavamo; ma in ogni paese neocapitalistico dove si siano percepite, e
ci si sia appropriati — privatisticamente — delle riflessioni che Dewey faceva nel lontano 1899:
«oggi, la concentrazione dell'industria e la divisione del lavoro hanno praticamente
eliminato le occupazioni che si svolgevano nell'ambito della casa e del vicinato, almeno per
quanto concerne gli effetti educativi...
Sono le condizioni fondamentali che sono mutate, e il rimedio può venire soltanto da
un'altrettanto radicale trasformazione dell'educazione»189.
La scuola italiana — a causa dei suoi fattori condizionanti — non si è inserita in un
processo di sviluppo analogo a quello dei paesi anglosassoni; il sistema sociale che la dirige
molto tardivamente recepisce che — come sottolinea Touraine190 — una società industriale
postula ad ogni elemento di situarsi in un sistema di cambiamento e non chiede più conto del
passato o dell'essenza.
Basti riflettere, per tener conto dei ritardi storici, che la «Carta della Scuola», promulgata
come un'epigrafe mortuaria nel '39, a coronamento del regime, si basava sulla scelta di una
«esclusione di un certo numero di alunni dalla scuola pubblica» e sull'allarme (negli anni
Trenta):
«Troppi giovani nelle nostre Università.
Troppa facilità di accedervi.
189
190
J. Dewey, Scuola e società, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 6.
A. Touraine, La società post-industriale, Bologna, II Mulino, 1970, p. 44
Pagina 71 di 185
Troppe Università!»191.
Sappiamo bene, dunque, che la nostra situazione in Europa è ancora lontana, sul mero
piano dell'efficienza e della razionalizzazione, da quelle di altri paesi a struttura capitalistica.
Delle tendenze prospettiche che emergono da tali realtà più articolate, più aggiornate, più
sollecitate dalle contraddizioni interne, dobbiamo tener conto.
Perché sarà da queste logiche di sviluppo che potremo essere influenzati, e non tanto
per le futuribili forme di integrazione politica, quanto per le presenti e galoppanti forme di
integrazione economica dinanzi alle quali - vedi il problema della nostra forza-lavoro nel
mercato europeo — ci troviamo, sempre più acutamente, in situazione di sottosviluppo.
Tali tendenze, non limitate peraltro all'Europa, si basano su alcune assunzioni tanto
precise, quanto oggettive. Innanzi tutto, sulla crisi delle presenti strutture, anche nei loro metodi,
e sulla correlativa necessità di individuare altre forme di risposta alle necessità educative.
Le ipotesi, i suggerimenti, i piani si diversificano notevolmente circa i modi di realizzare
una «radicale trasformazione dell'educazione».
Essi variano a seconda che l'accento cada, tanto per fare alcuni esempi, sul rapporto
scuola-produttività o scuola-sviluppo, sul rapporto scuola-lavoro o su quello scuolaautorealizzazione.
Esse variano a seconda che i processi educativi siano posti in relazione con il tempo, e
in particolare con l'età individuale, ovvero con lo spazio sociale; a seconda che si tenda a
privilegiare la scuola come tale, colui che studia, la funzione di chi insegna o il rapporto tra le
componenti interne alla struttura e all'occasione formativa, ovvero la relazione tra interno ed
esterno.
Si vuoi sottolineare — con questo — che le aspirazioni generiche ad un'«educazione
permanente», o le proposizioni circa la «descolarizzazione», non sono scoperte di navigatori
solitari, a livello soggettivo, ma risultanze di processi oggettivi che è necessario porre in luce, e
sulle quali bisogna trovare i modi di intervenire in relazione a finalità globali che contengano
quelle educative, sia in senso lato, sia in senso stretto.
Si intende ribadire che né la realizzazione di una formale educazione permanente né una
totale descolarizzazione sarebbero di per sé sufficienti a modificare realmente la presente crisi.
Ed è probabilmente per questo che le tendenze all'aggiustamento si muovono proprio
nelle direzioni che talvolta vengono ritenute, soggettivamente, addirittura rivoluzionarie.
Muovendo dall'assunto della crisi dell'attuale scuola, esiste un'abbondante letteratura che
affronta i problemi futurologi dei sistemi educativi.
Attraverso le sintesi e i modelli particolarmente evidenti di O. K. Kyòstiò192, ci sembra
opportuno sottolineare il ruolo che l'educazione degli adulti potrebbe svolgere nei diversi schemi
scolastici alternativi, considerati in un ordine temporale prossimo e lontano.
Per la definizione di tali schemi, si parte da alcuni presupposti riscontrabili nelle attuali
realtà statistiche e tendenze: l'aumento continuo del numero delle persone che frequentano la
scuola; il diminuire delle differenze di tipo e dei livelli tra le scuole e l'accrescersi
dell'implicazione tra l'una e l'altra; il diminuire del contrasto tra l'educazione generale e quella
professionale in relazione ai mutati bisogni della società e allo sviluppo delle capacità di fronte
ai rischi di obsolescenza; la necessità di legare la scuola alla ricerca, in rapporto alla
complessità dei processi di apprendimento e allo sviluppo delle relative tecnologie; il modificarsi
del significato tradizionale della scuola, poiché il problema dell'apprendere riguarda persone di
ogni età mentre si verifica uno sviluppo di tecnologie educative che non richiedono,
necessariamente, edifici scolastici e insegnanti per lo svolgimento di funzioni un tempo
necessarie; l'affermarsi di una concezione dell'educazione estesa a tutta la vita e il correlativo
sminuire del valore attribuito allo status scolastico con l'abbandono di esami e riconoscimenti
191
192
G. Gentile, Scrìtti pedagogici. La riforma della scuola in Italia, Firenze, Sansoni, 1937
O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland,
1972.
Pagina 72 di 185
(lauree, diplomi ecc.); i processi di assimilazione della scuola - non più considerata
un'istituzione per sé - alla società nella quale l'apprendere e il vivere avverrebbero nelle
«naturali» occasioni: famiglia, gruppi amicali, lavoro, divertimento ecc.
È inutile sottolineare che alcuni di tali presupposti, gli ultimi in particolare, appaiono non
riguardare soltanto l'ambito scolastico; più che la riforma dei sistemi d'insegnamento, sembrano
postulare cambiamenti generali non superficiali del sistema sociale.
In effetti, dobbiamo tener presente due opzioni: la prima si riferisce al tipo di
modificazione che ci attendiamo nella società per la scuola; la seconda al tipo di modificazione
che ci attendiamo nella scuola per la società.
Sembra evidente che qualora la prima attesa fosse limitata a riforme superficiali, senza
intaccare i rapporti di produzione, la logica del profitto permetterebbe e potrebbe perfino
richiedere modificazioni per la scuola, anche totali, almeno apparentemente, pur di conservare
lo status attuale; in questo caso, il sistema formativo muterebbe volto, ma non direzione.
Qualora, invece, la tensione al cambiamento investisse gli attuali rapporti di produzione,
le prospettive di mutazione del sistema formativo acquisterebbero una valenza innovativa reale.
Se la prima opzione riguarda il modo in cui ci poniamo rispetto ad un progetto societario
a termine indefinito, la seconda si riferisce direttamente al modo in cui, oggi, viviamo il rapporto
conservazione-innovazione nel complessivo sistema formativo che non è soltanto quello
scolastico in senso stretto.
Sulla base di queste distinzioni, possiamo esaminare le principali linee di modificazione
della scuola, per riscontrare la funzione che — nelle varie opzioni — ha, o potrebbe avere,
l'educazione degli adulti.
Secondo lo schema cui ci rifacciamo, le diverse tendenze di modificazione vengono
rappresentate in sei modelli di sistemi formativi:
1) il sistema della scuola parallela
2) il sistema gerarchico, di tipo A e di tipo B
3) il sistema di scuola unificata
4) il sistema di scuola di base
5) il sistema di vita integrata
I primi tre riguardano essenzialmente il sistema gerarchico, nei suoi vari perfezionamenti.
Il quarto prevede una rimozione della tradizionale struttura.
Il quinto anticipa un riversarsi reciproco tra società e scuola.
In ognuno di tali sistemi l'educazione degli adulti ha avuto, ha o potrebbe avere, differenti
funzioni.
Vediamoli in modo particolare.
Pagina 73 di 185
Figura 1 – Schema 1
193
- Scuola Parallela
Con questo primo schema, viene rappresentata la situazione esistente — con le dovute
precisazioni — in alcuni paesi europei. In tale sistema formativo di tipo gerarchico, le occasioni
educative procedono, dopo una prima fase comune, in un rigido parallelismo che conduce i
pochi agli studi superiori e la maggior parte verso la formazione professionale, sia nella scuola
sia sul lavoro.
Tendenze alla modernizzazione dei metodi sono presenti e possibili in questo sistema
che tuttavia rimane uguale a se stesso, alle sue caratteristiche fondamentalmente parallele e
differenzianti tra una ristretta élite e la massa.
La funzione dell'educazione degli adulti in questo sistema è quella - del tutto
assoggettata — del recupero, della diffusione culturale, della divulgazione e, in generale, di
tutte le iniziative di sostanziale acculturazione allo sviluppo scientifico, tecnologico, alla
produzione artistica, anche se attraverso metodi e strumenti più aggiornati e funzionali di quelli
oggi esistenti.
193
O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland,
1972, p. 9.
Pagina 74 di 185
Figura 2 – Schema 2 A
194
- Sistema gerarchico
In questo secondo schema, articolato in un modello A e B, è rappresentata la tendenza,
presente in minor misura in A e in maggior misura in B, ad offrire l'opportunità di proseguire gli
studi ad un crescente numero di giovani; permane, tuttavia, in generale, l'impostazione
gerarchica e, in particolare, la differenziazione tra formazione di una élite e formazione di
massa.
In A, l'educazione degli adulti è «integrata con la vita pratica» o svolta attraverso corsi
specifici; in B, diviene una istituzione vera e propria.
194
O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland,
1972, p.9
Pagina 75 di 185
Figura 3 - Schema 2 B
195
195
- Sistema gerarchico avanzato
O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland,
1972, p. 10.
Pagina 76 di 185
Figura 4 – Schema 3
196
- Scuola Unificata
Con questo schema si rappresenta il più sviluppato livello del sistema gerarchico, dove
sono aperte amplie possibilità di studio a seconda dei bisogni del sistema produttivo; e ciò sia
nel senso del recyclage, dell'educazione ricorrente, sia per evitare disoccupazione. In questo
sistema è possibile il «sandwich type study», cioè l'alternanza di studio e lavoro.
Attività educative sono svolte dai privati (industria) con il sostegno pubblico.
L'educazione degli adulti vi svolge una funzione organica al sistema formativo, a livello di
scuola secondaria, mentre assicura il superamento dei difetti di tale sistema, soprattutto per le
generazioni anziane e per superare l'obsolescenza delle conoscenze acquisite a scuola.
196
O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland,
1972, p. 10
Pagina 77 di 185
Figura 5 – Schema 4
197
- Scuola di base
II modello 4 mostra nuove forme organizzative del sistema formativo e il parziale
abbandono delle strutture scolastiche tradizionali.
Queste rimangono in piedi fino ai quindici anni, mentre successivamente subentrano
occasioni formative non strettamente scolastiche; da una parte il riferimento ad un'educazione
prolungata per tutta la vita, dall'altra lo sviluppo delle tecniche educative renderebbero possibile
lo studio individuale.
L'educazione degli adulti, in questo modello, avrebbe un ruolo primario, posto che, come
sembrarle tendenze trasformative investirebbero dapprima i momenti formativi dell'età postadolescenziale, sia per ragioni strutturali (il rapporto formazione-lavoro), sia per ragioni
metodologiche (la maggiore possibilità in età adulta di organizzarsi un programma di studio), sia
per ragioni istituzionali (nel rapporto tra università, istituti di ricerca, enti locali, sindacati).
L'educazione degli adulti, peraltro, riceverebbe una funzione specifica dai processi di
formazione impliciti nella funzione della scuola di base la quale avrebbe il compito di preparare i
giovani dai 5 ai 15 anni, fornendo loro gli strumenti per lo studio nell'età adulta.
197
O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland,
1972., p. 12.
Pagina 78 di 185
Figura 6 - Schema 5
198
- Vita integrata
Nella prospettiva futurologica dello schema 5, avremmo la scomparsa della scuola come
istituzione a sé, e correlativo esaurimento dell'insegnante e del discente come tradizionalmente
intesi nelle attuali istituzioni.
Ma, indubbiamente, questa realtà di «educazione naturale» non sarebbe (come ci hanno
insegnato Marx e Engels) prima dell'uomo o fuori dell'uomo.
Proprio perché si identificherebbe con la vita, essa sarebbe non facilmente controllabile,
come una struttura definita (con i suoi programmi, i suoi addetti, i suoi rapporti).
Sbaglieremmo, si vuol dire, se considerassimo questa prospettiva come immediatamente
capace di innovazione e di risoluzione dei problemi di una società classista. In una società
capitalistica, infatti, essa equivarrebbe a uno strumento d'integrazione al massimo grado di
efficienza, proprio nella misura in cui i processi formativi avverrebbero nelle occasioni e nei
modi meno avvertibili in quanto tali e, perciò, meno verificabili.
Con questa strumentazione, in conclusione, avremmo certamente una società educativa
diversa da quella rozza della produzione e del consumo, ma raffinatamente educativa alla
produzione e al consumo, nella quale le vie dell'innovazione sarebbero precluse, con le
caratteristiche delle prefigurazioni sociali di Zamjatin, di Orwell o di Huxley.
198
O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland,
1972., p. 12
Pagina 79 di 185
Di fronte alle caratteristiche di questo modello (processo educativo dalla culla alla tomba,
nessuna differenza tra educazione e istruzione, tutti educatori reciprocamente, scopi
dell'educazione non distinguibili anzi identici a quelli della società, nessuna struttura scolastica
in quanto tale) l'educazione degli adulti avrebbe il massimo della propria funzione, se non altro
di fronte al problema dell'assunzione di una responsabilità collettiva e diretta.
3.3.6 Educazione degli adulti e istituzioni formative
Rispetto allo svolgersi delle tendenze di cui abbiamo presentato le sintesi essenziali,
quale funzione dovrebbe avere un movimento di educazione degli adulti?
Se è evidente che le modificazioni delle attuali strutture scolastiche dipendono
globalmente dalle capacità d'incidenza del movimento operaio nel suo complesso, dal risultato
della lotta tra vecchio e nuovo, è evidente che la preparazione alle lotte (a discernere il nuovo
dal vecchio) è anche un problema educativo.
Di fronte alla sinuosità dei processi in atto, alla elevata aliquota di ambiguità possibile,
l'acquisizione della consapevolezza del reale senso degli interventi, delle tendenze in atto e
soprattutto delle prospettive non può essere che frutto di un'intensificazione dei processi
formativi.
Se è vero quanto asserisce Bertrand de Jouvenel e cioè che prevedere significa
conoscere l'avvenire attraverso l'educazione della volontà, ciò è tanto più vero, riteniamo, per
coloro che riflettono sull'avvenire per un dovere sociale, e non per un divertimento fantastico o
scientifico dell'intelligenza.
Si tratta, vogliamo dire, non solo di attendere dagli eventi i risultati e le indicazioni, ma di
saper anticipare un futuro che è già presente o pressante.
Noi riteniamo che il principale compito cui dovrebbe impegnarsi un movimento di
educazione degli adulti, capace di stare al passo dei tempi, dovrebbe essere quello di
rieducarsi.
E ciò non solo a livello nazionale, ma internazionale.
Se è vero, come molti ritengono, che dal suo seno sono emerse indicazioni tra le più
pregnanti del rinnovamento pedagogico — e questo proprio per la presenza del pubblico
operaio, protagonista della nascita e dello sviluppo dell'educazione degli adulti — si tratta oggi
d'interrogarsi sugli aspetti della nostra staticità, d'individuare ogni potenzialità sommersa dalla
quotidianità, di rifiutare lo stantio che l'educazione degli adulti si trascina dietro dall'ambiguità
delle origini.
Senza una profonda opera di autoanalisi e di bonifica, molto difficilmente l'educazione
degli adulti riuscirebbe a garantire tutto il nuovo che è indispensabile e che essa sarebbe in
grado di dare.
E, d'altra parte, espletare questo compito primario è meno arduo per l'educazione degli
adulti di quanto non sia per altri settori del movimento educativo.
L'invito che da più parti si rivolge alla scuola di contribuire a cambiare se stessa partendo
da se stessa — nell'innovazione dei metodi come dei rapporti interni ed esterni —, in quanto
strumento educativo di trasformazione, può essere accolto subito dall'educazione degli adulti.
E non solo perché essa è meno, o per nulla, legata a programmi e a diplomi o a
riconoscimenti legali, ma soprattutto perché il suo rapporto educativo essenziale è fondato
storicamente e socialmente sui problemi, e cioè sui bisogni di sviluppo della classe operaia.
Diviene più chiaro, allora, cosa vuoi significare l'impegno a intensificare i processi
formativi in modo da saper anticipare il precipitare e il realizzarsi delle correnti tendenze
trasformative della scuola e, in generale, del sistema educativo.
Uscire dal pedagogismo illuminato, dagli orti conclusi del metodologismo fine a se
stesso, dalle presunzioni di obiettività, dalle illusioni
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delle false autonomie e, nello stesso tempo, crearsi al più presto e nel modo più solido
un terreno reale d'intervento.
Se il problema della struttura scolastica è quello del rapporto con la società, qui è la
stessa società adulta che, educando se stessa, prepara lo scioglimento di quell'essenziale nodo
della trasformazione.
Se nelle nuove tendenze, o anche in quelle meno avanzate e più tradizionalmente
gerarchiche, la responsabilità dell'educazione degli adulti comincia non solo ad emergere, ma
ad affermarsi come prioritaria per l'avvio a soluzione della crisi della scuola, bisogna affrettare i
tempi di questa assunzione di responsabilità; dobbiamo riconoscere infatti che da parte della
società adulta questa assunzione non è stata finora piena.
Il fondamento storico e sociale dell'educazione degli adulti indica la base da cui muovere:
il rapporto tra produzione e formazione, tra lavoro e scienza.
Le determinazioni che scaturiscono dal riferimento costante e coerente a questa base,
mentre possono evitarci d'incorrere, come spesso è accaduto e accade, nel settorialismo, sia
spaziale che temporale, possono guidarci nell'impegno di contrastare quel «processo di
scissione» attraverso il quale si tende a separare «la scienza, facendone una potenza
produttiva indipendente dal lavoro... al servizio del capitale».
Possono guidarci nel promuovere quel sommovimento formativo che sarebbe costituito
dalla diffusione dell'acquisizione di consapevolezza dell''educazione permanente naturale, in
atto, oggi.
Possono soccorrerci nel rendere, anche educativamente, presente e agente la possibilità
del cambiamento.
Ciò significherebbe realizzare una politica dell'educazione degli adulti in relazione al
sistema scolastico, affinché gli adulti sappiano intervenire sulle attuali strutture in vista di
finalità, di nuove istituzioni, di metodi precisati, progressivi e coerenti.
Si tratterebbe del modo più fruttuoso di lavorare per il futuro.
Possono, infine, sostenerci, in Italia, nella lotta per il superamento dell'attuale scandalo:
l'assenza pressoché totale di interventi di educazione degli adulti in grado di affrontare in tempi
rapidi — seguendo l'esempio di Cuba o della Somalia -il pesante analfabetismo e il gravoso non
compimento della scuola dell'obbligo. Soltanto le lotte operaie e la conquista (si è trattato e si
tratta di una battaglia) delle « 150 ore» hanno rotto i paternalistici e ritardanti schemi
dell'«educazione popolare».
Bisogna sviluppare e concludere un processo appena iniziato; andare oltre una visione e
una pratica dell'educazione degli adulti come surrettizio rimedio alle carenze della scuola di
base.
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3.4 Pubblico, prodotti culturali e intervento educativo
3.4.1 Preminenza dei problemi del pubblico
Tra gli agenti educativi operanti nell'età adulta, un ruolo rilevante ricoprono i prodotti
dell'«industria culturale»: i libri, i dischi, i film, i programmi televisivi, i giornali, le videocassette, i
rotocalchi, i fumetti, i programmi radiofonici.
Soprattutto i prodotti dell'industria degli audiovisivi — trasmissioni televisive, film —
svolgono un ruolo che se per i ragazzi appare di «scuola parallela», per gli adulti può essere
definito di «lavoro parallelo», sia per le valenze educative del lavoro, sia per la necessità —
come vedremo — d'inserire il consumo dei prodotti culturali nella globalità della produzione.
Nel nostro Paese, gli audiovisivi occupano un posto prevalente rispetto agli altri strumenti
di comunicazione; rispetto ad altri Paesi, il nostro — ad esempio — si caratterizza per il
rapporto sempre intenso della popolazione con il cinema, nonostante l'avvento della televisione
e lo sviluppo della motorizzazione (nel 1973, le spese per il cinema ammontavano a 265
miliardi, pari al 44% della spesa per tutte le forme di spettacolo).
Per questo, il problema del «pubblico» emerge con particolare forza e con significato
preminente.
Peraltro, tale questione assume pregnanza politica quando venga considerata non come
tema a sé, ma strettamente interrelata con i problemi di «sviluppo intellettuale della classe
operaia»; allorché, cioè, si esca dallo «spettacolo» o dall’ «informazione», per riconsiderare le
valenze educative della televisione, del cinema, della stampa, in relazione alla gestione delle
strutture dominanti e alle lotte del movimento operaio per contrastarne e rovesciarne l'influenza.
Il problema dei mezzi di comunicazione e della produzione culturale non rimane, allora,
concluso in un ambito educativo; esso si coniuga alla battaglia per una mutazione strutturale.
Grazie a questa particolarità della situazione italiana, quando ci si trova a riflettere sui
«mezzi di comunicazione di massa», sulla «industria culturale», la considerazione che altrove
tende a privilegiare gli aspetti psicosociologici da noi assume rilievo politico-culturale; da qui, la
preminenza dei problemi del pubblico, rispetto alla «politica degli autori» o ai «mass media»
considerati astrattamente.
Da qui, anche, le domande che ci poniamo rispetto a questo tema, estremamente
complesso in quanto considerato, nella pratica commerciale e nelle impostazioni conservative,
da angolazioni ambiguamente inter-classiste.
E, da qui, anche il primo interrogativo che dobbiamo porci: quali sono a livello strutturale i
problemi del pubblico?
3.4.2 Dicotomia dei comportamenti rispetto a produzione e consumo
I problemi del pubblico sono riassumibili nella necessità e nella difficoltà della propria
autoidentificazione, da intendersi come acquisizione della consapevolezza di essere all'interno
del processo produttivo, e non all'esterno, come manifestazione di «bisogno» preminentemente
o esclusivamente soggettivo, da soddisfarsi attraverso un consumo da altri deterministicamente
definito, e definitivo.
Tale crisi di autoidentificazione del pubblico non è astorica o astratta, ma precisabile e
definibile in quanto direttamente e intenzionalmente provocata nel nostro rapporto con le
strutture economiche della «produzione culturale».
Nella loro pratica, tali strutture inducono processi educativi fortemente disorientanti e
estremamente contraddittori nei contenuti identificativi che inculcano o cercano di inculcare.
Senza spendere troppe parole, è quotidianamente constatabile come gli «spettatori» o i
«pubblici» (a seconda del momento della giornata, degli stati d'animo, dell'introiezione dei vari
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messaggi pubblicitari, ecc.), ritengono, di volta in volta: di essere i giudici dei film o delle
trasmissioni televisive che vedono; oppure gli inermi fruitori di indifferenti spettacoli ricreativi; o
anche gli oppositori del sistema comunicativo, e perfino gli interessati spettatori di una
trasmissione culturale.
La descrizione degli atteggiamenti e dei comportamenti potrebbe continuare — con varie
specificazioni — a seconda del modo in cui viviamo questa crisi di identificazione.
Essa giunge a punti paradossali: nessuno, nemmeno chi scrive e nemmeno chi legge
queste parole, ritiene di potersi definire «pubblico», ovvero di far parte di un'entità in crisi di
autoidentificazione. «Pubblico» sono gli altri.
Come superare questa crisi, e non in via psicologica o educazionistica (di prediche
sull'evoluzione del pubblico, o del «gusto», ne abbiamo svolte o ascoltate fin troppe)?
E’ da ritenere che soltanto sulla base di una autoidentificazione del pubblico sarà
possibile costruirsi un'altra identità, opposta a quella interclassista o ambigua corrente, e
parallelamente allo sviluppo complessivo del movimento operaio e democratico, a livello delle
grandi occasioni di reciproco riconoscimento tra le forze dell'innovazione politica, e cioè nelle
lotte, anche nei confronti della «produzione culturale».
Per spiegarci, quando si parla dell'individuo combattivo in fabbrica o nelle piazze, e
remissivo o acquiescente di fronte allo schermo o al giornale «indipendente» locale199, si
comprende la necessità di riflettere sul come superare questa dicotomia di comportamento di
fronte allo stesso padrone.
Sappiamo bene che l'atteggiamento di soggezione al paternalismo culturale (e, in
particolare, a quello degli spettacoli più popolari del cinema e della televisione) è tra i più duri a
vincersi attraverso una «risposta» del singolo.
Sappiamo altrettanto bene, d'altronde, che non sarà continuando a suddividerci in due
comportamenti, «di produzione» e «di consumo» (uno critico e l'altro acritico; uno attivo e l'altro
passivo; uno creativo e l'altro sterile) che le strutture economiche verso le quali siamo critici,
attivi e creativi nelle lotte potranno modificarsi se — in contemporanea - continueremo ad
essere acritici, passivi e sterili verso i «prodotti culturali».
Tutto si tiene, senza un intervento preciso, conseguente e coerente.
Questo intervento autoeducativo — che riguarda tutti gli strati sociali — acquista il suo
significato politico nella misura in cui si propone e riesce a promuovere un passaggio di
tensione e di consapevolezza tra due campi che si cerca di far restare lontani e separati, e non
a caso.
L'uno, infatti, è carico di acquisizioni sulla situazione attuale e sulle prospettive.
L'altro, invece, che non solo è scarico di tutto questo, ma, in generale, è remissivo,
accomodante, propenso agli eterni rinvii.
Non intendiamo analizzare quale interscambio avvenga attualmente tra i due campi; ma
possiamo presumere che ben poco passi dal primo al secondo, e non poco dal secondo al
primo.
199
«...se fate il conto dei lettori della Stampa, se fate il conto dei lettori dell'Unità a Torino non corrispondono —
affermava G.C. Pajetta — con quelli elettorali e, quindi, noi con la Stampa c'entriamo qualche cosa. Quante
copie ne comperiamo? Troppe, per me; purtroppo, ma le comperiamo ed allora non abbiamo niente da dire, non
dobbiamo far sentire il nostro peso, non dobbiamo chiedere al lettore della Stampa — oltre che chiedergli di
diventare un lettore dell'Unità — di fare qualche cosa come cittadino, come lettore comunista, come
metalmeccanico, anche se continua a leggere la Stampa? Dobbiamo chiederglielo e questo si riflette in qualche
modo. Bisogna che noi sentiamo questo, che il lettore che sceglie è un lettore che può esigere e noi dobbiamo
chiamarli meno "fruitori", non solo perché questa parola non mi piace molto, ma perché vorrei che noi
intendessimo che, nella grande macchina del giornalismo, anche il lettore è un protagonista e che il giornale è
fatto anche di chi lo legge, di chi quel giorno non lo compera più o di chi scrive una lettera di protesta o di chi lo
legge con rabbia e deve far sentire questa rabbia». Cfr. Radiotelevisione informazione democrazia, Convegno
Nazionale del PCI, Roma, 29-31 marzo 1973; Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 308.
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Non siamo ancora in grado, sembra, di valutare pienamente e di fatto il significato politico
di questa frenante dicotomia pratica di cui pur possiamo individuare le cause (dall'analfabetismo
alla «teoria dei due popoli»); di valutarla nelle prospettive, intendiamo dire.
Possiamo soltanto riflettere che la nostra situazione è diversa non solo da quella nella
quale si trovò nel 1789 la borghesia: «La classe che risultò allora vincente in decennali conflitti
— scrive W. Benjamin — già si era assicurata, prima di impossessarsi del potere, il dominio
dell'apparato culturale.
L'organizzazione della cultura, l'educazione erano da tempo impregnate dell'ideologia del
tiers état e la lotta per l'emancipazione culturale era stata portata a termine prima di quella
politica»200.
Ma è diversa anche da quella in cui si trovò «il proletariato dopo la vittoria della
rivoluzione», situazione che era «diversa da quella della borghesia nel 1789»; quando
Benjamin, negli anni post-rivoluzionari, visitò l'Unione Sovietica, ebbe a notare: «Per milioni e
milioni di analfabeti devono essere gettate ora le fondamenta di una formazione di base.
Questo è, in Russia, un compito nazionale.
La cultura prerivoluzionaria della Russia era del tutto aspecifica, europea.
Si tratta ora di bilanciare i due momenti: quello della cultura superiore, di stampo
europeo, e quello della formazione elementare, nazionale»201.
Come operatori culturali, d'altra parte, possiamo proporci di contribuire a superare —
oggi — questa dicotomia che, perdurando, o rischia di rinviare verso il futuro una modificazione
(in attesa dell'emancipazione culturale), o rischia di confermare ad oligarchie il dominio
dell'apparato culturale.
Contribuire ai processi di costruzione di una identità del pubblico, un'identità di
prospettiva, non di mera resistenza, vuoi dire per noi lavorare affinché i processi di
emancipazione della cultura dominante procedano parallelamente e per reciproca sollecitazione
con quelli di emancipazione dagli attuali rapporti di produzione; senza illudersi che la nuova
cultura — di cui già esistono pratiche reali nel movimento operaio — possa raggiungere la
propria pienezza in condizioni strutturali limitanti, ma senza accettare che queste condizioni
mortifichino l'affermarsi del nuovo nell'ambito culturale, della comunicazione, dell'espressione,
della critica e, soggettivamente, per quanto riguarda il pubblico, nella remissività, nella
passività, nella sterilità.
Lavorare per una nuova identità del pubblico significa, allo stato della situazione, e
rispetto ad un criterio di valutazione politica come quello ipotizzato, riesaminare, da una parte, i
tratti distintivi, le note caratteristiche, i lineamenti che al «pubblico» sono stati attribuiti, e
dall'altra avanzare — anche attraverso una critica del lavoro culturale — nuovi parametri sui
quali inquadrare, definire e affrontare i problemi del pubblico; sarà più legittimo, a questo punto,
individuare le linee di lavoro più utili, più generalizzabili, più incisive.
3.4.3 La vecchia identità del pubblico, e le sue evoluzioni
La vecchia, e ancora operante, identità del pubblico richiederebbe uno studio storico che
qui non possiamo permetterci di svolgere: né compiutamente, né per grandi blocchi.
Ci limiteremo ad indicare gli elementi di sintesi che sembrano essenziali per sviluppare le
tendenze, peraltro già in atto, verso un nuovo identificarsi del pubblico.
Tra l'altro, l'impegno interdisciplinare che richiederebbe una theoroica (come scienza del
pubblico) è ben lontano dall'essere, benché minimamente, avviato; e non solo per ragioni di
difficoltà di studio, quanto per le resistenze che incontra lo sviluppo della democrazia nel senso
più pieno.
200
201
Cfr. W. Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 1955, pp. 36 37.
W. Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 1955, pp. 36 37
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Se vogliamo partire con il piede giusto — pur tra comprensibili difficoltà — verso una
nuova identità del pubblico non possiamo limitarci a denotare il pubblico come l'aggregato,
l'insieme, l'unione, il corpo, la sintesi, l'unione, la massa, la compagine, il complesso, la totalità,
la contemporaneità, la somma, l'aggregazione, la schiera, l'assieme, la società, la brigata, il
collettivo, ecc. degli spettatori che assistono ad uno spettacolo.
E non solo perché ci esprimeremmo con insufficienza o con tautologie.
Ma perché questo nome collettivo — che nasce con significato oppositivo al privato —
non può non avere una valenza politica, in senso pieno; per cui è logico ritenere che per
comprendere anche il pubblico del cinema, della televisione, della stampa e dei musei, non
possiamo non partire da una comprensione politica della sua identità storica tradizionale.
Intendiamo dire che se sono tuttora in corso discussioni, non facilmente esaustive, sui
rapporti tra film e politica, tra teatro e politica, o, tout court, tra arte e politica, difficilmente
potrebbe essere posto in dubbio il ruolo primario della politica rispetto ai problemi del pubblico.
La vecchia identità del pubblico, dunque, quella almeno della formazione economicosociale che ci riguarda strettamente, viene elaborandosi con l'affermarsi della società borghese,
quando, è stato scritto: «la città assume le funzioni culturali della corte»202, e nelle «nuove
istituzioni che, malgrado tutte le differenze, svolgono eguali funzioni sociali in Inghilterra come
in Francia: i caffè nella loro fioritura fra il 1680 e il 1730, i salotti nel periodo fra la reggenza e la
Rivoluzione.
Qui come là, essi sono i centri di una critica prima letteraria poi anche politica, in cui
comincia gradualmente a formarsi una parità di persone colte fra società aristocratica e
intellettuali borghesi»203.
Ma le public nel senso del pubblico teatrale veniva già usato in Francia anteriormente
(Auerbach afferma che, in questo senso, la parola appare usata nel 1629; anteriormente «l'uso
del sostantivo public si riferiva esclusivamente allo Stato o al bene pubblico»204).
(Da tener presente che «l'accezione estetica» di «arte» appare soltanto nel 1688, in La
Bruyére205).
Sicché sembrerebbe che da un uso politico — di validità relativa al periodo —, il termine
sia poi passato ad altri usi delimitati (da quello letterario a quello relativo allo spettacolo), e
comunque sempre riferito a quantità molto ristrette di «privati raziocinanti».
Habermas ha svolto un'indagine storico-sociologica su questo periodo, studiando i
«mutamenti strutturali dell'opinione pubblica»; ma la sua analisi (che, peraltro, lascia adito a non
poche perplessità per le conclusioni) si limita «alla struttura e alla funzione del modello liberale
di sfera pubblica borghese, alla sua origine e trasformazione», mentre «lascia da parte le
varianti di una dimensione pubblica plebea costrette, per così dire, in posizione subalterna»206.
Sarebbe necessario, quindi, uno studio per riscoprire le origini di una identità del pubblico
«plebeo», che è ancora oggi corrente e tacitamente accettata, sia — con diversi gradi di
consapevolezza — negli strati popolari, sia in quegli strati piccolo-borghesi che presumono di
non far parte di quel pubblico.
Qui, intanto, potremmo ricordare che è il pubblico che non frequentava i caffè o i salotti
sei e settecenteschi e che, invece, è parte costitutiva, in ruolo plaudente, delle feste civili;
orante nelle cerimonie religiose; vitalistico nei carnevali.
Ad esempio, gli ingressi del '500 (basti ricordare le feste per i viaggi di Carlo V in Italia,
quando questi venne accolto da «registi» come il Sangallo, Giulio Romano, Giorgio Vasari nelle
202
Cfr. J. Habermas, Storia e crìtica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971, p. 46
J. Habermas, Storia e crìtica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971, p. 47.
204
J. Habermas, Storia e crìtica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971, p. 45.
205
Cfr. T. De Mauro, Senso e significato, Studi di semantica teorica e storica, Bari, Adriatica, 1971, pp. 378-379:
«...è appunto un testo francese di La Bruyére il primo a documentare la nuova accezione estetica del termine»;
J. de La Bruyére, Les caractères ou les moeurs de ce siede (1688), ed. a cura di R. Garapon, Paris 1962, p. 69:
«II y a dans l'art un point de perfec-tion, comme de bonté ou de maturile dans la nature: celui qui le sent et qui
l'aime a le goùt parfait; celui qui ne le sent pas, e qui aime au deça ou au delà, a goùt défectueux».
206
J. Habermas, Storia e crìtica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971, p. 8.
203
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sue visite a Roma, a Mantova, a Firenze) che continuarono nei secoli successivi («il trionfale
itinerario attraverso l'Italia di Cristina di Svezia convertitasi al cattolicesimo, culminato — 1655
— con l'ingresso a Roma, da Porta del Popolo, di cui, per l'occasione, Bernini ricostruì la
facciata interna»207) fino alla carnevalesca accoglienza per Hitler. Ad esempio, nelle processioni
santoriali, nei cortei battesimali e nuziali, nei mortori, nei riti per le feste religiose del Natale,
della settimana santa, del Corpus Domini: tutte occasioni che, dal punto di vista del «pubblico»,
andrebbero studiate e valutate per estrarne i significati educativi che, accanto a quelli
spettacolari, operavano incisivamente sui fedeli non solo in quanto tali, ma anche in quanto
«pubblico».
Potremmo ricordare, inoltre, le mascherate carnevalesche, come unica occasione alle
quali «erano ammesse (grazie all'anonimo garantito dalla maschera) tutte le classi sociali»208.
E, infine, sarebbe necessario approfondire le valenze educative delle varie feste popolari
a carattere stagionale (le vendemmie, i maggi, i bruscelli, le moresche) che, essendo gestite
direttamente dai ceti popolari, andrebbero riesaminate, al di là dei loro valori culturali, come
probabili prime forme aurorali di una diversa presenza «politica» del pubblico.
Ma la sostanza sociale dell'esistenza del pubblico «plebeo» nei secoli immediatamente
precedenti la rivoluzione francese è quella che traspare dal «Rapporto e progetto di decreto
sulla organizzazione generale dell'istruzione pubblica» presentati da Condorcet all'Assemblea
nazionale nel 1792, come aspirazione al superamento della mancanza di «ragione»: «Tant qu'il
y aura des hommes — diceva Condorcet — qui n'obéiront pas a leur raison seule, qui recevront
leurs opinions d'une opinion étrangère, en vain toutes les chaìnes auraient été brisées, en vain
ces opinions de commande seraient d'utiles vé-rités; le genre humain n'en resterait pas moins
partagé en deux classes: celle des hommes qui raisonnent et celle des hommes qui croient,
celle des maìtres et celle des esclaves»209.
Qui sembrerebbe esservi, e vi fu, l'intenzione di superare lo scarto tra il pubblico
composto da «privati raziocinanti» e quello «plebeo»210.
In effetti, come ben sappiamo, la «ragione» della sfera pubblica borghese era una
illusione.
Sia l'uno che l'altro pubblico avevano l'unica funzione della destinazione: a chi altrimenti
avrebbe parlato la gerarchia?
In questo senso, il pubblico della società borghese si può dire avesse una precisa
funzione privata, per uno di quei rovesciamenti ideologici che, peraltro, sono ancora operanti
nella società dei consumi.
Nessuno dei due pubblici aveva realtà di risposta, né tanto meno potere di replica; la
risposta poteva o non poteva esserci.
Anche il pubblico dei «raziocinanti» — quello che Marivaux definiva come giudice, e,
insieme, parte dei grandi uomini che ama e umilia — non era giudice reale, mentre era parte di
uomini soltanto letterariamente grandi.
La sua risposta era, infatti, letterariamente critica, così come quella del pubblico
«plebeo» era plauso per il riconoscimento della propria esistenza ad un'autorità che cercava
espliciti consensi, come riprova della propria consistenza gerarchica.
207
Cfr. Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Casa Editrice Le Maschere, 1961, vol. Vili, A. M. Ripellino:
«Processioni e cortei», pp. 494-508».
208
Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Casa Editrice Le Maschere, 1961, vol. Vili, A. M. Ripellino:
«Processioni e cortei», pp. 494-508»
209
Cfr. Rapport et projet de décret sur l'organisation generale de l'Instruction publique, présentés a l'Assemblèe
nationale, au nom du Comile d'Instruction publique, par Condorcet, les 20 et 21 avril 1792, réimprimés par
orare de la Convention nationale; riprodotto in B. Cacérès, Histoire de l'éducation populaire, «Peuple et
Culture», Paris, Éditions du Seuil, 1964, pp. 187-200, in particolare la p. 191.
210
La mostra Les fètes de la Révolution, Clermont-Ferrand, Musée Bargoin, 15 giugno-15 settembre 1974,
catalogo Imprimerie Reix, ha, peraltro, posto in evidenza come anche allora «les hommes qui raisonnent»
organizzassero per «les hommes qui croient» rituali estremamente rigidi di feste, pompe funebri, anniversari, ai
quali il popolo disciplinatamente doveva partecipare, sulla base della regia dei «raziocinanti».
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Sarebbe da analizzare se, in quale misura e con quali elementi differenziati, la figura
storica del «pubblico» ebbe, o meno, a svilupparsi con quella di popolo nei primi dell' '800; gli
anni che si conclusero con i versi quarantotteschi di Petòfi: «Giuriamo che non saremo mai più
schiavi!».
Fatto è che narrando di quei giorni in cui «la rivoluzione italiana, che era stata fino allora
più nelle lettere che nelle opere, uscì dalla teoria, entrò in pratica», lo storico Balbo parla del '48
come d'una rappresentazione popolare in cui «il popolo» è più «pubblico» che popolo.
Egli scrive che se le precedenti rivoluzioni, quelle del 1640 in Inghilterra e dell'89 in
Francia, nacquero in letizia e speranza, nessuna giunse al punto di quella italiana che «durò
diciotto mesi di matta letizia»: «fu un vero baccanale di dimostrazioni festive nelle piazze, di
festive passeggiate per le vie, banchetti in sale, banchetti all'aria, canto di giorni e di notte, da
per tutto, cantate per li teatri, coccarde, nastri, bandiere, catene di pezzuole e veli femminili che
si chiamavano d'unione nazionale, o che so io; poesie, prose, vaneggiamenti, pazzie».
Insomma, per questo testimone, castigato cattolico piemontese (che giudicava il '48 come De
Gaulle vedrà il '68: una clienlit), sembra che in Italia il popolo diventi prima «pubblico» che
«popolo».
Come egli commenta — abbreviando velocemente il racconto, per pudore —: «parmi che
riesca così più chiaro e quasi parlante da sé, il cenno di questi diciotto mesi, operosi, se si
guardi indietro, sprecati in gran parte se si guardi innanzi, o, per parlar più esattamente,
produttori di libertà e di licenza, improduttivi di quell'indipendenza, che è anche più da
desiderarsi, dell'indipendenza che avrebbe dovuto essere la prima e la sola mira degli
Italiani»211.
Fatto è che per uscire dai salotti e dai caffè alle piazze, dalle «lettere» alle «opere», il
concetto di popolo dovette farsi anche pratica di pubblico diverso, almeno in Italia, e almeno
secondo Balbo.
Un pubblico che passò dalle processioni e dai «trionfi» dei principi alle manifestazioni
pubbliche di una sua primitiva forma di affermazione.
Sono intuizioni, queste; certamente sarebbe tutto da esaminare il rapporto tra
«populismo» (non parliamo dell'atteggiamento romantico, filantropico verso la plebe, ma
dell'accesa utopia del «populismo russo» studiato da Franco Venturi212) e sviluppo d'una
identità moderna del pubblico.
Sarebbero da studiare quelle forme di autocontestazione dell'autore che, ad esempio,
inducevano un Baudelaire a pensare i canti del poeta in termini di «calco luminoso» delle
speranze popolari213.
Quelle forme di contestazione della pratica dello scrittore che sollecitarono un Mazzini a
coniugare la letteratura con l'azione; o che fecero emergere nel Tenca214 l'attenzione, tra i primi,
in Italia, verso il destinatario, il pubblico, e in senso specificatamente moderno, vicino alle
posizioni del contemporaneo francese E. Hennequin, che affermava: «Un'opera d'arte non
esercita effetto estetico che sulle persone di cui rappresenta — nei suoi caratteri — le
particolarità mentali; in breve: un'opera d'arte commuove solo coloro di cui è segno»215.
211
C. Balbo, Dalla storia d'Italia dalle origini fino ai nostri tempi, Sommario, Torino, Unione Tipografico-Editrice,
1862, pp. 405-406.
212
F. Venturi, Il populismo russo, Torino, Einaudi, 1972.
«La Massa è talmente intrinseca a Baudelaire — scrive Benjamin — che si cerca invano in lui una descrizione
di essa»; e, come spiegava sempre Benjamin: «La folla: nessun altro oggetto si è imposto più autorevolmente ai
letterati dell'800. Essa cominciava - in larghi strati per cui la lettura era divenuta abitudine — a organizzarsi come
pubblico. Assurgeva al ruolo di committente; e voleva ritrovarsi nel romanzo contemporaneo, come i fondatori
nei quadri del Medioevo» (cfr. Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, pp. 97-100).
214
Cfr. G. Pirodda, Mozzini e Tenca, Padova, Liviana, 1969.
215
Cfr. La critique scientifique, Paris 1888, p. 138, cit. in G. Fagliano Ungari (a cura di), Sociologia della letteratura,
Bologna, II Mulino, 1972, p. 32.
213
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E sarebbe da valutare il perché queste indicazioni minoritarie fossero così scarsamente
influenti, esemplificando dalle posizioni di un Goethe il quale condannava: «ogni considerazione
per il pubblico...».
Perché: «il vero artista deve ignorare il suo pubblico, proprio come il maestro ignora i
capricci degli alunni, il medico i desideri dei pazienti, il giudice le passioni delle parti in lite.
La cosa migliore è fingere che non vi sia un pubblico, o almeno ammettere che l'artista
ha soltanto un pubblico di amici, si rivolge soltanto a una comunità di santi»216; posizioni che
non perirono con lui, ma hanno una loro circolazione, pur se non così platealmente ostentata;
posizioni, comunque, che possono farci capire perché Engels definisse Goethe: «ora colossale,
ora minuscolo; ora genio altezzoso, sprezzante, che guarda il mondo dall'alto in basso, ora
filisteo prudente, soddisfatto, angusto»217.
Da noi, bisognerà attendere Francesco De Sanctis, con la sua sottintesa identificazione
del pubblico con il critico; per lui, il critico deve infatti «rifare quello che ha fatto il poeta, rifarlo a
suo modo e con altri mezzi»218, per cominciare a leggere la nuova identità del pubblico; e,
tuttavia, non sarà ancora tutto chiaro; da queste proposizioni potranno perfino emergere
soggettivismi; e il pubblico «plebeo» rischierà di tornare a dipendere da quello dei
«raziocinanti», e tutti e due dalla gerarchia della classe dominante.
3.4.4 Verso un nuovo identificarsi del pubblico
Se il parallelismo tra «popolo» e «pubblico» in senso nuovo può svolgersi in modo molto
problematico, del resto correlativo all'ambiguità del primo termine, l'avvio a soluzione per la
costruzione di una nuova identità per il pubblico si fonda — in realtà — sull'Ideologia tedesca,
sulla concezione materialista della storia.
Si fonda sulla «filologia vivente» di Gramsci che scriveva: «Con l'estendersi dei partiti di
massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economica-produttiva) della massa
stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale...
diventa consapevole e critico...»219.
Possiamo riconoscere che siamo appena alle prime percezioni degli sviluppi politici e
culturali che potremo conseguire costruendo su queste fondamenta il discorso relativo al
pubblico.
«Difatti — scriveva Michele Rago, nel '67 - il discorso sull'arte, nel marxismo, rimane in
sordina fino alla conclusione dell'Ottocento.
Molti compagni da noi conosciuti vent'anni fa, i quali avevano ancora una formazione
ottocentesca, o non lo capivano o se ne sentivano infastiditi. Lo stesso discorso si delinea nel
momento in cui le avanguardie letterarie si spostano verso il marxismo, dando inizio, cioè, a un
revisionismo interno dell'arte borghese e delle sue tradizioni (poco prima della guerra '14-18).
La necessità di approfondire il discorso si avverte anche di più nell'URSS dopo la
rivoluzione, e così in ogni paese dove la classe operaia arriva a nuove responsabilità.
È chiaro allora — continuava Rago — che il discorso sull'arte, con alterne vicende, è
continuato nel marxismo.
Tuttavia c'è da osservare che quest'ultimo, nel suo rapporto con l'arte, non ha trovato
validità solo per quei pochissimi testi sulla questione che Marx e Engels ci hanno lasciato.
216
Cfr. R. Wellek, Storia della critica moderna. Dall'Illuminismo al Romanticismo, vol. I, Bologna, II Mulino, 19712,
p. 234.
217
R. Wellek, Storia della critica moderna. Dall'Illuminismo al Romanticismo, vol. IlI, L'età della transizione, p. 295.
218
Saggi critici, Bari, Laterza, 1952, vol. II, p. 90; Wellek nota che De Sanctis «rifiuta qualsiasi giudizio fondato su
programmi, teorie o intenzioni dell'autore. "Altro è dire e altro è fare". Si devono "distinguere il mondo
intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto". In definitiva, "il metodo più sicuro e
concludente è di guardare il libro in sé, e non nelle intenzioni dell'Autore"» (Wellek, op. cit., pp. 126-127).
219
A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Torino, Einaudi, 1945, pp. 127-128.
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L'ha trovata soprattutto perché lo specifico contenuto del pensiero rivoluzionario da una
parte, e dall'altra la sua proposta di risolvere il problema sociale al di fuori dell'anarchia e degli
sconvolgimenti legati al sistema borghese... sono diventati pietre di paragone della contingente
vita umana.
Questa funzione — concludeva —, il marxismo, nel suo essere teoria rivoluzionaria, l' ha
sempre avuta, in questo periodo, di là da ogni socialriformismo; il quale, nel tentativo di un
progresso standardizzato e a direzione unica, verso l'alto (con l'assimilazione progressiva di
strati di proletariato alla cultura preesistente), ha potuto dar spazio a una cultura specialistica o
a una cultura ibrida e monca»220.
Analoghe osservazioni potremmo svolgere sul rapporto tra marxismo e discorso sul
pubblico; sottolineando, in particolare, che un analogo fastidio sembra di provocare, in alcuni
ambiti del movimento, quando introduciamo la problematica del pubblico; ma non si tratta di
ambiti operai, dove invece il rapporto movimento operaio-pubblico contribuisce immediatamente
a chiarire il rapporto marxismo-arte; bensì di ambiti intellettuali dove l'introduzione di questo
elemento di riflessione, e l'accentuazione della sua presenza, non di rado scompiglia le
comode, sistemazioni scolastiche e sociali, nella misura in cui esso rimette in discussione ruoli,
attribuzioni di compiti, rapporti, metodi di lavoro, strumenti, nella misura in cui il rapporto
pubblico-strutture economiche afferma il superamento di problematiche accentrate sul privilegio
di fatto.
Se è vero che il problema dell'arte si risolve attraverso «lo specifico contenuto del
pensiero rivoluzionario» e attraverso la proposta del marxismo «di risolvere il problema sociale
al di fuori dell'anarchia e degli sconvolgimenti legati al sistema borghese», è anche vero che il
problema del pubblico sollecita una datazione, una localizzazione degli impegni innovatori, e
una specificazione di tali impegni sulle questioni quotidiane, sulle articolazioni del divenire del
pubblico come aspetto politico del problema dell'arte.
Da questa angolazione, dobbiamo ancora praticare (non solo discutere o ridiscutere
verbalmente) le indicazioni gramsciane; dobbiamo ancora sperimentare pienamente nella vita
sociale il senso degli appunti scritti in carcere; dobbiamo immergere concretamente i problemi
del pubblico nella «filosofia della prassi».
Sia tenendo conto che se nelle riflessioni di Antonio Gramsci il «lettore» occupa un posto
di tanto rilievo, ciò non è casuale (e ad esempio riferibile alle sue esperienze di critico teatrale),
ma strettamente legato ai problemi della formazione politica delle coscienze221.
Sia tenendo ben presente che, se il tema che noi chiamiamo del pubblico aveva per
Gramsci un rilievo proporzionato all'analfabetismo strumentale di allora, oggi, nella realtà della
società dei consumi, dello sviluppo della scolarizzazione e — soprattutto — della forza del
movimento operaio, esso acquista, in positivo e in negativo, un rilievo estremamente maggiore,
se non primario rispetto a quello dello scrittore e del suo impegno-disimpegno.
Ma non solo Gramsci; forse dobbiamo ancora praticare, coerentemente in ogni sede e in
ogni occasione, almeno le indicazioni di Gobetti che non si aspettava «dei lettori ma dei
collaboratori»222.
Noi ci troviamo rispetto ai problemi del pubblico in una realtà storica specifica e precisa
che non è assimilabile ad altre: ad esempio, non dobbiamo andare con Dewey «alla ricerca del
220
M. Rago, Arte e letteratura nella ricerca marxista, recensione a Marx-Engels, Scrìtti sull'arte, a cura di C.
Salinari; cfr. «l'Unità», 6 settembre 1967.
221
«L'educazione socialista del proletariato si compie ogni giorno, in ogni atto, per ogni atteggiamento ideale», cfr.
Sotto la mole, 17 giugno 1916, pp. 173-174. Cfr. G. Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, 1972, p.
21.
222
P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, Einaudi, 1964, p. 192;
nell'introduzione, Gobetti scriveva che non pensava di raggiungere il proprio fine «con un'opera di pedagogisti e
di predicatori: la nostra capacità di educare si esperimenta realisticamente in noi stessi; educando noi, avremo
educato gli altri. Abbiamo più fiducia negli uomini che nella cultura, per cui, discutendo di idee, la riserva
costante, se non dichiarata, è nella nostra convinzione di fare per questa via delle esperienze, senza
compromettere il futuro» (ivi, p. 5).
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pubblico», nella misura in cui possiamo legare questo discorso (e queste realtà della
comunicazione e dell'espressione) ai temi globali che il movimento operaio porta avanti.
Se non siamo nelle condizioni di pensare al cinema come «mezzo di autoistruzione» e di
praticare attraverso le strutture pubbliche una politica del pubblico tendente a sviluppare il
pubblico; se non siamo nelle condizioni in cui l'autore può diventare pubblico, e la musica
espressione collettiva, a maggior ragione dobbiamo impegnarci nel rendere organico il rapporto
e la consapevolezza di tale rapporto tra problemi del pubblico e problemi del movimento
operaio, in modo da coprire la globalità dello sfruttamento capitalistico con gli interventi più
diretti e più specifici sui vari momenti degli attuali rapporti di produzione.
Il contributo alla nuova identità del pubblico che ci viene dalla teoria e dalle pratiche del
movimento operaio nel suo complesso nazionale e internazionale è fondamentale.
Esso ci sostiene, soprattutto, nel superamento di uno degli equivoci che il sociologismo
di maniera ha insinuato presentandoci il pubblico sub specie interclassista, come realtà
inconoscibile proprio in quanto rapportabile soltanto al consumo assunto come momento a sé,
promanante dai bisogni soggettivi di individui astorici e asociali.
Esso ci mostra, invece, che il pubblico dei lettori, degli spettatori, degli ascoltatori è un
aspetto della realtà classista, e il più duro a scomparire, anche in società strutturalmente
evolute verso organizzazioni politiche di rottura con quelle partorite dalla società borghese.
Esso ci indica che il pubblico è la realtà conoscibile e trasformabile dell'arte, la traduzione
storicamente e strutturalmente politica di questioni ancora irrisolte, come quelle che sull'epos
greco poneva Marx.
Esso ci sottolinea che il tema del pubblico come classe, come percezione e
consapevolezza della problematica collettiva dell'espressione, della comunicazione e della
risposta, àncora la lotta politica alla modificazione della regola di un «pubblico sfruttato», più
che all'inseguimento dell'eccezione di un autore; e che, come il problema della scienza non può
esser posto come questione etica o intellettuale del singolo scienziato, ma come impegno
collettivo contro lo sfruttamento capitalista della scienza, cosi il problema dell'arte,
dell'espressione e della comunicazione debbono essere affrontati in modo da divenire materia
di lotta del movimento operaio.
Ciò non solo per la quantità e la forza dell'intervento modificatore, ma perché soltanto il
movimento operaio, nelle sue varie articolazioni, può controllare, studiare, legare tutti i momenti;
può sviluppare tutti i movimenti di lotta in ogni ambito e in ogni fase; può determinare l'aprirsi di
nuove prospettive; può costruire un terreno di cui il pubblico sia protagonista nella sua nuova
identità, facendo del suo rapporto con i grandi mezzi di espressione e di comunicazione una
occasione di educazione innovativa che si affianchi alle lotte e alla loro capacità formativa.
Soltanto il movimento operaio nel suo complesso può non dimenticare un anello della
catena, o limitarsi a privilegiarne uno.
3.4.5 Il pubblico nel processo produttivo
Rispetto a questo impegno, anche noi operatori culturali possiamo contribuire, per dirla
con parole marxiane, a «fondare una nuova Atene su un elemento nuovo»; ma questo
elemento nuovo, il pubblico, deve — infine — indurre a scrollarci di dosso troppa polvere223 e,
223
Lo sviluppo dei temi della comunicazione dovrebbe indurci a riflettere a fondo sulle nostre responsabilità, sul
rilievo che oggi investe il lavoro culturale accanto a quello politico e sindacale. Sollecitarci a riflettere
adeguatamente prima di seguire, anche a livello di frase, alcune pratiche. Soltanto per fare un esempio, come
pratichiamo oggi il termine di «massa»? Possiamo ancora usare, senza esitazioni, la dizione di «mezzi di
comunicazione di massa»? Possiamo continuare ad accettare il ribaltamento del valore di «massa» ben
altrimenti usato da Marx, da Lenin, da Gramsci, senza renderci conto che — qui e adesso — questo ci spinge
verso comportamenti di accettazione dello status quo? Come si può ancora parlare di «mezzi di comunicazione
di massa», quando siamo ben consapevoli che essi sono «mezzi di comunicazione alla massa» e dovrebbero
essere strutturalmente risolti, e chiamati, «mezzi di comunicazione collettiva»? L'accettazione corriva di locuzioni
Pagina 90 di 185
nello stesso tempo, a rifiutare tutte. quelle appropriazioni delle scienze umane da parte del
neocapitalismo che ci impediscono di partire dal pubblico come valore politico, e, invece,
tentano di standardizzare il nostro intervento a livello di descrizione di fenomeni, di
quantificazione del mercato gestito dal capitale, di analisi sociologistica del consumo di una
produzione culturale mai studiata nei suoi processi reali.
Karl Marx — e non è vano ripeterci alcune determinazioni, anche le più note — aveva
strettamente coniugato il consumo alla produzione, affermando la dipendenza del primo dalla
seconda: «... la cosa più importante da mettere in rilievo è che produzione e consumo,
considerati come attività di un soggetto o di più individui, si presentano in ogni caso come
momenti di un processo in cui la produzione è l'effettivo punto di partenza e perciò anche il
momento egemonico. Il consumo come necessità, come bisogno, è esso stesso un momento
interno dell'attività produttiva.
Ma quest'ultima è il punto di partenza della realizzazione e, quindi, anche il suo momento
egemonico, l'atto nel quale l'intero processo riprende il suo andamento»224.
Peraltro, bisogna tener presente che tra i diversi momenti della totalità produttiva esiste
un'azione reciproca: «Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione,
scambio, consumo, siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una
totalità, differenze nell'ambito di una unità.
La produzione assume l'egemonia tanto su se stessa, nella sua determinazione
antitetica, quanto sugli altri momenti.
Da essa il processo ricomincia sempre di nuovo.
Che lo scambio e il consumo non possano essere elementi egemonici è cosa che si
comprende da sé.
Altrettanto si dica della distribuzione in quanto distribuzione di prodotti.
Ma come distribuzione degli agenti della produzione è essa stessa un momento della
produzione.
Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno
scambio determinati, nonché i determinati rapporti reciproci tra questi diversi momenti.
Indubbiamente anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è da parte sua determinata
dagli altri momenti.
Quando per es. il mercato, e cioè la sfera dello scambio, si estende, la produzione
cresce estensivamente e si articola intensivamente.
Se muta la distribuzione, la produzione si modifica; per es., quando si verifica una
concentrazione del capitale, una diversa distribuzione della popolazione tra città e campagna
ecc. Infine, i bisogni del consumo determinano la produzione. Tra i diversi momenti si esercita
un'azione reciproca.
E questo avviene in ogni insieme organico»225.
In particolare, qual è l'articolazione del rapporto tra produzione e consumo?
Marx confuta sia la concezione del consumo come «antitesi distruttiva della
produzione»226, sia l'identificazione tra produzione e consumo («Niente di più semplice a questo
punto, per un hegeliano, che identificare produzione e consumo»227); egli specifica gli aspetti
sociologistiche provoca, in alcuni, il distacco di fatto dal pubblico e l'assunzione di un ruolo non ben chiaro di «
comunicatori di massa». Come, ad es., può riscontrarsi nell'uso del termine «controinformazione», e in certe
pratiche che vedono gli individui illuminati scegliere l'informazione come problema, scegliere i tempi, scegliere il
pubblico, e, poi, opporre la loro presunta «controinformazione» a quell'«informazione» che vorrebbero
contestare; il tutto perché, basandosi sull'artefatto distacco dell'informazione dalla formazione, si vuole
continuare ad avere un ruolo di «raziocinante» nella formazione, senza chiamare questa operazione con il vero
nome, ma mistificandola dietro il problema reale dell'uso che della formazione viene fatto dal capitalismo sotto la
forma dell'informazione.
224
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 18.
225
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 25.
226
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 14.
227
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 18.
Pagina 91 di 185
della relazione tra produzione e consumo giungendo alle determinazioni che «il consumo
produce la produzione in duplice modo:
1) in quanto solo nel consumo il prodotto diviene un prodotto effettivo. Per esempio, un vestito
non diviene realmente un vestito che per l'atto di portarlo; una casa che non è abitata, non è in
effetti una vera casa; il prodotto, quindi, a differenza del semplice oggetto naturale, si afferma,
diviene prodotto soltanto nel consumo. Dissolvendo il prodotto, il consumo gli da veramente il
finishing stroke (l'ultima rifinitura); giacché il prodotto è la produzione non soltanto come attività
oggettivata, ma pure come oggetto per il soggetto attivo;
2) in quanto il consumo crea il bisogno di una nuova produzione e quindi quel motivo ideale che
è lo stimolo interno della produzione e il suo presupposto. Il consumo crea la propensione alla
produzione; esso crea anche l'oggetto, che determina finalisticamente la produzione.
Se è chiaro che la produzione offre esteriormente l'oggetto del consumo, è perciò
altrettanto chiaro che il consumo pone idealmente l'oggetto della produzione, come immagine
interiore, come bisogno, come propensione e come scopo.
Esso crea gli oggetti della produzione in una forma ancora soggettiva. Senza bisogno
non vi è produzione.
Ma il consumo riproduce il bisogno»228.
Per altro verso, continua Marx, a queste determinazioni sul consumo, corrispondono
quelle sulla produzione; essa «
1) fornisce al consumo il materiale, l'oggetto. Un consumo senza oggetto non è un
consumo; per questo verso, quindi, la produzione crea, produce il consumo.
2) Ma non è soltanto l'oggetto che la produzione procura al consumo. Essa da anche al
consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish. (...) La fame è fame —
esemplifica Marx —, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e
forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani,
unghie e denti. Non è soltanto l'oggetto del consumo dunque ad essere prodotto dalla
produzione, ma anche il modo di consumarlo, non solo oggettivamente, ma anche
soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore.
3) La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al
materiale. Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima
rozzezza naturale — e l'attardarsi in questa fase sarebbe ancora il risultato di una
produzione imprigionata nella rozzezza naturale — esso stesso come propensione è
mediato dall'oggetto. Il bisogno che esso ne avverte è creato dalla percezione
dell'oggetto stesso. L'oggetto artistico — e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto —
crea un pubblico sensibile all'arte e capace di godimento estetico. La produzione
produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per
l'oggetto»229.
Insomma la produzione produce il consumo sia creandogli il materiale, sia determinando il
modo di consumo, sia la propensione al consumo.
Queste determinazioni marxiane sono per noi la base per riflettere sui problemi del
pubblico, cosi come oggi essi ci si presentano.
Ma dobbiamo tener per fermo — in via pregiudiziale — che la rappresentazione critica
che noi operatori culturali possiamo elaborare del «pubblico» non soltanto è evidentemente
riferibile alla fase del capitalismo monopolistico di Stato in cui ci troviamo, ma può rischiare —
proprio per questo — di essere essa stessa acritica, «naturale» per l'attuale formazione socioeconomica. In altre parole, dobbiamo tener presente che anche l'operatore culturale è (o può
228
229
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 15.
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 16.
Pagina 92 di 185
essere) prodotto dalla produzione, come elemento del «modo di consumo» nonché della
«propensione al consumo».
Ci sembra opportuno sottolineare questo punto perché troppo spesso emerge, ad
esempio, nel nostro campo (così come nella critica cinematografica, televisiva, letteraria)
l'equivoco di una «funzione di mediazione che scaturirebbe da una autonomia che molto
somiglia» alla «sfera autonoma» della distribuzione, come prefigurata dalla «concezione più
superficiale» secondo la quale «la distribuzione si presenta come distribuzione dei prodotti e
quindi... ben lontana dalla produzione e quasi autonoma rispetto ad essa»230.
E, d'altra parte, la non consapevolezza di essere elemento della produzione e la falsa
coscienza di essere elemento della distribuzione — cioè di mediazione tra la produzione e il
consumo — genera quelle ambiguità in cui cade un certo tipo di operatore culturale
(demagogico) quando volontaristicamente, ma nella logica dei «due popoli», afferma di lavorare
per il pubblico (cioè per il «modo di consumo»), ma autonomamente dal pubblico.
Senza riflettere che è la produzione stessa a distribuirlo come «strumento di produzione»
del consumo.
Per comprendere la situazione attuale del pubblico (come valore politico nel «sistema
della cultura», o, se si vuole, nell'ambito della comunicazione culturale che avviene attraverso il
cinema, la televisione, la musica, le biblioteche, i musei, il teatro) bisogna rifarsi, anche se con
evidente e provocatoria forzatura, a quella degli operai in fabbrica.
«Tutti i fattori sociali della produzione — scriveva Marx — sono forze produttive del
capitale, e il capitale stesso perciò si presenta come loro soggetto.
L'associazione degli operai, quale si presenta nella fabbrica, non è perciò neanche posta
da loro, ma dal capitale.
La loro associazione non è la loro esistenza concreta, ma l’esistenza concreta del
capitale.
Di fronte al singolo operaio essa si presenta come accidentale. Il rapporto tra l'operaio e
la sua associazione e cooperazione con altri operai è un rapporto di estraneità, un rapporto con
modi di operare del capitale»231.
Nessun'altra analogia potrebbe permetterci di rappresentare meglio la situazione del
pubblico-oggetto rispetto al soggetto-capitale, del pubblico-astratto contro il capitale-concreto,
dello spettatore accidentale rispetto all'altro spettatore, a sua volta accidentale, dell'estraneità
degli spettatori tra loro, una assenza di rapporto concreto rispetto ai modi di essere e di operare
del capitale nella produzione culturale.
Dove, dunque, individuare il pubblico?
Dove, cioè, in quale articolazione del processo produttivo intervenire per contribuire al
tramutarsi del pubblico da oggetto a soggetto, da associazione astratta a associazione
concreta, progressiva?
Dove favorire il rovesciamento della situazione dello spettatore, da accidentale a
volontaria, dalla estraneità all'altro spettatore ad un rapporto di compenetrazione intenzionale, e
di lotta contro i modi di operare del capitale nel « sistema della cultura»?
Ovvero, come si pone una problematica d'identificazione del pubblico?
«Una produzione determinata — scriveva Marx - determina... un consumo, una
distribuzione, uno scambio determinati, nonché i determinati rapporti reciproci tra questi diversi
momenti»232.
Tenendo presente la constatazione che Marx afferma subito dopo:
«Indubbiamente anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è da parte sua
determinata dagli altri momenti»233,
230
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 21.
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. II, pp. 241242.
232
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, pp. 25-26
233
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 26.
231
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come si pone la questione relativamente di prodotti culturali?
Se dobbiamo stare ben attenti (vedi ad es. le posizioni di Fornari che, sulla base di
un'analisi psicoanalitica, tende a ribaltare i rapporti tra produzione e consumo, suggerendo, di
sottrarci alla «produzione», all'archetipo biologico, cioè al seno materno)234 a rifiutare qualsiasi
proposta di sovrapposizione dei «rapporti di consumo» ai «rapporti di produzione», o di
confusione tra gli uni e gli altri rapporti, dobbiamo però studiare come, in questi rapporti di
produzione, agiscono i consumi, cioè come il pubblico è eterodiretto nel soddisfacimento dei
suoi bisogni; e, per converso, come, in queste strutture econo-miche, emerge e può affermarsi il
«bisogno di comunismo».
Marx, com'è noto, esprimendo le sue determinazioni circa i rapporti tra produzione e
consumo, scrive: «L'oggetto artistico — e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto — crea un
pubblico sensibile all'arte e capace di godimento estetico.
La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un
soggetto per l'oggetto»235.
Se rapportiamo il valore «artistico» della metà dell'800 al valore dell’arte» nel pieno
dell'«industria culturale»236, possiamo dire che oggi l'oggetto presunto artistico crea un pubblico
insensibile all'arte e incapace di godimento estetico.
Ma, e d'altra parte, a nostro vantaggio possiamo e dobbiamo tener conto del fatto che
questo creare avviene attraverso un processo educativo preciso, individuabile e definibile (nelle
strutture formative, nei metodi, negli strumenti e, soprattutto, nelle finalità).
Dobbiamo, dunque, valutare che su questo processo possiamo intervenire, allo stesso
modo e nello stesso momento in cui interveniamo sul processo produttivo in senso stretto (che
ha anch'esso un valore educativo per i suoi operatori: gli operai nella realtà della fabbrica).
È legittimo far discendere dalla constatazione dell'esistenza di un processo attivo del
consumo la necessità di intervenire sui singoli momenti con uguale forza e con strumenti tra
loro coordinati nonché coerenti rispetto agli interessi di un pubblico modificante, non solo
modificabile?
È chiaro come, accettando tutte le conseguenze della determinazione marxiana (« solo
nel consumo il prodotto diviene un prodotto effettivo»237), opereremmo su quel diviene nei vari
momenti della articolazione produttiva che non si esaurisce nello «studio» cinematografico o
televisivo, ma trova il suo finish nel locale cinematografico o nel tinello.
Ciò significherebbe superare la deterministica e preminente — se non esclusiva —
fiducia nel miglioramento delle opere, dei registi, della produzione in senso stretto, come atto
risolutivo dei problemi del rapporto tra pubblico e strutture econo-miche (una fiducia —
storicamente superata — nel valore in sé dell'«oggetto artistico»).
Ciò significherebbe enucleare (e trovare tutti gli strumenti più adeguati nel campo del
lavoro di educazione degli adulti) linee di intervento non più chiuse nella valutazione o
nell'apprezzamento dell'opera, ma capaci di collegare il momento particolare del consumo a
234
F. Pomari, Psicoanalisi della società industriale, in «Tempi Moderni», 1, 1970. G. Fabris trova «di particolare
interesse l'analisi di Pomari in cui, con i metodi della psicanalisi, attraverso un'analisi simbolica del tripode
capitale-lavoro-consumo per indagarne la riconducibilità ad una elaborazione dei livelli di organizzazione
pulsionale corporea, sottrae alla produzione l'archetipo biologico (il seno materno) tanto prestigioso su cui
questa fonda a un livello inconscio il proprio privilegiamento per investirne il consumatore che in realtà alimenta
il processo produttivo implicante capitale e lavoro uniti insieme. La rilevanza di questa proposta sta, a nostro
parere, nell'aver tolto alla produzione quel sottofondo inconscio che la rendeva emotivamente tanto coinvolgente
— dato il prestigioso corrispettivo biologico — creando cosi i presupposti per una definitiva scomparsa nei suoi
confronti di qualsiasi passività e dipendenza affettiva dell'individuo reso definitivamente autonomo e
indipendente: la conclusione della proposta di Pomari, in cui il processo in dustriale si pone come sistema
esecutivo del consumo costituentesi come si stema decisionale, è conseguente al ribaltamento, anche in termini
dei corrispettivi inconsci, dei rapporti fra produzione e consumo»; cfr. Sociologia dei consumi, Milano, Hoepli,
1971, p. 75
235
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.I, p. 16.
236
Cfr. M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino, Einaudi, 19662, pp. 130 180
237
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.I, p. 15.
Pagina 94 di 185
quello globale della produzione, nella misura in cui «i bisogni del consumo determinano la
produzione»238.
Muovendo dalla determinazione relativa al processo che vede il prodotto ricevere il suo
finish nel consumo, possiamo chiederci se non è possibile partire da questa determinazione
marxiana per individuare i modi di contribuire ad una autoidentificazione del pubblico.
Non riusciremo mai, infatti, a costruirci come pubblico modificante se non saremo riusciti
a situarci nel processo produttivo.
Per questo, e non casualmente e con innegabile forzatura, abbiamo introdotto l'analogia
tra gli operai in fabbrica — tra loro e rispetto al capitale — e il pubblico nel momento del
consumo o, come si diceva prima, nel «processo attivo del consumo».
Non perché l'analogia potesse andare al di là dell'immagine suggestiva (una cosa è il
lavoro alla catena, una cosa è la poltrona del cinema), ma perché soltanto ponendo in rapporto
il consumo con la produzione, spiegando il consumo come produzione, attribuendo alla
produzione, e ai rapporti di produzione, quell'«egemonia» necessaria per comprenderne tutte le
articolazioni, è possibile avvicinarci ad una modificabilità del pubblico in situazione di pubblico
(e non di puro, autonomo, soggettivo consumatore, o di spettatore engagé, o addirittura di
gaudente, come, in termini spiccioli, vuoi farci credere l'homo oeconomicus del neocapitalismo).
In questo «processo attivo del consumo», il pubblico può superare le false coscienze
indotte, autoidentificarsi come sfruttato, acquisire consapevolezza della condizione classista in
cui è situato, e, identificandosi quale pubblico come classe239, organizzarsi per lottare anche per
modificare il tempo non lavorativo?
3.4.6 Pubblico e processo di consumo dei prodotti culturali
È possibile, in altre parole, fare dell'homo ludens contemporaneo il simulacro del falso
gioco della «civiltà dei consumi», come Marx fece dell'homo oeconomicus la falsa
rappresentazione dell'«individuo in quanto soggetto dell'economia classica»240, come dice
Althusser?
È possibile identificare negli attuali rapporti di produzione il significato produttivo del
consumo dei «prodotti culturali», e in quale senso?
La questione può essere affrontata innanzi tutto riferendoci al «valore della forzalavoro»241.
Tale valore è «determinato dal valore degli oggetti d'uso corrente che sono necessari per
produrre, sviluppare, conservare e perpetuare la forza-lavoro»; «Come per ogni altra merce, il
suo valore è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua produzione.
La forza-lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua personalità vivente».
Oltre al consumo «di una determinata quantità di generi alimentari», egli «ha bisogno di
un'altra quantità di oggetti d'uso corrente, per allevare un certo numero di figli, che debbono
rimpiazzarlo sul mercato del lavoro e perpetuare la razza degli operai. Inoltre, per lo sviluppo
della sua forza-lavoro e per l'acquisto di una certa abilità, deve essere spesa ancora una nuova
somma di valori».
Dunque, se consideriamo un film, un libro, una trasmissione televisiva come «oggetti
d'uso corrente», possiamo affermare che i «prodotti culturali», in quanto servono «per lo
sviluppo della forza-lavoro e per l'acquisto di una certa abilità», si configurano nel consumo
come strumenti di produzione della forza-lavoro.
238
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.I, p. 26.
Attribuiamo a questa locuzione un valore di sintesi del processo di sviluppo democratico: da plebe a folla a
proletariato a classe.
240
Althusser, Per Marx, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 204
241
K. Marx, Salario, prezzo e profitto, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1947, pp. 48-49
239
Pagina 95 di 185
Inoltre, possiamo sviluppare questa analisi sul consumo dei «prodotti culturali» rispetto
alle determinazioni sul sopralavoro e sul plusvalore.
Se, infatti, supponiamo che «la produzione della quantità media di oggetti correnti
necessari alla vita di un operaio richiede sei ore di lavoro medio», e se il capitalista farà lavorare
l'operaio dodici ore, «oltre le sei ore che gli sono necessarie per produrre l'equivalente del suo
salario, cioè del valore della sua forza-lavoro», sappiamo che l'operaio dovrà lavorare per altre
sei ore di sopralavoro, «e questo sopralavoro si incorporerà in un plus-valore e in un sopraprodotto».
Come possiamo definire — ai fini della autoidentificazione del pubblico — le altre una,
due, tre ore (oltre al mangiare, dormire, fare all'amore necessari alla conservazione e alla
perpetuazione fisica della «razza degli operai»), per leggere, vedere un film, assistere a una
trasmissione televisiva, atti da intendersi come «consumo di prodotti culturali»?
Possiamo considerarlo come un tempo di «sopra-sopra-lavoro» che si incorporerà,
anch'esso, nel plus-valore?
Come identificare, ai fini dei lavoro culturale, quésto superdispendio di energie che si
svolge anche in ore di presunto riposo?
Sappiamo bene che in rapporto «all'intera società la creazione di tempo disponibile è
anche una creazione di tempo per la produzione della scienza, dell'arte, ecc.», ma sappiamo
anche che questo tempo non è disponibile per la classe operaia.
Questo «meccanismo di sviluppo della società — scrive Marx - non dipende dal fatto
che, poiché un singolo individuo ha soddisfatto i suoi bisogni, esso crea poi il suo eccedente;
bensì dal fatto che, poiché un singolo individuo o una classe di individui sono costretti a
lavorare più di quanto sia necessario alla soddisfazione dei loro bisogni — ossia, poiché c'è un
pluslavoro da una parte —, viene creato un non-lavoro e una ricchezza eccedente dall'altra»242.
E sappiamo anche bene che, a proposito di questo «sopra-sopra-lavoro», non potremmo
parlare di lavoro produttivo in senso economico, in quanto, come affermava Marx:
«Lavoro produttivo è soltanto quello che produce capitale... Il lavoro è produttivo solo in
quanto produce il suo contrario»243, e faceva questa precisazione proprio a proposito del
«prodotto culturale» di un pianista.
Egli scriveva esattamente: «Il costruttore di pianoforti riproduce capitale, mentre il
pianista scambia il suo lavoro soltanto con reddito.
Ma il pianista che produce musica e soddisfa il nostro senso musicale, non produce
quest'ultimo in una certa misura?
In effetti, si: il suo lavoro produce qualcosa: ma per questo esso non è lavoro produttivo
in senso economico, così come non lo è il lavoro del pazzo che produce chimere. Il lavoro è
produttivo solo in quanto produce il suo contrario.
Perciò altri economisti fanno essere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente
produttivo.
Per esempio il pianista offre uno stimolo alla produzione, sia perché dispone la nostra
individualità ad una maggiore energia e vitalità, o anche nel senso comune per cui desta un
nuovo bisogno per la cui soddisfazione viene impiegata più solerzia nella produzione materiale
immediata»244.
Se, dunque, il tempo «eccedente» (e la «ricchezza eccedente») non sono disponibili per
la classe operaia ai fini della «produzione della scienza, dell'arte»; se il superdispendio
dell'energia nell'una, due, tre ore di «sopra-sopra-lavoro» non può rientrare nel «lavoro
produttivo in senso economico» in quanto non produce capitale, cioè «il suo contrario», come
identificare ai fini del nostro intervento culturale questo tempo in cui la classe operaia lavora
242
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 417.
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.II, pp. 291292.
244
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.II, p. 291.
243
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come pubblico oltre la «quantità di lavoro necessaria per la sua conservazione o riproduzione»,
nonché oltre il plus-lavoro in fabbrica?
In realtà, mentre in una società non classista potremmo distinguere la produzione degli
«oggetti d'uso corrente» in una quota necessaria per produrre e conservare la forza-lavoro, e in
una quota necessaria per svilupparla e perpetuarla (e riferire l'uso dei «prodotti culturali» a
questa seconda), possiamo affermare che in una società in cui il capitale impone il sopralavoro
che s'incorpora nel plus-valore, il «sopra-sopra-lavoro» che l'operaio compie come spettatore
attraverso il consumo dei prodotti culturali se non è «eccedente», né «produttivo in senso
economico», è tuttavia funzionale al plus-valore nella misura in cui sviluppa e perpetua «la
razza degli operai».
Ma questo sviluppo e questa perpetuazione sono unisensici (e cioè conducono
direttamente all'«uomo unidimensionale» di tipo marcusiano245) ovvero sempiterni e univoci
(come nella Riproduzione di Bourdieu e Passeron246) ?
Il processo (il «divenire» e il «creare» della determinazione marxiana: «solo nel consumo
il prodotto diviene un prodotto effettivo»;
«L'oggetto artistico crea un pubblico sensibile») attraverso il quale il capitale impone il
«sopra-sopra-lavoro» oltre la quantità di lavoro necessaria, e oltre il plus-lavoro, oltre la
produzione e la conservazione della mercé-lavoro, ai fini del suo sviluppo e della sua
perpetuazione, nonché dello sviluppo e della perpetuazione della «razza degli operai», questo
processo non è — a nostro avviso — così deterministico come appare da alcuni saggi.
Può essere apparso tale, vogliamo dire, studiando queste problematiche rispetto alla
situazione statunitense; o rispetto alla situazione del sistema scolastico.
In realtà, è proprio in questo momento del processo produttivo che nel lavoro culturale
troviamo il pubblico potenzialmente come classe, mentre il prodotto sta divenendo prodotto
effettivo, mentre il prodotto sta creando il suo soggetto.
Vediamo, dunque, come il prodotto culturale diviene prodotto culturale, e come il prodotto
crei il suo soggetto.
Il prodotto culturale non diviene prodotto così come qualsiasi altro prodotto diviene tale
nel consumo; il finish che qualsiasi prodotto trova nel momento del consumo, come aspetto
della totalità della quale la produzione «assume l'egemonia», presenta qui caratteristiche o
specificità precise. Innanzi tutto nel tempo e nella materialità.
Se, infatti, consumare significa usare, logorare, dissolvere un prodotto247, noi
constatiamo che la forma oggettiva del prodotto culturale non solo permane dopo il consumo,
ma risulta — come dire — indissolvibile per alcuni prodotti.
Quando Marx pone la ben nota questione:
«...è possibile Achille con la polvere da sparo e il piombo?
O, in generale, l'Iliade con il torchio tipografico o addirittura con la macchina tipografica?
Con la pressa del tipografo non scompaiono necessariamente il canto, le saghe, la
Musa, e quindi le condizioni necessarie della poesia epica?»248,
egli, come è noto, commenta:
«Ma la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e l'epos greco sono legati a certe forme
dello sviluppo sociale.
La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento
estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili»249.
Marx, se comprendiamo bene, afferma che
245
H. Marcuse, L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale, Torino, Einaudi, 1967
P. Bourdieu e J.-C, Passeron, La riproduzione. Sistemi di insegnamento e ordine culturale, Firenze, Guaraldi,
1972.
247
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. II, p. 408
248
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 40.
249
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 40.
246
Pagina 97 di 185
«il fascino che la loro (dei greci) arte esercita su di noi non è in contraddizione con lo
stadio sociale poco o nulla evoluto in cui essa maturò.
Ne è piuttosto il risultato...»250;
superando così le difficoltà relative al rapporto tra arte e forma di sviluppo sociale.
Ma dobbiamo esaminare come si risolve la successiva «difficoltà»: comprendere «il
godimento estetico» che essi continuano a suscitare in noi.
In realtà, ci sembra che essa sia spiegabile in termini marxiani, introducendo un
elemento sociale, il pubblico, invece del pronome personale «noi», e considerando questo
elemento non staccato, ma inserito nel processo produttivo, uno specifico processo produttivo
che si svolge nei secoli. In questo particolare rapporto di produzione-consumo, riscontriamo, ad
esempio, che un «prodotto culturale» come l'Iliade viene consumato (e cioè prodotto) da
generazioni di pubblici, e mai dissolto.
Ciò non vuoi dire, come potrebbe essere suggerito da qualche idealista, che ciò si
verifica nella misura in cui un «prodotto» è opera d'arte e in quanto l'opera d'arte è un prodotto
spirituale ed eterno, perché in tal modo si farebbe riemergere, in nobili stracci, quel «feticismo
delle merci» che, anche nel nostro lavoro culturale, privilegiando il pubblico, vogliamo
demistificare.
Ciò vuoi dire, invece, e dal punto di vista del pubblico, che il consumo dei «prodotti
culturali «presenta caratteristiche precise: il «prodotto culturale» (e non solo l'opera d'arte,
anche «Carosello») rimane identico a se stesso (a differenza di qualsiasi altro prodotto, dalla
pur lentissima deperibilità attraverso il consumo), la sua forma oggettiva è immediatamente
pronta per un altro consumo, e così in avanti nel tempo.
Ciò vuoi dire che il finishing stroke, come operazione terminale del processo produttivo
dei «prodotti culturali», è quello nel quale «il prodotto crea il suo soggetto», ovvero quello —
sempre nuovo — nel quale il pubblico si qualifica nei suoi modi di consumo.
La stessa frase di Marx è emblematica in proposito: se quando parla di godimento
estetico pone in luce la sensibilità che «in noi», a livello personale, suscitano l'arte e l'epos
greco, quando esprime il successivo giudizio («costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma
e un modello inarrivabili»), egli pone in evidenza la propria risposta critica (positiva),
esemplificando il divenire del pubblico nel momento in cui questi apporta la sua ultima rifinitura.
Certo, nel tempo, possono darsi diversi esempi di «pubblici»: dagli iconoclasti, ai nazisti,
ai generali cileni che bruciano i libri marxisti; pubblici questi che — potremmo dire — non hanno
superato la fase sensibile, fermandosi al cieco furore delle belve, e praticando l'ultima rifinitura
con il fuoco.
Certo, il finish è storicamente e socialmente determinato e determinabile (basti pensare a
quello praticato nel rapporto con alcuni autori, in diversi periodi storici e nelle stesse società,
ovvero in diverse società negli stessi periodi storici).
Ma certo, il finish come fase conclusiva del consumo se presuppone un pubblico e un
«prodotto culturale» oggettivamente dati, non presuppone un pubblico immodificabile, ma
modificabile e modificante, il quale può perfezionare il prodotto che lo crea come soggetto, sia
subendolo a livello di mera percezione fisiologica, sia reagendovi con un'accresciuta sensibilità,
sia sviluppandovi il proprio «bisogno di comunismo».
Dobbiamo, in proposito, tener ben chiaro quanto Marx afferma circa la tendenza del
capitalismo che «è sempre, per un verso, quella di creare tempo disponibile, per l'altro di
convertirlo in pluslavoro.
Se la prima cosa gli riesce, ecco intervenire una soprapproduzione, e allora il lavoro
necessario viene interrotto perché il capitale non può valorizzare alcun pluslavoro.
Quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più viene in luce che la crescita delle
forze produttive non può più essere vincolata all'appropriazione di pluslavoro altrui, ma che
piuttosto la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo pluslavoro»251.
250
251
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 40.
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. II, p. 405.
Pagina 98 di 185
In questa contraddizione, operante anche nel «sopra-sopra-lavoro» del pubblico,
possiamo inserire il nostro intervento politico-culturale.
In che senso?
Operando dalla parte del pubblico (come facies del proletariato che tende a divenire
classe; in potenza, direbbe Marx), per favorire l'emergere e l'affermarsi di modi di finishing
stroke che, a seconda della specificità dei pubblici e dei prodotti, sviluppi o contrasti il processo
produttivo dell'industria culturale nel momento terminale del consumo.
Ciò vuoi dire contribuire affinché il pubblico si appropri del «sopra-sopra-lavoro» (che non
è immediatamente economico) e articoli nel proprio interesse culturale i modi di consumo che il
sistema della cultura dominante tende a imporre.
Ciò vuoi dire concorrere affinché, attraverso l'uso del finish (indispensabile al prodotto
per esistere), il pubblico contrasti l'incorporarsi del proprio «sopra-sopra-lavoro» — svolto a
domicilio — nel plusvalore {anche economico, perché un modo di consumo che educhi al rifiuto
si oppone al significato politico e alla direzione economica dell'industria culturale, e contribuisce
all'identificarsi e al rafforzarsi del pubblico come classe; cioè della classe operaia quando non
lavora in fabbrica, ma conferisce il proprio finish ai prodotti culturali).
Ciò vuoi dire attribuire teoricamente e voler attribuire praticamente al pubblico la gestione
dei modi di consumo, rifiutando il finish monosensico, monovalente, unidirezionale e
unidimensionale che i detentori dei mezzi di produzione culturale vorrebbero imporre ai fini della
mera e conservativa riproduzione del sistema culturale, anche attraverso i «nuovi» prodotti
culturali.
Ciò vuoi dire considerare il lavoro educativo con il pubblico non quale un intervento sulle
opinioni, sui gusti, su un quid imprendibile che può somigliare alla «produzione di chimere».
Ma basare il lavoro di educazione degli adulti sulla specificità della produzione culturale
come processo globale continuo — nel tempo e nello spazio — che ha necessità di un finish
storico per rendere un prodotto culturale esistente, e che deve attribuire al pubblico, nel
momento del consumo, l'ultima parola, il finish (non essendo in condizione il produttore di
consumare il proprio prodotto né in toto, né nello spazio, né nel tempo).
3.4.7 Dal momento del consumo alla gestione della produzione culturale
Ma ciò che è più importante — in quanto discende dalla circolarità del rapporto
produzione-consumo — è il processo che conduce, o può condurre, il pubblico dal consumo
alla produzione, dal controllo e dalla resistenza ai prodotti culturali della neocapitalistica
industria culturale, alla gestione dei mezzi di produzione culturale.
Quando si sofferma sugli aspetti delle «identità» tra consumo e produzione Marx scrive:
«La produzione non è soltanto immediatamente consumo, né il consumo
immediatamente produzione (...)»; e spiega «...ciascuno di essi — oltre ad essere
immediatamente l'altro e mediatore dell'altro — realizzandosi crea l'altro, si realizza come l'altro.
Il consumo rende definitivamente esecutivo l'atto di produzione, portando a compimento il
prodotto come prodotto, dissolvendolo, consumandone la forma oggettiva autonoma (e
abbiamo visto con quale specificità nel campo dei «prodotti culturali»); facendo maturare e
divenire abilità, mediante il bisogno della ripetizione, la disposizione sviluppata nel primo atto di
produzione; esso — conclude Marx — non è quindi soltanto l'atto conclusivo in virtù del quale il
prodotto diviene prodotto ma anche l'atto in virtù del quale il produttore diviene produttore»252.
Cioè, il consumo non crea soltanto il soggetto del prodotto, ma — attraverso il suo
esercizio che conduce alla maturazione di abilità, e anche attraverso il bisogno della ripetizione
— conduce oltre il primo atto di produzione, oltre l'atto conclusivo in virtù del quale il prodotto
diviene prodotto, verso il divenire del produttore.
252
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, pp. 17-18
Pagina 99 di 185
È evidente che la creazione di questo nuovo produttore, o di questo soggetto del
secondo atto di produzione, dipende, in potenza, dal finish.
Cioè dal modo in cui il consumo ha operato sulla forma oggettiva autonoma del prodotto
culturale.
Se l'ultima rifinitura è stata apportata sulla base degli schemi predisposti, il produttore
della seconda produzione sarà uguale al primo (o simile).
Ma se il finish del pubblico sarà stato praticato nella prefigurazione di una nuova
formazione socioeconomica, e cioè in modo rivoluzionario, il nuovo produttore sarà, in potenza,
il pubblico stesso.
Il pubblico, vogliamo dire, non in quanto insieme di spettatori che assistono ad un film,
auditores scissi nella propria condizione di operai nella «fabbrica dei prodotti culturali»; non in
quanto gruppo sociale con uno status oggettivamente determinato dalla classe dominante e
dalla sua industria culturale, e soggettivamente indeterminato per il pubblico stesso.
Ma pubblico come aspetto dei rapporti e dei modi di produzione capitalistici nella
particolarità e nella specificità della produzione culturale.
Pubblico, quindi, che attraverso l'acquisizione dei modi di autoidentificarsi come classe
(modi praticabili non in astratto, ma nei processi di produzione, in cui, al momento del consumo,
è inserito con la funzione conclusiva del processo stesso), può divenire produttore, in potenza.
E sottolineiamo, in potenza, in quanto l'appropriazione dei mezzi di produzione culturale
non può fondarsi soltanto sull'appropriazione della comunicazione, dei significati dei «prodotti
culturali», ovvero, sulla gestione del finish. Questa gestione, la sempre più generalizzata
assunzione da parte del pubblico di questa gestione, potrà soltanto contribuire ai processi di
riappropriazione delle strutture economiche e dei mezzi di produzione culturale da parte della
classe operaia.
Ed è proprio in considerazione dei limiti del nostro lavoro culturale, che dobbiamo vedere
come nostro compito primario e reale l'operare nel divenire di un pubblico come autore253, nel
senso di attribuire alla potenzialità dell'autoidentificazione del pubblico il proprio augere, il
proprio aumentare il proprio potere, il proprio sviluppare la propria capacità di
autodeterminazione.
Senza — tuttavia - farsi soverchie illusioni (come talvolta è accaduto e accade) che
soltanto il nostro lavoro culturale possa condurre nei suoi limiti sovrastrutturali e nelle sue
ambiguità, all'immediato e concreto divenire del pubblico «produttore di cultura» e gestore dei
mezzi di. produzione culturale.
Ciò significa - e vogliamo sottolinearlo — che il lavoro culturale nel momento del
consumo, non esaurisce la «battaglia delle idee»; la nostra lotta va condotta sulla produzione
nella sua globalità e nella sua strutturalità, soprattutto attraverso il lavoro politico in senso
stretto, il lavoro sindacale e riferita alle lotte del movimento nel suo complesso e nelle sue
articolazioni, non teoricamente soltanto, o astraendo dagli scontri reali in atto.
253
Agli aspetti metodologici del lavoro di educazione degli adulti ho dedicato il volume Il pubblico come autore.
L'analisi del film nelle discussioni di gruppo, Firenze, La Nuova Italia, 1970
Pagina 100 di 185
3.5 Istituzioni pubbliche ed educazione degli adulti
3.5.1 «Esperienza del mondo sensibile» e «capacità positiva» di
affermazione
Affrontare l'esame del rapporto tra le istituzioni pubbliche e i problemi dell'educazione
degli adulti significa considerare il tema che è sintesi di tale rapporto: la «politica culturale» di
una determinata organizzazione sociale, cioè il « potere culturale», la gestione del potere, il
rapporto tra forze opposte rispetto a tale potere.
La rilevanza del tema, rispetto ai problemi educativi, è riassumibile in alcune proposizioni
della Sacra famiglia.
Se l'uomo è sociale per natura, egli sviluppa la sua vera natura solo nella società, e la
potenza della sua natura deve trovare la sua misura non nella potenza dell'individuo ma nelle
potenza della società».
E ancora, per quanto attiene in modo specifico il campo educativo:
«Se l'uomo si forma ogni cognizione, ogni sensazione, ecc., dal mondo sensibile e
dall'esperienza del mondo sensibile, ciò che importa allora è regolare il mondo empirico in
modo che l'uomo vi faccia esperienza di ciò che è veramente umano e si abitui a conoscervisi
come uomoSe l'uomo è formato dalle circostanze, si devono rendere umane le circostanze...
Se l'uomo è non libero in senso materialistico, cioè è libero non per la forza negativa di
evitare questo o quello, ma per la capacità positiva di affermare la sua vera individualità (...si
deve...) dare a ciascuno nella società il posto di cui ha bisogno per l'estrinsecazione essenziale
della sua vita»254.
Dinanzi a questo bisogno fondamentale, qual è la risposta dell'organizzazione sociale?
Come è regolato dal potere pubblico «il mondo empirico in modo che l'uomo vi faccia
esperienza di ciò che è veramente umano e si abitui a conoscervisi come uomo»?
Come sono predisposti il «mondo sensibile» e la possibilità di compiere «esperienza del
mondo sensibile» affinché l'uomo possa formarsi cognizioni e sensazioni?
Queste sono le principali questioni, andando al fondo dei problemi, per riesaminare il
significato del rapporto tra istituzioni pubbliche e educazione degli adulti, e cioè il senso di una
politica culturale, esplicita o implicita che essa sia, da interpretarsi come intenzionale
predisposizione dell'ambiente per garantire ovvero per ostacolare all'uomo la «capacità
positiva» di affermare la sua vera individualità.
Un'accezione di «politica culturale» più adeguata al modo di porsi, oggi, di fronte a tali
problemi discende direttamente dalle determinazioni marxiane.
Esse anticipano oggettivamente le problematiche ecologiche, e non certo casualmente
rispetto — almeno — al modo in cui esse si pongono nelle società neocapitalistiche. Nello
stesso tempo, esse permettono di modificare le accezioni retorico-umanistiche dell'aggettivo,
«culturale», restituendo vitalità anche al patrimonio artistico attraverso una qualificazione «
politica» di scelte responsabili, unidirezionali (il rapporto formativo uomo-società),
onnicomprensive (il rapporto globale con il «mondo sensibile»), metodologicamente orientate
(!'esperienza del mondo sensibile).
Esaminando, in particolare, ognuna di tali indicazioni, il significato di «politica culturale»,
un termine reso ambiguo dalle forze dominanti, riacquista valenze dinamiche, storiche e
254
K. Marx-F. Engels, La sacra famiglia cit., pp. 140-142
Pagina 101 di 185
prospettiche che possono sollecitare potenzialità trasformative mortificate dalle accezioni e
dalle pratiche staticizzanti.
E, infatti, assumere scelte responsabili, muovendo da necessità che scaturiscono da una
proposizione ipotetica reale, vuoi dire tendere all'eliminazione delle pseudoproblematicità e alla
considerazione dei veri problemi da affrontare qui e adesso, in organizzazioni sociali
determinate.
L'autenticità dei problemi è verificabile in concreto nelle forme storiche che assume il
rapporto uomo-società, e cioè rispetto ai termini politici nella situazione conflittuale data.
Tali scelte, inoltre, non privilegiano un settore (ad es. quello dell'arte o della filosofia), un
ambito (i luoghi consacrati della «cultura») o un momento (quello della educazione scolastica o
post-scolastica), ma abbracciano il «mondo sensibile», il «mondo empirico» in tutta la globalità
e in tutte le articolazioni, partendo dal lavoro che, in un regno della necessità, è l'epicentro dei
processi formativi. Infine, tali scelte seguono procedimenti sperimentali, capaci di restituire
creatività, innovazione nella lotta contro l'antropofagia culturale, forza oppositiva rispetto a ogni
forma di autarchia e ogni forma di sussistenza culturali.
3.5.2 Agenzie del potere e occultamento della politica culturale
Rispetto a tale interpretazione di «politica culturale» le responsabilità delle forze agenti si
precisano e si qualificano.
Quelle delle istituzioni pubbliche, in particolare e per quanto riguarda più strettamente il
nostro tema di riflessione, si manifestano nelle loro più autentiche tendenze, pur se umbratili,
almeno apparentemente; ma in realtà precise e continuative.
Talvolta sembra esservi addirittura una assenza o una fuga da tali responsabilità, quasi
riversando sul complesso della società le origini, le cause dirette delle situazioni di fatto più
carenti; o, perfino, ergendosi a giudice postumo delle «colpe» degli emigranti analfabeti, degli
operai svogliati e tecnologicamente arretrati, dei registi venduti al commercio pornografico, dei
pittori ripetitivi e provinciali, dei giornalisti reticenti, e così via.
Per quanto riguarda una presunta assenza di responsabilità, di fronte all'attuale stato di
cose, è corrente nel nostro establishment tecnocratico far ricorso al «tipo di motivazioni storiche
che all'attuale assetto hanno condotto».
Come è singolarmente riassunto in un rapporto del '69:
«Da questo punto di vista, non si può non rilevare come i contenuti della politica culturale
in Italia siano stati per molto tempo condizionati (!) dalla svolta storica che ha caratterizzato la
recente evoluzione del nostro paese: il passaggio da un regime autoritario, la dittatura fascista,
ad un regime democratico e pluralista.
In questa situazione è comprensibile come, per molto tempo, una azione concreta di
indirizzo dei contenuti culturali sia stata ostacolata (!) dal continuo ricordo dei controlli
oppressivi e della maldestra (!) propaganda del Ministero della Cultura Popolare e degli altri
organi similari nel passato regime.
Così, se è mancata una politica rivolta ai contenuti dell'azione culturale, non fu tanto per
ignavia o insipienza (!) degli amministratori e dei politici, quanto per una scelta precisa (!) che si
rifaceva a tutta una esperienza ideologica e culturale.
L'azione degli organi di governo nei riguardi della vita culturale si è indirizzata in questo
modo quasi esclusivamente sul piano delle infrastrutture e delle reti di servizio (!).
Le motivazioni che stanno dietro a tale linea di intervento non si riducono però al
semplice (...) desiderio di evitare ogni, sia pur marginale, contatto con il passato regime, ma si
radicano bene in profondo nella realtà sociale dell'Italia del dopoguerra.
È proprio in relazione alla natura di democrazia del nostro nuovo regime politico, e
all'obiettivo di realizzare nel nostro paese una società mobile ed aperta che l'azione di indirizzo
e di impulso dei politici (!) si è concentrata, libera rimanendo la dinamica di espressione dei
Pagina 102 di 185
contenuti culturali, sulla predisposizione di strumenti attraverso i quali i vari gruppi potessero
autonomamente esprimere la loro elaborazione culturale»255.
Quanto dire — secondo queste interpretazioni - che le istituzioni pubbliche hanno
scientemente declinato ogni responsabilità nel campo della politica culturale; che esse si sono
delimitate il terreno d'intervento alla realizzazione di «strumenti», di «infrastrutture», di «reti di
servizio» e che la responsabilità della carente «dinamica di espressione dei contenuti culturali»
ricade tutta sui «vari gruppi» che non hanno saputo approfittare di tanto ben di dio; e, ad
esempio, dei canali sempre aperti e disponibili della televisione, dell'esercizio cinematografico
pubblico che — per disuso — si dovette svendere, delle larghe facilitazioni aperte a cooperative
di giornalisti, delle biblioteche assenti nella maggior parte dei comuni, del pieno sostegno
all'associazionismo, dell'editoria pubblica.
Il grottesco si estende, attraverso la forza delle istituzioni pubbliche e attraverso la logica
riduttiva del compromesso in cui vengono coinvolti paesi ed esperti insospettabili, a livello
internazionale; e da qui ritorna, con assurde motivazioni, in loco.
La più caratteristica esemplificazione è certamente quella relativa al modo di affrontare
una definizione di «cultura» e di «politica culturale»; qui, infatti, i tentativi di
deresponsabilizzazione (o, meglio, di dimostrarsi non responsabili) appaiono in tutta la loro
verità.
La tematica è recente e le testimonianze numerose; scegliamone alcune: P. Moinot ad
una conferenza del-l'Unesco nel 1966:
«Permettetemi di non usare più il termine di cultura il cui contenuto appare sempre, in
qualche modo, imprendibile e di parlare di azione culturale, formula umilmente operativa, ma
che rientra naturalmente nella divisione del nostro lavoro e nell'organizzazione dei nostri piani e
dei nostri programmi»256.
Ma le basi di tali impostazioni — che a livello internazionale si determinano più per
evitare fratture tra stati a diverso regime che per reale convinzione — risalgono, come ricorda
P. Gaudibert257, agli anni della crisi delle ideologie, quando Dumazedier riscontrava che «Le
ideologie più opposte convergono più o meno consapevolmente nella ricerca di criteri comuni
per un'azione precisa, per un periodo dato».
Più avanti, ritroviamo il filo di questo discorso negli atti degli incontri di Avignone: «Non si
tratta di giungere a una nuova definizione della cultura...
Sarebbe illusorio ricercare un'unanimità» circa una gerarchia dei valori culturali, mentre
sarebbe più facile trovare un punto d'incontro sulle modalità dell'azione culturale. E un altro
intervento:
«Si può definire la nozione di cultura?... è apparso subito che non si giungerà facilmente
ad una definizione teorica comune.
È apparso, per converso, possibile di trovare un accordo su un'idea operativa, quella
dell'azione e dello sviluppo culturale».
Anche R. Maheu — direttore generale dell'Unesco — concorda: «È saggio evitare lo
scoglio di una definizione preliminare della cultura».
E infine: «Non si può giungere ad una definizione unica, accettata da tutti, della cultura…
Ma lo sviluppo culturale è una nozione operativa, dinamica, feconda quanto quella dello
sviluppo economico e dello sviluppo sociale».
Insomma, fingendo di non voler scegliere un significato di cultura, si cerca di conservare
o di riappropriarsi, senza darlo a vedere, del potere culturale attraverso la presunta scoperta di
255
Cfr. Censis, L'intervento pubblico nella organizzazione della cultura, Roma, aprile 1969, pp. 16-17, ciclostilato.
P. Moinot, Pour des politiques d'action culturelle, Paris, Unesco,1966
257
P. Gaudibert, Action culturelle: integration et/ou subversion, Paris, Casterman, 1972, pp. 15-17, dove appaiono
le citazioni di Dumazedier (da Point de vue sociologique sur les nouvelles relations du loisir et du
développement culturel en France depuis les années 1953-1955, ciclostilato) e degli «incontri culturali» di
Avignone, tra il 1964 e il 1967. Cfr. ed. it., Milano, Feltrinelli, 1973.
256
Pagina 103 di 185
uno «sviluppo culturale» che è di senso indeterminato e che, proprio per le analogie con lo
«sviluppo economico», desta le più vive preoccupazioni.
Soprattutto perché ancora oggi permane la cattiva, quanto mistificatoria, abitudine di
basarsi sull'inanità o inefficienza delle ideologie, senza precisare quali; ad esempio, nella
dichiarazione finale del colloquio europeo sul tema «Prospettive dello sviluppo culturale» svolto
nell'aprile 1972, con lo scopo di proporre all'attenzione dei ministri della cultura che si sarebbero
riuniti ad Helsinki nel giugno dello stesso anno i «fondamenti di strategia della cultura», si legge:
«La frustrazione del potere di esprimersi da luogo a una carenza che le ideologie attuali non
sono in grado di colmare: ciò che si dice non corrisponde più a ciò che succede»258; la
responsabilità, insomma, non ricadrebbe sulle strutture (comprese le istituzioni pubbliche)
incapaci o nolenti nell'assicurare il «potere di esprimersi», ma sulle ideologie (in generale) non
in grado di rimediare agli effetti!
E siccome questo colloquio si è svolto presso il «Centre du futur», vi è da temere anche
per le prospettive.
Concludendo, se non si conoscessero le difficoltà di convivenza internazionale, sarebbe
difficile comprendere come sia possibile riferirsi a una «politica della cultura» fondata sul rifiuto
di definire la «cultura», e, cioè, senza indicare il fine di una «politica».
Ma, al di là dei problemi relativi alla difficoltà di procedimento degli incontri internazionali,
ciò che maggiormente ci interessa sono i significati di tali determinazioni non appena esse
ritornano a livello nazionale: quasi un assenso alla pratica di una «politica culturale» in atto che,
tuttavia, non si intende spiegare ed esplicitare, e per la quale non si intenderebbe agevolare
l'individuazione delle responsabilità; ogniqualvolta infatti queste vengono scoperte e precisate, il
monumento al mito del servizio pubblico e dell'oggettività viene sgretolato e barcolla.
3.5.3 Tendenze della «politica culturale» del capitalismo monopolistico di
Stato
Svelare tali responsabilità, in effetti, non è agevole, quanto è semplice, almeno, attribuire
a singoli governi e ministri la loro parte di contributo, più o meno incisivo, o consapevole, o
mascherato, al realizzarsi di un disegno strutturale, quello del capitalismo monopolistico di
Stato.
Questo «stadio» del capitalismo è, infatti, il punto di riferimento obbligato per
comprendere il rapporto (il significato politico, sociale, culturale di tale rapporto) tra istituzioni
pubbliche e educazione degli adulti.
Ma la specificità classista di questo «stadio» non si presenta immediatamente e
direttamente, e ciò soprattutto nel campo della cultura.
Proprio attraverso i suoi termini contradittorì che si esplicitano nel passaggio sempre
affermato dalla sfera del «privato» alla sfera del «pubblico» si occultano le realtà sostanziali,
quelle che discendono dalla «principale contraddizione della società borghese, tra il carattere
sociale della produzione e la forma capitalista privata di appropriazione, posto che i mezzi di
produzione appartengono a un numero sempre più piccolo di persone»259.
E’ necessario precisare che tale occultamento tende a presentarsi non come tale, ma
come «superamento» delle condizioni reali, come avvio progressivo al cambiamento, come
sintesi degli opposti; e il tutto con raffinate prodezze di conciliazione e tecniche di convinzione.
Pur senza poter approfondire un'analisi dei singoli settori, almeno come promemoria è
necessario tener conto del rapporto tra realtà sostanziali e modi in cui dal punto di vista
258
Cfr. Perspective et développement culturel, in «Développement culturel», Bulletin d'information du Service des
études et recherches du Ministère des Affaires culturelles, n. 13, maggio-giugno 1972
259
V. Tcheprakov, Le capitalism monopoliste d'État, Mosca, Éditions du Progrès, 1969, pp. 49-50
Pagina 104 di 185
economico, amministrativo, sociale e culturale cercano di realizzarsi quelle pretese, e con quali
tecniche occultative.
Ed è proprio in tali manifestazioni che si attua quell'educazione degli adulti di fatto che è
la vera, operante educazione degli adulti, rispetto a quella settoriale, specifica e formalizzata in
cui hanno cercato e cercano di lavorare gli operatori culturali, come in una riserva indiana —
almeno per il passato — e dalla quale potranno uscire se sapranno organicamente legarsi alle
forze, anche educative, che contrastano le manifestazioni, il senso, e le forze di tale
occultamento.
Come vedremo meglio più avanti, è in questo capovolgimento della prassi che si
perpetua — o almeno tenta di divenire «permanente» — il dominio classista; è in questa
coerenza interna di un'«educazione permanente» unisensica, martellante e onnicomprensiva
che si realizzano gli scopi della conservazione strutturale, molto di più forse, e, certamente, con
minor possibilità di controllo, di quanto non si realizzino attraverso quell'«apparato ideologico di
Stato» che è la «scuola» delle età infantili, adolescenziali, adulte, e nelle sue diverse forme
istituzionali.
Da un punto di vista economico, strutturale, qual'è, dunque, la configurazione che di sé
stesso presenta il capitalismo monopolistico di Stato?
Attraverso quali messaggi l'impianto economico dominante comunica la propria
articolazione, i propri metodi, le proprie finalità?
A cosa tende il rapporto educativo tra struttura economica e — nel senso generale e
complessivo — popolazione?
Avanziamo subito alcune ipotesi rispetto all'ultima questione, quella che in modo
specifico ci riguarda.
Potremmo affermare che la maggior parte degli aspetti specifici per l'individuazione di
ipotesi particolari discende da una ipotesi centrale che comprenderebbe e spiegherebbe ogni
altra: l'insinuante tentativo da parte del capitalismo monopolistico di Stato di appropriarsi in
blocco e nelle sue determinazioni della pedagogia attiva, appoggiandosi sul capovolgimento e
la strumentalizzazione delle aspirazioni educative.
E, infatti, quando si rifletta che è «intorno alla dottrina dell'interesse che gravita l'intera
concezione dell'educazione attiva» e che «La dottrina dello sforzo e dell'interesse è
strettamente congiunta a quella del carattere individuale e sociale dell'educazione che forma
assieme ad essa il caposaldo della pedagogia del Dewey»260, è proprio intorno all'«interesse» e
intorno alla «socialità» quale «punto di partenza» e di «arrivo dell'educazione» che gravitano i
tentativi di appropriazione.
Quale «interesse», infatti, e quale «socialità» corrispondono alle versioni neocapitalistiche, al senso in cui si imposta il rapporto educativo tra strutture economiche e
popolazione?
È intorno a questi due punti che l'ipotesi globale si specifica, sia storicamente che
geograficamente, sia negli scopi come nei metodi.
Il tentativo d'impossessamento dell'interesse e della socialità avviene, innanzi tutto, nello
spostamento dell'attenzione dall'economico all'etico-psicologico, dall'oggettivo al soggettivo;
come è stato osservato, si sostituiscono all'analisi delle proprietà del capitalismo monopolistico
di Stato alcune sentenze etico-psicologiche, sicché «tutta la discussione tra i rappresentanti
delle diverse scuole borghesi gira intorno alla questione di sapere se l'intervento dello Stato
nell'economia è un bene o un male»261, mentre questo intervento è un processo oggettivo che
non dipende da apprezzamenti soggettivi; e infatti, «non bisogna considerare il capitalismo
monopolistico di Stato come una tendenza», ma come «un fenomeno, una forma, uno stadio
del capitalismo monopolistico»262.
260
L. Borghi, II fondamento dell'educazione attiva, Firenze, La Nuova Italia, 19666, pp. 98V. Tcheprakov, op. cit., p. 30
262
Ivi, p. 23.
261
Pagina 105 di 185
Sembra evidente che in questa mistificazione soggettivistica sono fondate le basi per una
metafisica dello Stato che interviene per il bene o per il male, in relazione ad un comportamento
buono o cattivo dei cittadini incapaci di proporsi un rapporto corretto tra propri «interessi» e
«socialità». Il passaggio di questa pseudoproblematica dall'economico al culturale comporta
una falsificazione della conflittualità in atto tra ideologie e pratiche della conservazione e
ideologie e pratiche dell'innovazione. In questa dualità opposi-tiva entra del tutto giustificata, se
non indispensabile, la figura metafisica e demiurgica dello Stato.
È evidente, peraltro, che dalla consapevolezza dell'oggettività dell'intervento dello Stato,
anche nel culturale, scaturiscono, come vedremo più avanti, ben diverse indicazioni da quelle
che si aspirerebbe a far scaturire dell'aspettazione messianica nei confronti di uno Stato
salvatore.
Oltre alla mistificante problematizzazione di un dato oggettivo, un altro, e ben più
ambizioso, tentativo di appropriazione dell'interesse e della socialità si cerca di realizzare
attraverso la riduzione della spinta al cambiamento, affermando che esso è già in corso e,
senza traumi, può concludersi compiutamente.
La mutazione sarebbe avvenuta, o starebbe avvenendo, attraverso l'intervento dello
Stato nell'economia; avremmo una «nuova economia», un «capitalismo senza capitalisti né
proletari» perché «il capitalismo ha dimostrato la propria vitalità e la propria capacità di adattarsi
alle condizioni che cambiano»263 ovvero, come spiega A. Berle, «il capitale e il capitalismo
esistono. Il fattore che scompare è il capitalista.
Non si sa bene come, ma è quasi totalmente scomparso dal quadro»264.
Sembrerebbe ovvio replicare a tali vaticini con l'osservazione marxiana: quando, con
poca spesa, si vogliono eliminare tutti i difetti di una società non vi è nulla di più semplice che
cambiare significato ad alcune parole.
Ma il rapporto educativo tra forze del capitale e forze del lavoro, appoggiandosi alla
contraddizione dell'intervento statale e alla deviazione degli interessi del proletariato, non di
rado riesce a far passare le sue imposture e a svolgersi con profitto per lo status quo.
Basti riflettere, per il passato, all'atteggiamento dei militanti antifascisti rispetto al
«carattere economico e di classe del fascismo»; «È proprio per quanto riguarda
l'approfondimento della struttura e dell'organizzazione interna del capitalismo monopolistico in
Italia, in effetti, e della sua collocazione nel sistema imperialistico mondiale, che sin dal
ventennio fascista si possono rilevare, tra gli studiosi ed i militanti antifascisti stessi, le maggiori
deficienze»265.
Basti considerare, per il presente, l'amplio ventaglio di maschere con le quali si tende a
rendere accetta una situazione immodificata (in quanto «l'appropriazione resta privata, perché i
mezzi di produzione restano, come prima, proprietà privata di un numero ristretto di monopolisti
oppure sono utilizzati da essi a loro profitto»266): dalla «rivoluzione manageriale» del Burnham
alla «economia mista» dello Slichter, dalla «economia di mercato temperata dalla coscienza
sociale»
dell'Erhard
alla
teoria
dell'«automatismo
dello
sviluppo
economico
indipendentemente dal suo sistema socioeconomico» del Rostow. Oppure, è sufficiente
riferirsi alle varie forme di appropriazione dell'interesse e della socialità tentate attraverso la
pratica politico-economica: se è defunto il rozzo «corporativismo» (e, cioè, come anticipava nel
1920 Gramsci: l'«incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative)
negli ingranaggi dello Stato borghese»267), sono agenti con raffinati mezzi ma con analogo
scopo la «politica dei redditi» propugnata senza successo in Italia, la «partecipazione» del De
263
Ivi, pp. 33-34, da C. Wright Mills, The Marxists, New York 1962, p. 470
Ivi, p. 35, da A. Berle, The 20th Century Capitalist Revolution, New York 1954, p. 39.
265
E. Sereni, Il capitale monopolistico nelle analisi dei comunisti italiani, in «Critica marxista» 5, settembre-ottobre
1972, p. 18. Sereni precisa, peraltro, che i «comunisti sono stati fin d'allora, senza dubbio, i primi (e per lungo
tempo, i soli) a sottolineare il carattere ed il contenuto di classe economicamente e storicamente condizionato
del fascismo, in quanto nuova forma della reazione e dell'oppressione capitalista...».
266
V. Tcheprakov, op. cit., p. 34.
267
Cfr. E. Sereni, op. cit., p. 18.
264
Pagina 106 di 185
Gaulle, le varie forme di azionariato sociale della Germania federale, la «diffusione del potere»
dello Strachey in Gran Bretagna.
Nel culturale, inoltre, parallela a queste teorie e pratiche è direttamente tesa
all'appropriazione dell'interesse e della socialità l'ipotesi della «morte delle ideologie», con
questo presunto decesso la battaglia delle idee sarebbe superata, i diversi e opposti progetti
societari si equivarrebbero fino a confondersi in qualcosa di presunto nuovo, l'utopia e le
tensioni si spegnerebbero, non resterebbe che produrre quietamente, e più non dimandare.
Qual'è, in conclusione, il tentativo educativo d'impossessamento?
Quello di indurre continua confusione tra soddisfacimento storico dei bisogni materiali e
interesse di classe, nonché tra interesse di classe e «interesse nazionale» o «interesse
generale», e ciò attribuendo allo Stato — al capitalismo monopolistico di Stato — nelle diverse
forme d'intervento: partecipativo, mediativo, conciliativo, programmativo, gestionale, il potere di
superare le antinomie sostanziali.
Un terzo tentativo di appropriazione poggia sulla superficie delle realtà classiste, il
miglioramento delle condizioni di vita del proletariato.
Per sottolineare il valore positivo dell'intervento dello Stato, sia rispetto al cambiamento,
sia rispetto ai difetti di un sistema liberistico, si afferma con intenti rassicuranti che la teoria della
pauperizzazione è superata, che «era stato preconizzato (dai marxisti) l'impoverimento
crescente delle masse operaie.
Ma i salari per addetto sono aumentati di continuo nei paesi occidentali avanzati, e i
salari orari sono saliti anche di più perché l'orario di lavoro si è ridotto grandemente (in un
secolo in effetti si è più che dimezzato...).
Il macchinismo industriale come mezzo di sfruttamento della fatica umana, nelle
economie occidentali evolute, non è un fenomeno cosi diffuso come un tempo, né vi sono segni
che esso stia aggravandosi.
Le ore di lavoro si riducono e la fatica fisica del lavoro diminuisce.
L'introduzione delle macchine — si era preconizzato — comprime i salari perché crea
disoccupati; determina crisi industriali e contrazione di produzione, perché impoverisce le
masse, genera sottoconsumo e stagnazione.
Fenomeni di questo genere ve ne sono stati, in effetti; e ve ne sono.
Essi sono molto gravi.
Ma non sono più in grado di svolgersi in tutte le loro concatenazioni, in tutti i loro gravi
effetti negativi: lo Stato e i sindacati, adesso, li contrastano e, spesso, con successo»268.
Insomma, se non fosse per l'intervento statale (e dei sindacati, stranamente appaiati,
quasi per esprimere un sotteso desiderio d'incorporazione direbbe Gramsci), l'impoverimento si
verificherebbe, ma mai come preconizzato dalla teoria della pauperizzazione. Il fatto è, innanzi
tutto, che l'impoverimento non è in assoluto crescente per l'opposizione del movimento operaio;
in secondo luogo, che è falsa la teoria, attribuita a Marx269, che nel capitalismo «si produrrebbe
un processo continuo di pauperizzazione assoluta del proletariato».
In verità, «La lotta contro la volgarizzazione della tesi della pauperizzazione assoluta del
proletariato ha una lunga storia.
Già nel 1891, Engels criticava il programma di Erfurt della socialdemocrazia tedesca
secondo la quale il numero del proletariato e la sua miseria non cesserebbero di aumentare.
Sotto questa forma categorica la formula è scorretta.
L'organizzazione degli operai, la loro resistenza sempre più forte ostacolano la crescita
della miseria.
Ma ciò che aumenta in modo incontestabile, è l'insicurezza dell'esistenza».
Marx, peraltro, aveva scritto: «Un aumento sensibile del salario suppone un
accrescimento rapido del capitale produttivo.
268
269
F. Forte, op. cit., p. 185.
Cfr. per l'analisi di questo problema, V. Tcheprakov, op. cit., pp.301-305.
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L'accrescimento rapido del capitale produttivo comporta anche una crescita rapida della
ricchezza, del lusso, dei bisogni e dei piaceri sociali.
Dunque, pur se i piaceri dell'operaio si sono accresciuti, la soddisfazione sociale che
procurano è diminuita, comparativamente ai piaceri accresciuti del capitalista che sono
inaccessibili all'operaio, comparativamente allo stadio di sviluppo della società in generale.
I nostri bisogni e i nostri piaceri — precisava ancora Marx - hanno la loro origine nella
società; non li misuriamo agli oggetti della nostra soddisfazione.
Poiché essi sono di natura sociale, essi sono di natura relativa».
E anche Lenin aveva precisato che «la miseria aumenta, non nel senso fisico, ma in
senso sociale, cioè a dire nel senso che vi è sproporzione tra il livello crescente dei bisogni
della borghesia e della società intera, e il livello di vita delle masse lavoratrici». In conclusione,
quando nel rapporto educativo tra mondo del capitale e mondo del lavoro si attribuisce
all'intervento dello Stato la capacità di mediare, si intende nascondere la realtà dello scontro, e
la valenza delle forze opposte.
Per il mondo delle forze economicamente dominanti, l'interesse è reso equivalente al
salario come «minimo fisiologico» e alla giornata lavorativa come «massimo fisiologico».
La socialità, in corrispondenza a tale interpretazione dell'interesse come aspirazione alla
sopravvivenza, è l'accettazione di tale interpretazione.
Quanto più tale accettazione è tacita e quieta tanto più essa viene valutata positiva per la
socialità.
Con l'apparato economico, repressivo e ideologico, lo Stato contribuisce al passaggio di
questo messaggio di acquiescenza o a tentare di bloccare gli opposti messaggi delle forze del
lavoro che all'interesse e alla socialità attribuiscono non solo significati liberatori, ma lottano —
anche nel rapporto educativo — per l'affermazione dei loro valori, realmente e non
surrettiziamente innovantti a livello degli interessi minimali del consumo e della socialità
dimezzata.
Noi sappiamo, per concludere, che questi modi e tecniche educative tendono
all'occultamento della reale portata storica e sociale del capitalismo monopolistico di Stato; e
sappiamo che tale impostazione del rapporto educativo può svolgersi e realizzarsi, talvolta a
favore per lo status qua, proprio perché «lo sviluppo del capitalismo monopolistico di Stato è un
fenomeno contraddittorio.
Da una parte, è chiamato a mobilitare tutti i fattori economici, politici e ideologici allo
scopo di prolungare l'esistenza della società capitalista; dall'altra, prepara oggettivamente — e
non potrebbe non preparare — la base materiale per il futuro regime socialista, approfondisce e
aggrava la crisi generale del capitalismo»270.
Sappiamo, infine, che nel campo economico, il movimento operaio articola tale rapporto
educativo come — potremmo dire con Gramsci271 — «una lotta contro gli istinti legati alle
funzioni biologiche», e cioè contro il «minimo fisiologico» del salario e contro il «massimo
fisiologico» della giornata lavorativa, per l'affermazione di un interesse alla trasformazione, per
una socialità liberatoria e creativa, contro lo sfruttamento degli attuali rapporti di produzione.
3.5.4 Problemi del «servizio pubblico»
Se nel campo economico il tentativo d'impossessamento dell'interesse e della socialità
rimane a livello problematico o — più esattamente — costituisce lo stesso terreno di scontro, ed
270
271
Ivi, p. 19.
A proposito della «spontaneità» nell'educazione infantile, Gramsci scriveva: «In realtà ogni generazione educa
la nuova generazione, cioè la forma e l'educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche
elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l'uomo "attuale" alla sua epoca» (cfr. Gli intellettuali
e l'organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1949, p. 119).
Pagina 108 di 185
è tangibile, controllabile e controllato collettivamente, nel campo generale dell'amministrazione
le vie dell'impossessamento sono molteplici e multiformi.
Pertanto, il rapporto educativo tra apparato amministrativo del capitalismo monopolistico
di Stato e popolazione si svolge tra equivoci non facilmente svelatali, tra ambiguità intenzionali
o connaturali al sistema amministrativo; l'interesse e la socialità divengono termini adoperabili
con molta destrezza in senso conservativo.
Se, ad esempio, osserviamo l'uso del «servizio pubblico» (nella sua teoria e nella sua
pratica) troviamo una fertile occasione di riflessione sulle valenze educative che la nozione e la
realizzazione di «servizio pubblico» comporta.
Ci sembra utile scegliere, tra tanti aspetti dell'amministrazione pubblica, il settore dei
servizi perché esso appare, da una parte, come la forma più recente dell'intervento
amministrativo pubblico, e, dall'altra, perché è quello che — almeno in alcuni ambiti — risente
più vivacemente delle spinte «dal basso».
Come notava A. Zucconi a proposito dei «servizi sociali», in Italia, infatti, «si è cominciato
a parlare di "servizi sociali" solo in questi ultimi anni, ufficialmente dopo la pubblicazione del
Progetto 80.
Il discorso si è successivamente animato sia con l'istituzione delle Regioni, sia con le
esperienze di decentramento amministrativo in alcune grandi aree metropolitane.
Di questo "approccio" piuttosto nuovo — rilevava ancora — dobbiamo in sostanza
rallegrarci, perché è in certo senso un approccio "dal basso", in quanto parte dai bisogni
concreti della popolazione di un dato territorio ed implica sia il problema del governo di questo
territorio, sia della partecipazione della popolazione ai servizi come utenza attiva e come
gestione»272.
D'altra parte, se dai «servizi sociali» come oggi intesi o discussi, passiamo ai «servizi
pubblici» in generale troviamo una problematica molto antica e complessa, con una storia —
legata all'origine dello Stato moderno —, con indicazioni rivelatrici in relazione all'interesse e
alla socialità nonché all'uso che di questi riferimenti si è praticato nel rapporto educativo in
esame.
«La teoria del servizio pubblico — ha scritto J. Chevallier273 - si è sviluppata agli inizi del
XX secolo a partire dalla celebre opera del consigliere di Stato Teissier, La responsabilité de la
puissance publique, del 1906»; egli «vede nella nozione di servizio pubblico una nozione chiave
che fonda la competenza della giurisdizione amministrativa».
Con il contributo di altri autori, la nozione conosce «una fortuna straordinaria, perché
essa fonda e limita, sul piano filosofico i poteri dei governanti, mentre costituisce un criterio
giuridico di applicazione del diritto amministrativo.
Essa è di una chiarezza rimarchevole sul piano concettuale: il diritto dello Stato è il diritto
dei servizi pubblici e, dunque, non solamente ogni attività amministrativa costituisce per
principio un servizio pubblico, ma ancora solo un'attività amministrativa può costituire un
servizio pubblico.
La nozione di servizio pubblico è tanto estesa quanto l'attività dei poteri pubblici , questa
coincide esattamente con quella.
L'attività di servizio pubblico va di pari passo con la gestione attraverso un organo
amministrativo.
In questa concezione, i due sensi del servizio pubblico coincidono: il servizio pubblicoistituzione corrisponde al servizio pubblico-attività».
Cosa significa questa concezione nella pratica?
E quale significato assume nel rapporto educativo?
Spiega lo Chevallier che nella pratica è il «criterio organico» che diviene preponderante,
e proprio « perché è il più operazionale».
272
A. Zucconi, I servizi sociali nel decentramento amministrativo a Roma, Milano, Bologna, Roma, AAI, quaderno
12 (1972), supplemento al n. 6 1971 di «Assistenza d'oggi», p. 19.
273
J. Chevallier, Le service public, Paris, Presses Universitaires de France, 1971, pp. 8-11
Pagina 109 di 185
In che senso?
«Non è facile — si aggiunge e specifica -definire se l'attività in causa è veramente
d'interesse generale; ma ciò non è necessario: poiché ogni persona pubblica gestisce un
servizio pubblico, è sufficiente qualificare l'organo per scoprire per il fatto stesso la natura
dell'attività.
E questa qualificazione pone molti minori problemi. Grazie a questa referenza organica,
la precisione concettuale della nozione di servizio pubblico è molto grande».
In effetti, di fronte a questa definizione del «contenuto originario» del servizio pubblico
ogni possibile dubbio viene fugato: non è il «servizio» che qualifica il «servizio pubblico», ma è il
«servizio pubblico» stesso che si pone come tale; cioè: non è la funzione a qualificare l'organo,
ma è quest'ultimo che si autogiustifica organicamente; cioè, ancora: non è chi si serve del
«servizio pubblico» a qualificare il servizio, ma è il servitore.
Vi è, tuttavia, un particolare: in questo caso il servitore si identifica con il padrone.
Nascono, allora, fondati interrogativi sul cui prodest, sugli interessi e sulla socialità;
soprattutto quando si afferma che tutto l'esercizio del servizio pubblico è basato su una
presunzione: «...le attività pubbliche perseguono sempre, direttamente o indirettamente, la
finalità dell'interesse generale.
Vi è una verace presunzione che l'Amministrazione agisce nel senso dell'interesse
generale, ed è molto difficile scoprire un criterio oggettivo che permetta di contraddire questa
presunzione.
Tutte le attività pubbliche hanno dunque per principio il carattere di attività di servizio
pubblico, e ciò mostra che su questo piano il criterio organico conserva una grandissima
importanza».
Ma non esistono davvero altri «criteri oggetti vi» capaci di contraddire questa
presunzione?
Limitiamoci ad osservare, per ora, che nella logica che scaturisce da tale presunzione
l'organicità non sembra riferita alla funzione (e alla popolazione servita), quanto piuttosto
all'organo (e al «servizio pubblico», come singolare «servo padrone»).
Questa impostazione originaria, tuttavia, è senza dubbio utile, nella misura in cui ci
fornisce la cartina di tornasole dell'«interesse generale».
E, infatti, con questo strumento di verifica possiamo soffermarci, almeno brevemente, sul
significato pratico che ha assunto questa presunzione nell'evoluzione-involuzione storica.
Per ricavare elementi utili di riflessione dobbiamo tener presente che — e non solo per
noi — non è la pubblicizzazione dei servizi che preoccupa; tutt'altro; ma l'uso che del «servizio
pubblico» è stato e viene fatto.
L'ipotesi, dunque, intorno alla quale dobbiamo cercare di indagare è relativa alla
rispondenza di alcuni istituti ai cosiddetti «interessi generali», non dando per scontata,
presuntivamente, la «generalità» di tali interessi, ma cercando d'individuare, nel corso storico, il
senso politico del manifestarsi concreto di tali «interessi generali».
Ciò equivale, per noi, all'individuazione del rapporto tra valenze educative di alcuni istituti
che si definiscono pubblici e scopi reali di tali istituti.
Sembra evidente, in altre parole, che è proprio il criterio organico a permetterci di
appurare se è vero, e in quale misura, che negli interventi pubblici prevalgono gli interessi
generali, ovvero se sono gli interessi privatistici a prevalere sub specie della pubblicità
dell'istituto; se è vero che l'intervento pubblico di per sé permetta di superare il classismo
ovvero che esso non mascheri una permanente sostanza classista dietro una facies
pubblicistica; e, in questo secondo caso, mentre non si riscontrerebbe una rispondenza reale —
ma solo apparente o labile — ai bisogni e agli interessi della popolazione, risulterebbe esservi
prevalentemente l'uso educativo dell'istituto, e, naturalmente, in senso conservativo.
Se come termine di riferimento storico-amministrativo prendiamo gli «enti pubblici», in
quanto ci sembra che essi contengano l'attuale problematica dei «servizi pubblici», riscontriamo
che, in effetti, all'origine dello Stato moderno sembra esservi una tendenza all'assunzione
Pagina 110 di 185
diretta di responsabilità da parte dello Stato rispetto ai bisogni dei cittadini; come è stato
notato274, «Nei primi anni della rivoluzione francese si assiste infatti al disconoscimento di una
autonoma personalità a enti locali, comunità ecclesiastiche e ospedali.
L'ostilità nei confronti dell'esistenza di un patrimonio distinto da quello dello Stato si
manifesta in Francia in una deliberazione del 5 agosto 1789 dell'Assemblea Costituente che
privava di ogni privilegio patrimoniale e non patrimoniale tutti gli enti territoriali e le
comunità»275.
In seguito questa tendenza cedette il passo al riconoscimento di persone pubbliche
diverse da quella dello Stato, con distinte caratteristiche storiche a seconda del periodo.
In Italia, una prima fase viene considerata quella compresa tra l'unità (1860) e la prima
guerra mondiale (1915); in questo periodo, l'amministrazione pubblica è «quella che si compie
sotto l'autorità dello Stato, rappresenta una causa essenzialmente pubblica, uno dei fini dello
Stato e delle sue autorità frazionarie»276 e queste sono, principalmente, i comuni e le province;
l'esistenza di enti pubblici, in altre parole, viene riconosciuta sul territorio, «per la cura di
interessi generali di dimensioni locali».
Essi si presentano con due caratteristiche: innanzitutto «curano interessi generali» (il
comune «è persona giuridica pubblica perché «corporazione localizzata per provvedere agli
interessi che nascono e muoiono nel territorio comunale»277; perché ha «una moltitudine di fini
da raggiungere», è «uno Stato in piccolo»278) ; e «in questo modo si comprende — spiega il
Cassese — perché il problema della personalità giuridica pubblica fosse, nel periodo preso in
considerazione, in connessione con quello dell'autogoverno, del diritto cioè di amministrare da
sé i propri affari: se un ente pubblico cura istituzionalmente tutti gli interessi di una collettività
bisogna che i membri di quest'ultima siano posti in grado di far sentire la loro voce nell'ente
pubblico»279.
La seconda caratteristica è nel «carattere dello jus imperii che accompagna gli atti
dell'autorità comunale»280.
Scrive M. S. Giannini: «Sino a quando si era avuto, in Italia, la vigenza della costituzione
liberale, lo Stato si occupava di poche cose e lasciava all'iniziativa dei Comuni tutto ciò che non
formasse oggetto di un proprio interessamento diretto»281, aggiungendo e specificando che ciò
accadeva «non tanto per rispetto dei principi, quanto perché si trattava di materie sulle quali lo
Stato non aveva opinioni e non voleva assumere atteggiamenti propri»282; fatto sta che «i
Comuni, soprattutto quelli dell'Italia settentrionale e centrale, furono, almeno sino agli inizi di
questo secolo, i più operosi creatori di istituti giuridici.
Vi furono regolamenti di edilizia, i quali contenevano delle prescrizioni che erano più
avanzate di quelle della legge urbanistica del 1942 (...) istituti come i pubblici macelli, i mercati
generali, i mercati speciali, i depositi generali, i vivai e semenzai pubblici, le scuole di
riabilitazione per minorati, le cattedre di istruzione agraria, i preventori e gli ambulatori, alcuni
274
Cfr., anche per le successive osservazioni e per i riferimenti bibliografici, S. Cassese, Partecipazioni pubbliche
ed enti digestione, Milano, Edizioni di Comunità, 1962, p. 90 ss
275
Ivi, p. 90; cfr. R. Drago, La crise de la notion d'établissement public, Paris 1950, p. 33
276 Ivi, p. 91 ; cfr. L. Meucci, Instituzioni di diritto amministrativo, Torino 1892, p. 164.
277 Ivi, p. 91; cfr. G. Giorgi, La dottrina delle persone giuridiche o corpi morali, Firenze 1899, vol. II, p. 10.
278 Ivi, p. 91; cfr. G. Giorgi, op. cit., vol. IV, p. 93
279 Ivi, p. 92; cfr. S. Romano, La teoria dei diritti pubblici subiettivi, Trattato Orlando, Milano, s.d. (ma 1897), p.
146; F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova 1960, p. 391.
280 Ivi, p. 92; cfr. G. Giorgi, op. cit., vol. IV, p. 93.
281 M. S. Giannini (a cura di), / Comuni, Atti del Congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di
unificazione, Pubblicazioni dell'Istituto per la Scienza dell'Amministrazione Pubblica, Vicenza, Neri Pozza 1967,
p. 34
282 Ivi.
Pagina 111 di 185
istituti assistenziali per gli anziani o per persone socialmente sottoprotette, ebbero tutti la loro
origine in iniziative comunali»283.
Concludendo intorno a questa prima fase, vi è da tener presente che, accanto agli enti in
parola (principalmente comuni e province), vi sono «istituzioni semipubbliche » o «di pubblica
utilità» che non hanno, in senso stretto, «l'esercizio del potere pubblico» e non entrano
«nell'ordito rigorosamente governativo dello Stato» (esse sono, ad es., le università, le opere
pie, le congregazioni di carità, i consigli delle professioni liberali ecc.)284.
La seconda fase viene compresa nel periodo 1915-1943; ma lo sviluppo quantitativo
degli enti pubblici si ebbe soprattutto nel ventennio fascista. In questa fase si riscontra «la
costituzione di enti a competenza nazionale per la cura di interessi non più generali ma di
settore»285.
Le loro caratteristiche: «il loro estendersi a tutta la comunità nazionale» e il «curare non
più tutti ma solo gruppi di interessi»286.
È importante sottolineare, innanzi tutto che rispetto a questo, abbiamo un «declino
dell'importanza degli enti locali»287.
Ed è in questo periodo «— e proprio in relazione alla non perfetta coincidenza tra ente
pubblico e fine pubblico — che sorgono persone giuridiche pubbliche operanti come
imprenditori privati»288.
Ciò in quanto la «tendenza del diritto fascista è precisamente nel senso di configurare
sempre più largamente nuovi enti pubblici con attività fondamentalmente regolata dal diritto
privato»289.
«Accanto a enti pubblici-impresa, si creano in questo periodo enti con compiti di
regolazione e con rappresentanza di interessi di settori professionali, che godono della
personalità pubblica ma operano come soggetti privati»290.
La spiegazione di questo proliferare di «enti pubblici» è nel prevalere del regime
totalitario «che mira a vestire di carattere pubblico interessi privati.
Enti di gestione, enti di incoraggiamento, enti di controllo proliferarono senza alcun
ordine apparente, giungendo perfino a curare interessi strutturalmente in contrasto tra di loro.
Si verificò, in tal modo, il seguente fenomeno: il piano su cui avveniva la composizione
degli interessi economici si spostò dallo Stato-società verso l'interno dell'ordinamento statale.
Ciò, del resto, — conclude il Cassese — corrispondeva alla conclamata identificazione
fra società e Stato (o tra nazione e Stato)»291. Insomma: l'«incorporare» gramsciano era stata
un'anticipazione esatta anche nell'ambito amministrativo.
Quale interpretazione estrarre, da un punto di vista educativo, di questo fenomeno?
La « Relazione all'Assemblea Costituente» della Commissione per studi attinenti alla
riorganizzazione dello Stato notò senza perifrasi che il pullulare di «enti pubblici» in quel
periodo fu determinato «da tendenze avverse al progressivo aumento delle funzioni pubbliche,
283 Ci è sembrato opportuno ricordare questi elementi per sottolineare l'amplio raggio degli istituti promossi da
Comuni; per quanto specificitamente ci riguarda, andrebbero aggiunti i conservatori, le biblioteche, le
pinacoteche, i musei
284 S. Cassese, op. cit., p. 92
285 Ivi, p. 93.
286 Ivi.
287 Di questo declino oggi si riscontrano i significativi effetti: se «si raffronta ciò che un Comune faceva o poteva
fare nei primi decenni dell'unità, e ciò che un Comune fa o può fare oggi, si constata che il Comune ha perduto
una quantità di attribuzioni a favore dello Stato o di enti pubblici diversi. Si constata soprattutto che anche nelle
attribuzioni rimaste al Comune, si è avuta un'erosione continua di competenze, al punto che oggi nessuno
saprebbe indicarne una che gli sia esclusivamente propria» (cfr. M. S. Giannini, op. cit., p. 34).
288
S. Cassese, op. cit., p. 94.
289
Ivi, p. 94; cfr. G. M. De Francesco, Persone giuridiche pubbliche e loro classificazioni. Scritti per Vacchelli,
Milano 1938, p. 211.
290
Ivi, p. 94.
291
Ivi, pp. 94-95
Pagina 112 di 185
e cioè da tendenze politiche liberali o liberiste», e cioè dal «considerare pubblici enti i quali di
pubblico non hanno altro che il nome»292.
Per altro verso, si afferma che tale interpretazione «non considera il fatto che con
l'estensione degli enti pubblici si da rilievo pubblico a interessi finora meramente privati e si
trasformano attività private e quindi meramente lecite in attività funzionali, cioè pubbliche»293.
A noi sembra, volendo tentare un'interpretazione, che per un verso non si possa parlare
di «tendenze» liberali o liberiste, ma di manifestazioni amministrative dello «stadio» strutturale
del capitalismo monopolistico di Stato nel ventennio fascista.
Dall'altro verso, che non comprendiamo come queste manifestazioni, in questo periodo,
con un regime che «mira a vestire di carattere pubblico interessi privati» possano,
immediatamente e in toto, trasformarsi in «attività funzionali, cioè pubbliche».
Piuttosto bisognerà distinguere tra enti ed enti: quelli istituiti sulla base di bisogni più
largamente avvertiti e per questo, forse, elaborati strutturalmente in modo da rendere più solida,
apparentemente questa trasformazione; e quelli più rozzamente costruiti ai fini privati.
Dovremmo, infatti, tener presente, al di là delle forme giuridiche, le sostanze politiche, e
la domanda che avanzava G. Dimitrov: «Qual è l'origine dell'influenza del fascismo sulle
masse?».
E le sue risposte: che esso «riesce ad attirare una parte delle masse perché fa appello
demagogicamente ai loro bisogni e alle loro aspirazioni più sentite».
Che esso «tende allo sfruttamento più sfrenato delle masse, ma le avvicina con un'abile
demagogia anticapitalistica, sfruttando l'odio profondo che i lavoratori nutrono contro la
borghesia rapace, contro le banche, i trust e i magnati della finanza, e lancia parole d'ordine più
suggestive, in questo momento, per le masse politicamente immature.
In Germania, "il bene comune al di sopra di quello privato"; in Italia, "il nostro non è uno
stato capitalista, ma uno stato corporativo"...»294.
Il fatto che alcuni enti siano riusciti a scavalcare la Resistenza e a ripresentarsi alla
società, con scarse modificazioni, identici da un punto di vista democratico, potrebbe costituire
un'altra occasione di distinzione: tra quelli capaci di svolgere una funzione sostanzialmente
simile sul piano demagogico (ad es. il bisogno di svago, e la risposta pronuba quanto
interessata a tale bisogno) e per i quali è stato sufficiente cambiare intestazione (dall'EIAR
all'OND); e quelli deperiti come ente totalitario (ad es. la GIL) perché impossibilitati a reciclarsi
nel pluralismo come organo del «bene comune» giovanile295.
Concludendo, ci sembra che, effettivamente, nel campo generale dell'amministrazione le
vie d'impossessamento dell'interesse e della socialità siano molteplici e multiformi,
indirizzandosi alle «masse politicamente immature», «ai loro bisogni e alle loro aspirazioni più
sentite», in nome di un'organicità al «bene comune». Inoltre, vi è da tener presente che il
rapporto educativo tra amministrazione («servizio pubblico») e popolazione è facilitato
oggettivamente, in senso conservativo, dal fatto che la richiesta (di «assistenza», di «aiuto», di
«consulenza», di «protezione», di «istruzione», di «svago» ecc.) non è avanzata a livello
collettivo, ma individuale; non a livello di produzione, ma di consumo; non a livello della forza di
classe, ma della minorazione sociale; non nella pienezza dell'autocontrollo, ma nello stato di
necessità (e sui diversi bisogni nessuno può permettersi moralismi); non a livello delle cause (le
condizioni di lavoro in fabbrica o lo sfruttamento) ma degli effetti (la malattia contratta sul lavoro
o la disoccupazione).
292
Ivi, p. 95; cfr. Ministero per la Costituente, Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato,
Relazione alla assemblea costituente, vol. Ili, p. 15
293
Ivi, p. 95.
294
G. Dimitrov, Dal fronte antifascista alla Democrazia Popolare, Rapporto al VII Congresso dell'Internazionale
Comunista, Mosca, 2 agosto 1935.
295
Si potrebbe osservare, in proposito, che molti tentativi sono stati compiuti per un adattamento; ma infine — nel
1973 — a un trentennio dalla caduta del regime fascista — finalmente ci si è decisi ad attribuire i beni della exGIL alle Regioni (ma non tutti).
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E come contrapporre a questo rapporto educativo potenzialmente così assoggettante un
opposto rapporto educativo che disveli il privato classista nel sedicente «servizio pubblico»?
Come organizzare quell'utenza che è il moderno sottoproletariato prodotto dal
neocapitalismo?
Non intendiamo suggerire che ciò sia impossibile; è possibile e reale; ma è certo più
difficile acquisire consapevolezza nel rapporto educativo con il «servizio pubblico» di quanto
non lo sia in fabbrica, nel rapporto educativo con la struttura economica.
Ogni sforzo in questo senso andrebbe sostenuto; l'analisi di Dimitrov conserva tutta la
sua attualità di sostanza.
Quando, dalla considerazione delle forme d'impossessamento dell'interesse e della
socialità di tipo fascistico (massimamente contraffattorio e prepotente nel suo inglobante
corporativismo) passiamo a riflettere alla situazione attuale, dobbiamo tener conto dei pericoli
sempre presenti e delle contraddizioni del capitalismo monopolistico di Stato.
Circa i pericoli, è sempre salutare ed educativo alla consapevolezza quanto ancora
Dimitrov affermava, nel '35, che non si può «immaginare l'ascesa al potere del fascismo in
modo semplice e piano, come se un comitato qualsiasi del capitale finanziario decidesse di
instaurare la dittatura fascista a una data fissa», (noi diremmo con i colpi di Stato), ma
«attraverso una lotta con i vecchi partiti borghesi o con una determinata parte di essi», e che
questa lotta non diminuisce «l'importanza del fatto che, prima dell'instaurazione della dittatura
fascista, i governi borghesi, ordinariamente, attraversano una serie di tappe preparatorie ed
instaurano una serie di misure reazionarie, le quali favoriscono direttamente l'ascesa del
fascismo al potere».
Chi — aggiungeva — «non lotta durante queste tappe preparatorie contro le misure
reazionarie» non solo «non è in grado di impedire», ma «facilita la vittoria del fascismo».
Circa le contraddizioni, dobbiamo sottolineare alcuni punti fermi per impedire che nel
campo amministrativo prevalga un senso conservativo nel rapporto educativo tra «servizio
pubblico», «ente pubblico» e popolazione. Innanzi tutto, il rifiuto dell'equazione semplicistica
«servizio pubblico» = «interesse generale», «bene comune» ecc., ovvero la presunzione che
scopo del «servizio pubblico» sia, sic et simpliciter, l'interesse generale; se si vuoi muovere da
un dato presuntivo, scegliere la presunzione opposta, proprio perché il senso dell'aggettivo
«pubblico» è materia del contendere o deve divenir tale nelle più mistificate occasioni.
In secondo luogo, e per affermare un senso diverso del «pubblico», tendere ad attribuire
il criterio organico all'interesse di chi si serve, e non allo Stato erogatore del «servizio».
In terzo luogo, tener conto del principio dinamico e dialettico che il senso del «pubblico»
non si giustifica a priori o per presunzione giuridica, ma nella gestione e nel controllo, da cui
discende che un «servizio pubblico» è tale quando, anche qui, secondo la Costituzione, «la
sovranità appartiene al popolo» (art. 1). In quarto luogo, infine, ci sembra importante
sottolineare il rilievo dell'istituzione delle Regioni per la tendenza che esprime di ritorno al
territorio (agli interessi delle popolazioni direttamente presenti ai problemi della gestione e del
controllo), e per tutto ciò che tale istituzione significa come spazio e potere alle autonomie
locali, come democraticità nei fini e nelle procedure di attuazione dei «servizi pubblici», come
rovesciamento — almeno potenziale — del rapporto educativo metafisico e demiurgico tipico
dello Stato accentratore, nel presente stadio del capitalismo monopolistico.
3.5.5 La «cultura» nel capitalismo monopolistico di Stato
Se nel campo economico il rapporto educativo tra capitalismo monopolistico di Stato e
movimento operaio costituisce lo stesso terreno di scontro, e, quindi, il controllo sul senso di
tale rapporto, la lotta per il cambiamento di tale senso è possibile, definibile quotidianamente,
attualmente reale; se nel campo amministrativo, e proprio per le ambiguità del «servizio
pubblico», il rapporto educativo con la popolazione è meno controllabile quando nella prassi
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non riusciamo a ribaltare il senso del «pubblico» e cioè i modi di modificare le attuali posizioni di
potere, cosa accade nel campo e nell'accezione, tradizionalmente delimitati, della «cultura»?
Pur avendo ricercato in questi rapporti — prioritari, anche da un punto di vista culturale
— il significato implicitamente educativo all'assetto economico e amministrativo, è necessario
riscontrare le valenze educative che emergono dal rapporto tra «cultura» e capitalismo
monopolistico di Stato.
Perché, se è vero che la politica culturale scaturisce dall'assetto strutturale e
istituzionale, è vero anche che esiste una camera di elaborazione specifica alle decisioni di
politica culturale, un luogo deputato ai tentativi di impossessamento dell'interesse e della
socialità; che poi in Italia esso non corrisponda ad un Ministero della cultura, ciò è interpretabile
da varie angolazioni296.
Per individuare le vie d'impossessamento dell'interesse e della socialità nel campo
culturale, dobbiamo riferirci al complesso del rapporto educativo, andando al di là della singola
opera d'arte, del singolo museo (teatro, biblioteca ecc.), del singolo autore. Il voler limitare e
restringere i discorsi al singolo autore, alla singola infrastruttura culturale, alla singola opera
d'arte, ovvero al complesso mondo dell'arte come insieme di singole individualità, di singolarità
infrastrutturali, di unicità irripetibili costituisce — infatti — uno dei giochi di ricatto più usuali per
non permettere di abbracciare la globalità del rapporto educativo in atto ed il suo senso
conservativo, per continuare — magari sotto nuove forme — e perpetuare l'impossessamento a
favore del privilegio. In questo trabocchetto sembra a noi che siano caduti anche sociologi
come Dumazedier297, per un verso o, per l'altro, Bourdieu e Darbel298, quando sono andati a
constatare il rapporto tra campi d'interesse ovvero musei, e popolazione; in tali spicchi di realtà,
in tali angoli ristretti della globalità non è possibile trovare altro che i brandelli di una condizione
umana dalle potenzialità ben più ricche di capacità innovative. In realtà, infatti, limitarsi ad
appurare che tra arte e popolazione non scolarizzata non vi è alcun rapporto positivo, che in
alcuni strati sociali manca l'amore (il bisogno, l'interesse) per l'arte significa accettare i termini
scontati di un rapporto classista. Il problema non sembra essere questo, né quello di abbattere
tardivamente i fantasmi della «neutralità» dell'arte o dell'«innocenza del gusto».
Ma quello di appurare fino a quale punto si spinge la contraddizione di una divinità che
ha bisogno di fedeli, che ha bisogno di scoprire i loro bisogni (i più riposti299) per poterli
soddisfare, a beneficio della propria autoconservazione, fino alle soglie della saturazione, mai
oltre, per impedire la liberazione dal bisogno stesso.
Come scriveva Marx: l'animale «produce solo sotto il dominio del bisogno fisico
immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente solo se
libero dal bisogno medesimo»300; l'importante è che non si permetta mai di «produrre
veramente».
Per impedire che ciò si verifichi la divinità avverte il bisogno di controllare tutte le
evenienze dei bisogni, e perfino di suscitarne di nuovi, artefatti e indotti, che la socialità storica
296
Periodicamente, s'è parlato dell'istituzione di un Ministero dei Beni Culturali; ora è stato istituito
J. Dumazedier è stato tra i pionieri di questo genere di ricerche (con l'inchiesta condotta ad Annecy nel biennio
1956-57). «Su un agglomerato urbano di 40.000 abitanti, la caratteristica dominante rilevata "nei riguardi
dell'acquisto sistematico delle conoscenze è l'indifferenza". Ma il gruppo relativamente ristretto di persone che
sentono dei bisogni culturali rivela, particolarmente al livello operaio, un interesse concentrato " sui problemi
pratici e tecnici". Tra gli operai qualificati una scarsa attenzione viene rivolta "alla scienza, all'arte, alla
letteratura, ai problemi filosofici" a vantaggio delle questioni inerenti alla vita quotidiana e alla tecnica» (cfr. L.
Borghi, Educazione e sviluppo sociale, Firenze, La Nuova Italia, 1962, p. 234; J. Dumazedier e J. Hassenforder,
L'instruction et les masses, in «International Revue of Edu-cation», 1961, n. 1, pp. 37-50).
298
P. Bourdieu e A. Darbel, L'Amour de l’Art. Les Musées et leur public, Paris, Éditions de Minuit, 1966; trad. it.,
Firenze, Guaraldi, 1970
299
Cfr. Chreiologie, Journées francaises dei Vaucresson 4-6 settembre 1968, Societé francaise de chreiologie,
Rapports et Communications relatifs a l'étude scientifique des besoins, «Informations-UFOD», Numero special:.
1968-1969
300
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, a cura di G. della Volpe, Roma,
Editori Riuniti, 19716, pp.199-200
297
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è in grado di soddisfare quietamente (peccato che gli strati operai non siano in grado di godere
di tante gioie profferte nell'epoca della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte!).
Ma cosa intendiamo dire con divinità, e con i suoi bisogni di bisogni?
A noi sembra che, per individuare le vie d'impossessamento che nel campo della
«cultura» il capitalismo monopolistico di Stato segue, sia necessario lasciarci prendere per
mano dalle tendenze in atto, vedere dove vanno a concludersi, individuare i varchi della
contraddizione in cui il neocapitalismo si trova e in cui tenta di intrigare.
L'ipotesi dalla quale possiamo muovere è relativa alla compresenza, in questo stadio, di
due tendenze.
La prima si riferisce, appunto, alla nuova divinità; potremmo definirla come la religione
della cultura o dell'arte, un fenomeno la cui origine è databile agli albori della società industriale;
come notava Huizinga negli anni'30: «II grande cambiamento (circa la funzione dell'arte) è nato
dalla nuova ispirazione estetica dello spirito, che ebbe inizio dopo la prima metà del Settecento
in due forme: una romantica, l'altra classicheggiante.
La corrente principale è quella romantica, l'altra vi s'intreccia.
Da ambedue nasce quella celeste esaltazione del piacere estetico nella scala dei valori;
celeste perché troppo spesso si sostituirà a un affievolito sentimento religioso...
Solo verso la fine dell'Ottocento, non senza l'influenza della tecnica fotografica, la voga
dell'arte penetra pure nelle masse dei più o meno istruiti.
L'arte diventa dominio pubblico, sta bene insomma di occuparsi di arte.
Lo snobismo si diffonde sensibilmente nel pubblico...
L'arte è... soggetta ai fattori nocivi del moderno processo di produzione».
La meccanizzazione, la pubblicità, la ricerca d'effetto «influiscono maggiormente su di lei
perché essa lavora più direttamente per la vendita, e con mezzi tecnici».
D'altra parte, l'artista «viene considerato come un essere eccezionale superiore alla
maggioranza degli uomini, e deve stimare giusto che gli sia tributata una certa riverenza.
Per poter gustare questo senso di eccezionalità egli ha bisogno di un pubblico di
ammiratori... »301.
Dobbiamo sempre tener presenti, circa il pubblico e il rapporto produzione-consumo, le
osservazioni marxiane: «L'oggetto dell'arte — come ogni altro prodotto — crea un pubblico
sensibile all'arte e capace di godimento estetico.
La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un
soggetto per l'oggetto. La produzione produce quindi il consumo...»302.
La seconda tendenza ha origine dal tentativo di condizionare lo sviluppo democratico
anche nel campo culturale; accettati, almeno teoricamente, i principi di libertà e di eguaglianza,
lo Stato, nello stadio del capitalismo monopolistico, tenta di ritardare il riconoscimento reale dei
lavoratori, della loro presenza storica, fisica, diremmo.
Fu sintomatico, in questo senso, il dibattito in sede di Costituente, quando — se ben
ricordiamo — la dizione di Togliatti (« repubblica di lavoratori ») sostenuta dalle sinistre dovette
cedere alla mediazione della formula «fondata sul lavoro».
Al contrario della prima, questa seconda tendenza è, dunque recente; essa — pur
tardivamente — viene esplicitata a livello ufficiale nel «Progetto 80»303, il documento del
Ministero del Bilancio e della Programmazione economica pubblicato nel '69 (e la data è
importante, in quanto gli estensori non potevano non tener conto delle aspirazioni — distorte —
del '68); qui si parla, per la prima volta, di «promozione della cultura», di «servizi sociali per il
tempo libero» oltre alla «preservazione del patrimonio storico e artistico». Inoltre, se la prima
tendenza ha origini dalle necessità della società industriale, ma è formulata nella camera di
elaborazione gestita da intellettuali alla Winckelmann, la seconda nasce in opposizione alla
301
J. Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi, 1946, pp. 248-249; tutti i corsivi sono nostri
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica cit., p. 16
303
Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Progetto 80, Rapporto preliminare al programma
economico nazionale 1971-1975, Milano, Feltrinelli, 1969
302
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rivoluzione bolscevica, alle aspirazioni del movimento operaio, all'affermazione della presenza
storica dei lavoratori.
Essa nasce, evidentemente, come risposta conservativa al movimento che propugnava e
propugna non solo la libertà e l'eguaglianza nello stesso campo culturale, ma, anche qui, la
necessità di partire dai rapporti di produzione, più che dal mondo classico.
Questa tendenza, dunque, tenta di impossessarsi più direttamente dell'interesse delle
masse lavoratrici e della socialità; finge (fino a prova contraria)304 di recepire le aspirazioni alla
democratizzazione culturale (nel senso della ripartizione di un bene che deve essere comune,
del decentramento e della diffusione culturali) e tende ad accettare, almeno teoricamente, il
diritto alla cultura in analogia al diritto alla libertà e alla giustizia.
La personalità che ha cercato di spingere a oltranza queste due tendenze è stato
indubbiamente Malraux i cui «dieci anni di azione culturale resteranno una delle avventure più
ricche» vissute, e non solo da lui, e non solo in Francia. Un'avventura conclusasi con il maggio
francese, con la contraddizione che opponeva Andrè Malraux «agitatore culturale» al ministro
Malraux, e che «non poteva risolversi altro che con un ritiro»305.
Un'avventura, a nostro parere, che mirava alla sintesi tra le due tendenze, e che sembra
essere naufragata nelle sue ambizioni.
Quasi riprendendo i termini di quella «celeste esaltazione del piacere estetico» di cui
aveva parlato Huizinga leggendo il futuro, Malraux affermava che «La cultura è l'insieme delle
forme che sono state più forti della morte...»306, che «Auparavant il y avait la religion.
Aujourd'hui a l'échelon de l'État, il faut tenter de faire en sorte que la sauvegarde soit mise de
façon permanente en face de l'attaque. Avant cinquante ans, la culture sera gratuite»307, che le
Maisons de la culture sono le «cattedrali del XX secolo»308, che «Il museo che fu una collezione
diviene — e lui solo — una sorta di tempio»309, che le Maisons de la culture sono appunto le
cattedrali «dove la gente si incontra per incontrare ciò che di meglio vi è in essa»310.
Cercando di fondere in questa «religione della cultura» l'universalismo e il nazionalismo,
le aspirazioni democratiche e il gollismo, e forse sperando di riuscire in questo scopo grazie
soprattutto al suo rapporto passato col vivo di rivoluzioni, Malraux si senti osservare nel '68 che
se la cultura era la religione, essa aveva oggi «il ruolo dell'oppio dei popoli»311, in più: che
«essa tendeva» a fondare una specie di religione, di religione di stato».
Mentre già nel '65, il PCF aveva notato seccamente che «l'arte non ha niente da
guadagnare a essere promossa al rango di religione di Stato»312.
Ma il fallimento sostanziale della inglobante visione del Malraux non significa sconfitta del
capitalismo monopolistico di Stato sul terreno della politica culturale.
L'impossessamento dell'interesse e della socialità può rischiare anzi di passare più
inosservato quando, fingendo di accettare la richiesta di democratizzazione, il discorso si fa
304
Ci sembra corretto scrivere «finge», e non «accetta», perché, in effetti, per quanto riguarda la situazione del
nostro Paese, mancano le determinazioni concrete, e, quando sembrano esservi, vengono inevase; basti
pensare alle cifre, in bilancio, non spese per l'edilizia scolastica, alle lunghe traversie per la costruzione della
biblioteca nazionale a Roma, alle cifre stanziate per gli enti di stato per il cinema, al piano per la pubblica lettura
(Piano L), al 2% della spesa per le costruzioni da destinarsi ad opere d'arte (v. «l'Unità», 12 gennaio 1967).
305
Cfr. J. Lacouture, «Dix ans de règne sur la culture, in "Le Monde", 9 luglio 1969. Peraltro, si nota che
«politicamente, il generale de Gaulle è morto nel maggio 1968» (così J. Fauvet, in «Le Monde», 3 maggio 1973),
anche per una rivolta alla politica culturale del regime gollista
306
Cfr. P. Gaudibert, op. cit., p. 43
307
Ivi, p. 44.
308
Ivi.
309
Ivi.
310
Ivi.
311
J. Dubuffet, Asphyxiante Culture, Paris, Pauvert, 1968, p. 13. Scriveva: «La cultura tende a prendere il posto di
ciò che un tempo fu quello del la religione. Come quello, essa ha oggi i suoi sacerdoti, i suoi profeti, i suoi santi, i
suoi collegi di dignitari».
312
G. Belloin, Politique culturelle: les communistes proposent, in «Cahiers du communisme» 10, ottobre 1965, p.
35; cfr. P. Gaudibert, op. cit., p.45
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efficientistico e servizievole; come quando, nel '62, in Francia, si scriveva nel primo stadio
(quello delle attrezzature) del quarto piano: «II ruolo dello Stato è di creare le condizioni che
rendano possibile e fruttuoso lo sforzo di ciascuno, specialmente sviluppando un'infrastruttura di
sale di spettacolo e di Maisons de la culture, in rapporto con i bisogni sempre più sentiti...
È una forma molto particolare di "servizio pubblico" che importa organizzare e
provvedere di attrezzature negli anni prossimi se si vuole cominciare a soddisfare i bisogni
culturali»313.
Ovvero, come quando, nel '69, in Italia — e nell'imitazione sostanziale quanto provinciale
dell'efficientismo gollista — il «Progetto 80» scriveva: «Per realizzare le condizioni che rendano
possibile la massima comunicazione culturale occorrerà integrare il sistema formativo ordinario
con un sistema adeguato di centri culturali...
I centri di diffusione della cultura dovrebbero essere distinti in: strutture specializzate...;
strutture polivalenti», «L'adozione del principio dell'educazione permanente farà sì che nei
prossimi anni le strutture formative extrascolastiche debbano passare da una fase di esistenza
limitata e precaria ad una di intenso sviluppo e di riqualificazione»314.
Nessuno, ovviamente, potrebbe contestare, in assoluto, le scelte della spesa pubblica
per le infrastrutture; le biblioteche, i teatri, le sale da concerto, i locali di riunione servono così
come — per altri versi — le ferrovie, i ponti o le autostrade.
Ma, per esaminare la questione nel relativo e nel concreto, e per estrarre da tali riscontri i
significati più autentici del rapporto educativo, dobbiamo porci alcune domande che, purtroppo,
acquistano un sapore retorico in questa situazione di «privatismo» del «pubblico».
Sapere, in primo luogo, perché tra le due linee opzionali315 degli economisti (quella di chi
ritiene prioritarie le infrastrutture e quella di chi tende «ad insistere sulla necessità di accelerare,
mediante imprese industriali, il processo di industrializzazione») abbia prevalso quest'ultima che
sacrifica il «capitale fisso sociale»; soprattutto tenendo conto che questa nozione è oggi più
amplia di quella tradizionale di «opere pubbliche» (comprende, oltre a «strade, porti, ferrovie,
acquedotti, fognature, ospedali», tutto il capitale di uso collettivo, che è esterno alla dotazione di
capitale della singola impresa manifatturiera o agricola o commerciale: «le installazioni
elettriche, telefoniche, le dighe, i canali navigabili, le bonifiche, l'irrigazione» e che anche «le
spese per la pubblica istruzione vanno ad arricchire "il capitale fisso sociale" in un suo aspetto
che, per essere immateriale, non è meno importante: quello del patrimonio di cultura e di
conoscenze della popolazione»).
Sapere, in secondo luogo, perché nel quadro della «politica di opere pubbliche», l'edilizia
scolastica sia stata sacrificata, sia in relazione ai bisogni, sia in proporzione, ad es., alla rete
autostradale o — ancor più significativo per quanto riguarda la ripartizione di spese per il
«capitale fisso sociale» — in relazione allo sviluppo della rete televisiva (e poco mancò alla
riuscita del colpo di mano estivo del '73 sulla TV a colori).
Sapere, in terzo luogo, quale sia la percentuale di danaro pubblico che oggi viene
versato per il settore culturale agli organi che conservano, producono, distribuiscono «beni
culturali»: dai musei alle biblioteche, al cinema, all'editoria anche giornalistica, ai teatri, alla
produzione musicale, alla televisione ecc.316.
Gli elementi disponibili ci sembra provino che sia la strumentalizzazione della elitaria
«religione della cultura» (e cioè l'uso di questa moderna ideologia del capitalismo monopolistico
di Stato), sia quella della «democratizzazione della cultura» (e cioè il ribaltamento delle più
autentiche istanze popolari) sono troppo scoperte per poter sostanziare ancora a lungo
l'appropriazione dell'interesse dei lavoratori e della loro socialità. Il problema, tuttavia, risiede
nella gestione del discorso culturale che, a differenza di quello economico o di quello
313
J. Charpenteau, Un besoin des réponses diverses, in L'animation culturelìe, Paris, Les Éditions ouvrières, 1964,
p. 25.
314
Progetto 80 cit., pp. 122-129
315
F. Forte, op. cit., pp. 332-337
316
Cfr. G. Bechelloni, La macchina culturale in Italia, Bologna, II Mulino, 1974, pp. 101-103
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amministrativo, è affidata se non delegata — per varie vie e in nome di vari assiomi — a strati
sociali, e a gruppi di interesse, estremamente esposti ai ricatti, alle blandizie, al controllo delle
forze economicamente egemoni. In proposito, crediamo sia da ritenere ancora valida
l'affermazione gramsciana secondo cui «avviene che molti intellettuali pensino di essere lo
Stato: credenza, che, data la massa imponente della categoria, ha talvolta conseguenze
notevoli e porta a complicazioni spiacevoli per il gruppo fondamentale economico che
realmente è lo Stato»317.
Certamente lo status e il ruolo degli «intellettuali» operanti nel campo strettamente
culturale presentano oggi caratteristiche specifiche che qui non possiamo affrontare318; ma il
problema di fondo — per quanto riguarda più strettamente la loro funzione nel quadro del
rapporto educativo tra la politica culturale del capitalismo monopolistico di Stato e la
popolazione — sta tutto nell'alta percentuale di rischio del loro essere «incorporati» (con la loro
«autonomia» e perfino con la loro «conflittualità») nelle strutture statali.
Da qui discende la facilità di camuffamento del «privato» nel «servizio pubblico»
culturale; ma anche la consapevolezza che è necessario aprire le porte di questa camera di
elaborazione delle decisioni di politica culturale; nonché la necessità di contribuire a
interrompere questo circuito chiuso.
Dalla nostra succinta analisi dei campi economico, amministrativo e culturale, ci sembra
— in conclusione — che scaturisca chiaramente da dove e come può venire l'innovazione, dove
e come esista resistenza al rapporto educativo di segno conservativo.
Laddove, come nella vita economica, il movimento operaio possiede direttamente la
propria forza storica, e i suoi metodi e i suoi strumenti di lotta con tutta la loro valenza educativa
(dal «principio associativo» di Gramsci allo sciopero) lì il rapporto educativo non passa
univocamente, unidirezionalmente; tende, anzi, e sempre più pressantemente, a invertire i ruoli:
da discente a docente.
Con tutte le loro contraddizioni, le pubblicizzazioni economiche in quanto costituiscono le
«basi materiali» per una società diversa sono le lezioni che il neocapitalismo è stato costretto
ad imparare a memoria.
Laddove, invece, come nei campi amministrativo e — ancor di più — culturale
l'opposizione alla sovrastruttura presenta articolazioni di mediazione e, in generale, il
movimento operaio non possiede una propria forza specifica, lì il rapporto educativo è tuttora
problematico, anche se è vero che l'editoria, il cinema, la televisione stessa sono
profondamente influenzati dai bisogni reali dei lavoratori e dalle forze politiche e sindacali che li
rappresentano e organizzano.
3.5.6 «Atmosfera culturale generale» e didattica degli adulti
Rispetto alla situazione attuale, alle prospettive di lotta, ai metodi da seguire,
all'evoluzione delle forme e dei contenuti di egemonia del neocapitalismo, e cioè rispetto al tipo
di rapporto educativo che in questo stadio il capitalismo monopolistico di Stato tenta di attuare,
dobbiamo riflettere ai compiti che deve porsi una nuova concezione dell'educazione degli adulti
nella pratica delle istituzioni pubbliche.
Tale pratica appare, ed è dichiarata apertamente, non al servizio dei lavoratori, ma
dell'adeguamento della forza lavoro; nel capitolo I, «La programmazione italiana nella
prospettiva degli anni settanta» del «Progetto 80», alla voce «cultura» si afferma, ad es.: «I
317
318
A. Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura cit., p.12
Cfr. S. Piccone-Stella, Intellettuali e capitale nella società italiana del dopoguerra, Bari, De Donato, 1972. G. C.
Ferretti, L'autocritica dell'intellettuale, Padova, Marsilio, 1970. R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e I’ideologia
della ricostruzione, in «Ideologie» 8, 1969. G. Jervis e L. J. Comba, Ruolo professionale e azione politica, in
«Quaderni Piacentini» 38, 1969. M. Sabbatini, Sul blocco corporativo degli intellettuali di sinistra, in «Ideologie»
7, 1969
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progressi dell'automazione rendono indispensabile anche in Italia una consapevole scelta sul
tipo di società che dovremo fronteggiare, o che vogliamo costruire.
La sostituzione del lavoro operativo ed esecutivo offre l'occasione di spostare
gradatamente le energie umane verso le attività specifiche e creative dell'intelligenza e della
cultura.
Si tratta certamente di un processo lungo.
Ma già oggi, con un grado di automazione relativamente modesto, il problema del livello
culturale appare centrale rispetto al problema dell'occupazione.
E più ancora lo diverrà nei prossimi anni.
I problemi della scuola, della formazione professionale, della ricerca, si fondono in un
solo vasto impegno di trasformazione culturale, che rappresenta l'unica risposta valida alla
"sfida" tecnologica»; o più avanti: «...l'espansione del settore destinato a soddisfare i bisogni
collettivi richiederà l'impiego crescente di uomini in attività solo in parte automatizzabili, come
l'insegnamento, l'informazione, lo spettacolo, la diffusione della cultura...»319.
Ci sembra — in proposito — che siano ben fondate le osservazioni più recenti di U.
Terracini320 quando nel '72 puntualizzava: «Siamo giunti nella storia del nostro Paese ad un
momento nel quale, secondo uno di quei rovesciamenti della prassi che sono propri della
dialettica marxista, i problemi della sovrastruttura hanno acquistato prevalenza sui problemi
delle strutture, il politico predomina sull’economico-sociale».
Egli spiegava il fenomeno affermando che «un corso ormai decennale di grandi lotte
unitarie delle masse lavoratrici ha notevolmente inciso sopra il predominio economico della
grande borghesia capitalistica, la quale, per evitare che ciò proceda ulteriormente, è venuta
nella determinazione di avvalersi in pieno del potere politico», per un verso appoggiandosi sulle
mancate riforme dell'«intera organizzazione dello Stato» che «non ha subito alcuna
modificazione a confronto del tempo prerepubblicano e pre-democratico », e, per l'altro,
servendosi del neofascismo «in quanto strumento sussidiario dello Stato nel compito di
intimidazione e repressione delle grandi masse popolari».
A noi sembra tanto esatta questa interpretazione, basata sul rovesciamento della prassi,
che ad essa vorremmo riferire la valenza politica («la determinazione di avvalersi in pieno del
potere politico») delle tendenze di politica culturale, sia nelle istituzioni pubbliche, direttamente
gestite, sia nel sostegno statale alle private.
Da questa angolazione, acquistano un significato educativo globale sia le anticipazioni
del «Progetto 80» — e molto al di là della riqualificazione della forza-lavoro, specie nelle
«attività solo in parte automatizzabili» — ; sia le previsioni dei futurologi che, senza eccezione,
prefigurano la (prossima) società postindustriale come eminentemente «educativa»321; sia gli
assunti di alcuni sociologi i quali affermano che ormai «ciò che l'individuo incorpora nel suo
tessuto mentale gli giunge assai più con l'impregnazione della mente immersa nella sfera dei
messaggi che attraverso il processo razionale dell'educazione, più ordinato e metodico certo,
ma operante soltanto per un breve periodo della sua vita; la scuola della vita ha il sopravvento
sulla scuola tout-court; da essa aspettiamo il più delle conoscenze utili e questa constatazione
di fatto equivale alla constatazione di una carenza dell'educazione per l'uomo dell'era
tecnologica: vi è d'ora in avanti dissonanza tra vita ed educazione»322.
Queste anticipazioni, previsioni, osservazioni hanno certamente una loro validità; ma «lo
schermo della nostra cultura» somiglierebbe davvero a un feltro (cioè «una congerie di piccoli
elementi di conoscenza, di frammenti di significato»323) soltanto se ci ritenessimo soddisfatti dei
programmi illuminati di sviluppo della cultura e di trasformazione culturale (come nel «Progetto
319
Progetto 80 cit., pp. 7-8 e 34
Intervento di U. Terracini al Comitato Centrale del PCI cfr «l'Unità», 28 ottobre 1972.
321
Cfr. E. Paure, F. Herrera, A.-R. Kaddoura, H. Lopes, A. V. Petrovski, M. Rahnema e F. C. Ward, Rapporto sulle
strategie dell'educazione, Roma, Armando-Unesco, 1973
322
A. Moles, Sociodinamica della cultura cit., pp 45-46
323
Ivi, pp. 42-43.
320
Pagina 120 di 185
80»), ovvero se ci limitassimo ad attribuire ad un generico progresso lo sviluppo delle spese per
l'istruzione, e anche quando precisassimo tale idea di progresso nel senso dello sviluppo della
produzione e dei consumi.
Così come ci sembra non condivisibile, nella sua ingenuità, l'opinione che «d'ora in
avanti» vi sarà «dissonanza tra vita ed educazione», perché questa ipotesi di presunta
dissonanza sembra vertere soltanto sui metodi e sugli strumenti del processo educativo, e non
sui contenuti, e tanto meno sulle finalità. In realtà, l'attuale situazione educativa nell'età adulta
differisce da quella passata (e dalle istituzioni educative per le età pre-adulte), soltanto per la
difficoltà del controllo, da parte delle forze dominanti nel loro complesso, sui processi di
apprendimento e di adeguamento.
Un tempo, questo controllo era diretto e semplice; oggi è indiretto e sostanzialmente in
relazione con le crisi cicliche del capitalismo (se, e nella misura in cui, il rapporto educativo con
la società adulta è stato efficace lo si misura nello scontro sociale ed economico, negli esiti di
tali scontri; ed i risultati non sono immediatamente, e sempre, leggibili).
E, d'altra parte, è proprio questa difficoltà del capitale nell'esercizio del controllo che
sollecita sia l'incremento dei messaggi e delle occasioni cosiddette culturali (dallo sviluppo della
TV, al sostegno al cinema commerciale ecc.), sia l'aumento degli impegni economici per
giungere a formalizzare e ad impossessarsi degli interessi e della socialità anche attraverso
l'educazione permanente (si può dire, da questo punto di vista, che l'educazione permanente
nasce dal bisogno del capitalismo di superare la propria crisi educativa).
È attraverso questo incremento e questa formalizzazione dei processi e delle occasioni
educative che il politico formal-mente democratico realizza un rovesciamento della prassi; cosi
come è vero che è attraverso i «manganellatori» e le bombe che il politico neppure formalmente
democratico mira a raggiungere lo scopo educativo (diciamo cosi) dell'intimidazione e lo scopo
politico della repressione.
L'importante è costituire quell’«atmosfera culturale generale che costituisce il
"fondamento" di tutte le situazioni specifiche»324.
Sono parole che Kurt Lewin scriveva nel 1936, dopo essere fuggito dalla Germania
nazista.
Egli spiegava che coloro che «hanno avuto l'opportunità di osservare dappresso il
comportamento degli insegnanti nella scuola (per esempio, in Germania... in particolare nel
periodo compreso tra il '30 e il '33), si saranno facilmente accorti di come cambiamenti anche
minimi della situazione politica generale coinvolgessero, quasi giorno per giorno, non soltanto
gli ideali suggeriti, ma anche i metodi educativi impiegati (come il tipo o la frequenza delle
punizioni, il numero delle esercitazioni, il grado di libertà e d'indipendenza nell'apprendimento)»;
si tratta di una constatazione che ognuno può fare attualmente nel sistema educativo globale
della società adulta: dal comportamento del Telegiornale a quello in fabbrica.
Questa atmosfera culturale generale è l'humus nella quale un rapporto educativo può
fruttificare, e la storia — più o meno recente — lo dimostra.
Ma le lotte del movimento operaio in Italia provano che l'instaurazione di un'atmosfera
culturale generale di senso conservativo non è un fatto automatico e inevitabile; richiede modi,
sedi, strumenti che possono essere controllati nelle loro manifestazioni, anticipati nei loro
propositi.
Determinanti sono la vigilanza e l'unità, e non solo per la resistenza, ma per costruire
un'atmosfera culturale generale di segno opposto, quella che — ad es. — ha permesso al
popolo vietnamita la vittoria.
In una società come la nostra il rovesciamento della prassi nel politico (e nel culturale)
non è, peraltro, lineare né coerente; sia rispetto all'economico-sociale, sia rispetto a se stesso,
e talvolta si ha l'impressione che la repressione sia l'altra faccia della permissività, che entrambi
324
K. Lewin, I conflitti sociali. Saggi di dinamica di gruppo, Milano Angeli, 1972, pp. 39-40
Pagina 121 di 185
questi modi d'impossessamento dell'interesse e della socialità operino, con apparente
incongruenza, a seconda dei gruppi, dei ceti, degli ambienti.
Ma ci sembra che proprio in questa forma di comportamento (in cui ognuno è sollecitato
a svolgere il proprio discorso, perfino nella battaglia delle idee) cerchi di realizzarsi quella
frammentazione degli interessi di classe sulla quale far prevalere una socialità conservativa.
Nella politica culturale del capitalismo monopolistico di Stato questa didattica degli adulti
è particolarmente evidente e, per spiegarci meglio, sono sufficienti pochi esempi.
Essa viene praticata in riferimento alla collocazione più diversa degli interessi. Innanzi
tutto, in relazione ai «livelli culturali»; se è evidente che esistono diversi tipi di coltivazione alla
fruizione culturale, al rapporto con i prodotti culturali (non per natura, ma perché
classisticamente voluti), l'istituzione pubblica attribuisce loro un carattere di gradi, di livelli, in
una scala predeterminata e funzionale alla conservazione della scala medesima; agli interessi
dei «livelli superiori» risponde con un determinato impianto bibliotecario, programma musicale,
struttura museografica; agli interessi dei «livelli inferiori» con il «Leonardo» e i vecchi «centri di
lettura», con le canzonette della radio e i loro festival, ovvero lasciando fare al cinema privato
(sostenuto).
Di un dato oggettivo che l'«interesse generale», la socialità, dovrebbe superare, si
realizza, insomma, un uso strumentale e particolare, privatistico di segno classista. In secondo
luogo, in relazione ai bisogni individuali; la suddivisione, ad es., che la Rai-Tv attua nei
programmi tra informativo, culturale, ricreativo risponde certo agli interessi più diversi della
stessa persona; ma, anche qui, di un dato oggettivo si realizza un uso strumentale, nella misura
in cui l'informazione, la cultura, l'occasione di svago diventano un modo per spezzare l'individuo
nei suoi interessi, fingendo di rispondere a ciascuno di essi, e, in realtà, tentando di
impossessarsi del più profondo, quello di classe.
3.5.7 «Servizi pubblici intellettuali» e «principio associativo»
Dalle precedenti riflessioni sul significato dell'intervento dello Stato, in questo stadio del
capitalismo monopolistico, sia nel campo del «culturale», sia — nelle loro valenze educative —
nei campi economico e amministrativo, sembra a noi che scaturiscano le indicazioni più
coerenti in senso progressivo e liberatorio.
Esse si rifanno agli appunti di Gramsci sui «servizi pubblici intellettuali», che ci sembra
giusto recepire quale messaggio illuminante con un valore estremamente anticipatorio rispetto
alle attuali questioni della «politica culturale».
Si chiedeva, dunque, Gramsci: «Servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola, nei vari gradi,
quali altri servizi non possono essere lasciati all'iniziativa privata, ma in una società moderna,
devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province)?».
E nell'elenco che cominciava a stendere, anticipando il senso degli attuali problemi
ecologici, comprendeva anche i giardini zoologici, gli orti botanici, oltre a biblioteche, musei,
teatri ecc.
Egli le considerava come «istituzioni che devono essere considerate di utilità per
l'istruzione e la cultura pubblica» e che «non potrebbero essere accessibili al grande pubblico...
senza un intervento statale».
Dopo aver sottolineato la trascuratezza di tali servizi, o la loro impronta commerciale,
Gramsci inseriva il problema dei «servizi pubblici intellettuali» nella problematica
dell'«egemonia, ossia di democrazia in senso moderno»; partendo dalla constatazione che,
rispetto alla scarsità dei servizi pubblici, in Italia sono «abbondanti le opere pie e i lasciti di
beneficienza: forse più che in ogni altro paese.
Pagina 122 di 185
E dovuti all'iniziativa privata», egli annotava: «Questi elementi sono da studiare come
nessi nazionali tra governanti e governati —, Beneficenza elemento di "paternalismo"; i servizi
intellettuali elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno»325.
Ci sembra importante sottolineare, in primo luogo, che questa determinazione dei servizi
pubblici nel campo della cultura quali fattori di «egemonia» non solo è la base di
consapevolezza da cui muovere per saper valutare e reagire alla «religione della cultura» o alla
stessa generica «democratizzazione della cultura»; non solo spiega il valore politico di
strumenti che si vorrebbero far ritenere «universali» e «al di sopra del tempo e delle lotte» o
«umani» in assoluto, per servirsene in modo indolore nell'instaurazione di una «atmosfera
culturale generale» di segno conservativo.
Questa determinazione è la base per costruire e per imporre una politica culturale dello
Stato che risponda agli interessi del «pubblico», come concetto opposto al privatismo, e cioè
come realtà collettiva dei lavoratori nei loro interessi di classe.
La sfida, infatti, non è quella luddistica (se cosi si può dire rispetto alle opere del passato)
della distruzione dei musei o delle biblioteche, ma il prefigurare questi servizi come reali «elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno».
Gramsci ci fornisce, a nostro parere, precise indicazioni in proposito.
Sia quando parla di «cultura pubblica», una dizione che nel contesto acquista un valore
profondamente democratico, sia soprattutto quando definisce le infrastrutture culturali come
«servizi pubblici intellettuali».
Lo spostamento del servizio e del pubblico dal «culturale» all'«intellettuale» oggettivizza il
bisogno; vogliamo dire che a nostro parere egli riconduce alle origini il problema, depurandolo
dei sedimenti classisti degli interessi privati, togliendo tutte le incrostazioni culturalistiche,
disalienandolo dal soggettivismo delle discussioni sulla «cultura» e riportandolo all'oggetti vita
del bisogno di emancipazione come «sviluppo intellettuale della classe operaia».
Certo non bastano le parole a risolvere la questione; ma in un campo in cui la
raffinatezza delle impostazioni di un discorso, non gestito direttamente dalle masse lavoratrici,
ripropone confusioni continue (ad es., negli scontri tra tendenze artistiche diverse, come se
questo fosse nella sua globalità, il problema di fondo dell'innovazione), è importante avere un
punto fermo cui fare riferimento, un riferimento dialettico reale sul quale impostare la lotta.
Perché, allora, si riscontra che nella nostra società i problemi di prospettiva nella
battaglia delle idee non sono quelli, sempre all'ordine del giorno, del prevalere di una
avanguardia o dell'altra, ma della possibilità reale di crescita dell'intellettualità operaia.
Tale possibilità (che è una possibilità di «democrazia in senso moderno») non sembra
essere un a priori estetico: «II problema del giusto e dell'errato nell'arte e nella scienza deve
essere risolto (...) attraverso il lavoro pratico in questi campi e questo problema non deve
essere risolto in modo semplicistico»326.
La finalità delle istituzioni pubbliche ossia dei «servizi pubblici intellettuali» è quella di
offrire la possibilità di questa pratica, come contributo alla umanizzazione delle circostanze, per
dare a ciascuno «la capacità positiva di affermare la sua vera individualità», «il posto di cui ha
bisogno per l'estrinsecazione essenziale della sua vita».
A tali «circostanze», non si arriva per decreto legge; la stessa loro conquista è
un'occasione educativa.
A tal fine, proprio per lottare contro il segno tenuamente permissivo del capitalismo
monopolistico di Stato e della sua politica culturale, è necessario tener contò del modo di
arrivare alle istituzioni, del modo più coerente ai veri interessi e alla vera socialità: il «principio
associativo» gramsciano nell'eredità storica del movimento operaio può soccorrerci nel
superamento del privatismo e nell'affermazione della «cultura pubblica».
Il miglior modo di realizzare «servizi pubblici intellettuali» non è tanto quello di limitarsi a
rivendicare che lo Stato risponda — a suo modo — ai bisogni culturali; ma che il movimento
325
326
A. Gramsci, op. cit., pp. 128-129
Mao Tse-tung, op. cit., p. 36.
Pagina 123 di 185
operaio anticipi l'iniziativa statale, o risponda a tale iniziativa, legando i problemi politici alle
aspirazioni culturali che da tali problemi discendono, sia nelle finalità prospettiche, sia
attraverso i metodi storici del movimento stesso, e, in primo luogo, dell'associazionismo, campo
nel quale i lavoratori hanno manifestato la «capacità positiva» di affermare la loro vera
individualità, la loro forza collettiva, la loro cultura.
3.6 Scienza, tecnica, realtà educativa
3.6.1 Temi di riflessione per un'andragogia della scienza
Anche rispetto al rapporto tra scienza, tecnica ed educazione degli adulti ci troviamo di
fronte ai problemi che scaturiscono dall'impossessamento strutturale della produzione tecnicoscientifica e, attraverso questo, al tentativo d'impossessamento dell'interesse e della socialità.
Ma, in tale ambito, il disvelamento delle forme educative di senso conservativo è reso
molto più complesso da alcuni elementi occultanti, particolarmente funzionali allo scopo.
Se alcuni, tra essi, sono il frutto educativo più evidente degli attuali rapporti di produzione
e di consumo, altri sembrano discendere, sovrastrutturalmente, da aspirazioni secolari, talvolta
sembra da essenze metastoriche.
Già nelle precedenti considerazioni sulle relazioni tra il lavoro, la scuola e l'educazione
nell'età adulta, la configurazione della scienza è emersa nelle caratteristiche che gli attuali
rapporti di produzione determinano e che gli attuali strumenti e infrastrutture formative
convalidano.
Il processo di scissione tra lavoro e scienza, l'«entrare al servizio del capitale» della
scienza stessa, la problematicità di un controllo diretto sulla produzione scientifica sono i termini
cui ci siamo riferiti.
Insieme ad essi, altri elementi falsificanti agiscono nelle dimensioni temporali e spaziali,
da una parte superando i limiti della storia e della geografia politica (la scienza nel suo valore
universale) e, dall'altro, estendendo all'infinito spazio temporale i termini di un orizzonte che
l'individuo è impossibilitato a dominare razionalmente; l'uomo diviene tanto libero in questa
dimensione da restare prigioniero della sconfinatezza.
Altri, tendono a renderci euforici (l'avventura della conoscenza) sulle orme dell'Ulisse
omerico e di quello dantesco (e, oggi, di quello joyciano), preformandoci ad una mitologia delle
scienza fin dalle prime età scolari e confermandoci tale percezione dei problemi attraverso le
varie occasioni educative che, giorno per giorno, emergono dal lavoro degli scienziati e dei
tecnici, occasioni che, attraverso i mezzi di comunicazione, vengono adeguatamente utilizzate
ai fini di una statica conferma327.
Altri elementi mistificanti si impongono nel rapporto quotidiano con gli utensili che la
tecnologia — e l'industria, e il consumismo — pongono a disposizione di larghi strati della
popolazione, anche dei meno abbienti; il vantaggio dell'uso — con i suoi risparmi di fatica fisica,
di tempo e, talvolta, di denaro - copre il significato educativo dei gadgets, degli strumenti ad uso
domestico ed extradomestico, dei robot a gettone, delle automobili, dei treni più veloci, degli
aerei; da tale frequenza di rapporti scaturisce una pioggia di valenze educative che tendono a
nascondere le realtà strutturali dietro il conforto momentaneo, lo svantaggio dei più rispetto alla
consolazione di pochi, la destinazione dei profitti dietro lo sviluppo delle forze produttive.
Altri elementi occultanti possono emergere, e pesare sulle nostre possibilità liberatorie,
quando, sposando senza adeguata distinzione l'ideologia della scienza nel suo complesso
generico, siamo condotti ad accettare qualunque «metodo scientifico», in ogni ambito, di fronte
a qualunque problema senza avere l'opportunità di verificarne la scientificità e la direzione.
327
L'esempio più clamoroso di tale pratica è, senza dubbio, l'uso che la Rai-TV fece delle esplorazioni lunari.
Pagina 124 di 185
Insomma, in una società capitalistica la scissione tra lavoro e scienza tende a pesare
non solo come divisione di lavoro e di potere, ma anche come significato perpetuativo degli
attuali rapporti di forza tra capitale e lavoratori.
Lo stesso valore dell'«universalità della scienza» o quello dell'«avventura scientifica», gli
stessi vantaggi dell'uso quotidiano dei frutti della tecnica o dei metodi scientifici per la
conoscenza della natura e dell'uomo, non sono cosi universali o così immediatamente
vantaggiosi come potrebbero apparire e come ci sono proposti.
La stessa autonomia dello scienziato non può essere ritenuta un bene assoluto, ma
tende a divenire uno strumento ideologico di dominio.
L'«entrare al servizio del capitale» della scienza comporta, in conclusione, la
consapevolezza di tale realtà, e l'organizzazione dei lavoratori per contrastare i processi
educativi impliciti in tale appropriazione della scienza (delle sue direzioni e dei suoi frutti), nella
proletarizzazione degli scienziati, nel tendenziale asservimento — anche attraverso la scienza delle «masse» (termine quest'ultimo che, in tal senso, acquista il suo preciso disvalore).
I problemi da considerare per un esame dell'andragogia della scienza e della tecnica
nascono, peraltro, dallo sviluppo delle forze produttive.
Come è stato notato328, nel Capitale Marx «concentrò la sua analisi, nell'insieme, sul
processo generale di cambiamento nel complesso della forza lavoro, anziché sui suoi aspetti
particolari.
La sua ricerca riguardava il capitale nel suo insieme e il lavoro nel suo insieme: una
situazione in cui quest'ultimo veniva ridotto a mera forza-lavoro media (cioè forza-lavoro
impiegata nel semplice lavoro manuale); ciò lo mise in grado di svelare l'essenza del processo
capitalistico di acquisizione del profitto».
Questa semplificazione analitica di Marx «venne utilizzata da taluni suoi critici per
distorcere la sua concezione della classe operaia, che cercarono di descrivere come composta
soltanto di lavoratori manuali».
Se tale distorsione poteva trovare giustificazione nelle condizioni della «cooperazione
capitalistica semplice e della manifattura, allora prevalenti»329, «giacché il lavoro mentalmente
creativo era a quel tempo privilegio dell'imprenditore, e l'educazione era monopolio dei
padroni», «nella situazione odierna, la produzione a mezzo di macchine richiede una attività
mentale che non può essere fornita dai proprietari del capitale da soli.
Pertanto la maggior parte della classe operaia acquisisce una formazione complessa ed
è impegnata in un 'attività mentale».
Ed è un fatto che oggi «la rivoluzione scientifica e tecnica, insieme con le trasformazioni
economiche strutturali che ne derivano, hanno prodotto importanti mutamenti qualitativi sia nella
composizione che nel livello della formazione e delle qualifiche della classe operaia».
Tale sviluppo ha indotto a parlare di una «nuova classe» o di imborghesimento della
classe operaia o di parte di essa; ma in realtà la complessità costitutiva della classe operaia
nella società contemporanea non può essere ritenuta prova della sua «dissoluzione» in altri
strati sociali, bensì piuttosto della sua continua crescita, del suo sviluppo».
328
Cfr. T. Timofeev, Marx e lo sviluppo della classe operaia, in Marx vivo. La presenza di Marx nel pensiero
contemporaneo, vol. II ; Sociologia ed economia, Milano, Mondadori, 1969, pp. 181-182
329 « Nel Capitale Marx ha sottolineato come segue i tre stati principali nello sviluppo della produzione fondata
sulla utilizzazione su larga scala del le macchine: 1. "Cooperazione semplice di macchine universali", ovvero
"cooperazione di molte macchine omogenee". Era questa fondamentalmente la forma di produzione di fabbrica
esistente nella seconda metà del secolo scorso; 2. Frazionamento del processo manifatturiero in stadi
consecutivi, accompagnato dalla specializzazione delle macchine: "il sistema di macchine... caratteristico della
manifattura", "la cooperazione fondata sulla divisione del lavoro", e "la combinazione di macchine singole"; 3. La
forma più perfezionata del sistema di macchine: "il sistema di macchine automatiche". Mentre il secondo stadio
— produzione di massa, linee di montaggio — ha predominato in molte industrie nel periodo tra le due guerre
mondiali, il terzo stadio — linee automatiche di produzione — ha cominciato solo molto recentemente a
svilupparsi con rapidità» (T. Timofeev, Marx e lo sviluppo della classe operaia, in Marx vivo. La presenza di Marx
nel pensiero contemporaneo, vol. II ; Sociologia ed economia, Milano, Mondadori, 1969, p. 180).
Pagina 125 di 185
Per altro verso, questo sviluppo «rende urgenti e importanti le ricerche sui problemi della
coscienza di classe, della solidarietà, dell'azione comune da parte dei vari gruppi e delle varie
organizzazioni della classe operaia».
Se il «crescente livello della coscienza di classe di sempre più vasti settori della classe
operaia... porta a comprendere i problemi più complessi di carattere nazionale e internazionale,
sociali, economici, politici, e di altro genere», se tra le «tendenze più importanti dello sviluppo di
questa classe operaia collettiva si ritrovano una accresciuta attività e capacità di agire...»330, è
evidente che il movimento operaio è portato ad innovare profondamente il proprio rapporto con
la scienza e con la tecnica.
E, per quanto ci riguarda in modo specifico, a riconsiderare in termini dinamici e
trasformativi i problemi di un'andragogia della scienza.
Tra una tendenza operante di asservimento della scienza da parte delle strutture
economiche dominanti e un oggettivo sviluppo delle forze produttive, un'andragogia della
scienza dovrebbe proporsi di individuare nuove finalità e nuovi metodi per liberare il lavoro e i
lavoratori dalla soggezione tecnoscientifica che tende a perpetuare gli attuali rapporti di forze
sia attraverso le condizioni di lavoro, sia attraverso le valenze educative di queste stesse
condizioni, sia attraverso quei fattori occultanti culturali che sul piano sovrastrutturale
completano il tentativo di globale impossessamento dell'interesse e della socialità.
3.6.2 Considerazioni sul rapporto di divulgazione
Per individuare nuove linee di lavoro, è utile riconsiderare il senso delle tradizionali
relazioni tra «operaio complessivo» e scienze, e, innanzi tutto, il rapporto di divulgazione,
un'eredità che risale agli albori della società industriale, ma che continua ad incidere, nella sua
ambivalenza e nella sua ambiguità, sulle possibilità di sviluppo e di modificazione.
Lo scopo di questo rapporto, nelle varie forme di gestione assunte storicamente e, nel
caso che citiamo, quello delle Università Popolari, veniva riassunto come «tendente a divulgare
liberamente nel pubblico, con vari mezzi e con diversa efficacia e fortuna, i tesori della cultura
scientifica e letteraria rendendone partecipi specialmente quei ceti che, per le loro condizioni
sociali e professionali, si trovano nella impossibilità di avere, sia dalla scuola ufficiale, sia da un
tenor di vita spiritualmente elevato, un corredo di conoscenze alquanto superiore al livello
minimo della istruzione primaria».
Uno scopo che certo appariva «supremamente provvido, umano e civile» che, tuttavia, si
realizzava con «diversa efficacia e fortuna» perché «I frequentatori dei corsi furono—e sono
tuttora — nella loro grande maggioranza gente delle classi medie...
Gli operai o scarseggiano o mancano... per l'influenza atavica d'una vita depressa, tutta
fatta di materialità, che produce quasi un'atrofia intellettuale, da cui è assai malagevole
sollevarsi e guarire»331.
Si tratta di un'eredità — affermavamo — che pesa con i suoi scopi, i suoi metodi, il suo
approccio sulle possibilità di innovazione nel rapporto con la scienza; basti pensare che, tra
tante percezioni di aggiornate necessità, nello stesso Rapporto sulle strategie dell'educazione si
330 Basti riflettere al movimento degli scioperi a livello internazionale:
1919-1939
1946-1966
Scioperi Scioperanti
Scioperi
Scioperanti
(migliaia)
(milioni)
(migliaia)
(milioni)
Tutti i paesi capitalistici
177,4
80,0
297,9
387,6
Nazioni sviluppate
165,6
74,5
259,1
309,8
T. Timofeev, Marx e lo sviluppo della classe operaia, in Marx vivo. La presenza di Marx nel pensiero
contemporaneo, vol. II ; Sociologia ed economia, Milano, Mondadori, 1969, p. 185
331
Cfr. Dizionario illustrato di Pedagogia, diretto dai professori A. Martinazzoli e L. Credaro, collaboratori i più
distinti cultori delle discipline pedagogiche in Italia, Milano, Vallardi, s.d., vol. Ili: N-Z, p. 610.
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leggono ancora oggi affermazioni che non si distaccano molto da quelle del Dizionario illustrato
di pedagogia.
A proposito, infatti, della motivazione, «chiave di ogni politica moderna» nel settore
educativo, mentre si nota che essa «si ispira, cumulativamente o alternativamente, alla ricerca
dell'impiego e alla sete di apprendere, la libido sciendi», si afferma con scandalo: «è
stupefacente constatare che il primo aspetto (ricerca dell'impiego) è generalmente privilegiato in
rapporto al secondo il cui peso è spesso ritenuto addirittura trascurabile».
E si conclude con affermazioni autoconsolatorie e paternalistiche: «E tuttavia rimane
vero che la curiosità, il desiderio di comprendere, di conoscere o di scoprire si legano agli
impulsi più profondi dell'anima.
Ed è vero anche che gli accorgimenti elaborati dalla scienza permettono oggi agli spiriti
meno dotati di assimilare concetti la cui scoperta ha richiesto le più grandi doti di genio»332.
A noi sembra che anche all'osservatore meno provveduto, cioè privo di consapevolezza
delle conseguenze letali del classismo anche sul rapporto con le scienze, apparirà chiaro come
sia impossibile trovare varchi per il nuovo quando i presupposti che si scelgono per affrontare le
difficoltà chiudono ogni possibilità di sbocco.
E certamente arduo, infatti, risolvere positivamente il problema dell'impossessamento
della scienza attraverso la divulgazione scientifica, soprattutto quando al «vulgo» si attribuisce
un'«atrofia intellettuale», ovvero — il che si eguaglia — quando si ritiene che gli accorgimenti
elaborati dalla scienza permettono un'assimilazione anche per gli «spiriti meno dotati».
Di fronte a questi presupposti e a queste soluzioni — di ieri e di oggi — si conferma la
certezza che, in realtà, il mondo dell'educazione non si sia mai posto e non intenda porsi il
compito di restituire all'uomo spossessato, alla classe operaia, quella gestione della scienza e
della tecnica, che oggi non le appartiene.
Ma qual è la base di questi «accorgimenti», se non la divulgazione, cioè il partire dalla
fissa datità della scienza, per giungere alla variabile popolare, ovvero il discendere dal «genio»
agli «spiriti meno dotati»?
In questo campo, anche le migliori intenzioni destano sospetti.
Quelle di J. Dumazedier333, ad esempio, quando, sottolineando la necessità di riservare
una parte importante dell'educazione degli adulti alla formazione scientifica, avanzava subito un
altro dei presupposti correnti («la scienza è ardua») per spiegare il ridimensionamento o,
meglio, la deviazione dai più seri impegni educativi.
«Ma la scienza è ardua — egli scriveva — I suoi calcoli ci interessano tutti e tuttavia ben
pochi possono comprenderli, sia pure superficialmente.
Che fare?».
La risposta, partendo da un presupposto tanto bloccato, non può essere altra che la
divulgazione, o l'iniziazione alle scienze — com'egli la definisce —, e certo più giustamente
perché, qui, la scienza sembra diventare magia, religione per iniziati.
Molto significative sono, di conseguenza, quattro tipi di esperienze che egli cita. Innanzi
tutto, «l'iniziazione alle scienze comincia con l'iniziazione alle tecniche che ne derivano: il
successo in Germania, in Francia, poi dappertutto, dei clubs di aereo-modellismo ne è un
esempio.
La stessa osservazione si può fare per i clubs dei radioamatori: questi clubs non si
limitano all'attività pratica. L'interesse suscitato dal lavoro tecnico solleva questioni teoriche che
conducono alla scienza.
Così — conclude — si tracciano le vie reali (!) dell'iniziazione scientifica, vie assai diverse
(!) dall'ordine logico dei manuali specializzati».
La seconda è altrettanto patetica: «Paradossalmente la scienza che presenta dei calcoli
aridi apre ai suoi adoratori un mondo meraviglioso.
332
333
E. Faure e altri, op. cit., p. 33
J. Dumazedier, Contenuto dell'educazione degli adulti, in Unesco, L'educazione degli adulti. Tendenze e
realizzazioni, Firenze, Marzocco, 1955, pp. 65-67
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Nell'educazione degli adulti il meraviglioso della scienza viene spesso sfruttato.
Ci sono dei geografi che sanno far rivivere in modo esatto, e insieme drammatico, i
movimenti della terra, ci sono degli speleologi che sono riusciti ad appassionare gruppi di
giovani alle esplorazioni delle grotte preistoriche... Una iniziazione scientifica quasi poetica è
forse la più popolare».
La terza: «La conoscenza dei risultati della scienza è sempre più collegata alla
conoscenza degli sforzi che vi hanno condotto, l'opera scientifica è sempre più collegata col suo
creatore.
Le evocazioni delle biografie di Pasteur, di Edison o di Pavlov contribuiscono a far amare
la scienza».
La quarta esperienza suggerita: «Un'altra forma non meno preziosa per destare
l'interesse del pubblico per la scienza è di fargli apparire le conseguenze sociali di quest'ultima:
pensate al successo di opere di anticipazione scientifica (Jules Verne, H.G. Wells, ecc.) o le
conferenze di iniziazione sull'estrazione del petrolio o la bomba atomica.
L'essenziale della formazione scientifica — si chiede infine retoricamente — non è forse
il suscitare fiducia nel progresso (nonostante il suo sfruttamento nefasto da parte di regimi
inumani)?
Lo studio di questo progresso tende a dare abitudini di pensiero libero, ostile alle
superstizioni ed ai pregiudizi di razza, di civiltà o di religione.
La formazione scientifica coincide allora con la più alta formazione umana». In questi
accorgimenti, al di là della buona fede, ci sembra si ritrovino condensati: l'infantilizzazione
dell'adulto, la poesia della scienza, la sacralizzazione degli scienziati e, infine, esplicitato il fine
del «suscitare fiducia nel progresso», ponendo tra parentesi, per inciso, lo «sfruttamento
nefasto» da parte di indefiniti «regimi inumani».
Un altro assunto giustificativo, parallelo a quello contenuto nell'affermazione «la scienza
è ardua», è espresso nella formula dell'attuale «impossibilità di conoscere tutto».
La divulgazione scientifica, in quanto tale, scaturirebbe dalla constatazione, ad esempio,
di Moles nel quadro della sua «cultura-mosaico»: «L'uomo del nostro tempo deve ammettere
prima di tutto che non può conoscere tutto, in seguito che non esiste un cammino privilegiato
dell'universo delle conoscenze scientifiche, né una chiave, né segreti, che permettano di
integrare la comprensione di una qualsiasi cosa in qualche formula magica.
Di conseguenza, deve (!) accettare esplicitamente di ricorrere allo specialista in qualsiasi
settore, anche se, mediante la volgarizzazione, ha già capito ciò che lo specialista sta per fare.
Nel campo di una cultura-mosaico, l'individuo isolato si sente perduto ed anche se in
prospettiva riesce a raggiungere alcune alte vette di questa cultura, deve ammettere tuttavia la
sua incapacità di collegarle in una rete armonica di vie di comunicazione, come pretendeva la
vecchia cultura umanista.
Detto ciò, non gli viene proibito — ed è proprio quanto gli propone l'educazione adulta —
di approfondire un piccolo settore speciale, che lo interessi o lo attiri».
E, per concludere, Moles cita un altro accorgimento: «Il crescente intervento
dell'istruzione programmata, che scompone metodicamente, illustrando la tesi strutturalista,
ogni conoscenza in "items" di analoga difficoltà di apprendimento, apre una nuova prospettiva a
questa educazione permanente»334.
Indubbiamente, partendo dalle premesse di una ammissione di impotenza a conoscere,
di accettazione esplicita dello specialista, di incapacità a connettere i frammenti delle
334
A. Moles, op. cit., p. 268. Per Moles, la cultura-mosaico sarebbe quella che attualmente si presenta «
essenzialmente aleatoria, come un insieme di frammenti giustapposti senza costruzione, senza punto di
riferimento, in cui nessuna idea è necessariamente generale, ma molte idee sono importanti (idee forza, parole
chiave, ecc.)». Essa discenderebbe da un «sistema fibroso, & feltro: i frammenti della nostra conoscenza sono
minuzzoli senza ordine, legati a caso da semplici relazioni di prossimità, di epoca di acquisizione, di assonanza,
di associazione d'idee, senza una struttura definita, dunque, ma con una coesione che può... assicurare una
certa densità dello schermo delle nostre conoscenze, una sua compattezza pari a quella dello schermo-tessuto
propostoci dall'educazione umanistica» (ivi, pp. 42-43).
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conoscenze, si giunge ad accettare una realtà strutturale in cui la scissione tra scienza e lavoro
si occulta in termini educativi dietro la divulgazione scientifica. Peraltro, Moles pone in luce la
sostanza commerciale dell'operazione, e, cioè, l'impossessa-mento dell'interesse scientifico e
della socialità.
Egli, infatti, parla di un «sistema di comunicazione interamente nuovo, nato formalmente
al massimo trenta anni fa (!) e che è ancora in cerca delle sue norme e della sua
regolamentazione: si tratta della divulgazione scientifica che assomiglia sempre più ad un
immenso sistema di educazione adulta, che ribadisce l'educazione tradizionale, ma la continua
fino all'età, sempre più avanzata, in cui l'uomo rinuncia a conoscere e a capire il mondo in cui
vive»335.
Ricade peraltro nel generico, quando afferma che queste pubblicazioni «fanno
intervenire nel quadro culturale la nozione fondamentale di interesse o di passione, e agiscono
come diffusori della cultura...»336, pur avendo posto in rilievo, poco avanti, che la «maggior
parte delle riviste e delle collane di divulgazione sono state create per attirare lettori e di
conseguenza per guadagnare denaro»337.
Ci sembra di poter notare che se alla «cultura-mosaico» venisse attribuito il significato
che essa contiene, ed esprime, proprio attraverso quella struttura che la costituisce («frammenti
giustapposti senza costruzione»338), anche la divulgazione scientifica rivelerebbe, senza veli, il
proprio senso occultativo.
La «cultura-mosaico», infatti, rappresenta il sistema educativo nell'età adulta di
quell'uomo unidimensionale che è il risultato, tra l'altro, della scissione tra scienza e lavoro; una
frammentazione della cultura e una scissione che certo non sono e non possono essere
ricomposte attraverso l'incremento della divulgazione scientifica.
Gli equivoci che possono trasparire dalla considerazione distaccata del sociologo si
ritrovano, d'altra parte, nel comportamento degli educatori.
Come notava F.J. Rutherford: «Quando si tratta dell'insegnamento delle scienze la
nostra posizione, come insegnanti di scienze, educatori scientifici, o scienziati, è chiara: siamo
decisamente contrari al meccanico apprendimento mnemonico dei fatti e delle minuzie delle
scienze. Incoraggiamo invece il metodo scientifico, il pensiero critico, l'atteggiamento scientifico,
il metodo nel risolvere problemi, il metodo di scoperta e, di interesse particolare, il metodo di
ricerca.
In breve, sembra che siamo d'accordo sulla necessità d'insegnare la scienza come
processo o come metodo, piuttosto che come contenuto.
Se si giudicasse, però, da quello che si vede in molte, anche se non nella maggior parte,
delle classi, e dai tipi di esami svolti, potremmo concludere con ragione che c'è una grande
divergenza fra la pratica e le nostre convinzioni».
Tra i fattori che sono alla base di questa contraddizione, Rutherford indica «la tendenza
degli insegnanti di scienze ad essere conservatori», l'incapacità da parte di chi vuoi cambiare a
fornire indicazioni efficaci, ma soprattutto il fatto che «la connessione organica tra processo e
contenuto, nelle scienze, non è mai stata riconosciuta e presa in considerazione».
Egli conclude affermando come «la ricerca scientifica sia parte integrante della scienza
stessa.
Il risultato della separazione concettuale del contenuto scientifico dalla ricerca scientifica
è che lo studente non può capire bene né l'uno né l'altro.
Da questo si arriva a una conclusione inevitabile riguardo alla possibilità
dell'insegnamento della scienza come ricerca: gli insegnanti di scienze devono avere una
conoscenza della ricerca come è di fatto realizzata nelle scienze.
335
Ivi, p. 264
Ivi.
337
Ivi.
338
Ivi, p. 43
336
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Finché gli insegnanti di scienze non avranno acquisito una buona conoscenza della
storia e della filosofia della scienza che insegnano, non potranno avere questa conoscenza, in
tal caso non potremo aspettarci molti progressi nell'insegnamento della scienza come
ricerca»339.
Senza entrare nel merito dei problemi relativi all'insegnamento scientifico scolastico di cui
si occupa il Rutherford, potremmo ritenerci soddisfatti di queste impostazioni nel campo
dell'educazione degli adulti?
Possiamo ritenere che esse siano sufficienti a superare la mistificazione o
l'inadeguatezza della divulgazione scientifica considerata quale rimedio alla difficoltà oggettiva
della scienza (Dumazedier) o alla nostra soggettiva e storica inadeguatezza (Moles)?
Pur ritenendo che Rutherford ponga giustamente in luce la carente considerazione del
rapporto tra processo e contenuto, ci sembra che le sue osservazioni vadano sviluppate fino in
fondo.
Nel campo dell'educazione adulta, l'affermata e condivisibile necessità di considerare «la
connessione organica tra processo e contenuto nelle scienze» deve essere riferita alla
connessione organica tra processo e contenuto nell'andragogia della scienza.
Da chi, da dove, come — infatti — inizia il processo d'insegnamento delle scienze; da
chi, da dove, come la ricerca scientifica entra a far parte integrante dell'insegnamento delle
scienze; quali rapporti esistono tra tale insegnamento e il lavoro; quali sono gli sbocchi di tali
rapporti rispetto alla scissione tra scienza e lavoro; a chi giova l'intervento educativo?
Se trascurassimo il rapporto tra scienza e organizzazione del lavoro; se limitassimo il
nostro esame all'interno della scienza (ai suoi processi, alla sua ricerca, ai suoi contenuti e ai
nessi tra l'uno e l'altro aspetto), rischieremmo di trascurare i reali problemi di una andragogia
della scienza e della tecnica.
Cosa avremmo risolto, in altre parole, pur se gli operatori culturali avessero «una
conoscenza della ricerca come è di fatto realizzata nelle scienze», e anche se avessero
acquisito «una buona conoscenza della storia e della filosofia della scienza che insegnano»?
Tale bagaglio di conoscenze non sarebbe sufficiente, di per sé, ad innovare rispetto
all'attuale rapporto tra divulgazione scientifica ed educazione degli adulti; esso, nel caso,
perfezionerebbe un tipo di rapporto tradizionale, proprio come impostato nelle antiche, e
limitate, Università Popolari; esso non apporterebbe alcun contributo di trasformazione, né di
soluzione all'attuale scissione tra scienza e lavoro.
E proprio riscontrando la valenza di tali acquisizioni negli attuali, aggiornati modi di
svolgere divulgazione scientifica abbiamo la possibilità di soppesarne il significato; non si
potrebbe certo negare, infatti, che i redattori scientifici delle pubblicazioni, delle riviste, delle
rubriche televisive siano in possesso di quelle conoscenze.
Ma quale uso possono farne?
All'interno di una logica divulgativa tradizionale, quanto raffinata nei suoi aggiornamenti,
essi possono, inevitabilmente, soltanto mistificare il problema; essi, infatti, sono obbligati a
soddisfare illuministicamente un interesse informativo superficiale (o meramente professionale),
mentre l'uso materiale della scienza e della tecnica è già in possesso delle forze economiche
che asserviscono al loro interesse di classe la scienza, la tecnica e — quindi — la stessa
divulgazione scientifica.
Ben altri, dunque, sono i compiti dell'educazione degli adulti di fronte ai problèmi della
scienza e della tecnica; essi non si risolvono nella pura e semplice divulgazione del risultato
scientifico, e neppure del processo che ha condotto a quel risultato, quando risultato e processo
siano presi a se stanti, come eventi sia pur meravigliosi ed esaltanti della conoscenza umana.
Risultati e processi debbono — innanzi tutto — essere considerati non in modo
autogeno, ma nella società che li genera; come già affermava Dewey: «Quale possa essere la
339
F. J. Rutherford, The Role of Inquiry in Science Teaching, in «Journal of Research in Science Teaching» II,
1964, pp. 80-84, tr. in La formazione per l'insegnamento delle scienze, ricerca di E. Gelpi, Roma, QF, 1971, pp.
237-244
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scienza per lo specialista, essa per i fini educativi è la conoscenza delle condizioni dell'azione
umana. Conoscere l'ambiente in cui si svolgono le relazioni sociali, e i mezzi e gli ostacoli per il
suo graduale sviluppo è possedere una conoscenza di carattere schiettamente umanistico»340.
Ciò vuoi dire, in modo più preciso, dal nostro punto di vista, sia la conoscenza della
realtà delle condizioni di lavoro, sia la consapevolezza attiva del rapporto tra conoscenza e
trasformazione, tra scienza e uso della scienza stessa.
In altre parole, attraverso una conoscenza delle condizioni dell'azione umana (cioè una
crescente consapevolezza del nostro agire all'interno degli attuali rapporti di produzione), nostro
compito è quello di contribuire allo spossessamento dei privati detentori della scienza e della
tecnica.
3.6.3 Abito scientifico e capacità di trasformazione
Cosa può significare l'acquisizione di un abito scientifico rispetto al primario compito di
un'andragogia della scienza che tenda a costituire una consapevolezza attiva del rapporto tra
conoscenza e trasformazione?
Si è sottolineato, finora, la particolare e precisa valenza conservativa dell'educazione
all'attuale scissione tra lavoro e scienza; sia nei processi educativi di fatto operanti nella
produzione (divisione del lavoro, parcellizzazione) e nel consumo (induzione di bisogni,
soddisfacimento dei bisogni di sopravvivenza); sia nei processi educativi intenzionali (dalla
«divulgazione scientifica», come pratica tradizionale dell'educazione adulta, all'«ideologia della
scienza» utilizzata quale strumento di legittimazione341 degli attuali rapporti e della stasi).
Abbiamo, sia pur sinteticamente, esaminato l'arco dei principali proponimenti e atti
tendenti a condizionare l'adulto anche attraverso la scienza e la tecnica, o, meglio, attraverso
una determinata pratica di queste attività umane.
Ed anche questa è una tecnica che si serve dei risultati della scienza per perpetuarne la
scissione dal lavoro.
Rispetto a questa circola-rità — non indifferente né olimpica — di rapporti tra scienze ed
applicazioni tecniche, tra scienziati e non scienziati, tra ricerca, produzione e consumo della
scienza, l'educazione degli adulti che voglia criticamente porsi rispetto a se stessa e alla società
in cui opera non può restare né indifferente, né olimpica.
Essa deve contribuire a interrompere i circuiti di riproduzione degli attuali rapporti.
Vorremmo riflettere, in proposito, a due aspetti, strettamente interrelati, di consolidata
pratica riproduttiva.
Uno si riferisce alla considerazione del nostro rapporto con la scienza pura, come si dice.
L'altro ai modi d'intendere, e di far intendere, i significati dell'abito scientifico, ovvero delle
attitudini scientifiche. Circa il primo, si verifica non di rado il caso che, per un verso, la scienza
venga situata al di là del piano fisico, materiale; e, per converso, che l'uomo venga posto al di
qua della sua stessa umanità.
Per un verso, dunque, la scienza viene intesa come assoluta conoscenza e, poiché a
questa si attribuisce immediatamente una capacità di trasformazione, si tende a ritenere, e a far
ritenere, sia che la scienza è di fatto autonoma per principio, sia che la scienza è di fatto
trasformativa; inoltre, tale proprietà innata e aprioristica viene esaltata attraverso l'attribuzione
alla scienza pura di qualità mistiche, di un distacco dalla realtà, dalla praticità, e non a caso
spesso si sente ripetere che la matematica altro non sarebbe che contemplazione; da qui
l'induzione di processi di accettazione e di remissività rispetto alla condizione attuale della
scienza, proprio perché il suo mondo non sarebbe questo, ma un altro, un mondo a parte;
proprio perché la giustificazione dell'attuale scienza non sarebbe qui, ma fuori di qui.
340
341
J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia,1961
Cfr. J. Habermas, La tecnica e la scienza come ideologie, in Marx vivo cit., vol. I, pp. 145-178
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.Per l'altro verso, si diceva, l'uomo, in quanto tale e in astratto, viene destituito della sua
umanità e considerato in regressione involutiva, oppresso da bisogni primari disprezzabili;
ovvero carico di scorie rispetto alla scienza pura; ovvero influente non limpidamente sulla
cristallinità della ricerca scientifica, con il peso lordo del suo «fattore umano».
Sorprende che in equivoci del genere siano potuti cadere anche politici che si sono posti
i problemi strategici dell'educazione in chiave di apprendre a étre; come abbiamo constatato, E.
Paure si stupisce nel constatare che la ricerca dell'impiego sia generalmente privilegiata in
rapporto alla libido sciendi, il cui peso è, spesso, ritenuto addirittura trascurabile. Non a caso, è
un luogo comune abbastanza diffuso attribuire al camice bianco un significato che va al di là
della mera funzione igienica; esso diviene il simbolo di un disancorarsi dell'uomo dal fondo delle
emozioni, quasi l'ammantarsi di vestimenti rituali di purificazione; nulla di improprio, se da
questa rappresentazione di comodo non si facessero discendere processi di accettazione nei
confronti dei delegati alla scienza intesa come religione orfica e — per converso — processi di
accettazione della condizione di oggetti o di passivi spettatori per gli altri mortali in tuta.
Peraltro, rispetto alla soluzione positiva dei «fenomenisti odierni (ordinariamente raccolti
sotto la qualifica alquanto generica di "neopositivisti")» i quali — come scrive L. Geymonat —
sosterrebbero «che la ricerca scientifica si esaurirebbe per intero nell'ambito dell'attività
soggettiva, cioè si ridurrebbe a una mera elaborazione logico-linguistica dei dati che il soggetto
percepisce (senza il benché minimo riferimento ad alcunché di altro da lui)»342, dobbiamo sì
riconoscere rilievo a una «interpretazione che viene senza dubbio ad evidenziare l'importanza
del fattore umano nella ricerca scientifica, in quanto sottolinea la funzione essenziale spettante
— in questa ricerca — sia alla esatta formulazione delle regole logiche che collochiamo alla
base del linguaggio da essa usato, e di quelle con cui fissiamo i rapporti tra alcuni termini teorici
e certi ben determinati dati osservativi, sia alle procedure che adoperiamo per verificare una
teoria e alla determinazione dei limiti di validità di tale verificazione, ecc.», ma non al di là del
riconoscimento dell'«importanza di questo fattore umano»343.
Ci sembra, infatti, che la necessità di rifiutare «i tentativi di assolutizzare la conoscenza
scientifica» debba andare di pari passo con quella di cautelarsi dal soggettivismo, perché
«come è ben noto, il prendere atto della non assolutezza delle nostre conoscenze ha quasi
sempre aperto la via al relativismo filosofico e quindi, in ultima istanza, all'agnosticismo»344.
Infatti, se ben comprendiamo, enfatizzando il «fattore umano» si può rischiare di
respingere indietro — sia pur con scientifica affermazione positiva — la constatazione che «lo
sviluppo della scienza riesce in taluni casi a realizzare un effettivo accrescimento del nostro
patrimonio conoscitivo, ossia non è qualcosa di caotico, ma un vero e proprio sviluppo dialettico
(uno sviluppo fornito di una sua intrinseca razionalità)»345.
In realtà, per noi, non è comprimendo né enfatizzando l'uomo — quando inteso come
«fattore umano» rispetto alla scienza — che si affrontano e risolvono i problemi relativi al
rapporto tra educazione adulta e scienza.
Sia perché, dal nostro punto di vista, non possiamo in teoria considerare l'uomo come
variabile della scienza, sia perché nella pratica educativa dobbiamo partire da un uomo storico
nella globalità della sua dinamica sociale, non da un uomo visto come variabile dipendente da
una scienza «autonoma» capace di procedere per proprio conto.
Anche in educazione degli adulti dobbiamo tendere alla «sdogmatizzazione del concetto
di conoscenza, e quindi all'abbandono dell'interpretazione metafisica di esso», assumendo
anche noi, operatori culturali, «la piena consapevolezza» dell'importanza della nozione di
«conoscenza per approssimazioni successive», consapevolezza che, afferma Geymonat, «è
342
L. Geymonat, Neopositivismo e materialismo dialettico, in «Critica marxista», Quaderno 6; Sul marxismo e le
scienze, supplemento al n. 4, 1972
343
Ivi, p. 29.
344
Ivi, p. 34
345
Ivi.
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forse (almeno cosi ci sembra) l'apporto più significativo di Lenin nel campo della problematica
gnoseologica».
Essa derivava a Lenin «dalla ferma convinzione che la nozione di "conoscenza per
approssimazioni successive" ci offre l'unica via per ammettere, da un lato, l'alta funzione
spettante al momento teoretico della ricerca scientifica (senza ridurlo a momento ancillare
rispetto al momento pratico), dall'altro per riconoscere alla prassi il fondamentale compito di
convalidare, correggere, stimolare il pensiero astratto»346.
Un altro aspetto di tecnica riproduttiva sul quale vorremmo soffermarci è relativo ai modi
di considerare l'abito scientifico, come se anch'esso, in consonanza con una pratica di
autonomia della scienza, potesse staccarsi dalla condizione materiale dell'adulto.
Rispetto alla complessità e alla raffinatezza delle attuali problematiche epistemologiche,
ma soprattutto rispetto alle attuali condizioni di scissione tra scienza e lavoro — sempre più
complesse nella realtà e nella rappresentazione sociale —, soltanto con estrema debolezza
l'educazione degli adulti potrebbe attestarsi sulla trincea dell'opposizione e della lotta alla magia
con la costituzione dell'abito scientifico o degli atteggiamenti scientifici.
Ci sembra che anche nel nostro campo bisogna cominciare a guardarsi da una sorta di
superstizione nei confronti della scienza nel suo complesso articolarsi di finalità, strutture,
metodi.
Filosofi, sociologi, economisti, ecologi conservatori tendono a sottolineare l'infrenabilità
dei processi scientifici e tecnici perché la scienza e la tecnica costituirebbero un mondo di per
sé, non strumenti in possesso delle strutture economiche che le usano; un cosmo che agirebbe
con la propria forza e dinamica, senza la possibilità di un controllo347.
Strettamente correlata a tale forma di superstizione scientista, è l'impostazione secondo
cui il progresso scientifico e tecnologico avrebbe una propria autonoma logica, indipendente dai
rapporti di produzione e dalle organizzazioni politiche.
Ma, certo, la forma più drammatica di una classista irrazionalità (estremamente
funzionale alla ratio conservativa) è la proposta del blocco dei processi di sviluppo (zero
growth)348, come se tutti i popoli possedessero in eccesso i mezzi di sussistenza e di sviluppo,
e il problema non fosse quello di una diversa realtà dei rapporti di produzione e di consumo, e
— cioè — di un diverso uso della scienza e della tecnica.
Ci sembra, quindi, che oggi non possiamo più accontentarci di perseguire nel lavoro
educativo per l'età adulta il fine relativo all'acquisizione di un abito scientifico, di atteggiamenti
scientifici.
Anche possedendo atteggiamenti quali «la curiosità intesa come stimolo alla ricerca»; «la
razionalità cioè la capacità di far discendere eventi naturali da cause naturali; la disponibilità a
sospendere il giudizio cioè a riconoscere la natura sperimentale delle ipotesi e il carattere
provvisorio della nostra conoscenza; l'apertura mentale cioè la capacità di apprendere che la
nostra idea di ciò che è vero può cambiare; la mentalità critica cioè la capacità di cercare prove
e argomenti che dimostrino le asserzioni di altre persone; l'oggettività nel raccogliere e
interpretare i dati; l'onestà nel comunicare i risultati; l'umiltà cioè la capacità di riconoscere i
limiti personali e quelli della scienza»349, tali atteggiamenti stessi saranno dimezzati senza un
rapporto, a sua volta, scientifico con la natura e con la società.
Per essere scientifici, tali atteggiamenti, tale abito, dovranno avere per oggetto non la
natura in sé ma il rapporto uomo-società.
346
Ivi, p. 38
Cfr. H. Marcuse, The Problem of Social Change in the Technological Society, in Le développement social,
Paris, Mouton, 1965
348
Cfr. la bibliografia ragionata L'idea dello sviluppo nella letteratura degli ultimi 20 anni, Roma, Censis, 1966.
349
Sono gli atteggiamenti descritti nel testo di D. Krathwohl e altri, Taxonomy of Educational Objectives, II:
Affective Domain, New York, Mc-Kay, 1964, p. 36; cit. in E. Gelpi, op. cit., pp. 56-58
347
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Il taglio più carente, in termini innovativi, della divulgazione scientifica per gli adulti è
proprio il prendere a oggetto, a valle, i risultati; o, a monte, i temi di filosofia della scienza, o,
nell'iter conoscitivo, i metodi e gli strumenti.
Risultato appariscente di questa pratica sembra essere l'induzione di un atteggiamento
complessivo di rapporto stretto, si direbbe miope, tra uomo e scienza, dove tutti i problemi
appaiono accentrati sulla conoscenza, come libido sciendi, e dove i problemi della
trasformazione sono decentrati ad altri ambiti (il politico, il sindacale), accreditando — ancora
una volta — la scissione tra cultura e politica.
Un altro risultato, non sempre evidente, ci sembra sia quello di atomizzare il rapporto
uomo-scienza, suggerendone una visione soggettivistica, di capacità o di incapacità individuali
a stabilire un rapporto di comprensione e di controllo; la scienza diviene allora una questione di
genialità o di quoziente intellettuale ai minimi livelli.
Una realtà di differenze socialmente controllabile diviene un'essenza incontrollabile,
metafisica; come se, in termini scientifici, il significato della presenza dello scienziato e del nonscienziato non fosse da verificare e valutare in una determinata società e in un processo storico
che ha prodotto le attuali deformazioni.
Ci sembra evidente che per l'educazione degli adulti è tempo di rifiutare gli assoluti
dell'abito scientifico, del metodo scientifico e di cominciare a chiedersi, nel lavoro quotidiano,
quale abito e quale metodo «scientifici».
È necessario porre in relazione storica e strutturale la scienza e la società, promuovere
processi di consapevolezza sulla scissione tra lavoro e scienza, tra strutture economiche e
scienza, tra classe operaia e scienziato, tra conoscenza e trasformazione.
3.6.4 Lavoro, scienza ed educazione degli adulti
Il problema relativo alla funzione dell'educazione degli adulti rispetto al rapporto lavoroscienza si imposta come contributo dell'andragogia e del lavoro culturale al movimento di
appropriazione critica della scienza da parte della classe operaia.
Questo movimento non ha certo origine dalla divulgazione, ma dalle valenze educative
delle lotte operaie.
Sono state queste, in particolare dalla fine degli anni '60, che «hanno contribuito a
mettere in crisi — attraverso rivendicazioni e conquiste di tipo nuovo — i vecchi schemi di
organizzazione del lavoro, e così facendo hanno incrinato il mito dell'"oggettività" della scienza,
la concezione di una scienza e di una tecnologia che si volevano definitivamente incorporate
nel capitale.
È emersa così la fondamentale ambiguità dell'uso della scienza nella produzione
capitalistica, e si sono affacciate possibilità del tutto nuove, per la classe operaia, di intervenire
in modo autonomo per condizionare e trasformare l'intiero processo.
Ma l'aver dato uno scossone al "dominio esclusivo" della scienza, al suo presentarsi —
nella organizzazione capitalistica — come una "forza estranea e ostile" all'uomo (per dirla con
Marx), ha contribuito a sua volta a liberare nella classe operaia nuove energie intellettuali e a
far nascere un nuovo bisogno di analisi e di cultura»350.
Il problema, dunque, si definisce non nel rapporto individuale con la scienza, né con la
regressione fantascientifica e reazionaria al grado zero dello sviluppo, ma nel rapporto collettivo
della classe operaia con la scienza; nella promozione di «uno sviluppo scientifico complessivo
collegato ai processi di sviluppo delle forze produttive e del movimento di emancipazione»351.
Rispetto alle valenze educative del movimento in atto, si tratta di elaborare una linea di
intervento consapevole che costruisca nella esperienza sociale, e sulla base della esperienza
350
351
A. Minucci, Scienza, produzione e lavoro umano, in «l'Unità», 14 giugno 1973
Cfr. la relazione di G. Berlinguer e A. Minucci al convegno «Scienza e organizzazione del lavoro», Torino, 8-10
giugno 1973
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sociale, un definito universo andragogico nel quale controllare e sviluppare i processi
conoscitivi.
Ciò significa, anche per l'educazione degli adulti, elaborare nella lotta, una volontaria
occasione di autoformazione inerente ai rapporti di struttura e sovrastruttura, una scuola —
vorremmo dire — del movimento operaio che sappia collegare il momento pratico a quello
teorico, che sappia stabilire un nuovo circuito tra scienza e tecnica, e chiudere i vecchi circuiti.
Uscire dalla naturalità educativa delle forme sempre più affinate di sfruttamento; usare in
tutte le loro determinazioni le valenze educative delle lotte: tutto ciò postula l'impianto di
intenzionali e finalizzate occasioni, regole e punti di osservazione, di verifica, di definizione.
Un impianto scientifico tanto organico all'esperienza sociale da essere fine e mezzo
dell'intervento, nonché controllo dell'intervento stesso.
Un modo definito di impostare, nella fabbrica e nella società, un rapporto di conoscenza
e trasformazione, per iniziativa del movimento operaio cui l'educazione degli adulti, — anche
come problema — deve le più progressive ragioni della propria esistenza e della propria
funzione.
La costruzione di questa linea d'intervento come forma di appropriazione critica della
scienza rappresenterebbe una modalità operativa per il superamento delle contraddizioni
esistenti nel rapporto tra produzione, conoscenza, formazione e trasformazione.
Un procedimento volontario, e non necessitato, che muove dalle condizioni dei rapporti di
produzione: per contare sui processi conoscitivi dalle situazioni di partenza, non sugli arrivi; per
formarsi nella dialettica tra la presente logica produttiva e correlativa logica di ricerca scientifica
e di applicazione tecnologica, e logica di uno «sviluppo scientifico complessivo collegato ai
processi di sviluppo delle forze produttive e del movimento di emancipazione»; e, quindi, per
indirizzare, sollecitare, organizzare i processi di trasformazione delle attuali strutture
economiche.
Sembra molto importante, soprattutto per noi operatori culturali, tendenzialmente immersi
nella corrente della proletarizzazione, muoversi su una linea che potrebbe fattivamente
contribuire alla lotta contro la scissione tra scienza e lavoro, e alla saldatura tra conoscenza e
trasformazione.
Noi, in particolare, per i limiti intrinseci al tipo di lavoro educativo che svolgiamo e per gli
strumenti che utilizziamo, dobbiamo essere molto attenti al dualismo — in cui possiamo
muoverci — tra lotta sociale e ricerca, e risolverlo, invece, in una operante saldatura tra i due
momenti.
Dobbiamo, in altre parole, opporci alle quotidiane eventualità che «possa ripresentarsi un
dualismo tra la elaborazione della concezione marxista che è propria della nostra tradizione,
che nasce e si riconferma con l'esperienza della lotta politica, ed una elaborazione che viene
avanti per altra strada, sulla base della ricerca scientifica, ma senza che vi sia tra i due momenti
la necessaria saldatura.
Quella saldatura che consente di evitare il pericolo di ritornare a quelle fondazioni
speculative del marxismo che tutta la nostra tradizione — da Labriola a Gramsci — giustamente
combatte. Il dualismo tra le due culture opererebbe all'interno del marxismo»352, e, potremmo
aggiungere, all'interno del movimento operaio, almeno di quel non secondario aspetto che è
l'educativo.
La ricerca operativa, in uno stretto rapporto di prassi-teoria, è aperta per il superamento
dell'attuale scissione tra lavoro e scienza, per l'individuazione del nostro contributo al costituirsi
di nuove istituzioni di educazione degli adulti (altro che descolarizzazione!), che scaturirebbero
dalla traduzione dei processi educativi esistenti di fatto, a livello naturale, in consapevolezza,
interpretazione, formazione opposta, e in organizzazione di tutto questo complesso modo di
rispondere scientificamente.
352
L. Gruppi, Unità tra materialismo e dialettica, in «Rinascita» 19, 11 maggio 1973, pp. 21-22.
Pagina 135 di 185
Gli scopi educativi che il movimento operaio già persegue sono sintetizzati in una incisiva
pagina del Gramsci dell’Ordine nuovo che è molto vantaggioso tener presente: «L'operaio —
egli scriveva — può concepire se stesso come produttore, solo se concepisce se stesso come
parte inscindibile di tutto il sistema di lavoro che si riassume nell'oggetto fabbricato, solo se vive
l'unità del processo industriale che domanda la collaborazione del manovale, del qualificato,
dell'impiegato d'amministrazione, dell'ingegnere, del direttore tecnico (potremmo aggiungere:
dello scienziato).
L'operaio può concepire se stesso come produttore se — dopo essersi inserito
psicologicamente nel particolare processo produttivo di una determinata officina (per es. a
Torino, di una officina automobilistica) e dopo essersi pensato come un momento necessario e
insoppri-mibile dell'attività di un complesso sociale che produce l'automobile — supera questa
fase e vede tutta l'attività torinese dell'industria produttrice di automobili, e concepisce Torino
come una unità di produzione che è caratterizzata dall'automobile e concepisce una grande
parte dell'attività generale del lavoro torinese come esistente e sviluppantesi solo perché esiste
e si sviluppa l'industria dell'automobile, e quindi concepisce i lavoratori di queste molteplici
attività generali come anch'essi produttori della industria dell'automobile, perché creatori delle
condizioni necessarie e sufficienti per l'esistenza di questa industria»353.
Rispetto a questi scopi formativi, la scienza esce dalla sua presunta oggettività ed entra
in una «unità del processo produttivo», dalla «fabbrica, alla nazione, al mondo»354; la sua
autonomia entra nei circuiti del controllo operaio, dalla fabbrica alla società.
Quanti operiamo nel campo dell'educazione degli adulti dobbiamo considerare
attentamente non solo le negazioni del movimento operaio alla esistente scissione tra lavoro e
scienza, ma le proposizioni affermative, nelle quali s'inverano gli scopi educativi del movimento
stesso.
Tali proposizioni sono presenti negli interventi e nei disegni più ampli e in quelli locali o
settoriali, ma non meno rilevanti come segni concreti del cambiamento.
Innanzi tutto i «Consigli di zona» che possiamo valutare come superamento della fase
d'inserimento «nel particolare processo produttivo di una determinata officina» e concezione
pratica dell'unità del processo produttivo.
Il significato che il «Consiglio di zona» potrebbe acquistare rispetto al problema della
scienza e della tecnica viene così esemplificato: «laddove l'esigenza di affermare un modo
nuovo di produrre si incontra e si fonde con quella di produrre le cose genuinamente volute
dalle masse popolari e da esse democraticamente scelte, si può realizzare la saldatura di
grandi forze sociali in un fronte di lotta che modifica profondamente i rapporti di forza e può
vincere il confronto con la linea di sviluppo capitalista»355.
I «Consigli di zona» configurano una istituzione nuova che si è sviluppata dalle grandi
lotte politiche sindacali del 1968-69, a partire dall'«azione articolata» e dalla «ricerca di nuove
forme di organizzazione e di azione» che fecero assumere alla figura del «delegato» «le
caratteristiche del risultato di un profondo processo di maturazione sindacale, politica e
culturale, che giungerà (a Torino) a rovesciare la situazione all'interno della FIAT e a ridare al
sindacato dignità di protagonista reale e determinante»356.
Sul piano di un nuovo tipo di ricerca e di lavoro teorico, estremamente interessante, e
anche sul piano dell'educazione degli adulti, il convegno su «Scienza e organizzazione del
lavoro»357, sia per i suoi contenuti come per i suoi metodi di intervento rispetto ai problemi della
riorganizzazione del lavoro alla FIAT, al superamento del taylorismo, ai rapporti con lo sviluppo
della scienza e della tecnologia in relazione all'organizzazione del lavoro (trasformazioni
353
Sindacalismo e Consigli, in «L'Ordine Nuovo», 8 novembre 1919.
Ivi.
355
G. Guerra, I Consigli di zona nell'evoluzione delle strutture e del l'unità sindacale, in Quaderni di «Rassegna
Sindacale», I Consigli di Zona, anno XI, nn. 39-40, novembre 1972-febbraio 1973, p. 49
356
Ivi, pp. 39-40.
357
Cfr. gli Atti in Istituto Gramsci, Scienza e organizzazione del lavoro, Roma, Editori Riuniti, 1973
354
Pagina 136 di 185
tecnologiche, orientamenti delle diverse discipline: sociologia, economia politica, cibernetica,
informatica, ergonomia, medicina, psicologia ecc.); è da sottolineare che i lavori vennero
«impostati in modo da non disgiungere i problemi dell'organizzazione del lavoro dai problemi del
rapporto tra politica ed economia, tra direzione politica e sviluppo economico, sviluppo delle
forze produttive e dei rapporti sociali complessivi».
Un impegno siffatto costituisce una solida base per il rinnovamento dell'educazione
scientifica degli adulti (e anche dei ragazzi), nella misura in cui rompe il nesso obbligante
scienza-divulgazione, ed una classe operaia consapevole — già «vulgo» —, capovolge quel
flusso connesso alla divisione del lavoro affermandosi come «soggetto che nel processo di
produzione non si presenta in forma veramente naturale, primitiva, ma come attività regolatrice
di tutte le forze naturali»358.
Ugualmente significativi appaiono, per i processi formativi, alcune iniziative che tirano la
scienza e il suo apprendimento dentro le questioni del «vivo», sia a livello dei problemi, sia a
livello degli implicati (specialisti e operai).
Ci riferiamo alla filmina su «L'ambiente di lavoro» realizzata nel 1971 dalla Federazione
Lavoratori Metalmeccanici, come risultato di una esperienza di elaborazione — da parte di un
gruppo di operai, sindacalisti, medici, psicologi, grafici — di una ricerca sulla nocività
ambientale; attraverso una collettiva destrutturazione della situazione emergono — proprio per
il modo nuovo di studiare la scienza — questioni dall'interno e proiezioni sull'esterno che
nessuna raffinata didassi nel chiuso della divulgazione ha mai potuto offrire.
Altre iniziative di rilievo per l'avvio a soluzione dei problemi sul tappeto sono quelle
connesse ai corsi di scuola media per lavoratori; le più innovanti come logica di studio sono
proprio quelle che hanno inteso stabilire, su basi diverse dal tradizionale programma, un
rapporto socialmente precisato con la scienza.
Tra tante, citiamo quella documentata nel resoconto «Allora, più si studia più si diventa
amici del padrone?»359, e svoltasi presso l’ ITI «Fermi» di Modena, per iniziativa del Consiglio di
fabbrica della Maserati con studenti e insegnanti del «Fermi».
Si tratta di contributi vivificanti non solo all'innovazione pedagogica, nella tradizione della
più progressiva educazione degli adulti360, ma è da ritenere anche a nuovi modi di agire, di
costruire consapevolezza rispetto al rapporto attuale tra lavoro e scienza.
A noi sembra che è dalle diverse iniziative citate — come da tante altre — che dobbiamo
trarre indicazioni affinché le strutture pubbliche, esistenti o da creare, modifichino il senso del
loro operare che è rinforzativo all'attuale rapporto di scissione.
Le istituzioni educative, immediatamente o mediatamente tali (dalle iniziative di
educazione degli adulti alla televisione, dalle strutture cinematografiche statali alle biblioteche
comunali, dai corsi di formazione professionale alle iniziative di aggiornamento ricorrente delle
aziende a partecipazione statale) dovrebbero essere sollecitate a modificare — laddove la
situazione sia inerte — l'ottica, e la pratica del loro modo di vedere e svolgere il rapporto tra
lavoratori e educazione scientifica.
La pratica del distacco è talmente forte, infatti, che soltanto un intervento massiccio di
segno contrario può contribuire a iniziare, per tutti noi, una rieducazione alla educazione delle
scienze, campo che, anche nelle strutture scolastiche, è uno dei più condizionati dagli attuali
rapporti di produzione.
3.6.5 L'uso sociale della scienza
358
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica cit., p. 279
Roma, Edizioni Lega per le autonomie e i poteri locali, 1972
360
«L'educazione extrascolastica, e particolarmente l'educazione degli adulti, in certi paesi soprattutto, ha fatto
nascere idee e relazioni nuove che hanno poi influito sull'insieme dell'azione educativa» (cfr. P. Lengrand,
Introduzione all'educazione permanente, Roma, Armando, 1973, p. 170).
359
Pagina 137 di 185
Se dalle lotte operaie contro le realtà scientifiche di sfruttamento della scienza
scaturiranno dentro la fabbrica e nella società le nuove occasioni formative capaci di affrontare
in modo innovativo il rapporto con la scienza, merita soffermarsi sulla funzione che gli scienziati
possono svolgere nell'arco delle proposizioni e degli interventi relativi all'andragogia delle
scienze.
La figura del’ing. Taylor è, in proposito, emblematica, se è vero, com'é vero, che dal
taylorismo è scaturito «un rafforzamento enorme del potere del capitale e un impoverimento
culturale, politico, anche psico-fisico, delle possibilità dei lavoratori di emanciparsi»361.
Come ricorda G. Friedmann362, Taylor si è presentato per tutta la vita come un ingegnere
e niente altro che un ingegnere; ha sempre proclamato la propria indifferenza per la politica e la
propria neutralità nelle lotte tra lavoro e capitale.
Eppure, dal nostro punto di vista, può paradossalmente essere ritenuto il massimo
pedagogista del capitalismo, e non solo nord-americano.
La situazione è indubbiamente cambiata, per varie ragioni. Innanzi tutto per i processi di
proletarizzazione.
Con «lo sviluppo del capitalismo monopolistico, soprattutto nella sua forma di capitalismo
di stato, aumenta il numero e la porzione degli intellettuali salariati e, tra loro, degli intellettuali
tecnici.
Cosi, negli Stati Uniti, nel 1870, il 38% degli intellettuali lavoravano per proprio conto.
Nel 1954, essi non erano più del 15,6%.
In Inghilterra, nel 1954, l'87,7% di tutti i lavoratori intellettuali erano salariati...
In Francia, il 100% degli ingegneri..., più del 94% degli insegnanti, dei lavoratori delle
istituzioni mediche e sociali e il 92% dei lavoratori della scienza e delle lettere sono salariati363.
Ma la situazione si è modificata anche per «il nuovo rapporto fra classe operaia e forze
della scienza attraverso il recupero, nella fabbrica, del tecnico a un ruolo creativo di
contestazione culturale dell'esistente», come osserva B. Trentin364.
Si sviluppano i processi di sindacalizzazione (ad es., la costituzione — maggio '73 — del
Sindacato unico della ricerca, aderente alla CGIL, nel quale sono confluite le organizzazioni già
operanti nel Consiglio nazionale delle ricerche, nel Comitato nazionale per l'energia nucleare,
nell'Istituto nazionale di fisica nucleare; oppure lo sviluppo dei sindacati della scuola di contro
all'impoverirsi delle associazioni corporative).
Oggi, insomma, non è più discusso «l'allargamento della condizione operaia ai tecnici e
agli scienziati, come forze interessate al superamento di questo intralcio — scrive N. Badaloni
— che è storicamente diventato il modo capitalistico di produzione.
Corrispondentemente il carattere della società superiore come società razionale, diventa
un bisogno, e non in relazione ad un modello astratto e meramente ideale, ma in relazione alla
necessità di liberare forze già in sé razionalmente costituite e che la società presente
sottomette all'irrazionale»365.
L'educazione degli adulti si trova, oggi, inserita in processi ed acquisizioni di incisiva
capacità trasformativa; si potrebbe sostenere che la sua direzione, un tempo diretta
paternalisticamente verso i miseri e gli analfabeti, debba essere attualmente rivolta verso le
esigenze di strati sociali depauperati, in preda alla crisi di una perdita di ruolo, privi di una
prospettiva di cambiamento o esitanti rispetto a scelte definite per la costruzione di una «società
superiore».
361
G. Berlinguer in un'intervista a G. Angeloni, La moderna organizzazione del lavoro, in «l'Unità», 6 giugno 1973
G. Friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale, Torino, Einaudi, 1949, pp. 28-29.
363
Cfr. V. Tcheprakov, op. cit., pp. 405-406, che trae questi dati da A.Gramsci, Capitalism, Socialism and the
Middle Class, in «Marxism Today» 3, marzo 1958, p. 76, e da P. Bleton, Mouvement économique et évolution
sociale, in «Economie et humanisme» 92, p. 11.
364
Intervento al Convegno su «Scienza e organizzazione del lavoro»; cfr. anche «Rinascita» 26, 29 giugno 1973,
p. 27
365
Ivi; e «Critica marxista» 4-5, 1969
362
Pagina 138 di 185
Rispetto ai temi, ai problemi, alle soluzioni da trovare per un uso sociale della scienza, la
funzione di educatore è una delle più pressanti necessità.
Per gli intellettuali, questa necessità si esplicita verso se stessi, per il superamento della
crisi che l'intellettuale, come figura storica, attraversa; affinché, destrutturando i propri privilegi,
possa emergere una nuova intellettualità, realmente corrispondente allo sviluppo delle forze
produttive.
Ed è un impegno che deve essere rapidamente soddisfatto, prima che i processi
educativi di recupero abbiano la possibilità di offrire ossigeno ad un sistema di vita e ad una
cultura moribondi.
Questo ossigeno può essere diretto (ed è diretto) a sostenere le condizioni materiali
dell'intellettuale salariato, proprio per continuare a differenziarlo e a distanziarlo, nel suo status
di vita, dal salariato operaio o contadino.
Ovvero può essere indirizzato (com'è già indirizzato) alla conquista del suo consenso
attraverso le vie contradittorie (sempre più settorialmente raffinate o, nello stesso tempo,
sempre più soffocanti nella passività) dell'industria culturale.
E, a tal fine, servendosi di un ventaglio in continua espansione quantitativa di sottili
specializzazioni all'interno del già nutrito ambito delle specializzazioni scientifiche.
La scienza, così, rischia di divenire scientismo, parcellizzazione estrema della
conoscenza. Il proposito sembra essere quello di indurre lo smarrimento, la perdita di una
visione unitaria del rapporto scienza-lavoro, l'esitazione di fronte ai modi della trasformazione.
Dobbiamo essere consapevoli che anche l'educazione degli adulti, come altre
«discipline» (dalla chimica alla linguistica), tutte, possono essere strumentalizzate.
Per quanto riguarda l'uso cui possiamo essere aggiogati nostro malgrado, è sufficiente
tener conto dell'ambiguità delle nostre origini; delle strutture nelle quali agiamo; del rapporto che
vogliamo e possiamo stabilire con la realtà; della nostra risposta all'antica domanda: «chi
educherà gli educatori?».
3.6.6 Il contributo di scienza e tecnica all'educazione degli adulti
Per riflettere al contributo che scienza e tecnica possono fornire ad una nuova
educazione degli adulti (rifondata nella sua teoria e nella sua pratica al livello dello sviluppo del
movimento operaio e delle stesse scienze), dobbiamo situare l'ambito del nostro lavoro in un
quadro scientifico complessivo; dobbiamo correlarlo ad altri ambiti di conoscenza e di
trasformazione per esaminare la sua collocazione, i suoi rapporti, la sua funzione.
Per soddisfare la prima esigenza, potremmo compiere il tentativo di partire, come si
accennava prima, dalla «disciplina», per individuare il suo posto nell'albero della scienza
percorrendo i sentieri dell'interdisciplinarità, della multidisciplinarità, della transdisciplinarità; ma
probabilmente rischieremmo di essere didascalici, senza risolvere il problema dell'unità del
sapere.
Saremmo, peraltro, molto imbarazzati nel coniugare la bioingegneria con l'antropologia
culturale, la fluidica con la cibernetica.
Rifiutando anzi la tradizionale suddivisione tra scienze fisico naturali e scienze dell'uomo,
cerchiamo di muoverci sulla necessità di una fondazione scientifica della conoscenza, partendo
da una prima constatazione.
«Nella società umana — scrive F. Graziosi366 — sono all'opera due programmi distinti e
reciprocamente condizionantisi: il programma genetico iscritto in codice universale nei nuclei
delle cellule, che affonda le sue radici nelle profondità di un lontanissimo passato e negli eventi
chimici della crosta terrestre, ed un programma sociale, la eredità culturale, che riassume tutta
la storia dell'umanità cristallizzata nell'ambiente sociale e nell'educazione.
366
F. Graziosi, prefazione a N. Dubinin, La genetica e il futuro del l'uomo, Roma, Editori Riuniti, 1973
Pagina 139 di 185
Non poteva darsi evoluzione sociale e culturale dell'uomo indipendentemente dalle sue
peculiari strutture genetiche e fisiologiche; non poteva darsi una cosi peculiare struttura
genetica e fisiologica senza l'interazione sociale e culturale».
Graziosi critica le deformazioni dell'eugenetica («quella somma di conoscenze teoriche e
di esperienze mediante le quali è possibile migliorare le caratteristiche di animali e di piante utili
all'uomo e dell'uomo stesso»), quando si propongono «come biologicamente strutturate le
differenze sociali tra gli uomini».
Egli sottolinea, invece, i termini di un'analisi che «porta alla identificazione di un
meccanismo ereditario culturale, distinto da quello strettamente genetico, iscritto nei circuiti
nervosi del cervello con meccanismi che ancora siamo lungi dal conoscere e perpetuantesi
attraverso le molteplici vie della elaborazione, della conservazione e della trasmissione
dell'informazione culturale elaborate nel corso dello sviluppo storico dell'umanità».
Spiega ancora Graziosi che questo meccanismo ereditario, trasmesso da una
generazione all'altra attraverso il linguaggio e l'educazione, a differenza di quello genetico, non
è irreversibilmente codificato in rigide strutture chimiche e pertanto, esso si modifica, si
complica e si amplia rapidamente sotto la pressione della dinamica della società umana, che
appunto mostra ritmi di evoluzione culturale più veloci di quelli genetici, legati allo scorrere delle
generazioni ed alla selezione naturale. In-somma: «il fenotipo dell'uomo, a differenza di quello
delle altre specie, si realizza nelle estrinsecazioni delle potenzialità genetiche in un ambiente
che non è in sostanza quello fisico-chimico, geografico e climatico, ma quello della cultura nella
accezione più larga di questo termine»367.
Come nota Z. Bauman: «L'esistenza della cultura sociale non annulla la natura biologica
dell'uomo.
Ogni uomo è un organismo vivente e come tale può essere oggetto di studi biologici,
chimici, che indagano la composizione chimica delle cellule, il decorso delle reazioni che si verificano nel processo di ricambio della materia, o di studi fisici...
Tuttavia, in virtù della cultura la natura biologica dell'uomo subisce una specie di
metamorfosi. L'uomo, in questo simile all'animale, essendo anche organismo biologico vivente,
possiede bisogni elementari...»368.
Sappiamo che è la produzione dei mezzi di sussistenza che distingue gli uomini dagli
animali: «Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per
tutto ciò che si vuole — si legge nell'Ideologia tedesca — ; ma essi cominciarono a distinguersi
dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è
condizionato dalla loro organizzazione fisica.
Producendo i loro mezzi di sussistenza gli uomini producono indirettamente la loro
stessa vita materiale»369.
Come commenta Bauman: a differenza dell'animale che "sparisce", fra l'uomo e la natura
vi sono i prodotti dell'uomo stesso, "artificiali" nei confronti della natura; e l'ambiente che
circonda l'uomo perde "il suo carattere naturale puramente biologico, viene trasformato da quel
fattore intermedio che è la produzione»370.
Abbiamo ripreso questi temi essenziali proprio per sottolineare la valenza che acquista
l'educazione degli adulti, in particolare, nella società industriale (e «postindustriale»), in una
struttura capitalistica.
Essa si presenta, alla luce dei rapporti di produzione, come processo formativo artificiale,
rispetto alla cultura intesa come «tesaurizzazione sociale delle esperienze»371.
Un processo che l'istituzione scolastica ha definito e schematizzato nelle forme più
diverse (dalla «scuola materna» alla «formazione professionale», dalla «liceale» al «corso
367
Ivi.
Z. Bauman, Lineamenti di una sociologia marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 7.
369
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 8.
370
Z. Bauman, Lineamenti di una sociologia marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 16
371
Z. Bauman, Lineamenti di una sociologia marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 8
368
Pagina 140 di 185
serale») senza alcuno sforzo d'occultamento, perché il consenso era generato non solo dalla
necessità produttiva, ma dall'aspirazione di ognuno all'acquisizione del sapere per le età
infantili, adolescenziali e per il recupero dell'adulto deprivato. Ma un processo che nell'età
adulta si è sempre tentato di mistificare quale processo formativo naturale.
«Quanto tempo — si chiedeva ad esempio Kant — deve durare l'educazione?
Sino al tempo — rispondeva —, in cui la natura ha stabilito che l'uomo si guidi da sé,
ossia sino al tempo in cui si sviluppa in lui l'istinto del sesso, e, potendo divenire padre, deve
essere a sua volta educatore: approssimativamente, fino ai sedici anni. In seguito, si possono
ancora adoperare accorgimenti educativi e una disciplina che non sia appariscente, ma non più
un'educazione sistematica»372.
Il dettato del filosofo tedesco è valso, di fatto, per l'educazione degli adulti più di quanto
non sia valso quello dell'Emilio per l'infanzia e la giovinezza373.
Sono state le necessità dello sviluppo complessivo delle forze produttive nello stadio del
capitalismo monopolistico a far emergere l'iceberg dell'educazione permanente, ricorrente,
formalizzata, sistematica e, in modo appariscente, conclamata urbi et orbi attraverso organismi
internazionali.
E non è certo da dolersi del fenomeno.
Ma dobbiamo considerare che è indispensabile studiare, valutare l'amplissimo settore
(senza fine davvero, grazie ai moderni strumenti), in cui l'educazione degli adulti come processo
formativo artificiale — con innumerevoli «accorgimenti» e con «disciplina non appariscente» —
viene fatto passare come processo formativo naturale, destinato a «sparire» nel «tempo libero»,
nel valore di scambio, nelle malattie professionali (anche queste, oltre al danno fisico,
funzionano come kantiani accorgimenti educativi).
A nostro parere, è proprio nel trasformarsi della rappresentazione dell'educazione degli
adulti (da processo formativo naturale ad artificiale) che si impone l'imprescindibilità di un
contributo scientifico che, da diverse angolazioni, valga a destrutturare la presunta naturalità e a
dimostrare la reale artificialità che funziona ai fini conservativi delle attuali strutture economiche
e ai fini perpetuativi dell'attuale cultura.
Se, infatti, la «tesaurizzazione sociale delle esperienze», ovvero la banca della cultura,
rende ai suoi detentori attuali attraverso la gestione del processo formativo artificiale (tramite
l'educazione degli adulti; ma non solo attraverso questa), è in tali occasioni che occorre
incrementare il controllo. Il movimento operaio, di fronte agli attuali strumenti educativi, non si
limita alle battaglie strutturali; ha acquisito consapevolezza che ciò che si guadagna in fabbrica
può essere perduto nella società.
È necessario che anche la scienza (dalla biologia alla sociologia) scenda sul terreno
dell'educazione, si misuri sempre maggiormente con i processi formativi in atto. Il considerare
che l'educazione degli adulti è nata dalla stessa matrice strutturale del movimento operaio può
indurre fruttuose riflessioni per l'innovazione della scienza e della tecnica nel loro potenziale
contributo allo sviluppo e all'affermazione di processi formativi volontari di senso opposto ai
correnti.
Occupandosi del «tentativo di fondazione "galileiana" della conoscenza sociale
moderna», U. Cerroni374 affermava che il discorso di Marx è in pari tempo sulla metodologia,
sulla logica e sulla conoscenza del reale e che questa unificazione del discorso è stata tanto
una scoperta scientifica, quanto il portato della peculiarità che caratterizza la società
372
E. Kant, La pedagogia, Roma, Signorelli, 1963, p. 56. Il corsivo è nostro
Non sappiamo se far risalire a quelle antiche indicazioni di Kant, o ad altra valutazione (ad es., il ritenere l'adulto
come «compiuto» rispetto all'incompiutezza dell'età infantile) l'autentica idiosincrasia che alcuni dimostrano
rispetto alla dizione di «educazione degli adulti», e alla oggettività del problema. Si tratta di una spia interessante
a livello di costume: da dove nasce questa non sopportazione dei confronti della riflessione su un processo in
atto?
374
Cfr. O. Cecchi, La ricerca marxista oggi in Italia: il marxismo e le scienze sociali, inchiesta-colloquio con U.
Cerroni, in «Rinascita» 29, 16 luglio 1971, p. 20
373
Pagina 141 di 185
capitalistica come società in cui si realizza un processo storicamente inedito di reificazione dei
rapporti sociali e perciò di ipostatizzazione pratico-istituzionale.
Aggiungeva Cerroni: «Proprio per questi motivi la teoria moderna non è la metafisica
tradizionale ma la filosofia ipostatizzante, "razionale", speculativa di Kant e di Hegel.
E per lo stesso motivo la critica marxiana delle ipostasi teoriche diventa ipsofacto
identificazione e critica delle ipostasi storico-pratiche: critica dello Stato, critica del diritto, critica
della politica, critica dell'economia politica, e non più soltanto critica della filosofia o della
religione».
Anche l'educazione degli adulti, nelle infrastrutture formali e nelle realtà informali, rientra
tra le ipostasi storico-pratiche; e, in un senso o nell'altro, deve impegnarsi in una critica del
proprio processo costitutivo e della propria attuale consistenza.
Per prodursi in questo impegno, necessita del contributo scientifico e tecnico che faccia
diventare palesi i processi naturali in cui essa stessa è trascinata. Una critica praticata dal
soggetto educativo.
Ma il rapporto dell'andragogia con altri campi di ricerca e di studio non è soltanto
recettivo.
Sappiamo, infatti, che è stato «un esteso focolare di interessi di natura pratica»375,
economici, pedagogici, politici, religiosi, sanitari, a richiedere il sorgere delle nuove scienze.
«Tutte le "arti" del guidare o curare gli uomini, nel prorompente sviluppo del pensiero
scientifico moderno, sentirono il bisogno di consolidarsi con tecniche più sicure e di più larga
influenza»376.
Sappiamo — soggiunge A. Massucco Costa — che ciò «che caratterizza l'uomo è il suo
modo di vivere e di operare nella società, in un mondo culturale che si sviluppa come prodotto
storico, ricevendo l'apporto di ognuno e incidendo su ognuno.
Dalla stessa analisi delle spinte sociali collettive e delle interpretazioni individuali che
ciascuno da alla storia di cui partecipa, viene all'uomo uno degli aspetti più alti della sua
umanizzazione, la presa di coscienza della propria realtà storica e della propria
responsabilità»377.
Ed è per accertare il fine di quegli «interessi di natura pratica» e per perseguire la propria
«umanizzazione» che l'uomo adulto (ma anche il bambino e l'adolescente, nei loro modi) deve
essere in grado di controllare il processo formativo, esplicito o implicito, che le varie «arti» di
guidare o curare mettono in moto con le loro tecniche sempre più sicure e di più larga influenza.
A noi sembra che è nello scambio intensificato di critica dell'educazione degli adulti e di
critica della psicologia (o della medicina) che è possibile contribuire al mutamento, sulla base di
un autentico progresso scientifico; non è accettandosi come dati compiuti, come fenomeni
irreversibili che si giova allo sviluppo delle nuove scienze e delle loro applicazioni.
Il ristagno dell'educazione degli adulti è il risultato storico e sociale di un tentativo
d'appropriazione che incombe per frenare il cambiamento strutturale.
L'educazione degli adulti è stata bloccata nel suo evolvere proprio attraverso una
interessata ipostatizzazione.
Per divenire scienza — com'é necessario — essa dovrà ricercare nell'oggettività dei
rapporti sociali la propria funzione storica e le proprie prospettive.
375
A. Massucco Costa, La psicologia oggi, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 13. « Questa spinta pratica, tipica dei
paesi a economia industriale, è stata maggiore, agli inizi, nei paesi anglo-americani e in quelli europei».
376
A. Massucco Costa, La psicologia oggi, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 13.
377
A. Massucco Costa, La psicologia oggi, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 15.
Pagina 142 di 185
4 Compiti e prospettive dell’educazione degli adulti
4.1 Premessa
Le prospettive e i compiti dell'educazione degli adulti come intervento organizzato
scaturiscono dall'analisi dei problemi relativi ai rapporti tra andragogia e "società industriale", e
lavoro, e scuola, e istituzioni pubbliche, e scienze e tecniche, e strumenti di comunicazione.
Scaturiscono dall'esame del processo storico dell'educazione degli adulti in relazione ai
processi strutturali (analisi che svolgeremo in altra occasione).
In questa conclusione, con un taglio esplicitamente partigiano (vogliamo dire: non
mistificato) intendiamo riassumere le ipotesi complessive che ci sembra emergano dall'esame
svolto.
E sottolineiamo il valore ipotetico delle indicazioni che ci proviamo a trarre dalle
considerazioni precedenti, perché ci rendiamo perfettamente conto della necessità teoricopratica di ulteriori verifiche, anche sulla base di altre ipotesi.
Nei limiti — tuttavia — del nostro contributo, nella consapevolezza di riflettere e di agire
come minima particella in un processo educativo che riguarda ben altre forze, dobbiamo
tendere a condurre in porto le nostre opzioni, provvisorie e processive che esse siano.
Cercheremo di riassumere, quindi, i significati che emergono, dal nostro punto di vista,
dallo studio dei problemi dell'educazione degli adulti.
Ci sforzeremo di porre in relazione tali significati con i problemi di oggi e con quelli che
appaiono all'orizzonte, in un futuro non troppo lontano per molti aspetti.
Su questa base, ci impegneremo nell'individuare i compiti dell'educazione degli adulti
come intervento organizzato e da organizzare rispetto alla considerazione del rapporto più
ravvicinato tra finalità e forme di lavoro.
Non mancheremo di considerare i modi organizzativi di un rinnovato sviluppo
dell'educazione degli adulti; e, sostanzialmente, quali conseguenze discendono da scelte
coerentemente diverse, in quanto rapportate al «lavoro», come fulcro di qualsiasi discorso
andragogico, rispetto alle strutture scolastiche, alle istituzioni culturali pubbliche, ai problemi
delle scienze e delle tecniche, agli strumenti di comunicazione.
4.1.1 L'educazione degli adulti nella «società dell'educazione»
II primo punto che, a nostro parere, emerge con forza dalla riflessione sui problemi
dell'educazione degli adulti riguarda la conferma dell'utopia educativa, inserita in una
prefigurazione globale di nuova società.
Ma, possiamo chiederci, questa utopia di una «società dell'educazione», come
superamento della «società della produzione» e della «società dei consumi», non è una
fantasia assurda nelle presenti, dure condizioni in cui viviamo?
L'obiezione avrebbe senso se l'utopia - l'aspirazione alla «felicità» — rimanesse chiusa
nella propria orbita, non correlata, appunto, con le condizioni della sua realizzabilità.
Quali sono, allora, queste condizioni, e quale dovrebbe essere il nostro atteggiamento?
Innanzi tutto — notava Suchodolski — la condizione prima del realizzarsi dell'educazione
permanente, e, in essa dell'educazione degli adulti, è il realizzarsi della «società
dell'educazione»; in questa, l'educazione, largamente intesa come l'intensificazione dello
sviluppo umano, diverrebbe il valore primario e universale.
Pagina 143 di 185
In altre parole, aggiunge più avanti il pedagogista polacco, una delle condizioni essenziali
dell'educazione permanente è la lotta vittoriosa e costante contro l'alienazione; senza il
raggiungimento di questa prospettiva, ogni possibilità di un'educazione permanente, globale e
autentica sparisce; restano, al massimo, i corsi di perfezionamento.
D'altra parte, e inversamente, conclude Suchodolski, lo stesso impegno per l'educazione
permanente (e, noi aggiungiamo, per l'educazione degli adulti), costituisce la prova che
l'alienazione e l'ostilità del mondo sociale sono dominabili, che l'uòmo acquisisce «il sentimento
di essere un creatore responsabile la cui ricchezza intellettuale si realizza nella ricchezza della
vita»378.
Anche noi, insomma, se ci chiedessimo: siamo effettivamente alle soglie della società
educativa?
Questa società si forma veramente nella nostra epoca come un modello nuovo e
specifico della vita sociale e individuale, in opposizione alle società della produzione e dei
consumi?
Anche noi, con Suchodolski, dovremmo rispondere che non è agevole dare a queste
questioni una risposta interamente ottimista.
Dobbiamo — in primo luogo — impegnarci a rimuovere gli ostacoli al realizzarsi di una
società dell'educazione, anche attraverso il nostro lavoro educativo.
In secondo luogo, dobbiamo tener conto che il tendere verso una società dell'educazione
non è un problema che riguardi soltanto la pedagogia e l'andragogia, o i suoi operatori.
Il tendere verso l'uomo onnilaterale, e cioè verso le condizioni capaci di rendere l'uomo
«universale, totale, multilaterale, sviluppato completamente, pienamente, liberamente, in tutti i
sensi»379, ovvero il contrapporsi all'attuale realtà dell'uomo unilaterale, sono compiti
storicamente assunti dal movimento operaio.
E, abbiamo ripetutamente sottolineato, l'educazione degli adulti, sciogliendo l'ambiguità
delle proprie origini con una scelta di campo precisa e conseguente, può ravvicinare l'utopia
educativa, o, almeno, dare un senso progressivo al nostro lavoro e alle nostre speranze, anche
nei momenti più oscuri del nostro modesto operare.
In terzo luogo, dobbiamo essere consapevoli del rilievo e del ruolo dell'educazione degli
adulti nell'impegno di «sviluppo intellettuale della classe operaia».
Se, come scriveva Gramsci, «È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è
formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuoi dire cultura, e non
già evoluzione spontanea e naturalistica»380; se, quindi, l'intervento volontario deve sapersi
opporre con armi sempre più affinate all'indottrinamento naturale in atto e in fieri, un'educazione
degli adulti che abbia operato la sua scelta può avvicinare il proprio ideale educativo, la propria
utopia, contribuendo ad accelerare l'acquisizione generalizzata, di massa, degli strumenti critici.
In quarto luogo, dobbiamo tener conto delle tendenze oggettive allo sviluppo quantitativo
e qualitativo dell'istruzione; non è una tendenza automatica, e bisogna addirittura spingerne i
tempi e i modi di attuazione; né è una tendenza di per se positiva: bisogna che il «lavoro» la
educhi verso direzioni positive.
E tuttavia la forza che preme è ingente; basti pensare che oggi si parla della
comunicazione come sostituto dell'energia, nel senso che un miglioramento nell'uso
dell'informazione può ridurre i bisogni di energia381; basti tener conto delle ipotesi -che
riferiremo a titolo di cronaca — inclini a spiegare i problemi della crisi anche in termini di
«inflazione qualitativa»; questa sarebbe dovuta al fatto che il sapere sotto tutte le sue forme
378
B. Suchodolski, op. cit., p. 8.
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 9
380
A. Gramsci, Socialismo e cultura, in «II grido del popolo», 25 gennaio 1916
381
Ad es., secondo i calcoli effettuati dalla Cornell University, un viaggio intercontinentale consuma energia dieci
volte superiore all'energia che richiede lo svolgimento di una conversazione della stessa durata (otto ore) con il
video-telefono. Tuttavia, dopo lo scandalo Watergate, è lecito chiedersi se il risparmio di energia è considerato in
rapporto anche alla segretezza
379
Pagina 144 di 185
(brevetti, ricerche, numero crescente di agenti economici ad alto livello d'istruzione) tenderebbe
a giocare un ruolo sempre più importante e a soppiantare il capitale come fattore di produzione
essenziale382!
A prescindere, comunque, da certe illazioni, è constatazione comune (basti riferirsi allo
sviluppo dei calcolatori elettronici, preso come termine di misura del livello di sviluppo di una
società) che l'aumento dell'istruzione, come l'accrescersi della richiesta di istruzione, è un dato
di fatto essenziale della nostra epoca.
Determinare le direzioni dell'istruzione è compito di un movimento educativo che deve
avere nell'utopia di una «società dell'educazione» il proprio orientamento specifico, nel quadro
di un progetto societario complessivo.
Ma, e infine, il ragionare e l'operare in termini di utopia educativa non corrisponde
soltanto ad un moto soggettivo, ma ad una necessità che emerge, potremmo dire anche noi, «in
una situazione in cui lo sviluppo delle forze produttive (soprattutto industriali) in presenza di un
non risolto antagonismo con i rapporti di produzione, ha palesato, proprio nei Paesi
maggiormente "sviluppati" tutta la inumanità di una realtà che si vuole interamente conclusa
entro un orizzonte produttivistico e tecnocratico; in cui cioè gli uomini, e i rapporti tra gli uomini,
sempre più sono asserviti, in tutte le loro manifestazioni di vita, alla tirannia delle cose: «le
merci e la produzione di merci» ovvero da « quel!'ampliarsi dell'orizzonte rivoluzionario che va
di pari passo con l'estendersi e l'approfondirsi delle conseguenze del dominio del tardo
capitalismo impcrialistico su scala mondiale»383.
Alle ragioni che ci sembrano confermare l'importanza e l'attualità dell'utopia educativa si
aggiunge, peraltro, la consapevolezza, più volte sottolineata, dei processi formativi in atto ad
opera delle agenzie del potere (da quelle economiche a quelle del divertimento di genere
neocapitalistico) che agiscono con la incidenza della societas rerum.
Come sottolineava Gramsci, anche per gli adulti si può dire che «la scuola, cioè l'attività
educativa diretta, è solo una frazione della vita dell'alunno, che entra in contatto sia con la
società umana, sia con la societas rerum e si forma criteri da queste fonti "extrascolastiche"
molto più importanti di quanto comunemente si creda»384.
Rispetto alla presente e operante società educativa, con le sue valenze inumane e
barbariche, le agenzie educative progressiste-devo-no saper opporre, in termini operativi e in
termini utopici, una «società dell'educazione» capace di rovesciare, più che di sviluppare,
l'attuale corso, oscuramente medievale; in grado di affermare una democrazia educativa nella
quale l'educazione non sia vista come qualche cosa che si sovrappone alla vita, «qualche cosa
che viene dal di fuori», «bene da procacciarsi», ma, «per servirsi del linguaggio dei filosofi»,
dice Lengrand, qualcosa che «non rientra nel campo dell'avere, ma in quello dell'essere»; nella
quale — appunto — «il vero soggetto dell'educazione» sia considerato «l'essere nelle sue
differenti tappe e modalità»385.
Peraltro, la certezza che questa utopia sia già in cammino è dimostrato dal diverso modo
di educarsi dei lavoratori.
«Quali sono i modi, quali gli organismi che meglio rispondono alla educazione degli
adulti», si chiedeva L. Lombardo Radice commentando l'inchiesta presentata nel libro
L'educazione degli adulti di R. Bauer386.
«L'inchiesta - rispondeva — ha dimostrato che sono "circondate da disinteresse, in
generale, le attività 'ufficiali' di educazione degli adulti", cioè i corsi popolari, i centri di lettura, i
centri sociali per la integrazione degli immigrati meridionali nel Settentrione.
382
Ne parla Bommensath in «Hommmes et Techniques», ottobre 1973; cfr. «Le Monde», 14 marzo 1974, p. 1
M. Spinella esprime il proprio parere sull'attualità dell'utopia in relazione al rinnovato interesse per l'opera di
Fourier; cfr. «l'Unità», 20 gennaio 1973, p. 3
384
A. Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1949, pp. 119-120
385
P. Lengrand, op. cit., p. 96; anche Suchodolski, in op. cit., p. 6, ritiene riferendosi alle affermazioni di Lengrand
che «oggi bisogna concepire altrimenti il principio stesso dell'educazione».
386
R. Bauer (a cura di), con la collaborazione di L. Conti, L. Diena, M.Melino, D. Mezzacapa, T. Savi, G. Tassinari,
L'educazione degli adulti, 13° ricerca sulla scuola e la società italiana in trasformazione, Bari, Laterza,1964
383
Pagina 145 di 185
È stata "clamorosamente confermata" dall'indagine l'ipotesi della "forte interdipendenza
tra educazione e azione sociale".
Ci si "integra" nella azione, non nella conoscenza; vi è educazione là dove c'è "mercato
di idee" e "colorazione ideologica marcata". Paternalismo e democraticismo generico fanno
fallimento.
Non vi è altro modo di prepararsi a partecipare alla cultura, alla vita democratica, che
partecipare ad esse — sottolineava ancora Lombardo Radice — ; non vi sono scuole
preparatorie di cultura, di democrazia, che precedano il vivo, diretto, personale impegno ideale,
culturale, politico. Il "dato di fatto fondamentale" nella educazione degli adulti dell'Italia di oggi, è
l’impegno alla trasformazione dei rapporti sociali nei quali viviamo".
Le esperienze più valide sono state quindi trovate dai ricercatori nei partiti operai e
popolari democraticamente organizzati (in particolare nel Partito comunista), nelle associazioni
di lavoratori rette dai lavoratori...»387.
Certamente i risultati della ricerca svolta più di un decennio fa, e le indicazioni che da
essi scaturivano, vanno rapportati alla nuova situazione storica.
E, ad es., circa il problema della scuola, il concetto di educazione permanente deve
essere -come abbiamo visto — depurato degli equivoci marcianti; se riferiamo tale concetto alle
determinazioni scaturenti da quella lontana ricerca, dobbiamo ribadire che esso non deve
risultare una fuga nel tempo, ma un impegno globale, oggi, nello spazio educativo.
Oppure, rispetto ai problemi degli strumenti di comunicazione, dobbiamo essere in grado
di arricchire la nostra azione sociale di motivazioni e di modi d'intervento che permettano di
superare gli oggettivi ritardi.
E, infine, nel campo del lavoro culturale dobbiamo riconfermare, in ogni occasione e nei
modi più pertinenti, la valenza educativa dell'associazionismo, come banco di prova di qualsiasi
innovazione — o pseudoinnovazione -- nell'ambito degli strumenti, dei metodi, delle strutture
culturali.
4.1.2 L'associazionismo: elemento di riflessione emergente dall'analisi dei
problemi dell'educazione degli adulti
La priorità dell'associazionismo democratico ci sembra il dato emergente dall'esame, pur
essenziale, dei problemi dell'educazione degli adulti.
Prima di affrontare le questioni relative al significato generale e operativo che
l'associazionismo assume per una ipotesi dei compiti e delle prospettive del nostro lavoro, è
opportuno riflettere su alcuni temi.
Innanzi tutto, ponendo ancora una volta in evidenza che l'affermarsi del «principio
associativo» si svolge, nel nostro Paese, attraverso un processo di enorme ricchezza, anche da
un punto di vista educativo; dobbiamo esaminare alcune questioni sulle modalità di tale
processo.
In un secolo in cui, ad esempio, riecheggiano le concezioni educative di un Durkheim, i
lavoratori accrescono la loro forza politica e la loro consapevolezza attraverso la loro «azione in
comune», le loro lotte, la «discussione», le loro prime strutture organizzative.
Essi riescono a maturare convinzioni opposte a quelle del «non aver diritto ad avere di
388
più» o al «senso del dovere»389 asservito alla classe dominante.
387
L. Lombardo Radice, L'educazione degli adulti, in «l'Unità», 9 ottobre 1964
«Ciò che è necessario perché l'ordine sociale regni è che la maggior parte degli uomini si accontenti della
propria sorte; ma ciò che è necessario perché se ne accontentino non è che posseggano più o meno, ma che
siano convinti di non aver diritto ad avere di più» (cfr. È. Durkheim, Il socialismo: definizione, origini, la dottrina
saint-simoniana, Milano, Angeli, 1973)
389
«II senso del dovere, ecco, infatti, quale è, per il fanciullo e per lo stesso adulto, lo stimolante dello sforzo per
eccellenza. Lo stesso amor proprio lo suppone. Perché, per essere sensibile come è necessario, alle punizioni
388
Pagina 146 di 185
Ma quali sono le occasioni ed i modi di maturazione?
J. Droz, affrontando l'annosa controversia se, nello sviluppo del movimento operaio, sia
stato decisivo il processo acquisitivo interno al movimento operaio, oppure l'apporto esterno,
scrive che non gli sembra possibile accettare «la soluzione semplicistica secondo la quale una
classe operaia non può essere che tradeunionista e che occorre insegnarle il socialismo
dall'esterno; al contrario il socialismo può nascere solo dalla prassi operaia»390.
Cosi espressa, anche questa può sembrare una risposta semplificante; e, infatti, come
osserva G. Manacorda, se questa impostazione fosse corrispondente alla realtà storica, perché
allora dedicare in questa Storia del socialismo un capitolo intero al Capitale come
all'espressione la più alta della coscienza socialista?
«Forse che il Capitale sarebbe mai potuto scaturire "solo dalla prassi operaia"?»391.
In realtà, riferendoci alle determinazioni di Marx e Engels del Manifesto a proposito dei
«conflitti in seno alla vecchia società» che favoriscono in più modi il processo di sviluppo del
proletariato, e, segnatamente, attraverso il contributo degli «i-deologi borghesi»; tenendo ben
presente l'elaborazione leninista del Che fare?, non possiamo valutare il processo in parola nei
termini polemici in cui il problema è posto da Droz.
Dal nostro punto di vista, possiamo peraltro percepire, e comprendere, il senso
metodologico dell'affermazione.
Ci sembrano, infatti, da rifiutare le tendenze interpretative (sempre riemergenti) a
giustificare, se non a teorizzare, l'indottrinamento, come sbrigativa accezione dell'intervento
dall'esterno.
E ciò, sia per riferimenti storici, in quanto le scelte indottrinanti hanno soltanto rallentato il
processo di sviluppo del proletariato, soprattutto in quanto «sviluppo intellettuale della classe
operaia».
Sia, vorremmo dire, per un principio deontologico del nostro mestiere, in quanto la
pratica dell'indottrinamento non solo non permette, ma ostacola, una modificazione profonda e
autenticamente liberatoria.
Sia per ragioni legate alle nostre esperienze pratiche, in quanto le tentazioni indottrinanti
o si sono verificate illusoriamente acceleranti oppure sono state immediatamente respinte.
È necessario, dunque, distinguere tra necessità storica dell'intervento dall'esterno, e
tendenze di comodo a rendere perenne tale contributo; ciò che era utile e necessario nel!' '800,
o nei primi del '900, o ancora oggi, non è detto che debba perdurare in eterno.
E, tuttavia, ci sembra che il problema, ripreso da Droz, possa essere risolto, almeno dalla
nostra angolazione, sfuggendo alla rigida contrapposizione interno-esterno.
Sia, secondo le specificazioni marxiane, perché l'intervento dall'esterno deve contenere
«reali elementi di educazione»392 e perché, come ricorda Manacorda, « quando siffatte persone
provenienti da altre classi aderiscono al movimento proletario, la prima esigenza è che non
portino con sé nessun residuo di pregiudizi borghesi, piccolo-borghesi, ecc., ma che facciano
proprio senza riserve il modo di considerare le cose del proletariato»393.
Sia, e ovviamente, perché bisogna anche distinguere tra le qualità dei contributi
individuali: quelli dei Marx, dei Lenin, dei Gramsci, e quelli di altri, compreso il nostro di
operatori culturali.
Sia, e per quanto ci interessa e intendiamo mettere in luce, per le specificità educative
della «prassi operaia».
ed alle ricompense, occorre già aver coscienza della propria dignità e, conseguentemente, del proprio dovere.
Ma il fanciullo non può conoscere il dovere che per il tramite dei suoi maestri o dei suoi genitori. Non può sapere
quello che è se non attraverso la maniera nella quale glielo rivelano, mediante il loro linguaggio e la loro
condotta. E’ quindi necessario che essi siano, per lui, il dovere incarnato e personificato» (È. Durkheim, La
sociologia dell'educazione, Roma, Newton Compton Italiana, 1971, pp. 58-59).
390
J. Droz, Storia del socialismo, Dalle orìgini al 1875, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1973.
391
G. Manacorda, Una storia del socialismo, in «l'Unità», 6 aprile 1974
392
Ivi; il brano di Marx è tratto da una lettera a Bebel e altri, del 1879
393
Ivi.
Pagina 147 di 185
Se, infatti, nella prassi operaia comprendessimo — come ci sembra storicamente
corretto — anche i processi di acquisizione del contributo degli «ideologi borghesi»,
attribuiremmo una valenza più adeguata e precisa all'affermazione che «il socialismo può
nascere solo dalla prassi operaia».
Una prassi che, fondandosi sull'«azione in comune» e sulla «discussione», per un verso
riconduce i contributi individuali (esterni) alla verifica e all'acquisizione attraverso il lavoro
collettivo e i metodi del lavoro (interno) in comune e, per l'altro, spiega ed esalta
l'associazionismo come campo educativo essenziale.
Sulla base di questa interpretazione, il movimento di educazione degli adulti individua o
conferma hello sviluppo dell'associazionismo il proprio compito primario.
Sviluppo, sembra utile precisare, non solo nel rafforzamento delle strutture organizzative
politiche e sindacali attraverso l'apporto culturale (compito spettante a politici e sindacalisti in
quanto educatori); ma nel rafforzamento o nella creazione di tutte quelle occasioni associative
nelle quali «la lotta teorica» possa svolgersi insieme e accanto al lavoro politico e sindacale.
«Ricordiamo — scriveva Lenin — le osservazioni di Engels, risalenti al 1874, sull'importanza
della teoria nel movimento socialdemocratico.
Engels riconosce non due forme della grande lotta socialdemocratica (la politica e
l'economia) -come si fa abitualmente da noi — ma tre, poiché accanto a queste egli pone anche
la lotta teorica»394.
E sottolineava il brano in cui Engels puntualizzava i due vantaggi essenziali degli operai
tedeschi.
Se il secondo consisteva nell'essere «arrivati quasi ultimi nel movimento operaio
dell'epoca», il primo risiedeva nel fatto che gli operai tedeschi appartenevano «al popolo
dell'Europa più portato alla teoria... Senza il precedente della filosofia tedesca e precisamente
della filosofia di Hegel, il socialismo scientifico tedesco — l'unico socialismo scientifico che sia
mai esistito —, non sarebbe mai nato.
Se tra gli operai non ci fosse stato questo senso teorico, il socialismo scientifico non si
sarebbe mai cambiato in sangue e carne in cosi grande misura come è effettivamente
accaduto.
E — continuava Engels nel 1875 — quale incommensurabile vantaggio sia questo, si
rivela da una parte se si tenga presente l'indifferenza verso tutte le teorie, che è una delle cause
principali per cui il movimento operaio inglese, malgrado tutta la notevole organizzazione dei
singoli sindacati, avanza cosi lentamente, e, dall'altra, se si tengano presenti la confusione e le
storture che il proudhonismo ha provocato, nella sua forma originaria nei francesi e nei belgi, e,
più tardi, nella caricatura che ne fece Bakunin, negli spagnuoli e negli italiani»395.
Contribuire all'acquisizione di questo «senso teorico», nella prassi operaia associativa, è,
dunque, il compito essenziale dell'educazione degli adulti, per lo «sviluppo intellettuale della
classe operaia».
Un altro tema che scaturisce dall'analisi dei problemi dell'educazione degli adulti riguarda
l'aspetto più propriamente metodologico delle modalità associative di maturazione, sia come
riflessione sulle lotte, sia come acquisizione dei contributi esterni.
Ed è un argomento strettamente interrelato al precedente.
Ma, mentre per l'antico problema posto da Droz non mancano davvero riferimenti, per
quanto riguarda le modalità associative di educazione incontriamo lacune conoscitive
difficilmente colmabili; in questo settore, dobbiamo davvero commentare con Dolléans che il
«mistero» della storia del movimento operaio potrebbe «essere messo in luce solo in virtù degli
umili artefici di questa epopea»396.
Anche se in questa sede non intendiamo affrontare i problemi metodologici
dell'educazione degli adulti, tuttavia dobbiamo porre in risalto le nostre carenze (e le loro
394
V. I. Lenin, Che fare? cit., pp. 28-29
395 V. I. Lenin, Che fare? cit., pp. 28-29
396 E. Dolléans, Storia del movimento operaio, vol. II: 1871-1920, Firenze, Sansoni, 1968, p. x
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conseguenze) che si ripercuotono anche sui modi in cui riusciamo a percepire intellettualmente
l'«energia operaia», cioè «la cultura di se stessa»397; ad esempio, che agli aspetti metodologici
del lavoro collettivo venga dato scarso risalto documentativo, sicché è arduo ricostruire i modi di
svolgimento assembleari, le discussioni generali in sé e nel loro rapporto con le relazioni
introduttive, i procedimenti per giungere alle conclusioni, ecc.
E, per converso, che il rilievo attribuito all'impegno delle singole personalità finisca con
l'assorbire tutta la nostra attenzione, anche perché tale interesse cresce e si diffonde in
progressione geometrica. Il rilevare tale conseguenza non intende — né potrebbe — esprimere
inviti ad essere iconoclasti; tende anzi a sottolineare l'importanza specifica e singolare degli
apporti individuali, in relazione a quella dei contributi collettivi. Il nostro compito, infatti, non è
quello di riconoscere meriti e attribuire ricompense; dobbiamo molto semplicemente trovare i
modi per operare.
E, a tal fine, individuare le possibilità di sviluppare capacità espressive, creative, critiche
nella realtà quotidiana della non eccezionaiità individuale e della potenzialità del lavoro in
comune.
Dalla conoscenza delle personalità che ammiriamo possiamo trarre l'esemplarità dei
comportamenti, il modello dei metodi; ma non i modi di generalizzare la singolarità.
Dalla conoscenza dello svolgersi dei lavori collettivi, possiamo — invece — individuare le
costanti metodologiche da acquisire o da affinare o da rifiutare; possiamo effettuare un
controllo, verificabile, delle modalità associative, quelle che ci è dato ripetere.
Concludendo, dall'attuale carenza, e dalle sue conseguenze, scaturisce un altro compito
dell'educazione degli adulti: raccogliere, studiare, analizzare le passate, recenti ed attuali
esperienze di lavoro collettivo, in modo da far emergere — nelle applicazioni concrete e
quotidiane — i metodi usati, in modo che sia possibile valutare la consapevolezza — generale o
meno — dell'uso di metodi, il cui possesso collettivo è essenziale per lo sviluppo
dell'associazionismo.
Nell'analizzare i problemi dell'educazione degli adulti nel nostro Paese, non abbiamo
dato rilievo alle polemiche svoltesi all'interno del movimento educativo, o tra questo ed altre
istanze, associative o istituzionali.
Sia perché la descrizione delle posizioni avrebbe richiesto spazio eccessivo rispetto alla
capacità chiarificatrice delle polemiche stesse; sia perché non ci sembra che, sul piano
nazionale, fin dalle origini, siano emersi contrasti di rilievo pari al conflitto verificatosi, ad
esempio, in Gran Bretagna, e nei primordi della storia dell'educazione dei lavoratori, «circa gli
scopi a cui tale educazione avrebbe dovuto servire, e circa i principi fondamentali a cui avrebbe
dovuto ispirarsi»398.
La controversia tra rivoluzionari ed evoluzionisti, svoltasi all'interno del movimento
operaio, non ha riguardato se non indirettamente il campo dell'educazione degli adulti, e, nel
caso, alcune personalità, in alcuni periodi.
Ben poco, comunque, è emerso di rilevante e tra le più significative associazioni o
strutture.
Non ci sembra, insomma, che nel campo specifico vi siano mai stati scontri aperti tra
conservatori ed innovatori.
Se critiche e polemiche vi sono state, esse non hanno mai registrato un interesse amplio,
tanto da raggiungere — per quanto ci interessa — un'intensità di rapporto problematico tra
strutture organizzative del movimento operaio e associazioni, operatori dell'educazione degli
adulti.
397 Come si esprimeva M. Pelloutier; cfr. Dolléans, op. cit., p. 25
398 «II conflitto si svolse tra coloro che consideravano l'educazione dei lavoratori come un movimento per aiutare il
lavoratore a migliorare le proprie nozioni tecniche e sociali, e migliorarne così la posizione nell'ordine economico
e sociale esistente, e coloro che invece volevano rovesciare quell'ordine ed educare il lavoratore ad assumere
una parte più attiva nel compiere questo rovesciamento e nel sostituirvi un sistema radicalmente diverso»; cfr.
G. D. H. Cole, L'educazione dei lavoratori nel Regno Unito, in «Bollettino B. C.», marzo-aprile 1958, p.4
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Spiegarsi, oggi, tale aconflittualità del movimento di educazione degli adulti non è
semplice.
Si può ipotizzare, ad esempio, che nelle zone e nei periodi in cui il movimento operaio
stesso ebbe a creare e a gestire le proprie occasioni educative, le ricerche e le contraddizioni
siano rimaste nell'ambito del movimento stesso.
Analogamente, si può pensare che nei periodi e nelle occasioni in cui il movimento
operaio ebbe sostanzialmente a delegare, sulla base delle proprie indicazioni e con l'apporto
dei propri uomini, il lavoro educativo i contrasti si siano risolti nella delega stessa, o non siano
emersi per nulla, nella omogeneità delle prospettive.
Si può, infine, constatare che, in alcuni periodi o in alcune zone, la scarsità di esperienze
nel settore particolare ha impedito, nel quadro di un pluralismo di visioni del mondo e — anche
— dell'educazione degli adulti, gli scontri-incontri necessari a sviluppare il movimento educativo
stesso.
Il risultato di questa sospetta quiete può apparire, in fondo, come la conferma di una
apoliticità dell'educazione degli adulti, o, meglio, di una sua politica ambigua.
Fatto è che, a livello collettivo, non possiamo registrare, salvo eccezioni, una continuità di
riflessioni autocritiche (come quelle — ad es. — svolte da «Peuple et Culture» nel'56: «Bisogna
chiederci se l'educazione popolare non sia stata troppo "letteraria" nel corso di questi ultimi
anni», e negli anni della contestazione).
Anche a questo proposito non è facile fornire spiegazioni; ma l'importante, a nostro
parere, non è individuare le ragioni della riservatezza passata, ma -per il futuro — socializzare
le questioni emergenti dalla pratica quotidiana, provocare occasioni di studio e di riflessione,
affrontare apertamente problemi che non possono essere contenuti e risolti nel chiuso delle
associazioni e degli enti, adoperarsi — in tal modo — affinchè i temi dell'educazione degli adulti
entrino, con il rilievo che meritano, nel circuito e nella battaglia delle idee.
Lo sviluppo dell'associazionismo potrà realizzarsi soltanto nello spazio più vasto di un
movimento non soltanto, e in senso stretto, educativo, quanto politico.
Le premesse storiche — nei riferimenti più lontani — non mancano, a tal fine, e ci
riferiamo agli elementi di consanguineità, di affinità, di analogia riscontrabili tra movimento
operaio, nel suo complesso svolgersi, e movimento educativo per l'età adulta.
Ma sono molto più reali e salde le prospettive, basate sulla realtà più recente ed attuale
nella quale i problemi della cultura, come problemi dello sviluppo della democrazia nel nostro
Paese, sono stati assunti dal movimento dei lavoratori con una coerenza ed una superiorità di
visione che, mentre testimoniano la maturità della classe operaia rispetto alle origini della sua
consapevolezza, dall'altra comprovano il nostro ritardo nell'individuare l'urgenza ed i modi di
un'articolazione più conseguente tra lavoro educativo (e non solo dell'educazione degli adulti) e
lavoro politico-sindacale.
Una coerenza che ha condotto il movimento operaio a scegliere il terreno della
democrazia per impostare e realizzare le proprie battaglie: dalla conquista della Repubblica alle
battaglie contro la legge-truffa del '53, contro il tentativo tambroniano, contro i conati più
reazionari della recente cronaca; dalla difesa delle autonomie locali nelle loro prerogative alle
responsabilità del Parlamento; dalle lotte per la libertà degli operai sul luogo di lavoro a quella
dei giornalisti, dei cineasti, degli insegnanti, degli operatori della televisione, alla difesa della
cultura stessa, affinchè - nell'attuale crisi economica — non sia «messa all'ultimo posto»399; fino
agli impegni sul diritto dei popoli all'autodeterminazione.
Si tratta di un terreno e di una coerenza che, mentre mettono a dura prova le forze
dominanti, provocano spostamenti continui negli orientamenti politici e culturali.
Una superiorità di visione — bisogna aggiungere — che recepisce concretamente gli
insegnamenti di Marx quando dimostrava che «le lotte della classe operaia per il livello dei
salari sono fenomeni inseparabili da tutto il sistema del salario, che in 99 casi su 100 gli sforzi
399
Cfr. «l'Unità», 24 luglio 1974, intervista con G. Napolitano
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per l'aumento dei salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro, e
che le necessità di disputarsi con il capitalista per il prezzo del lavoro dipende dalla sua
condizione, dal fatto che essa è costretta a vendersi come mercé»; da cui la necessità di non
«lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce
incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato» e di
«comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia,
genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una
ricostruzione economica della società»400.
Una superiorità di visione, dunque, che risale dagli effetti alle cause, e che, su questa
percezione dei problemi, si muove, come movimento politico e sindacale, per rafforzare lo
schieramento antimonopolistico e democratico e per aprire nuove strade e nuove realtà
educative alla nostra società.
Nella individuazione e nella costruzione di nuove realtà formative, l'educazione degli
adulti è chiamata anche in un ambito scarsamente frequentato nel passato: quello relativo alle
scienze.
Ciò, a nostro parere, non tanto (o, per altre posizioni, non solo401) per quanto riguarda la
divulgazione, ma per quanto concerne i rapporti con quella che viene definita la «società degli
scienziati».
La distanza tra scienziati ed educatori (non solo degli adulti) è, infatti, allo stato delle
cose, incolmabile attraverso un rapporto di mera assunzione di un ruolo di mediazione, per una
spiegazione al popolo, assunto dagli educatori o dagli stessi scienziati.
Non a caso, negli anni più fiduciosi nel «progresso» scientifico e tecnologico la
divulgazione veniva praticata con un'intensità relativamente più rilevante di quanto non si
verifichi oggi; soprattutto verso gli strati popolari.
Oggi la fiducia nel progresso è fortemente caduta, almeno come religione positiva; ad
essa è subentrata, al contrario, una angoscia impulsiva che, quando non è razionalizzata,
assume le caratteristiche di una vaga e paurosa fede.
Per gli artisti contemporanei più dotati tale angoscia sembra costituire la costanza
d'ispirazione402.
Per ognuno di noi, un alone di presentimenti che ci accompagna altrettanto
costantemente e misteriosamente.
Si può ritenere che sia la carenza di conoscenze scientifiche a provocare i nostri incubi?
Basterebbe essere informati di più, o almeno nell'essenziale, sulla neuropsicologia, sulla
biologia, sulla fisica per dominare la paura?
A parte la considerazione sull'impossibilità di divenire tutti dei Leonardo Da Vinci, almeno
in questo regno della necessità, e a parte la ovvia considerazione che — anche nelle più
favorevoli condizioni sociali — un'esistenza intera sarebbe del tutto insufficiente per acquisire
un possesso elementare dell'attuale scienza, sappiamo bene che a provocare le attuali
oppressioni è la mancanza, nella società capitalistica, di un controllo sociale sulla scienza e
sulla tecnologia, e sul loro uso.
L'educazione naturale di questa società causa, in proposito, deformazioni e
comportamenti deformati estremamente significativi.
Ad es., una ricerca dell'«Institut français d'opinion publique» ha evidenziato che la
percezione delle minacce incombenti403 è, attualmente, abbastanza problematica: «i francesi di
oggi — commenta J. Lacouture — individualizzano fortemente le loro inquietudini e privilegiano
tutto ciò che tocca le loro persone (incidenti o nevrosi) in rapporto a ciò che interessa la
400
K. Marx, Salario, prezzo e profitto cit., pp. 76-77
Come abbiamo visto nel capitolo 6.
402
Insieme alla intensa preoccupazione, abbastanza diffusa, per un nuovo rapporto con il «pubblico»; tendenze
particolarmente vive — e sulle quali purtroppo non possiamo soffermarci in questa occasione — nelle arti
figurative, nella musica, nel teatro, negli audiovisivi.
403
Sul tema è stato svolto, a cura dell'Unesco, anche un colloquio internazionale (29 novembre-1° dicemb re 1973).
401
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collettività...»; questi stessi francesi tendono a non assumersi responsabilità nei confronti dei
pericoli, ma a dirottare ogni responsabilità allo Stato; «da qui la minimizzazione quasi assurda
di tutto ciò che minaccia al di fuori dell'universo quotidiano, immediatamente percettibile».
Tra le minacce «probabili», gli incidenti stradali, le nevrosi, la degradazione della natura.
Tra quelle «gravi»: la degradazione della natura, le nevrosi, gli incidenti stradali; e il 54%
degli interrogati ha indicato i lavoratori immigrati.
Tra le minacce «capaci di mobilitare»: la crisi della famiglia, la degradazione della natura,
le nevrosi.
La minaccia dei bombardamenti atomici figura, tra le «probabili», con il 19% delle
risposte; tra le «gravi», in posizione secondaria.
Da un altro questionario risulta che «la paura degli armamenti atomici» è ritenuto il freno
alla guerra.
Di fronte a questa concezione della paura capace di fermare la paura, di fronte a questo
chiudersi nella propria individualità o nel proprio guscio familistico — dai quali si esce solo per
affrontare il terrore delle autostrade —, ci sembra che i compiti dell'educazione degli adulti siano
ben diversamente determinabili da quelli puri e semplici dell'aggiornamento informativo.
Un esempio indicativo, ed estremamente probante, delle linee più complesse sulle quali
è possibile muoversi, ci è venuto dalla Conferenza internazionale di Bucarest sui problemi
demografici; qui le tendenze «scientifiche» che riflettevano gli interessi del mondo capitalistico
sono state sconfitte: «La base per una soluzione effettiva dei problemi della popolazione è
soprattutto la trasformazione socio-economica», si dice nel comunicato finale.
Ma, senza l'intervento dei paesi socialisti, e degli scienziati di tali paesi,- quali esiti
avrebbe avuto la Conferenza?
Il neo-malthusianesimo avrebbe visto trionfare non solo le sue opzioni scientifiche, ma le
ragioni economiche dell'imperialismo.
Nel nostro Paese, un esempio pieno di prospettive — di fronte alla drammaticità di 200
mila ricoverati nei manicomi — ci viene dal movimento degli psichiatri che, nei confronti della
«scientificità» giustificante le attuali istituzioni segreganti, sviluppa un'azione tendente a
costruire una alternativa scientifica coerente con le aspirazioni alla liberazione dell'uomo, e
contro le pratiche della esclusione, della segregazione.
Nell’un caso, come nell'altro, sono gli stessi scienziati, una parte della «società degli
scienziati», che non solo dimostrano scelte opposte a quelle correnti, ma, in questo loro agire
alla luce del sole, socializzano i più ardui problemi scientifici nel riscontro con i problemi
strutturali.
I compiti dell'educazione degli adulti, rivolta verso il mondo della scienza, sono quindi da
intendersi come rivolti a dialettizzare una realtà che altrimenti ci apparirebbe come una monade
metafisica.
I campi nei quali muoversi -dalla biologia alla genetica alle stesse scienze umane —
sono numerosi; ed ognuno richiede una particolarità d'intervento, in relazione alla specificità
sociale della scienza stessa.
Ma, nonostante le difficoltà, è necessario uscire dalle percezioni individualistiche dei
pericoli reali cui andiamo incontro. Il contributo dell'educazione degli adulti può basarsi proprio,
attraverso lo sviluppo dell'associazionismo, sul superamento dell'angoscia dei non-scienziati e
dei particolarismi degli scienziati.
Se, oggi, le aggregazioni intorno ai problemi della degradazione della natura sono in
rilevante sviluppo (anche nell'inchiesta francese, questo risulta essere il solo tema rilevato di
preminente interesse collettivo), ciò non può certo significare che esso sia in assoluto il più
importante; ma che intorno ad esso è stata creata una opinione pubblica; che tale movimento
ha sollecitato il costituirsi di associazioni; che dipenderà anche dalla forza e dalla costanza di
tali aggregazioni se il movimento potrà affermarsi anche a livello delle decisioni politiche.
Per quanto riguarda gli scienziati, il compito dell'educazione degli adulti dovrebbe
tendere a rompere i corporativismi, attraverso la sollecitazione al costituirsi di associazioni
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democratiche le quali, con la loro azione sociale, potrebbero rendere percepibili i problemi
scientifici nella loro dimensione reale, nella conflittualità — si vuoi dire — degli opposti usi della
scienza e della tecnica.
4.1.3 Compito primario dell'ed.degli adulti: lo sviluppo dell'associazionismo
Si affermava, in relazione alla specificità educativa della «prassi operaia», che il
movimento di educazione degli adulti individua o conferma nello sviluppo dell'associazionismo il
proprio compito primario, per «lo sviluppo intellettuale della classe operaia».
Per esaminare in quale senso, è necessario riflettere intorno ad alcuni problemi connessi
alla tematica, vasta e complessa, dell'associazionismo, in relazione ai problemi educativi
dell'età adulta. Una tematica vasta perché, per quanto riguarda l'epoca moderna, risale al
Fourier404.
Complessa perché abbraccia, da una parte, tutta l'evoluzione storica del movimento
operaio e, dall'altra, la storia della società borghese nella quale — per esprimersi con
Tocqueville — i «governi» considerano le associazioni politiche «allo stesso modo come i
sovrani del Medio Evo guardavano i vassalli: ne rifuggono istintivamente e li combattono ad
ogni incontro. In compenso, vi è benevolenza per le associazioni civili, essendosi compreso che
esse forniscono distrazioni efficaci dagli affari pubblici, mentre impegnano in iniziative che
devono per forza accompagnarsi alla pace sociale»405.
È evidente che in un terreno tanto denso ed articolato dove incontriamo, rispetto ai
problemi della società industriale capitalistica, l'utopia, la costruzione di un movimento di
opposizione e di superamento, l'elaborazione di una società del consenso, in questo territorio —
tutt'altro che arato, almeno dalla nostra angolazione — non è agevole muoversi.
D'altra parte, se l'educazione degli adulti può acquisire Fourier, come riferimento utopico
verso una «società dell'educazione», deve definire i propri compiti nella problematica attuale
dell'associazionismo, come campo primario d'intervento.
La complessità risiede nel constatare che lo sviluppo dell'associazionismo è un
fenomeno contemporaneo, nella società borghese, sia agli strati sociali che tendono a
realizzare tale società, sia al proletariato che inizia a contestarne le premesse e il
consolidamento.
Testimone, negli Stati Uniti, di quel processo fu il Tocqueville: «gli americani di ogni età,
di ogni condizione, di ogni livello culturale si uniscono senza posa — notava nel 1831 —. Non
solo hanno associazioni commerciali e industriali, delle quali tutti fanno parte, ma ne hanno
migliaia d'altra specie, religiose, morali, serie, futili, generali e particolarissime, di immense
proporzioni come di minuscola entità.
Gli americani — aggiungeva — si associano per organizzare una festa, per fondare un
seminario, per costruire un albergo o una chiesa, per divulgare i libri, per inviare missioni fino
agli antipodi, per creare ospedali, prigioni e scuole.
E si associano anche per mettere in luce una verità o per sviluppare un sentimento
necessario appoggiandolo all'esempio di molti.
A capo di una nuova impresa, in Francia si trova il governo, in Inghilterra un gran
signore: negli Stati Uniti troverete un'associazione»406.
404
Prima nel Traile de l'association domestique et agricole (1822) e poi in Théorie de l'unite universelle (1841,
postumo; apparso in traduzione italiana nel 1894), Francois-Marie-Charles Fourier (1772-1837) basa la propria
visione sulla realizzazione di un «falansterio» dove, tra gli altri, anche i benefici dello studio sono in comune. Cfr.
L'armonia universale, a cura di M. Larizza, Roma, Editori Riuniti, 1971.
405
A. de Tocqueville, La democrazìa in America, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 208-209
406
A. de Tocqueville, La democrazìa in America, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 205
Pagina 153 di 185
L'associazionismo liberaldemocratico va posto anche in relazione con quanto notava
Tocqueville: «Le passioni che agitano più profondamente gli americani sono commerciali e non
politiche, o per meglio dire essi trasportano nella politica le abitudini del negozio»407.
«La democrazia non offre al popolo il governo più abile, ma fa ciò che il più abile dei
governi è spesso incapace di fare; essa diffonde in tutta la compagine sociale un'attività
inquieta, una forza sovrabbondante, una energia capace di suscitare prodigi»408.
Caratteristiche, queste ultime, che si ritrovano — con altro e opposto senso — nell'analisi
della borghesia che Marx e Engels svolgeranno nel Manifesto409.
Le prime associazioni operaie, i primi giornali operai hanno origine in analoghe strutture
societarie, e pur con le evidenti differenze («Lo sviluppo di una nuova classe, la sua rivolta
contro le condizioni di un'esistenza miserabile, sono queste le cause economiche e
psicologiche da cui tra il 1830 e il 1836 nasce il movimento operaio»410 in Francia e in Gran
Bretagna).
Certamente i limiti delle prime aggregazioni dei lavoratori sono rilevanti («il primo terzo
del XIX secolo ha visto sorgere numerose coalizioni, nessuna delle quali ha il triplice intento che
avranno in seguito: la lotta corporativa per la difesa dei salari e delle condizioni economiche; la
rivendicazione del diritto operaio; l'azione creatrice e distruttiva»411; «le categorie professionali
che aderiscono alle società operaie non hanno alcun senso della solidarietà operaia.
Al contrario sono in preda a continui rancori.
L'antagonismo tra le diverse società operaie eguaglia l'ingiustizia con la quale, in ogni
società, i compagni trattano gli aspiranti che vengono sottomessi alle più crudeli vessazioni»412.
Eppure, già si intravedono altri segni («alcune società di mutuo soccorso si occupano di
questioni salariali, istituendo a tale scopo delle Casse ausiliarie che prendono già il nome di
Borse.
Sotto il pretesto di soccorrere gli operai vittime della disoccupazione, si costituiscono
delle vere società di resistenza che sono in generale dipendenti, ma qualche volta indipendenti
dalle società di mutuo soccorso»413).
Pur nella contemporaneità dello svolgersi del fenomeno, le differenze tra una forma e
l'altra di associazionismo sono evidenti.
Pur empiricamente, possiamo rilevare che i contenuti sociali, gli scopi delle due forme
associative sono opposti; mentre le prime — le «associazioni civili» — tendono ad inserirsi in
una «compagine sociale», e a concreare tale «compagine», le cui caratteristiche sono
«un'attività inquieta, una forza sovrabbondante, una energia capace di suscitare prodigi», le
associazioni operaie tendono alla lotta per la difesa dei salari, alla «rivendicazione del diritto
operaio», all'«azione creatrice» di una società utopica e dell'azione «distruttiva» della incipiente
e già barbarica società borghese.
Sempre empiricamente, possiamo riscontrare storicamente quali esiti abbiano avuto le
due forme associative: l'una senza prospettive di fondata risposta alle pur sincere aspirazioni
innovative degli organizzatori e membri dei «comitati» ancora oggi in auge negli Stati Uniti (e
del «lavoro di comunità» d'ispirazione. statunitense); l'altra, nonostante contraddizioni ed errori,
autrice di modificazioni liberatorie nelle strutture, nella base di una società nuova.
Ma, esaminando il fenomeno dalle opposte visioni del mondo, possiamo individuare
caratteri differenzianti sui quali conviene riflettere. Come nota R. Cavallaro414, riferendo opinioni
407
A. de Tocqueville, La democrazìa in America, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 123
A. de Tocqueville, La democrazìa in America, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 107
409
Ci siamo soffermati sul «continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le
condizioni sociali ecc.» nel cap. «La società industriale e l'educazione degli adulti».
410
E. Dolléans, op. cit., vol. I: 1830-1871, p. 21
411
E. Dolléans, op. cit., vol. I: 1830-1871, p. 33
412
E. Dolléans, op. cit., vol. I: 1830-1871, p. 33
413
E. Dolléans, op. cit., vol. I: 1830-1871, p. 33
414
R. Cavallaro, Dall'individualismo al controllo democratico: aspetti del pensiero di Alexis de Tocqueville
sull'associazionismo volontario, «La Critica Sociologica» 28, inverno 1973-1974, pp. 99-125
408
Pagina 154 di 185
di S. M. Lipset415 e di L. A. Coser416, «condizione essenziale per una democrazia stabile è il
manifestarsi, all'interno di una società, di un "conflitto" nel senso che è necessaria una
"tensione" tra forze sociali contrastanti per procedere alla conquista di posizioni di potere e di
prestigio.
All'interno della società liberaldemocratica di Tocqueville vettori di questi opposti
atteggiamenti possono essere considerati i raggruppamenti volontari i quali, insieme
all'autogoverno locale, divengono gli istituti necessari a combattere la nascita di uno Stato
assoluto, producendo all'interno della società un momento di equilibrio»417.
Insomma, in questo quadro, le associazioni sono funzionalizzate, con i conflitti stessi e le
tensioni, al permanere di uno status qua; il che è condivisibile per «combattere la nascita di uno
Stato assoluto», e cioè per evitare di tornare indietro, ma è meno accettabile quando ci propone
di andare avanti.
E, infatti, quale dato risultava già al Tocqueville?
Che in fondo, queste associazioni, così strumentalizzate dalla società borghese, «invece
di dirigere lo spirito dei cittadini verso la cosa pubblica, servono a distrarlo e, interessandoli
sempre più in progetti che senza la pace sociale non possono compiersi, lo distolgono dalla
rivoluzione». In sostanza, spiega Cavallaro: «La teoria delle associazioni volontarie, che da
Tocqueville in poi ha avuto largo seguito e tenaci sostenitori nei fautori di una società
liberaldemocratica, ha un tono suggestivo (problema dell'eguaglianza e della libertà), ma a volte
tendenzioso, in quanto il controllo democratico (diffusione del potere che le associazioni
svolgono), determina una "eguaglianza umanitaria" (cfr. G. Della Volpe: Rousseau e Marx,
Bologna 1961, pp. 196-198) che tende a favorire lo sviluppo di forze sociali controllate (come
afferma K. Mannheim, la "direzione di conflitti è un metodo speciale per controllare le
situazioni"; cfr. Uomo e società in un'età di ricostruzione, Roma 1972, p. 276) in una
"democrazia delle illibertà" (cfr. la "Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico" di Marx, in
Opere filosofiche giovanili, Roma 1971, e U. Cerroni: Marx e il diritto moderno, Roma 1968)».
In conclusione, la constatazione del Tocqueville sulla realtà associativa della società
borghese più coerente (e quella che ha prodotto i risultati più colossali), la visione che lo
sollecita a dettare che « presso i popoli democratici le associazioni debbano tenere il posto dei
privati potenti» che l'eguaglianza delle condizioni ha fatto sparire, tale constatazione e tale
visione confermano il ruolo strumentale, distraente, conservativo dell'«associazionismo civile»
all'interno di «una struttura societaria ripartita non solo in classi vere e proprie, ma anche in
gruppi di classe i quali risolvono spesso ambiguamente i meccanismi del conflitto sociale»418.
Peraltro, anche osservando il fenomeno associativo da un opposto progetto societario,
bisogna essere consapevoli dei rischi che l'associazionismo corre, pur nascendo da ipotesi
oppositive alla società di classe.
Ricordiamo quanto scriveva l’Ordine Nuovo nel 1919 (e si riferiva a partiti e sindacati, i
pericoli per altre strutture associative sono ben maggiori): «L'associazionismo può e deve
essere assunto come il fatto essenziale della Rivoluzione proletaria.
Dipendentemente da questa tendenza storica sono sorti nel periodo precedente
all'attuale (che possiamo chiamare periodo della prima e seconda Internazionale o periodo di
reclutamento) e si sono sviluppati i Partiti Socialisti e i Sindacati professionali.
Lo sviluppo di queste istituzioni proletarie e di tutto il movimento proletario in genere non
fu però autonomo, non ubbidiva a leggi proprie immanenti nella vita e nella esperienza storica
della classe lavoratrice sfruttata.
415
S. M. Lipset, L'uomo e la politica, Milano 1961
L. A. Coser, Le funzioni del conflitto sociale, Milano 1967
417
Cfr., per un'analisi delle «ambiguità di un sistema alto borghese», il saggio di U. Cerroni in «Rinascita» 33, 23
agosto 1974, pp. 16-17
418
Cfr. R. Cavallaro, op. cit., pp. 122-124.
416
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Le leggi della storia erano dettate dalla classe proprietaria organizzata nello Stato... In
questo periodo il movimento proletario fu solo una funzione della libera concorrenza
capitalistica.
Le istituzioni proletarie dovettero assumere una forma non per legge interna, ma per
legge esterna, sotto la pressione formidabile di avvenimenti e di coercizioni dipendenti dalla
concorrenza capitalistica».
Nonostante tali evenienze, e nonostante tali rischi permanenti, — che L'Ordine Nuovo
poneva polemicamente in risalto — l'associazionismo «può e deve essere assunto come il fatto
essenziale della Rivoluzione proletaria»; e ciò in quanto «il principio associativo e solidaristico
diventa essenziale della classe lavoratrice, muta la psicologia degli operai e contadini.
Sorgono — scriveva L'Ordine Nuovo - istituti e organi nei quali questo principio si
incarna; sulla base di essi si inizia il processo di sviluppo storico che conduce al Comunismo
dei mezzi di produzione e di scambio».
In questo senso, la formula «conquista dello Stato» deve essere intesa come «creazione
di un nuovo tipo di Stato, generato dalla esperienza associativa della classe proletaria, e
sostituzione di esso allo Stato democratico parlamentare»419.
Dall'analisi delle analogie, delle opposizioni, delle prospettive delle due forme di
associazionismo, ci sembra di poter ricavare l'ipotesi che l'antagonismo tra le «associazioni
civili» e le « associazioni operaie » non debba essere ritenuto assoluto e pregiudiziale, ma
relativo al processo storico della lotta di classe.
L'ipotesi, cioè, che il voler contrapporre le due forme di associazionismo, all'interno della
società borghese, tenda a mascherare lo scontro tra proletariato e capitalismo.
In realtà, è dall'andamento di tale battaglia che discende la funzione
dell'associazionismo, comunque configurato.
Laddove prevale, e nella misura in cui prevale, la forza delle strutture borghesi (e della
loro educazione), le associazioni legittimano, anche attraverso la loro vita, la loro vivacità, la
loro conflittualità, lo status quo.
E viceversa: laddove le associazioni non si lasciano addomesticare in funzione
conservativa esse riescono a porre in crisi il sistema nel cui seno — e dalle cui deformazioni
educative — hanno origine oppositiva.
Nel primo caso, le associazioni rafforzano la divisione tra società politica e società civile;
nel secondo, sulla base delle determinazioni marxiane, contribuiscono allo svolgersi di un
processo che condurrà alla caduta della dicotomia tra sfera politica e sociale.
Se, dunque, non fosse riscontrabile antagonismo pregiudiziale tra «associazioni operaie»
e «associazioni civili» (e, a maggior ragione, se per altre opinioni tale assoluta contrapposizione
fosse un dato acquisito), dovremmo tuttavia definire le differenze tra le due forme; dovremmo —
innanzi tutto — individuare quali contenuti scaturiscono dalla diversità della composizione
sociale nelle due forme associative.
Tali contenuti sono storicamente estraibili dalla capacità di modificazione che hanno
dimostrato di possedere le «associazioni operaie», nelle diverse forme in cui sono apparse ed
hanno agito: da quelle mutualistiche, a quelle di resistenza, a quelle sindacali, a quelle
cooperative fino al partito.
Una energia di mutazione — interna ed esterna — che, possiamo dire, tende a rendere
esistenti, percepibili e realizzabili le utopie più anticipatrici.
Non a caso -vogliamo sottolineare — nello studio storico dell'educazione degli adulti
bisogna partire dalle prime società operaie, dalla loro pratica associativa, e non dalle idee
individuali, pur se premonitrici, di filosofi o letterati.
La constatazione storica di questi contenuti innovativi agenti nelle e dalle «associazioni
operaie» ci induce a ritenere, con molta fermezza, che le ambiguità che storicamente hanno
agito nelle «associazioni civili» possono essere risolte, nei modi più legittimi, considerando tali
419
La conquista dello Stato, «L'Ordine Nuovo», 12 luglio 1919. Il corsivo è nostro
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associazioni non quali corpi intermedi e separati, esposti — nella stessa misura degli individui al
potere delle strutture dominanti, ma come aggregazioni che articolano la loro presenza con la
forza del movimento operaio organizzato.
In tal senso, la loro funzione — emergente da interessi e aspirazioni non coperte, o non
coperte ancora, dalle strutture del movimento operaio — si inquadra nell'impegno ricompositivo
della dicotomia tra sfera politica e sfera sociale, acquista, cioè, una valenza politica precisa; e
non confonde lo scopo della soddisfazione di una determinata aspirazione con la finalità ultima;
non presta il fianco alle capacità riassorbenti delle strutture dominanti.
In termini educativi, realizzare nei fatti tale considerazione ipotetica significa — a nostro
parere — che l'«associazionismo civile» deve riqualificare le proprie finalità generali, i propri
metodi, andando a scuola vorremmo dire — dall'«associazionismo operaio».
In questo modo, le «associazioni civili» svolgeranno, o aumenteranno, la loro provvida
funzione di humus sociale e culturale, di terreno di pratica associativa, analogamente alla
funzione svolta — fin dalle origini — dalle «associazioni operaie».
Il movimento operaio, nella sua struttura portante politica, il partito, è consapevole —
rispetto alle necessità di autonomia per lo svolgimento delle più diverse istanze, e
principalmente di quelle culturali - che non si tratta «di porre limiti alla libertà della ricerca e della
espressione artistica e scientifica, ma — come scriveva acutamente L. Gruppi — di aggiungere
alla libertà la lotta delle idee e di essere, in questa lotta, i più capaci.
Insomma, la funzione d'avanguardia del partito non può essere "decretata" una volta per
tutte e poi amministrativamente difesa, ma ogni giorno conquistata nello scontro politico, nella
capacità di affrontare e risolvere i problemi»420.
In conclusione, si tratta di riconvertire l'«associazionismo civile» (e, in particolare, per
quanto ci riguarda, quello educativo, culturale, sociale) diradando l'alone liberaldemocratico che
lo avvolge e impegnandosi a inserirlo in una cornice democratica, in questa realtà classista; a
noi sembra che soltanto muovendosi in questa direzione sia possibile avvicinarci alla libertà cui
aspiriamo, anche attraverso il contributo del lavoro culturale.
Se, infatti, L’«associazionismo civile» è stato ed è normalmente in grado di chiamare i
gruppi intellettuali, dobbiamo tener presente che «in tutti i paesi, sia pure in misura diversa,
esiste una grande frattura tra le masse popolari e i gruppi intellettuali, anche quelli più numerosi
e più vicini alla periferia nazionale, come i maestri e i preti.
E — aggiungeva Gramsci — che ciò avviene perché, anche dove i governanti ciò
affermano a parole, lo Stato come tale non ha una concezione unitaria, coerente e omogenea,
per cui i gruppi intellettuali sono disgregati tra strato e strato e nella sfera dello stesso strato»421.
Una riconversione delle «associazioni civili» apre, quindi, una possibilità di
riaggregazione di potenzialità innovative altrimenti facilmente annientabili. Inoltre, se anche noi
ci chiedessimo: «Perché e come si diffondono, diventando popolari, le nuove concezioni del
mondo?»422, ed è una questione che in educazione degli adulti non possiamo evitare di
considerare, troveremmo risposte pertinenti e significative, anche per quanto riguarda il
rapporto nuovo da stabilire tra «associazioni civili» e «associazioni operaie».
Gramsci è molto cauto sul «processo di diffusione»423 (afferma che molto spesso si tratta
di «combinazione tra il nuovo e il vecchio»; che le masse popolari «più difficilmente mutano di
concezioni, e che non le mutano mai, in ogni caso, accettandole nella forma "pura", per dir così,
ma solo e sempre come combinazione più o meno eteroclita e bizzarra»424).
Nota, comunque, che su tale processo influiscono: la «forma razionale» in cui la
concezione è esposta; l'«autorità» dell'espositore, ma, soprattutto «l'appartenere alla stessa
420
L. Gruppi, La funzione dirigente del Partito, in «l'Unità», 2 agosto 1968, p. 3.
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 19.
422
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss.
423
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss.
424
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss.
421
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organizzazione di chi sostiene la nuova concezione»425; sicché scrive che: «il processo di
diffusione delle concezioni nuove avviene per ragioni politiche, cioè in ultima istanza sociali, ma
che l'elemento formale, della logica coerenza, l'elemento auto-ritativo e l'elemento organizzativo
hanno in questo processo una funzione molto grande subito dopo che l'orientamento generale è
avvenuto, sia nei singoli individui che in gruppi numerosi»426.
In questo brano dei «quaderni» Gramsci sottolinea altri due elementi che, anche nella
nostra sintesi, non possiamo trascurare: primo, che nella «posizione intellettuale di un uomo del
popolo»427, l'elemento più importante è la fede «nel gruppo sociale al quale appartiene in
quanto la pensa diffusamente come lui»428.
Secondo, che «per ogni movimento culturale che tenda a sostituire il senso comune e le
vecchie concezioni del mondo in generale», è necessario «lavorare incessantemente per
elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all'amorfo
elemento di massa, ciò che significa, di lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo
che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventare le
"stecche" del busto».
Questa necessità — conclude Gramsci — «se soddisfatta, è quella che realmente
modifica il "panorama ideologico" di un'epoca»429.
Decadono, ci sembra, sulla base di tali indicazioni le vetuste funzioni indottrinanti e
illuministiche delle «associazioni civili», e culturali, ed il ruolo paternalistico che nel loro seno e
dal loro piedistallo svolgevano superati tipi di intellettuali; ed emergono, invece, nuove e
preziose funzioni, che postulano la riconversione dell'«associazionismo» non operaio.
Impegnandosi nel lavoro di sviluppo di un associazionismo riconsiderato nelle sue
prospettive, l'intervento di educazione degli adulti deve tener conto di tre elementi politici che
dobbiamo correlare al lavoro culturale.
Innanzi tutto, che l'intervento associativo tende a superare «L’assorbimento individuale
(affine al consumo) di tutta la somma di conoscenze, capacità e facoltà».
Per Marx430, infatti, «ciò che contava era proprio la partecipazione del concreto individuo
all'appropriazione e allo sviluppo creativo della cultura accanto a tutti gli altri individui, insieme
con essi e per mezzo di essi. Il problema infatti è che l'individuo s'appropri di quel suo contenuto
sociale di cui possono appropriarsi soltanto tutti gli individui insieme.
Altrimenti quel concreto si priva semplicemente di senso. Perché la sua essenza sta nel
suo essere contenuto sociale immediato, "non appropriarle" da parte di alcun individuo se non
per mezzo dell'associazione.
Perciò — spiega Davydov -non si tratta di appropriarsi di questo contenuto così come,
diciamo, nella rivoluzione borghese i contadini "s'appropriano" della terra (trasformando i suoi
appezzamenti in proprietà privata d'ogni individuo), ma di mutare la forma sociale, nella quale di
esso ci si appropria: si tratta di mutarla da collettività inconscia e naturale in collettività conscia
e volontaria».
Nella pratica associativa — nelle condizioni strutturali in cui operiamo — questo
elemento deve essere tenuto sempre presente; dobbiamo tendere a realizzare
nell'associazione un'occasione educativa «nella quale le conoscenze di ogni "altro" individuo
siano non il limite, ma una continuazione delle mie conoscenze, e le capacità di ogni "altro"
individuo siano non il limite, ma la continuazione delle mie proprie capacità, e le facoltà di ogni
altro individuo siano non il limite, ma la continuazione delle mie facoltà individuali».
425
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss.
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss.
427
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss.
428
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss.
429
A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss.
430
Cfr. per queste considerazioni J. Davydov, op. cit, pp. 132-134.
426
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Un altro elemento sul quale riflettere riguarda le motivazioni all'associarsi; considerando il
lavoro come termine di riferimento essenziale, dobbiamo tener conto della qualità del «pensiero
o sentimento» che emergono e agiscono nelle condizioni lavorative.
Nella fabbrica, notava Engels, «l'operaio non svolge un'attività che esiga da lui uno
sforzo di pensiero e, d'altro lato, questo tipo di lavoro gli impedisce di occupare la mente con
altre cose... In verità non è facile trovare un metodo migliore per inebetire un uomo, di quello
che è il lavoro in fabbrica».
Come, allora, nonostante questa condizione, la situazione è potuta cambiare e potrà
cambiare?
Spiegava Engels: «se gli operai di fabbrica sono riusciti tuttavia non soltanto a salvare il
loro intelletto, ma a svilupparlo e affinarlo anche più degli altri, ciò è stato possibile soltanto per
la loro rivolta contro il destino e contro la borghesia, l'unico pensiero o sentimento che in tutti i
casi potevano coltivare durante il lavoro»431.
Tale unicità di «pensiero o sentimento» è la base per la costruzione di associazioni volte
al cambiamento.
Essa non riguarda, soltanto il lavoro in fabbrica, ma, nel tardo capitalismo, ogni
condizione lavorativa.
Si tratta di rendere socialmente agente questo «pensiero o sentimento», di farlo
emergere laddove sia seppellito, di farlo divenire consapevole motivazione; in caso contrario,
quando, per esprimersi con Engels, «l'indignazione contro la borghesia non diviene il
sentimento predominante nell'operaio, ci troviamo di fronte all'inevitabile conseguenza» che,
allora, era l'ubriachezza, che allora, e oggi, è il «rilassamento mentale».
È evidente che alla base del rapporto tra associazionismo operaio ed impegno a
sviluppare ed affinare il proprio intelletto vi è, e vi è sempre stato, un nesso politico strettissimo;
la rilevanza e la qualità di tale nesso deve essere continuamente ricercata, come componente
essenziale di un processo educativo nell'età adulta.
Dinanzi all'unicità del «pensiero o sentimento» operante nella condizione lavorativa, è
chiaro che andrebbe riarticolata la consapevolezza, o la realtà, di altri pensieri o sentimenti
agenti in altri momenti e in altre occasioni di relazione.
In tal modo, ogni sollecitazione privata può tendere ad assumere una dimensione
sociale, ad avere una possibilità di soluzione sociale; e, evidentemente, se non nell'immediato,
nel futuro delle generazioni che verranno.
In questo senso, l'educazione degli adulti impegnata nel lavoro associativo ci appare
nella sua tensione socialmente rieducativa, nella sua cooperazione al superamento di
comportamenti scaturiti dalla realtà dei rapporti di produzione capitalistici.
Gli operatori culturali non debbono arrestarsi, intimoriti, di fronte alle prospettive
generazionali; se il lavoro culturale — come sottolineava del resto Lenin432 - ha tempi diversi da
quelli delle trasformazioni strutturali, dobbiamo tener conto del processo, delle valenze
educative del processo, della solidità delle acquisizioni di nuove concezioni del mondo.
Del resto, la stessa storia dell'associazionismo operaio ci rappresenta i modi di
svolgimento della realtà di sviluppo: «Dapprima lottano i singoli operai ad uno ad uno, poi gli
operai di una fabbrica, indi quelli di una data categoria in un dato luogo contro il singolo
borghese che li sfrutta direttamente... In questo stadio gli operai formano una massa dispersa
per tutto il paese e sparpagliata dalla concorrenza. Il loro raggrupparsi in masse non è ancora la
conseguenza della loro propria unione, ma è dovuta alla unione della borghesia...
Ma con lo sviluppo dell'industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso si
addensa in grandi masse, la sua forza va crescendo, e con la forza la coscienza di essa... i
conflitti fra singoli operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo il carattere di conflitti
fra due classi.
431
432
F. Engels, op. cit., pp. 138-140.
Cfr. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, pp. 236-237
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È cosi che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per
difendere il loro salario.
Essi fondano persine associazioni permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni
eventuali... Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad
ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi.
Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente»433.
Rispetto a questo svolgimento — che oggi ci appare nel suo travolgente andamento
esponenziale, ma che ai contemporanei apparve nella drammaticità quotidiana delle difficoltà e
delle lotte —, l'educazione degli adulti deve considerare il processo nella sua globalità, più che
nei suoi momenti: «II vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l'unione
sempre più estesa degli operai»434.
Il controllo del processo associativo costituisce un'opportunità educativa densa di
significati; si tratta, infatti, di valutare l'esperienza associativa come un addestramento a
passare dalla naturalità dei rapporti tra gli uomini alla volontarietà.
«Gli individui — si legge nell'Ideologia tedesca — sono sempre e in ogni circostanza
"partiti da se stessi", ma poiché non erano unici nel senso di non aver necessità di relazioni
reciproche, poiché i loro bisogni, e quindi la loro natura e il modo di soddisfarli, li metteva in
relazione tra di loro... essi dovettero entrare in rapporti... che a loro volta determinavano la
produzione e i bisogni» e «fu proprio la condotta personale... che creò e che ricrea ogni giorno i
rapporti esistenti...
Da ciò indubbiamente risulta che lo sviluppo di un individuo è condizionato dallo sviluppo
di tutti gli altri, con i quali egli è in rapporto diretto o indiretto... »435.
In una società nella quale la vita di relazione è estremamente frantumata, se non
impedita dalle condizioni materiali (gli spostamenti di popolazione, la realtà dell'urbanesimo, il
pendolarismo, la televisione, la motorizzazione e — soprattutto — l'accresciuta tensione sul
lavoro), l'associazionismo, anche come controllo sociale sulla «condotta personale», può
contribuire a rendere palese la ricchezza del rapporto umano, della comunità umana, e delle
loro valenze educative.
Nelle condizioni di vita della società industriale capitalistica, dobbiamo riflettere alle
scelte di campo dell'associazionismo. In generale, siamo sollecitati alla settorialità
dell'intervento (ad es. nel campo della «ricreazione» o del cosiddetto «tempo libero»).
L'educazione degli adulti, consapevole delle valenze politiche di ogni e qualsiasi
esperienza associativa, non deve accettare questa spinta alla settorializzazione; deve
impegnarsi nel ricondurre ad unità le diverse e svariate occasioni di divertimento.
E, soprattutto nel caso di attività di scarsa rilevanza intrinseca, tendere a superare la
mera soddisfazione ai bisogni primari della distensione e dello svago.
Il lavoro culturale dovrebbe proporsi di superare la settorialità — una sorta di divisione
dei compiti nel tempo extralavorativo — attraverso una intensificazione della vita associativa
(anche con i suoi scontri, auspicabili); l'unità, infatti, alla quale ricondurre costantemente e
testardamente la singola attività (e la considerazione dei suoi affezionati) è quella dell'esistenza
dell'associazione.
Senza tale persistenza del segno associativo, senza tale chiamata alla corresponsabilità,
la singola attività settoriale trascina, o rischia di trascinare, nella palude della provvisorietà il
complesso delle attività dell'associazione, ovvero l'associazione nel suo complesso articolarsi.
Superare la settorialità significa rifiutare il configurarsi dell'associazione come gestione di
un servizio nel cui esercizio ritornano e si consolidano il costume e l'atteggiamento
consumistico; vogliamo dire che, se nell'attuale realtà sarebbe assurdo pensare ad isole
433
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 68
ss
434
K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 70
435
K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 429.
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economi-che, è vero anche che il valore dell'associazione (e del «principio associativo») non
può essere ridotto alla mercificazione.
Non dobbiamo pensare, infatti, che le scelte di campo del lavoro associativo possano
essere aprioristiche, corrispondenti alla spinta che l'operatore culturale riceve dal proprio livello
di scolarizzazione, dalle occasioni culturali di cui usufruisce, dalle condizioni in cui vive, dagli
interessi politici che nutre.
Esse devono corrispondere allo « stadio di sviluppo raggiunto dalla coscienza popolare»,
devono corrispondere ad una realtà che non può essere stravolta; soltanto a queste condizioni,
è possibile operare per far «avvertire al popolo più vivamente i suoi bisogni», come si esprime
Borghi436.
Non è quindi la singola attività intrinsecamente povera che può o deve suscitare
apprensione; ma l'accettazione incosciente della sua settorialità, dell'offerta commerciale del
servizio, la sua sostanziale estrapolazione dalle finalità associative (dalla pratica associativa)
che debbono preoccuparci.
Le riflessioni di Togliatti437 sul «Dopolavoro» fascista mantengono, a nostro parere, tutta
la loro attualità rispetto a questi problemi.
D'altro canto, la sostanza politica del lavoro di educazione degli adulti si può risolvere
nell'associazionismo attribuendo un valore di cultura critica alle iniziative che organizziamo
rispetto alle più diverse esigenze.
Non essendoci concesso pregiudizialmente di poter scegliere, nelle più diverse situazioni
e zone, il «pacifico lavoro organizzativo "culturale"»; né di poter spostare il «centro di gravità»438
del nostro intervento nei vari campi dell'associazionismo; dovendo — anzi — tendere a coprire
tutti gli spazi vuoti, o quelli riempiti di vecchio; volendo tener conto delle inclinazioni individuali o
di gruppi ristretti, delle necessità cronologiche, e di mille contingenze, l'unico modo per poter
superare l'atomizzazione e lo sconcerto rispetto alle grandi scelte globali è quello di nutrire di
cultura critica l'impostazione e la realizzazione di ogni attività.
Se tale attribuzione è, a livello individuale, di enorme se non insuperabile difficoltà
(richiede, infatti, un controllo e una capacità raramente presenti), a livello associativo, nel
reciproco controllo del lavoro collettivo, leggere criticamente la realtà che ci circonda, anche
quella meno espressiva, diviene un esercizio culturale non solo realizzabile, ma capace di
arriccchirci anche attraverso le occasioni di vita più alone e sorde.
Tale attribuzione di cultura critica, peraltro, si articola con quel controllo sui processi
formativi che è uno degli scopi principali dell'educazione degli adulti.
Per valutare le capacità educative, e le direzioni educative, dello stare insieme, delle
associazioni meno riconoscibili da un punto di vista «culturale», dobbiamo saper valutare —
prendendo esempio dall'associazionismo operaio — la coerenza interna di tali occasioni, una
coerenza talmente profonda tra fini e mezzi che esalta ogni momento dell'esistenza collettiva. Vi
è una pagina molto nota di Marx in proposito: «Quando operai comunisti si riuniscono — egli
racconta —, loro scopo è innanzi tutto la dottrina, la propaganda ecc.
Ma al tempo stesso acquistano con ciò un nuovo bisogno, il bisogno della società, e quel
che appare un mezzo diventa uno scopo.
Questo movimento pratico lo si vede nei suoi risultati più stupendi quando si osservano
degli ouvriers socialisti francesi riuniti.
Fumare, bere, mangiare, ecc. non sono più ivi mezzi di unione o associativi: l'amore,
l'unione, la conversazione, che la loro società ha per scopo, bastano loro, la fraternità umana
non è una frase, ma la verità presso di loro, e la nobiltà dell'umanità ci splende incontro da
quelle figure indurite dal lavoro»439.
436
L. Borghi, Educazione e sviluppo sociale cit., p. 172.
Cfr. Lezioni sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 97 ss
438
M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 246
439
K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 242.
437
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La nostra attenzione deve essere rivolta a questo «movimento pratico» che, spesso,
nello svolgersi della vita associativa, è più importante dello stesso scopo sociale.
Un altro aspetto significativo per valutare la rilevanza politica del movimento associativo,
nei più diversi campi, è la inclinazione al cambiamento; non si tratta di un'equazione, ma,
ripetiamo, di una tensione che contraddistingue le associazioni democratiche.
Nessuno — infatti — potrebbe affermare che tutte le associazioni (o ciascuna nei diversi
momenti della propria esistenza) posseggano ed usino le chiavi miracolose dell'innovazione per
il fatto stesso di esistere; tuttavia è rilevabile che, proprio per il fatto di esistere, esse danno
luogo a processi educativi per ciascuno dei suoi membri.
Gli incontri e gli scontri che avvengono all'interno dell'associazione conducono, nella loro
occasione formativa, a riflettere, a riesaminare, a voler conoscere, a cambiare.
Sarebbe interessante una ricerca sulle occasioni formative che hanno contribuito a
maturare, a sollecitare verso scelte più precise, verso assunzioni di responsabilità; ognuno di
noi, probabilmente, ritroverebbe un'associazione, magari modesta culturalmente o
politicamente, eppure rivelatasi più capace di arricchirci di altre agenzie educative (dalla scuola
alla famiglia).
Ma, al di là del riferimento ai processi di sviluppo individuale, ci sembra che le
associazioni — nel loro nascere, scindersi, confutarsi reciprocamente, deperire, accrescersi —
operino attraverso un «movimento pratico» che, nel complesso, accresce la società di una
consapevolezza che, alla distanza, darà i suoi frutti.
Infine, un ultima osservazione sulla rilevanza del rapporto tra lavoro associativo e ceti
medi, questione440 che riguarda «l'intero schieramento democratico e antifascista» in quanto nel
nostro paese non è «pensabile un allargamento del fronte unitario di lotta senza la diretta
partecipazione della maggioranza di questi ceti».
Mentre nel campo economico, la presenza di «un forte movimento cooperativo, di
organizzazioni sindacali, autonome e unitarie degli esercenti e degli artigiani, di associazioni
consortili che accomunano il settore agricolo al commerciale, testimonia delle possibilità
concrete che questi ceti hanno di dar vita e prospettive, insieme al movimento operaio, a forme
nuove e originali di gestione economica non vincolate e in contrapposto al potere
monopolistico», nel campo culturale l'associazionismo deve produrre i risultati intensi che
potenzialmente può generare.
Nel campo della produzione, si rileva attualmente un impegno della Lega delle
Cooperative, verso la costituzione di cooperative di scrittori, di cineasti.
Molto è possibile realizzare in questo e nei campi della distribuzione e del consumo.
Data la situazione italiana, caratterizzata dalla presenza di una così vasta fascia di strati
intermedi, e considerato che «si tratta — come diceva Togliatti — di un lavoro complesso, un
tema difficile, un impegno di non poco conto», l'impegno associativo del movimento di
educazione degli adulti può andare incontro alle multiformi esigenze, alle aspirazioni di un ceto
medio bombardato dalla pressione educativa agente nell'ambiente, con scarse possibilità di
recupero nella realtà del lavoro.
Sviluppo dell'associazionismo significa incrementare le occasioni d'innovazione,
moltiplicare la conoscenza delle opzioni possibili, offrire — soprattutto — la possibilità di una
«pratica associativa» che, altrimenti, non esisterebbe. Lo sviluppo del movimento operaio,
basato su tale pratica, deve insegnarci qualcosa per il nostro lavoro educativo.
4.1.4 Prospettive dell'educazione degli adulti
440
Cfr. il commento di D. Rinaldi («l'Unità», 22 settembre 1973) alla ristampa di una conferenza di Togliatti (La
questione dei ceti medi, Roma, Editori Riuniti, 1973).
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Le prospettive dell'educazione degli adulti sono strettamente legate ai problemi di
crescita del nostro Paese; sono organicamente connesse allo sviluppo e all'affermazione del
movimento operaio italiano e internazionale.
Dall'esame dei problemi, quel legame e, soprattutto, questa connessione, sono
chiaramente emersi.
Ma, almeno nel nostro campo, vi è sempre stata una piena consapevolezza di tale
relazione organica?
Vi è sempre stata nelle strutture organizzative del movimento operaio una conoscenza
delle questioni e delle potenzialità dell'educazione degli adulti?
Altrove, abbiamo accennato al nostro ritardo nell'acquisizione di essenziali rapporti, o
nella pratica di tale acquisizione.
Sul piano educativo, è ancora problematica la conquista dell'«intrinseco rapporto che
unisce la scuola alla società».
«Affermato — osservava Borghi — fin dalla fine del secolo XIX a proposito
dell'educazione dei fanciulli, esso ha tardato a trovare riconoscimento nel campo
dell'educazione degli adulti.
Ma anche nell'ambito dell'educazione scolastica la sua affermazione è stata per lungo
tempo principalmente teorica.
Soltanto negli ultimi anni, sotto la spinta dell'esplosione scolastica dovuta alla richiesta di
educazione da parte dell'intera società, si è diffuso il convincimento che i modi di essere e di
svilupparsi degli individui sono in rapporto di reciproca dipendenza coi modi d'essere e di
svilupparsi della vita sociale e che la soluzione dei problemi sociali riveste di per sé una
profonda portata educativa.
Vorrei insistere — soggiungeva Borghi -sulla portata formativa di un'educazione che
ponga l'accento sulle prospettive dello sviluppo e della trasformazione dei modi d'essere della
società»441.
L'educazione degli adulti, dunque, deve trarre le conseguenze dalla consapevolezza di
questo rapporto al cui positivo sviluppo essa può contribuire in un settore, quale quello
culturale, che oggi ha assunto «una dimensione di massa»442, uno spessore mai conosciuto in
Italia, e, quindi, un rilievo globalmente politico, prima che educativo in senso stretto.
Non a caso «i problemi della scuola» dal primo posto nella politica culturale sono stati
portati a uno dei primi posti nella politica generale del Pci.
Non a caso «il problema del rapporto classe operaia-forze intellettuali è ormai all'ordine
del giorno della politica dei partiti comunisti dell'Europa occidentale»443.
Non a caso i temi della politica culturale sono in primo piano in tutta la sinistra europea
(basta pensare al programma Mitterrand).
Non a caso, Napolitano rileva che l'«esigenza che le forze più sensibili impegnate in
questo campo profondamente avvertono è quella di un rapporto reale con le masse lavoratrici e
popolari, con un pubblico nuovo, che sappia farsi protagonista attivo e consapevole della vita
culturale del paese.
È la ricerca di questo rapporto che va favorita e valorizzata...»444.
L'impegno che il movimento di educazione degli
adulti
ha
oscuramente
e
modestamente dedicato ai temi dello sviluppo culturale e, nei momenti migliori, allo «sviluppo
441
L. Borghi, Aspetti e problemi dell'educazione degli adulti in Italia oggi, relazione al Convegno italo-sovietico sul
tempo libero, Mosca, 14-16 aprile 1969; in «La Cultura Popolare», 2-3, giugno 1969, p. 96.
442
G. Napolitano, Sul problema della direzione culturale, in «Rinascita», 44, 9 novembre 1973, pp. 19-20: in una
definizione chiara quanto esplicita e coerente dei problemi, Napolitano osserva che il contesto del lavoro
culturale oggi è cambiato sotto due profili: «sotto il profilo dell'espansione e del mutamento di natura del lavoro
intellettuale e degli strati intellettuali, e sotto il profilo di una radicale rottura — a seguito dei processi di
secolarizzazione, di diffusione della TV, di dilatazione dell'attività editoriale — dai limiti entro cui si svolgeva
ancora negli anni cinquanta la vita culturale».
443
G. Napolitano, Sul problema della direzione culturale, in «Rinascita», 44, 9 novembre 1973, pp. 19-20
444
G. Napolitano, Sul problema della direzione culturale, in «Rinascita», 44, 9 novembre 1973, pp. 19-20
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intellettuale della classe operaia» può coagularsi in un contributo specifico, sulla base delle
proprie esperienze, proprio nell'ambito dell'esigenza in parola.
Se si ritiene che sia «venuto il momento di eliminare l'impressione che il partito consideri
compito della propria politica culturale solo la lotta per la libertà di espressione e quella per la
riforma delle istituzioni culturali» e che, tra i nuovi impegni del movimento operaio, si affermi
quello di favorire e valorizzare la ricerca di un rapporto reale con un pubblico nuovo, è da
ritenere che per il movimento di educazione degli adulti sia giunto il momento di uscire dalla
ricerca «di tecnica culturale» di tale rapporto e di sviluppare una ricerca «di politica
culturale»445.
Soltanto così sarà possibile, per noi operatori culturali, estendere, qualificandolo, il nostro
lavoro in risposta a quella «dimensione di massa» della questione culturale che, a differenza di
precedenti periodi, ha acquisito una valenza politica primaria.
Se un tempo, in condizioni di estrema arretratezza culturale del Paese, gli operatori
dell'educazione degli adulti apparivano, e non per .loro colpa, come missionari in un deserto,
oggi la consapevolezza diffusa dell'«intrinseco rapporto» tra «modi di essere e di svilupparsi
degli individui» e «modi d'essere e di svilupparsi della vita sociale», la certezza sulla «portata
formativa di un'educazione che ponga l'accento sulle prospettive dello sviluppo e della
trasformazione dei modi d'essere della società », possono realizzare un'unità di forze capace di
accelerare quello .«sviluppo intellettuale della classe operaia» nel quale Marx «confidava
unicamente ed esclusivamente» per «la vittoria finale delle tesi enunciate nel Manifesto».
La realizzazione di tale unità è tra le nostre maggiori responsabilità, se è vero, come
anche noi riteniamo con De Bartolomeis, che «in fondo non è difficile dire che cosa dovrebbe
mutare; è difficile invece individuare e coalizzare le forze in grado di lavorare per il
mutamento»446.
I problemi di crescita del Paese sono riscontrabili, rispetto alla fase di attuazione della
Costituzione; come è stato rilevato, «completatasi ormai la fase di istituzione degli organi
previsti dalla Costituzione (ultime le Regioni), la nuova fase di crescita della Repubblica non
può non essere condizionata dal tipo di modello (liberal-democratico, autoritario-corporativo,
socialista) che le varie forze politiche e sociali sapranno elaborare e riusciranno ad avallare con
il consenso popolare»447.
Rispetto al rapporto Stato-società civile, e in relazione ai problemi dell'associazionismo
come compito primario dell'educazione degli adulti, la Costituzione «ha tentato di dare al
problema una risposta avanzata nel senso della democrazia attraverso: il pluralismo
nell'organizzazione politica e sociale, la subordinazione della proprietà privata all'interesse
pubblico, il riconoscimento della necessità di «rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese»; l'introduzione del concetto di "persona" in luogo del
tradizionale concetto di individuo»448; (e, ci sembra importante aggiungere, l'introduzione del
concetto di «lavoratori» in luogo di «cittadini»). Il concetto di persona, continua Brienza: «è
particolarmente interessante, soprattutto in tema di associazionismo.
Nel concetto di "persona" — infatti — è implicito (al di là delle diverse motivazioni
ideologiche che ne hanno permesso l'ingresso nel testo costituzionale) il riconoscimento che lo
sviluppo della personalità del cittadino è un'operazione sociale, non soltanto nel senso che
dipende in gran parte dal contesto sociale in cui il cittadino vive ed agisce, ma anche nel senso
445
A. Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura cit., p. 139.
F. De Bartolomeis, Scuola a tempo pieno, Feltrinelli, Milano, 1972, p. 15.
447
U. Cerroni, Istituzioni e partiti nella Repubblica probabile, in «Rinasccita» 34, 1° settembre 1972, pp. 21-22.
448
R. Brienza, L'associazionismo, relazione al VII Congresso dell'Unione Italiana della Cultura Popolare e della
Federazione Italiana Biblioteche Popolari, Roma, 8-10 dicembre 1967; in «La Cultura Popolare», 1,1968. pp. 4041.
446
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che la completa realizzazione della sua personalità interessa ed avvantaggia la comunità
nazionale.
Il riconoscimento di questo dato, proprio perché immanente alla nostra realtà, potrebbe
sembrare ovvio e scontato, ma la sua incorporazione nel testo Costituzionale ha un significato
preciso.
Innanzi tutto viene ribadito il dovere dello Stato di assicurare ad ognuno, in tutti i momenti
dell'esistenza, situazioni ed opportunità pienamente confacenti al rispetto della dignità ed allo
sviluppo della personalità umana.
In secondo luogo viene riconosciuto che l'area del "pubblico" si estende ormai in ambiti
tradizionalmente "privati" e si pone il problema di definire i compiti ed il ruolo che — al suo
interno — spettano al "potere pubblico" e quelli che appartengono, invece, all'azione volontaria
e spontanea della società civile»449.
Nella battaglia per la definizione di tali compiti e di tale ruolo si possono individuare, e
concretizzare, le prospettive di lavoro dell'educazione degli adulti. Innanzi tutto per quanto
riguarda l'ambito (e, cioè, dentro al movimento operaio organizzato; e, fuori, nella società); in
secondo luogo, per quanto interessa le funzioni che essa tende a svolgere rispetto ai processi
formativi in atto e rispetto alle istituzioni e strutture culturali.
Sul lavoro nell'ambito del movimento operaio, l'educazione degli adulti deve contribuire
all'impegno teso ad « espandere le forme nuove della democrazia dentro al movimento proprio
perché questo diventa sempre di più un modo di farle crescere e di imporle fuori del movimento
e cioè nello Stato stesso»450.
E, in proposito, deve trovare i modi per articolare un rapporto organico con le strutture
organizzative del movimento operaio, con la finalità di passare criticamente il patrimonio di
esperienze acquisite nel passato, e di svilupparlo entro nuove dimensioni.
Circa l'intervento nella società nel suo complesso, abbiamo sottolineato la priorità del
lavoro associativo tra i compiti dell'educazione degli adulti.
Ma, dobbiamo chiederci, con quali funzioni specifiche e proprie, tali da caratterizzare le
prospettive d'intervento dell'educazione degli adulti nei prossimi anni?
Cercheremo di pun-tualizzare, anche a costo di apparire schematici, quale contributo è
ricavabile dall'intervento educativo nell'età adulta sia nello sviluppo dell'associazionismo, sia
nelle associazioni, sia nelle istituzioni educative e culturali pubbliche, e per la creazione di tali
strutture.
L'educazione degli adulti si inserisce nell'ambito del controllo operaio, nella tensione al
controllo sociale, che caratterizza il movimento democratico e popolare nei confronti degli effetti
plurimi, complessi, mistificati degli attuali rapporti di produzione, della distribuzione del potere,
dell'organizzazione classista, funzionale alla proprietà privata dei mezzi di produzione, e delle
caratteristiche che tali effetti assumono nel luogo di lavoro, nella scuola, nell'uso degli strumenti
pubblici di comunicazione, nella scienza e nella tecnica, nella vita quotidiana.
Un controllo sociale che equivale — nelle diverse occasioni, fasi, zone — alla difesa degli
interessi immediati delle classi popolari, alla tutela delle libertà democratiche sempre rimesse in
discussione e rosicchiate, alla salvaguardia delle istituzioni conquistate con la lotta antifascista
e con la Resistenza, alla costruzione di organismi associativi in grado di affrontare il senso
gerarchico e verticistico ereditato dalla vecchia cultura, alla elaborazione dei fondamenti di una
società basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e, per quanto ci riguarda, di
formazione.
449
«Non già — continua Cerroni (U. Cerroni, Istituzioni e partiti nella Repubblica probabile, in «Rinascita» 34, 1°
settembre 1972, pp. 21-22) — perché si debba "prefigurare" nel partito l'immagine dello Stato nuovo di domani
(questa è soltanto una vezzosa fantasia da esteti della politica), ma perché lo Stato di domani — il probabile
volto politico dell'Italia socialista — è condizionato proprio dalla crescita odierna del movimento socialista
organizzato».
450
U. Cerroni, Istituzioni e partiti nella Repubblica probabile, in «Rinascita» 34, 1° settembre 1972, p p. 21-22
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Quanto dire, un controllo della classe operaia sulla produzione, sullo scambio, sulla
distribuzione, sul consumo e, ancora, sulla formazione, come sovrastruttura che mai, come in
questi anni — e sempre di più nel futuro —, interagisce — e interagirà — con i rapporti
economici.
O, per meglio dire, che ieri si svolgeva attraverso modi e agenzie (dalla Chiesa alle forme
feudali di dominio) che oggi ci appaiono controllabili; e che attualmente si manifesta attraverso
agenzie, metodi, strumenti che non sempre — o sempre meno — impongono l'assenso con le
armi o con il terrore dell'inferno, ma tendono a farci introiettare la scoperta, il piacere del
consenso.
Organicamente in rapporto con le strutture organizzative del movimento operaio e
democratico che attuano, e tendono a realizzare sempre più incisivamente, il controllo sociale
sulla produzione — e su tutti i momenti all'interno della globalità produttiva —, l'educazione
degli adulti si è proposta, e intende realizzare sempre più intensamente ed estensivamente, un
controllo sui processi formativi.
Intendiamo sottolineare l'esigenza di una estensione dell'intervento di educazione degli
adulti nel senso che non bisogna attribuire tale responsabilità solo all'intervento educativo in
senso stretto delle associazioni, degli enti, degli organismi operanti nel settore.
È necessario, a nostro parere, e ci sembra scaturisca chiaramente dalle precedenti
pagine, che il controllo sulla dimensione educativa della realtà di fabbrica o dello scontro politico
o della più laconica realtà quotidiana venga assunto dalle stesse forze associative primarie (i
partiti, i sindacati).
Di fronte ad una situazione sociale in cui le vie del consenso sono infinite, sarebbe
impropria (e storicamente superata) una delega.
Tanto più che tale delega, affidata piattamente, spingerebbe le istituzioni specializzate a
rifugiarsi nelle vecchie pratiche, magari aggiornate, del «rimedio», dell'educazione degli adulti
settorializzata alla «diffusione culturale», ali'«elevamento della cultura».
Ciò, storicamente, si è già verificato; e non è stato molto utile e produttivo per il
movimento.
Da una socializzazione delle responsabilità dei problemi educativi dell'età adulta, da una
compenetrazione di interventi diretti e indiretti, lo stesso lavoro delle istituzioni più antiche
riceverebbe una spinta al cambiamento, all'adeguamento alle nuove necessità.
Il progetto dell'«educazione permanente», come idea-forza che a livello internazionale ha
messo in movimento le strutture più stanche, si può realizzare seriamente, e come avvio alla
«società dell'educazione», soltanto se l'impegno sui problemi educativi si estende: dalla riforma
del sistema scolastico alla rivoluzione del sistema formativo.
Sembrano parole grosse, queste; ma, come abbiamo visto451, se le stesse strutture
dominanti sono pronte o obbligate a cambiare tutto pur di non modificare nulla, forse la miglior
difesa è ancora una volta l'attacco. Ma una offensiva che — appunto — deve essere
complessiva per avere speranze di vittoria.
Non è un compito facile questo controllo sociale sulla formazione; non si tratta di un
aumento di salario o dell'approvazione di una legge di cui è immediatamente valutabile la
portata. I risultati si vedono alla distanza; talvolta relativamente ravvicinata (ad esempio, l'esito
del referendum sul divorzio, evento sul quale è necessario insistere proprio per le valenze
educative e gli insegnamenti che contiene), talaltra distanziata, ed estremamente distanziata,
tanto da far perdere perfino le tracce (la partecipazione ad una manifestazione, un articolo di
Gramsci, una poesia di Brecht, la discussione in un'assemblea; o, per converso, una
trasmissione televisiva, uno scontro tra amici che non abbiamo compreso) dell'influenza
educativa sui nostri atteggiamenti e comportamenti attuali. Ma proprio questa difficoltà
comporta un maggiore sforzo; perché è in queste angustie che s'inserisce di prepotenza
l'influenza delle forze economicamente prevalenti.
451
Cfr. il capitolo «La scuola nel rapporto tra produzione e formazione».
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Per riflettere, analiticamente, sulle difficoltà relative al controllo sociale della formazione,
sarebbe sbagliato — a nostro avviso — esaminare partitamente: da una parte il controllo
sociale sui processi formativi in atto nelle realtà non direttamente formative; e, dall'altra, il
controllo sociale sulle strutture, occasioni, strumenti direttamente formativi.
Si tratterebbe di una distinzione comoda, ma schematica, nella misura in cui abbiamo
acquisito che esiste ed opera un «intrinseco rapporto» tra «scuola dell'adulto» e «società
educante» (usiamo la dizione in senso fenomenico).
Una analisi fondata può essere iniziata e incrementata in relazione ai problemi di
gestione dei processi formativi, nella dialettica che — anche in tale momento — oppone forze
dell'innovazione e forze della conservazione, nella lotta che impegna i due fronti nella gestione
del senso educativo delle realtà formative di fatto (nella fabbrica, nell'ambiente), e di quelle
formative per principio (nella scuola, nella biblioteca). Il problema, infatti, non è di andare a
scoprire se una determinata realtà contenga o non contenga valenze educative, ma rilevare di
quale segno sia la realtà educativa operante, per realizzare un effettivo controllo sociale.
Per noi operatori culturali, è di primario rilievo riscontrare le direzioni della realtà
formativa di fatto; e non solo perché è quella che meno conosciamo, ma, soprattutto è quella
che è più ricca d'insegnamenti per comprendere il rapporto tra agenzie del potere ed
educazione.
Ci riferiamo, in primo luogo, alla realtà di fabbrica dove non rinveniamo mai il bengodi
pedagogico che talvolta elaboriamo per la scuola o per la biblioteca; ma l'incarnazione degli
scontri che ci viene chiesto — normalmente — di lasciar fuori dell'istituzione formativa, per non
turbare, magari, il commercio di una cultura disinteressata, per ragionare in modo distaccato
dalle passioni sociali del tempo.
L'educazione degli adulti, nata nel mondo del lavoro, deve tornare al lavoro. In due
accezioni. Innanzi tutto per iniziativa delle strutture operaie (Consigli di fabbrica, Consigli di
zona, sindacati) allo scopo di far emergere più nitidamente le valenze educative della
organizzazione del lavoro, come dire allo scopo di approfondire la conoscenza dei modi di
formazione della coscienza operaia sul posto di lavoro e acquistare forza non solo nella lotta
per il controllo della produzione, ma per la gestione dei processi formativi che l'organizzazione
scientifica padronale tende continuamente a recuperare per poter imporre, nel modo meno
percepibile, nuovi processi di produzione (e nuovi processi educativi).
Non alludiamo al comportamento del capitalismo meno agguerrito che ricorre al «lavoro
nero» delle prestazioni a domicilio e straordinario o alla costituzione di aziende di comodo che
lavorano su commessa.
Ma a quello che pratica, nei modi più aggiornati, le «relazioni umane» (quelle relazioni,
cioè, tra operai e padroni «non regolamentate e che cosi assumono un carattere morale e
psicologico»452), con tendenza — molto debole finora in Italia — a realizzare modelli svedesi: la
fabbrica Volvo di Kalmar, un modello di persuasione per gli operai ad accontentarsi di livelli più
alti di razionalizzazione nel mercato della forza-lavoro e nell'uso intellettuale di tale forza.
Nei confronti di tali propensioni — che vanno interpretate come risposte padronali alle
nuove forme di lotta, «finalizzate alla ricostituzione di un potere di controllo ed in definitiva alla
riaffermazione alla supremazia, anche ideologica, della classe dominante»453, è utile tener
conto che tutte le azioni innovative del padronato nel campo della ricerca, delle nuove
tecnologie, dei mutamenti nella divisione del lavoro rifluiscono, nella formazione o hanno, come
denominatore comune, la formazione.
Non a caso proprio in questo settore base, vengono rilevate454 diverse iniziative: nel
settore privato, l'istituzione di centri aziendali per la formazione dei quadri (nella Fiat, nella
Olivetti, nella Montedison, nella Pirelli) e iniziative di formazione su problemi aziendali (Iseo,
452
N. Bogomolova, La théorie des «relations humaines»: instrument idéologique des monopoles, Mosca, Éditions
du Progrès, 1974, p. 4
453
F. Chiaromonte, Sta già crescendo un'avanguardia operaia?, in «Rinascita», 15, 12 aprile 1974, pp. 12-13.
454
F. Chiaromonte, Sta già crescendo un'avanguardia operaia?, in «Rinascita», 15, 12 aprile 1974, p. 13.
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Cegos, Forrad); nel settore a partecipazione statale, lo sviluppo dell'Ifap per le aziende Iri e la
ricostituzione dello lafe dell'Eni.
Strettamente collegata alla formazione, la ricerca, sia nel settore privato, come in quelli
della partecipazione statale e pubblica, dove si riscontra il potenziamento di uffici per le ricerche
di sociologia del lavoro, per lo studio delle «nuove forme» di progettazione e di organizzazione
del lavoro, di insegnamenti riguardanti i problemi dell'organizzazione del lavoro, dei conflitti
industriali.
Se è vero, come sottolinea Chiaromonte, che «la forza-lavoro che il capitale utilizza in
questi istituti (gli intellettuali che gestiscono queste attività) sta in una sua parte consistente
rifiutando un ruolo di subordinazione e quindi di semplice trasmissione delle ideologie
capitalistiche per rivendicare una propria autonomia scientifica e scoprire in tal modo la
necessità di un proprio collegamento organico con la classe operaia» e, quindi, si verifica che
«la cultura aziendale e organizzativa che questi intellettuali trasmettono ai quadri è spesso un
fatto di demistificazione e di "crescita politica" in senso lato»455, è anche fondata la necessità,
come aggiunge Chiaromonte, che «il sindacato eserciti un attento controllo per evitare che la
"doppia valenza", caratteristica di queste tecniche organizzative, si risolva in un vantaggio per il
padrone»456.
Nell'esercizio di questo controllo — che andrebbe intensificato non solo, o non tanto, nel
momento isolato della formazione, quanto sui rapporti tra formazione e applicazione di nuove
tecnologie, tra formazione e mutamenti nella divisione del lavoro, cioè sugli effetti della
formazione nella realtà produttiva di fabbrica — l'utilizzazione dell'educazione degli adulti, del
suo patrimonio come del nuovo e diverso da costruire sulle passate esperienze, è un elemento
da considerare.
Nel senso, ci sembra, che questo concetto e questa pratica potrebbero contribuire a
rovesciare l'uso «aziendale» della sociologia, della psicologia e, in generale, delle scienze
umane, disvelandone la reale funzione educativa.
L'educazione degli adulti, insomma, anticiperebbe i risultati applicativi degli studi sulle
risorse umane o sui conflitti opponendo sia una cognizione degli effetti strumentalmente
formativi, sia pratiche di risposta educativa agli studi commissionati dalla parte padronale.
La seconda accezione dell'auspicato e indispensabile ritorno dell'educazione degli adulti
alla realtà del lavoro riguarda gli operatori culturali.
Oltre agli insegnamenti generali ricavabili dalla realtà della fabbrica, dobbiamo tener
conto di alcuni aspetti educativi della condizione operaia, particolarmente significativi per noi.
Ci riferiamo al rapporto tra defraudazione dell'intellettualità e riappropriazione della
socialità che opera nella produzione industriale.
Per spiegarci, da una parte abbiamo l'assoggettamento alla macchina, le mansioni
ripetitive, le operazioni parcellizzate, la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale con
tutte le caratteristiche dequalificanti ben note che privano l'operaio dell'intellettualità del suo
lavoro quotidiano e, alla lunga, non possono non incidere sulla sua personalità.
Dall'altra, la situazione di fabbrica connette le «unicità» di pensiero degli operai e, su
questa base, induce a trovare interessi comuni, a definire obiettivi generali, a superare le
individualità, ad accettare la diversità di scelte politiche, e, in breve, tende a stabilire posizioni
unitarie.
Per comprendere il rilievo, per noi, formativo, di tale rapporto basti pensare che in
nessuna situazione della vita quotidiana esterna alla fabbrica si trova una defraudazione della
nostra intellettualità somigliante a quella operante nella condizione operaia quotidiana.
Basti ricordare che stati felici di spinta alla socialità, pari a quelli agenti nella pratica
collettiva della fabbrica, si incontrano nella società esterna soltanto in occasione di inondazioni,
di terremoti, di calamità naturali.
455
456
F. Chiaromonte, Sta già crescendo un'avanguardia operaia?, in «Rinascita», 15, 12 aprile 1974, p. 13
F. Chiaromonte, Sta già crescendo un'avanguardia operaia?, in «Rinascita», 15, 12 aprile 1974, p. 13
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Per noi il rapporto tra il lavoro intellettuale e la socialità normalmente si presenta in
termini integrati; mai in termini così intensamente oppositivi.
Talvolta, nei momenti particolarmente fervidi di attività, riteniamo addirittura di essere
riusciti a superare condizioni strutturali, e possiamo perfino giungere a ritenere lenta e
impacciata l'azione operaia rispetto alle esigenze del momento che appaiono cosi «chiare».
Un ritorno alla realtà del lavoro, dunque, significa, per noi operatori culturali, ritoccare la
terra, cioè liberarsi di facili illuminismi, individuare interventi concreti per contribuire alla
modificazione, tenendo conto delle predominanze negative e delle potenzialità, del rapporto
conflittuale tra le une e l'altra, dell'intenso impegno per realizzare una gestione del senso
educativo di questa lotta. Ma, soprattutto, dell'importanza di operare per «lo sviluppo
intellettuale della classe operaia», affinchè, nel mondo dove il valore della socialità è cosi
elevato, agisca un'intellettualità pienamente liberata dalle pratiche di defraudazione della parte
intellettuale del lavoro.
Per un incremento della gestione sociale del senso educativo della realtà formativa di
fatto, il prioritario riferimento al lavoro non esclude quello all'ambiente extralavorativo.
Postula, anzi, un incremento anche in questo ambito, una revisione dei modi di controllo
normalmente effettuati. Una correzione indispensabile, dopo il Referendum sul divorzio.
Bisogna tener conto che, dopo aver subito l'amministrazione delle scomuniche in tempi
non troppo lontani (quella contro il Comunismo; quella del vescovo di Prato), nonché quella
delle condanne all'indice (nel '50 quella de La pelle di C. Malaparte; nel '52 quella delle opere di
A. Moravia), nonché i vari moniti, richiami, notificazioni su questioni etiche, era la prima volta
che la popolazione italiana veniva chiamata a pronunciarsi democraticamente su un problema
morale e civile.
Ed era la prima volta che s'ingaggiava una battaglia aperta tra i grandi schieramenti
politici e culturali, venti anni dopo (1954) la proposta alla Camera del «piccolo divorzio»
presentata dal socialista Sansone.
Mentre la destra dello schieramento aveva sempre praticato questi ambiti, ma in modo
gerarchico e mistifica-torio dei problemi strutturali (basti ricordare la « Chiesa del silenzio» o
l'uso strumentale della «libertà»), la sinistra affrontava per la prima volta, e in quanto tale, una
questione legata alla gramsciana «riforma intellettuale e morale».
Si comprendono, quindi, le sottovalutazioni, gli scetticismi, le difficoltà nel muoversi su un
terreno non sconosciuto idealmente, ma mai esperito concretamente.
Tali elementi di perplessità, poi travolti da un'opinione pubblica matura e responsabile,
tradiscono, come dicevamo, la necessità e l'urgenza di rivedere i modi di controllo sulla
gestione del senso educativo della realtà formativa di fatto.
È evidente che, se nel passato vi fosse stata una prevalenza della sinistra nella gestione
in parola, la lotta su opzioni etico-civili, il muoversi complesso tra i mores di una popolazione
fortunatamente non ancora ridotta all'uniformità culturale, avrebbero avuto un andamento
basato sul calcolo più preciso delle possibilità e delle difficoltà, e meno affidato ad un rischio
non valutabile.
Probabilmente, la percentuale dei «si» (ammontante a ben 13 milioni di cittadini) sarebbe
scesa a quote meno preoccupanti.
Da qui, la riflessione sul contributo che l'educazione degli adulti potrà offrire per
incrementare nella vita quotidiana — non solo nei momenti alti delle lotte e dei confronti
elettorali — il potere popolare di gestione del senso educativo della realtà formativa di fatto.
E le prospettive di una rinnovata educazione degli adulti che svolga i suoi discorsi ispirati, già da anni, ad una visione moderna della cultura —, in una dimensione non solo meno
ristretta di quella usualmente accordatale o assegnatale, ma in una qualità politica rispondente
al rilievo assunto, nella fase di sviluppo della nostra società, dai problemi culturali nelle loro
interrelazioni con quelli strutturali.
Non si tratta, infatti, di fronte al prorompere di tali problemi ed al loro accentuarsi nei
prossimi anni (si ipotizza, ad esempio, che negli anni '80 la popolazione italiana impegnata, nei
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diversi ruoli, nella scuola ammonterà a 17 milioni di persone; proviamoci ad immaginare gli
effetti dello sviluppo dei mezzi di comunicazione: dall'uso dei videoregistratori alla televisione
via cavo), non si tratta — dicevamo — di spostare l'attenzione dai temi strutturali a quelli
culturali, come incliniamo spesso a fare noi operatori, trascinati dal nostro settorialismo.
Ma di considerare il nesso tra sviluppo (o crisi) delle forze produttive e sviluppo (o crisi)
nella gestione del senso educativo della realtà formativa di fatto.
Ci sembra da sottolineare, ad esempio, quanto notava G. Mori457 a proposito di alcune
posizioni degli inizi del secolo (quando P. Chiesa e G. Murialdi, ad es., scrivevano che «non
dalla rovina e dallo sfacelo della produzione capitalistica deve uscire la nuova società, ma dal
suo completo sviluppo e perfezionamento»; e, da qui, l'ovvia constatazione della necessità di
essere molto prudenti nella proclamazione degli scioperi per evitare che essi rallentassero
quello sviluppo e quel perfezionamento: «...Per noi questa condizione - la possibilità economica
di concedere i miglioramenti richiesti da parte dell'industria — è indispensabile per promuovere
qualunque agitazione...»458).
Queste posizioni — scriveva Mori —, non tenevano sufficientemente presente « che
quello sviluppo avrebbe significato certamente il rafforzamento delle condizioni oggettive per il
passaggio al socialismo cosi come il loro Marx sembrava dettare, ma che, nel suo divenire,
esso avrebbe anche generato e consolidato sovrastrutture di tipo e di complessità tali
(rafforzamento dello stato e del suo apparato burocratico, di prevenzione e di repressione, da
utilizzare in direzione opposta, penetrazione di ideologie estranee in strati di lavoratori di
variabile ampiezza e loro conquista di notevoli gruppi di intellettuali, nascita di aristocrazie
operaie, ecc.) da creare ostacoli e da innalzare barriere più solide, proprio perché più flessibili,
all'avvento del socialismo»459.
Per non ripetere errori dell'epoca giolittiana, si impone per l'educazione degli adulti la
considerazione del rapporto tra sviluppo (o crisi) delle forze produttive e andamento della lotta
ideale per la conquista dell'egemonia nel controllo dei processi educativi, sia nella realtà
formativa di fatto, come nelle realtà formative per principio (scuola, strutture culturali).
Una battaglia che, se per i risultati si valuta nelle lunghe distanze, per il suo svolgimento
deve essere considerata nella continuità dell'impegno giornaliero, nella coerenza metodica delle
occasioni formative da predisporre in alternanza a quelle di segno conservativo, nell'abbandono
delle illusioni che soltanto i momenti intensi producano passi avanti, nell'acquisita certezza che
tali momenti non nascono dal nulla e dalla spontaneità, ma dalla preparazione e
dall'organizzazione, dall'esercizio pratico della gestione della formazione, entro e fuori del
movimento operaio, in relazione all'espansione (o alla crisi) del sistema economico.
Dobbiamo riferirci all'esercizio pratico dell'educazione degli adulti perché talvolta sembra
di rilevare un distacco tra il modo in cui le scienze dell'educazione oggi tendono a prevedere e a
valutare i processi educativi nell'ambito delle istituzioni formative460, e il modo in cui
l'educazione degli adulti affronta i propri compiti, sia nella realtà educativa di fatto che in quelle
formali.
In relazione al primo ambito, si percepisce talvolta un situarsi dell'educazione degli adulti
analogo a quello che Gobetti rilevava nel Vico il quale «deve accontentarsi di risognare il
mondo della praxis intuito da Machiavelli e, non trovando eco alcuna nella realtà, deve rifuggire
dalla politica e votarsi a una elaborazione ascetica di concetti storici»461.
457
G. Mori, L'industria toscana fra gli inizi del secolo e la guerra di Libia, in La Toscana nell'Italia unita. Aspetti e
momenti di storia toscana, 1861-1945, Firenze, Unione Regionale delle Province Toscane, 1962, pp. 316-317
458
P. Chiesa e G. Murialdi, L'organizzazione economica del proletariato industriale, in «La critica sociale», a. XII,
1902, pp. 309-310.
459
G. Mori, L'industria toscana fra gli inizi del secolo e la guerra di Libia, in La Toscana nell'Italia unita. Aspetti e
momenti di storia toscana, 1861-1945, Firenze, Unione Regionale delle Province Toscane, 1962, pp. 316-317
460
E, in relazione allo «sfondo sociale del problema», cfr. A. Visalberghi, Misurazione e valutazione nel processo
educativo, Milano, Edizioni di Comunità, 1955, pp. 19-28
461
P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Torino 1964, p. 13
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Tradizione, certo, nobile; ma non corrispondente alle necessità e alle possibilità reali,
nelle quali non l'eco, ma un solido blocco politico è in grado di opporre all'educazione naturale
(di fatto) una educazione volontaria, alla perpetuazione monosensica dell'educazione
un'articolazione innovante, alla magia delle intuizioni educative una consapevolezza sempre più
concreta.
Tale «elaborazione ascetica» non è relativa a «concetti storici», ma a pseudoconcetti
ricavati dalla psicologia, dalla sociologia, dall'antropologia culturale, con noncuranza rispetto
alle acquisizioni di tali discipline, e con propensione a mitizzarne alcune tematiche; sicché
sembra di poter constatare che il loro uso, invece di aprire nuovi orizzonti, chiuda l'educazione
degli adulti in un mondo dell'arbitrario, dell'incognito, dove la gestione del senso educativo non
diviene sociale, ma rimane strettamente individuale.
Un esercizio pratico dell'educazione degli adulti -dobbiamo ricavare da queste
considerazioni — è tale quando è compiutamente attrezzato, quando predispone gli elementi di
una verifica e di una ripetibilità, in altre parole quando è premunito di una apparecchiatura
scientifica.
Nonostante, insomma, le difficoltà in cui, oggi, naviga l'educazione degli adulti per la
mancanza di rapporti precisi e previsti con le scienze umane, non dobbiamo abbandonarci nella
condizione tradizionale di povertà dell'educazione degli adulti, situazione che in Italia ha
impedito — non a caso — la nascita di centri di studio e di ricerca su tali connessioni462.
Ad es., quando riteniamo che un esercizio pratico possa di per sé coprire le carenze in
atto, copriamo con la nostra buona volontà una realtà inequivocabilmente politica, e non
dobbiamo «rifuggire dalla politica», cioè dalla denuncia aperta della situazione.
Dobbiamo porre in rilievo — in ogni occasione — che le prospettive dell'educazione degli
adulti dipendono anche dal modo e dall'intensità con i quali passeremo, in generale, da un
lungo esercizio pratico ad un possesso scientifico della nostra pratica.
Ad es., se riteniamo, giustamente, che «uno dei migliori servizi che l'educazione possa
rendere alla società ed agli adulti è di insegnar loro a organizzarsi in gruppi ed a agire
efficacemente attraverso di essi», non possiamo replicare che «tuttavia è questa una delle
molte cose che si imparano, ma non possono essere insegnate» e, inoltre, che «la soluzione
perciò sarà che l'educatore aiuti gli adulti ad organizzare dei gruppi...»463.
Perché, soprattutto, ciò equivale a rendere sempiterna la figura magica dell'operatore
culturale, dando per certo una impossibilità d'insegnamento di metodi e tecniche
dell'educazione degli adulti.
Abbiamo percorso i problemi relativi alla realtà formativa di fatto, cercando di enucleare
le difficoltà e le potenzialità nella gestione del senso educativo operante nelle diverse realtà, e,
principalmente, nel lavoro.
Già occupandoci dei problemi della scuola, delle istituzioni culturali pubbliche, degli
strumenti di comunicazione abbiamo esaminato le questioni specifiche ai singoli terreni di
lavoro.
Dobbiamo, ora, riesaminare globalmente tali campi, ponendoli unitariamente in relazione
con i problemi di gestione dei processi formativi, e con la battaglia politica quotidiana che si
svolge nella nostra società tra forze dell'innovazione e forze della conservazione.
Come abbiamo precisato, la nostra analisi deve svolgersi alla luce di questa dialettica, e
non rispetto a suddivisioni di comodo.
462
Secondo A. Leon, la «psicopedagogia degli adulti» (della quale si occupa nel libro omonimo, Roma, Editori
Riuniti, 1974) «rappresenta oggi un insieme piuttosto eterogeneo e piuttosto sconcertante, sia sul piano teorico
che sul piano metodologico e pratico» (p. 179); ciò è dovuto anche al fatto che «lo studio sistematico delle
capacità intellettuali degli adulti risale a un passato relativamente recente. Infatti i primi tests per adulti (army
alpha) sono stati applicati nel 1917 alle reclute dell'esercito americano» (p. 77). Sui problemi specifici, cfr. D.
Wechsler, The Measurement of Adult Intelligence, Baltimore, Williams and Wilkins, 1944; ed. francese La
mesure de l'intelligence de l'adulte, Paris, Presses Universitaires de France, 1973.
463
W.C. Hallenbeck, Metodi: tentativo di una definizione, in Unesco, L'educazione degli adulti; tendenze e
realizzazioni, Firenze, Marzocco, 1955, p. 104
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Un riorganizzarsi — teorico ed operativo — dell'educazione degli adulti può scaturire
soltanto da un'ipotesi non meramente funzionale al buon andamento delle istituzioni, ma
correlata alle finalità globali del movimento operaio e specifiche degli organismi culturali.
In particolare, una organizzazione dell'educazione per l'età adulta rispondente alle
prospettive deve ricavare il proprio volto dalle risultanze di ricerche storiche, dall'analisi dei
problemi dello spazio formativo in cui l'adulto attualmente si trova, da un progetto generale,
anche utopico, cui riferirsi, emergente dalla volontà di modificare le strutture formative
dominanti.
Se la lettura dei problemi strutturali e culturali dell'educazione degli adulti risultasse
utilizzabile, almeno per suggerire altre direzioni di ricerca, dovremmo, subito, porre le basi —
anche legislative — per garantire la possibilità del lavoro teorico e pratico.
Essendo l'educazione degli adulti strettamente legata alla società — vogliamo dire alle
minime perturbazioni del clima politico — senza una certezza conquistata di poter operare, ogni
auspicabile approfondimento nel campo teorico, e tanto più nel campo pratico, sarebbe
seriamente compromesso.
Soltanto allo scopo di saperci muovere con qualche sicurezza in una materia
estremamente complessa (sia allo scopo di acquisire nuove possibilità, sia al fine di confermare
quelle esistenti), tentiamo di indicare quelle che per noi sembrano essere le premesse di cui
tener conto.
Definire i presupposti dai quali possono scaturire le direzioni del nostro lavoro, significa,
per un verso, enucleare le basi costituzionali sulle quali tendere alla realizzazione dei diritti
educativi dei lavoratori; e, per l'altro, estrarre dall'esame dei problemi e del processo storico le
costanti di sviluppo di questo intervento, le sue basi formative.
Quale può essere, attualmente, una chiave di lettura, dal nostro punto di vista, del dettato
costituzionale?
Non certo quella della distinzione tra «norme programmatiche», «norme precettive di
applicazione immediata» e «norme precettive di applicazione differita», che esulerebbe dalle
nostre zone d'interesse; ma, diremmo, quello della valenza educativa che scaturisce da questa
stessa distinzione: la necessità della crescita di una forza dei lavoratori per rendere meno
differite, più immediate e non soltanto programmatiche le norme di una Repubblica «fondata sul
lavoro».
Ma in che rapporto è tale crescita con l'articolazione delle norme costituzionali che,
stabilendo diritti e doveri dei cittadini, nei rapporti civili, etico-sociali, economici e politici,
riconoscono diritti fondamentali: la libertà personale, di riunione, di associazione, di
espressione?
Il rafforzarsi del movimento educativo tendente allo «sviluppo intellettuale della classe
operaia» trova, innanzi tutto, in queste conquiste democratiche, le sue possibilità, almeno
formali, di esplicitazione; nello stesso tempo, il «compito della Repubblica» di «rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica e sociale del Paese» (art. 3) presenta un riferimento
programmatico preciso per l'educazione degli adulti.
L'articolazione di tali diritti e di tale «compito» si svolge oggi in un quadro di riferimento in
cui domina un «nuovo tipo di autoritarismo», rispetto al quale emergono linee di lavoro
complessive. In un'analisi di cui possiamo riferire solo i termini essenziali, ma alla quale
rinviarne, A. Minucci464 tende a individuare, come scaturente dallo scontro a livello anche
internazionale, un caratterizzarsi della rivoluzione «essenzialmente come unità, come azione
rivolta a esprimere e a radicalizzare la spinta all'unità già presente nei processi sociali».
Insomma, se «nel suo primo mezzo secolo di espansione il movimento rivoluzionario si è
caratterizzato essenzialmente come rottura del processo storico reale quale si è venuto
464
A. Minucci, L'egemonìa della classe operaia, in «Rinascita», 9, 26 febbraio 1971, pp. 29-31
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configurando nelle società più arretrate, oggi, nella misura in cui pone l'esigenza di investire le
società capitalistiche più mature», l'individuazione di una spinta unitaria presente nel « processo
storico di rivoluzione sociale» permette di «innestare la "partecipazione cosciente", l'azione
politica dell'avanguardia rivoluzionaria, nel movimento più profondo e oggettivo delle forze
produttive».
Ciò significa, spiega Minucci: «far corrispondere alla socializzazione del lavoro, della
produzione, dei processi sociali in genere, una socializzazione della vita politica e delle
decisioni in cui essa si esplica: vale a dire, un'espansione continua e capillare della
"partecipazione" delle masse e della democrazia.
È in questa fase, appunto, che la democrazia diviene il terreno stesso dell'azione
rivoluzionaria»465.
In riferimento a queste tendenze socializzanti, la razionalizzazione capitalistica non
sarebbe «altro che un processo di unificazione-disgregazione, attraverso il quale distorce lo
sviluppo nell'atto stesso in cui lo determina»; esemplificando, Minucci cita l'introduzione della
scienza nella produzione e la «scuola di massa»; ma, nota, che «in tutti i settori il capitalismo
risponde a una domanda oggettiva di consumo sociale esasperando la "socializzazione"
mistificata dal consumo privato».
Le conseguenze del fatto che «il capitalismo è "costretto" a creare le premesse del suo
superamento, mentre avverte più acuto il pericolo che i processi di sviluppo e le spinte all'unità
comportano per la sua stessa sopravvivenza» appaiono particolarmente interessanti per i
processi di inclusione di tale andamento.
Dalla «sfasatura» storica con i processi effettivi, deriva — per Minucci —
«l'accentuazione del carattere artificiale del dominio monopolistico.
Il generalizzarsi dell''autoritarismo su tutta la sfera dei rapporti sociali non» sarebbe
«altro che il tentativo di ricomporre "artificialmente" tale sfasatura»; «l'alienazione capitalistica—
scrive Minucci — non si presenta più nella forma classica di esclusione della personalità del
lavoratore dal processo produttivo e sociale, ma tende a tradursi in una inclusione forzata
dell'operaio, e più in generale dell'uomo, in un processo che pure continua intimamente a
escluderlo.
Questo nuovo tipo di autoritarismo, tuttavia, diviene più vulnerabile nell'atto stesso in cui
si generalizza.
Un movimento politico della classe operaia, che sappia imporre uno sviluppo costante
della democrazia, demistifica e mina alla base il meccanismo del dominio monopolistico»466.
Nei limiti politici della propria iniziativa, il movimento di educazione degli adulti trova nel
rapporto tra il dettato costituzionale, le tendenze oggettive alla «socializzazione dei processi
465
A. Minucci cita un passo di Stato e rivoluzione (scritto nel 1917,nell'immediata vigilia della Rivoluzione d'ottobre)
nel quale Lenin nota che «in una macchina più democratica», «la "quantità" si trasforma in "qualità"; arrivata a
questo grado, il sistema democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a svilupparsi verso il
socialismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato, il capitalismo non può più
mantenersi. E lo sviluppo del capitalismo crea a sua volta le premesse necessarie a che "tutti" effettivamente
possano partecipare alla gestione dello Stato...». Tra queste premesse, Lenin cita espressamente «l'istruzione
generale». Cfr. Lenin, Stato e rivoluzione, in Opere, vol. XXV, 1967, pp. 443-444; ovvero Stato e rivoluzione,
Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 176-177.
466
Minucci trae dalla propria analisi alcune considerazioni relative alla funzione del partito che interessano
l'educazione degli adulti nel partito, come problema del rapporto tra partito e processi educativi: «Ecco perché
l'avanguardia rivoluzionaria — il partito — tende sempre più ad assumere come proprio compito essenziale
quello di stimolare, promuovere e guidare la partecipazione consapevole delle masse alla lotta politica e alla
costruzione di una più vasta e articolata vita democratica. Il fatto che la collocazione attuale della classe operaia
nel processo di sviluppo delle forze produttive non si traduca più, necessariamente, in una spontaneità di
contenuto "tradeunionista" o puramente economico-sindacale, ma al contrario postuli una saldatura tendenziale
tra spontaneità e partecipazione rivoluzionaria, rende più immediato e organico il nesso tra l'azione del partito
volta a cogliere tutte le spinte e le autonome articolazioni della società, e il suo ruolo di sintesi unitaria, di
"coscienza esterna" ai processi oggettivi (intesa, questa, ultima, come elemento di direzione formatosi
nell'accumulazione critica delle esperienze storiche, nell'analisi marxista della società e della storia» (ivi, p. 31).
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sociali», il proprio impegno storico allo «sviluppo costante della democrazia» i presupposti per
la propria azione, in termini, vorremmo dire, di socializzazione della realtà educativa, di controllo
sociale sulla gestione del senso educativo delle occasioni formali e informali.
Riprendendo il tema dell'associazionismo — inteso quale compito primario
dell'educazione degli adulti — esaminiamo come si pongono questi presupposti in relazione a
questo campo specifico d'intervento.
Da tale analisi possono scaturire, a nostro avviso, le determinazioni da assumere rispetto
ai problemi di politica culturale dello Stato.
Come si deduce dall'analisi citata, se il capitalismo è «costretto» a creare le premesse
del suo superamento — e cioè, nel nostro campo, oltre all'«avvento di una scuola di massa»,
anche la realizzazione di strutture culturali di massa «per accelerare e unificare il processo di
formazione della forza-lavoro» —, si tratta, per un verso, di sollecitare questa realizzazione, e,
per l'altro, di attrezzarsi per controllare il senso educativo agente nelle nuove strutture,
attraverso «uno sviluppo costante della democrazia», appoggiato sul dettato costituzionale. In
altre parole, si tratta di imporre lo svolgersi compiuto di un processo in fieri, attraverso un
intervento che non si concluda nell'«inclusione forzata», ma che si sviluppi nella valenza
educativa democratica di questo impegno, oltre l'occasione stessa di tale impegno.
Un esempio, a nostro parere, indicativo di questa problematica è rinvenibile nelle vicende
della «Biennale» veneziana, almeno fino agli attuali (agosto 1974) sviluppi. In questo caso, una
infrastruttura culturale rispondente ad una realtà sociale ed economica di altre epoche (basti
ricordare le sue origini di epoca fascista; la sua promozione ad opera del capitalismo dell'epoca)
risulta, rispetto ai processi di sviluppo della penisola, un cadavere che sopravvive a se stesso,
ma non si decide a morire; la contestazione delle associazioni democratiche (dall'Anac ai
Sindacati) accelera e consacra una fine ingloriosa; nella ricostituzione, l'infrastruttura non solo
deve tener conto dell'ideologia antifascista e democratica, ma deve acquisire una funzione non
più elitaria, aperta ai problemi di un nuovo pubblico; in tal modo — a prescindere dai futuri
andamenti della Biennale — si afferma e si socializza un discorso come quello del pubblico che,
anteriormente, risultava essere limitato ad alcuni settori dell'educazione degli adulti, e, in
particolare, alla Federazione Italiana dei Circoli del Cinema.
Evidentemente, la battaglia per la Biennale non termina a questo punto; ma esistono le
premesse per controllare il senso educativo delle sue future attività; e, cioè, una forza
associativa rilevante (dai Sindacati, sempre più attenti ai problemi della cultura, fino alle
associazioni degli autori e degli attori, alle associazioni culturali), capace di gestire socialmente
— in termini sostanziali — le attività di una istituzione pubblica culturale.
Ma, al di là della Biennale, una più generalizzata acquisizione dei problemi del
«pubblico» — acquisizione che noi riteniamo fondamentale per il perfezionarsi e il diffondersi
del lavoro di educazione degli adulti con finalità di «sviluppo intellettuale della classe operaia»
— può agire anche nei confronti di altre infrastrutture.
Non basta, tuttavia, tale acquisizione per la modificazione di altre realtà formative; ciò
che è essenziale è il costituirsi di un movimento associativo intorno a questioni che non
riguardano soltanto una zona e, grosso modo, un periodo, ma l'intero territorio nazionale e la
continuità del lavoro culturale; alludiamo al problema delle biblioteche, che, insieme alle scuole,
costituiscono la base essenziale per i processi educativi.
È storicamente dimostrato che senza un movimento che soggettivamente costringa il
capitalismo a creare le premesse del proprio superamento, prevarrà il ritardo e l'inerzia, per
l'avvertito «pericolo che i processi di sviluppo e le spinte all'unità comportano per la sua (del
capitalismo) sopravvivenza».
Le due esigenze (la costituzione di infrastrutture culturali come «premessa» del
superamento di una società capitalistica; il rafforzarsi dell'associazionismo) devono essere
esaminate attentamente.
Sappiamo che la prima esigenza risponde ad una tendenza oggettiva nell'ambito del
capitalismo maturo e che la seconda emerge soggettivamente dal movimento operaio come
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aspirazione al controllo sociale e alla gestione sociale delle infrastrutture culturali, come
affermazione orientata della «socializzazione dei processi sociali in genere».
Se, quindi, per rispondere alla prima esigenza, è necessario lottare per sollecitare lo
svolgersi di processi tendenziali, per la seconda è indispensabile creare un'articolazione
democratica in grado di far emergere problemi, aggregare gli interessati, andare alla lotta sia
per l'istituzione delle infrastrutture, sia per il controllo del loro senso educativo.
Nel campo culturale — peraltro — le associazioni vivono processi di nascita, di
svolgimento e di esaurimento estremamente complessi; esigono un autocontrollo continuo; un
impegno creativo incessante, rispondente agli interessi mutevoli, e tali, per l'evoluzione stessa
dei processi di consapevolezza all'interno dell'aggregazione, sia a livello individuale che
collettivo.
Esse corrispondono, nella loro mutevolezza, e nella loro molecolarità, ai processi di
modificazione culturale in corso nella più vasta società.
Esse si differenziano, attualmente, dalle strutture associative del movimento operaio non
solo per la diversità di composizione sociale, ma per il legame stretto che partiti e sindacati del
movimento operaio hanno con la situazione strutturale; ed il collegamento organico delle
associazioni culturali con le strutture operaie è indispensabile proprio per questa diversità, e per
l'aderenza strutturale dell'associazionismo operaio.
D'altra parte, le associazioni culturali si sono dimostrate capaci di aggregare le
aspirazioni più diverse, e, in particolare, quelle relative a temi e problemi che, a causa di
precedenti storici vessatori, sono state meno presenti tradizionalmente nelle associazioni
operaie.
Creare e sviluppare, quindi, un movimento associativo rispetto ai problemi delle
infrastrutture culturali, un movimento che estenda e modifichi la propria base sociale, nella
misura in cui i temi culturali divengono — e devono divenire — sempre più materia primaria per
il movimento operaio, significa operare per lo «sviluppo costante della democrazia».
Bisogna, dunque, che il movimento di educazione degli adulti si muova in termini di
politica culturale delle istituzioni pubbliche, sia nel senso di accelerare la costituzione di
infrastrutture culturali nuove, quantitativamente rispondenti allo sviluppo della società, come
nella modificazione di quelle esistenti in senso democratico.
Sia, in modo più preciso e convinto, per la promozione ed il rafforzamento
dell'associazionismo, rivendicando, anche, un sostegno pubblico alle difficoltà di questo lavoro;
esistono precedenti in materia467, e collegamenti analogici ci sembra possano essere trovati
con le recenti norme legislative relative al finanziamento pubblico dei partiti.
Si tratta, inoltre, per il movimento di educazione degli adulti di differenziare l'istituzione di
infrastrutture culturali pubbliche dallo sviluppo dell'associazionismo.
Uscendo dalle ambiguità di precedenti esperienze468, vorremmo si specificasse che
mentre lo strutturarsi come servizio pubblico delle sedi culturali dovrebbe rispondere a esigenze
indifferibili di socializzazione delle conoscenze, — anche come consolidamento delle condizioni
materiali — l'incentivazione dell'associazionismo dovrebbe sviluppare quella realtà pluralistica
che è di fondamentale presenza nella nostra Costituzione.
Nell'articolarsi delle strutture e occasioni oggettive di conoscenza, diffusione, produzione
culturale con una realtà associativa avanzata e pluralistica possono essere risolti problemi
altrimenti destinati ad accavallarsi, a soggiacere alla capacità di controllo conservativo del
senso educativo delle più efficienti infrastrutture culturali. Intendiamo dire che la «promozione
sociale» non nasce dal servizio pubblico, ma dalla capacità delle forze emergenti di affermare e
far prevalere le proprie ragioni economiche ed ideologiche. In tal senso, ribadiamo la nostra
467
468
Ad es., gli stessi contributi del Ministero della Pubblica Istruzione per attività di educazione degli adulti.
Quelle, ad es., nate ambiguamente, come i «Centri di servizi culturali» nel Mezzogiorno, che non sono risultati
essere né strutture culturali di servizio pubblico, né contributi allo sviluppo pluralistico dell'associazionismo
culturale. Cfr. A. Lorenzetto, La scuola assente, Bari, Laterza, 1969, p. 248.
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indicazione a considerare le infrastrutture culturali non in se stesse, ma in relazione al
«pubblico», all'uso che un determinato «pubblico» può realizzare di tali strutture.
Da questa angolazione, l'associazionismo ci sembra essere lo strumento realmente
alternativo per penetrare nei «templi della cultura».
Concludendo, dobbiamo considerare che nell'iniziare queste riflessioni sull'educazione
degli adulti in Italia, non siamo partiti da una definizione.
Non era semplice, e, comunque, non ci sembrava corretto; saremmo stati
inconsciamente indotti a costringere in un guscio di noce una realtà educativa complessiva che
non solo non sarebbe stato possibile ridurre nei confini di vecchie locuzioni, o dell'ovvio, ma che
era necessario tenere presente nelle sue molteplicità per ricavare dal maggior numero di
elementi nuove indicazioni.
Alla resa dei conti, dobbiamo affermare con Laporta che tutta la nostra storia sociale «è
storia non tanto di educazione degli adulti quanto di educazione fra adulti: da essa, dalla
fusione di culture tanto disparate quanto quella dei borghesi passati alla cultura della
rivoluzione, dei credenti passati alla fede nel progresso materiale dell'uomo come premessa alla
sua evoluzione spirituale, dei contadini emersi via via dalla propria incosciente abiezione,
attraverso prospettive di benessere immediato, a valori morali di solidarietà, di responsabilità, di
civiltà.
Da tutte queste forme di cultura, faticosamente elaborata nella coscienza,
sanguinosamente testimoniata nelle piazze, trae origine e motivo anche la nostra azione di
oggi»469.
Da queste constatazioni, emergono non solo il senso e la finalità di un intervento nato
nella «società industriale», ma la necessità di definire l'educazione degli adulti per i compiti che
l'attendono nelle attuali contingenze e nelle prospettive.
Dalla vastità dei temi affrontati e dalle loro articolazioni, si afferma non solo il rifiuto delle
dispersioni e delle confusioni di obiettivi, ma può costruirsi, nel senso più stretto, una definizione
rispondente alle aspirazioni, si possono elaborare strutture adeguate, perfezionare quelle
esistenti, ricercare ed acquisire strumenti e metodi coerenti.
È opportuno, dunque, chiudere con un tentativo di definizione dell'educazione degli
adulti, come un'ipotesi sulla quale lavorare non solo teoricamente, ma nella costruzione di
istituzioni educative, nello svolgimento del nostro lavoro.
Riconducendo ad una sintesi le analisi e le riflessioni precedenti, ci sembra di poter
affermare che l'educazione degli adulti appare oggi, in generale, come un modo di porsi rispetto
ai problemi della mutazione; in particolare, come raffermarsi di un controllo sociale organizzato
sui processi formativi agenti nella società.
Tale manifestazione volontaria e positiva si svolge — e dovrà svolgersi sempre più
intensamente — in uno spazio estremamente articolato: attraverso le istituzioni educative in
senso stretto, formali; e attraverso l'impegno d'intervento specifico nelle altre realtà non
immediatamente e palesemente educative, attraverso un suo realizzarsi negli ambiti più diversi
(dalle condizioni di lavoro alla vita quotidiana).
La molteplicità degli interventi necessari e possibili non deve, tuttavia, farci smarrire
l'unità della visione, e cioè la determinazione ad operare affinchè l'educazione degli adulti, fuori
della gabbia tradizionalista, acquisti sempre maggiore forza nella sua definizione di controllo
sociale organizzato sui processi formativi.
Soltanto dall'acquisizione operante di tale specificazione possono scaturire le possibilità
di appropriazione democratica delle infrastrutture culturali nel loro funzionare (da quelle di
sviluppo a quelle di trasformazione) e un continuo accrescersi di consapevolezza in ogni ambito
e momento.
469
Cfr. Relazione di R. Laporta al VII Congresso dell'Unione Italiana della Cultura Popolare, Bologna, 19-21 marzo
1965; in «La Cultura Popolare», 3, 1965.
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5 Lode dell'imparare di Bertolt Brecht
Impara quel che è più semplice!
Per quelli il cui tempo è venuto non è mai troppo tardi!
Impara l'a b c; non basta, ma imparalo!
E non ti venga a noia!
Comincia!
Devi saper tutto, tu!
Tu devi prendere il potere.
Impara, uomo all'ospizio!
Impara, uomo in prigione!
Impara, donna in cucina!
Impara, sessantenne!
Tu devi prendere il potere.
Frequenta la scuola, senzatetto!
Acquista il sapere, tu che hai freddo!
Affamato, afferra il libro: è un'arma.
Tu devi prendere il potere.
Non aver paura di chiedere, compagno!
Non lasciarti influenzare, Verifica tu stesso!
Quel che non sai tu stesso, non lo saprai.
Controlla il conto, sei tu che lo devi pagare.
Punta il dito su ogni voce, chiedi: e questo, perché?
Tu devi prendere il potere.
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Pagina 182 di 185
7 Indice dei nomi
A
Adorno Th. W............................ 99; 190
Alasia G. .................................... 51; 189
Althusser L. ............................. 100; 187
Angeloni G. ............................. 144; 187
Antioch College................................. 75
Auerbach E. ....................................... 89
B
Badaloni N................................. 10; 144
Bakunin M. ...................................... 156
Balbo ......................................... 91; 187
Bari .4; 89; 92; 124; 153; 184; 187; 188;
190; 191; 192
Baskin S............................................. 75
Baudelaire Ch. ................................... 91
Bauer R...................... 4; 5; 31; 153; 187
Bauman Z. ................. 43; 146; 147; 187
Bebel A............................................ 155
Bechelloni G............................ 124; 187
Belloin G. ................................ 123; 187
Benigni L. .................................. 51; 189
Benjamin W......................... 88; 91; 187
Bergoglio P................................ 51; 189
Berle A. ................................... 111; 187
Berlinguer G. ................... 140; 144; 187
Bernini L............................................ 90
Berthelot M........................................ 46
Biennale........................................... 182
Bini G. ....................................... 65; 187
Bleton P. .................................. 144; 187
Bogomolova N......................... 175; 187
Bologna ......76; 92; 114; 124; 160; 161;
163; 184; 187; 189; 190; 193
Bommensath D. ............................... 152
Bonifacci R................................ 59; 187
Borghi L. ..2; 4; 29; 110; 120; 168; 171;
187
Bourdieu P. ...................... 102; 120; 187
Brecht B............................... 3; 174; 186
Brienza R. ................................ 172; 187
Bucarest (Conferenza di) ............. 7; 159
Burnham J........................................ 111
Chiarante G................................74; 188
Chiaromonte F. ................175; 176; 188
Chiesa A. ...................................51; 189
Chiesa P. ..................................178; 188
Cole G.D.H. .............................157; 188
Comba L.J................................124; 190
Comenio.......................................68; 71
Comunismo..............................163; 177
Comunità Economica Europea...........58
Condorcet M.J.A.N............................90
Conti L.............................................153
Cornell University............................151
Coser L.A.................................162; 188
Costa A. ...............................................4
Credaro L.........................................132
Cristina di Svezia ...............................90
Cuba...................................................85
D
Danimarca............................................4
Dante................................................130
Darbel A. .................................120; 187
Davico Bonino G. ......................94; 188
Davydov J. .......34; 36; 37; 40; 166; 188
De Bartolomeis F. ....................172; 188
De Francesco G.M. ..................117; 188
De Gaulle Ch. ............................91; 112
De Mauro T................................89; 188
De Sanctis F.1; 5; 6; 7; 8; 9; 10; 92; 188
Della Volpe G. 25; 32; 33; 34; 121; 163;
169; 191
Dewey J. .. 5; 6; 8; 9; 20; 68; 75; 76; 94;
110; 136; 188
Diena L. ...................................153; 187
Dimitrov G.......................118; 119; 188
Dolléans E................156; 161; 162; 189
Domenach J. ..............................38; 189
Doutrelant P...............................60; 189
Drago R....................................116; 189
Droz J.......................154; 155; 156; 189
Dubinin N. ...............................145; 190
Dubuffet J. ...............................123; 189
Dumazedier J. ..108; 120; 133; 135; 189
Durkheim E..............................154; 189
E
C
Cafiero ................................................. 4
Cammeo F. .............................. 116; 188
Cantimori Mezzomonti E................... 17
Carlo V .............................................. 90
Carnegie............................................. 75
Cassese S. ................ 116; 117; 118; 188
Cavallaro R...................... 162; 163; 188
Cavour C.B. ............................... 61; 192
Cegos ............................................... 175
Cerroni U. 148; 162; 163; 172; 173; 188
CGIL................................................ 144
Charpenteau J. ......................... 123; 188
Checchi O. ............................... 148; 188
Chevallier J...................... 114; 115; 188
Edison T.A.......................................133
Emilio ..............................................147
Engels F. ...7; 13; 14; 15; 16; 17; 18; 21;
23; 24; 25; 27; 31; 34; 35; 36; 39;
43; 50; 51; 52; 58; 64; 83; 92; 93;
106; 112; 146; 154; 155; 161; 166;
167; 168; 189; 191; 192
Erfurt................................................112
Esposto A...................................59; 189
Fauvet J............................................122
Federbraccianti...........................59; 192
Ferretti G.C. .............................124; 189
FIAT ........................................142; 175
Firenze 5; 20; 49; 76; 90; 95; 96; 97; 98;
99; 101; 102; 103; 104; 105; 110;
116; 120; 133; 136; 156; 178; 179;
187; 188; 189; 190; 191; 192
Foa V. ........................................51; 189
Ford..............................................19; 75
Ford H..........................................19; 75
Fornari F. ...........................................98
Forrad...............................................176
Forte F........................44; 112; 123; 189
Fortunato G. .......................................61
Fourier F.M.Ch. .......152; 160; 161; 189
Francia ....42; 43; 89; 91; 116; 122; 123;
133; 144; 161
Friedmann G. ...........8; 46; 56; 144; 189
G
Garapon R..................................89; 190
Gaudibert P. .............108; 122; 123; 189
Gelpi E. ............................135; 139; 192
Gentile G....................................76; 189
Germania............42; 112; 118; 127; 133
Geymonat L. ............................138; 189
Giannini M.S....................116; 117; 189
Giolitti G. ...........................................43
Giorgi G. ..................................116; 189
Gobetti P. ...........................94; 179; 189
Goethe J.W.........................................92
Goodman P. .......................................71
Gramsci A. . 8; 9; 12; 31; 60; 61; 64; 92;
93; 94; 95; 111; 112; 113; 124; 128;
141; 142; 144; 151; 152; 155; 165;
166; 172; 174; 188; 189; 190; 192
Gran Bretagna .... 16; 31; 55; 71; 89; 91;
112; 144; 157; 161; 187; 189
Graziosi F.........................145; 146; 190
Gruppi L...........................141; 165; 190
Guerra G. .................................142; 190
H
Habermas J.........................89; 137; 190
Hallenbeck W.C.......................179; 190
Hassenforder J..........................120; 189
Hegel G.W.F. .....................25; 148; 155
Heller A. ..............................................7
Hely A.S.M. .........................13; 15; 190
Hennequin E. .....................................92
Herrera F. .................................126; 192
Hitler A. .............................................90
Horkheimer M............................99; 190
Huizinga J. ...........21; 39; 121; 122; 190
Huxley A............................................84
F
I
Fabris G. ....................................98; 189
Falaschi C. .................................42; 189
Faure E.............................................132
Illich I.......................71; 72; 73; 75; 190
ISEO ................................................175
Pagina 183 di 185
Italia4; 5; 11; 20; 30; 42; 55; 58; 61; 76;
85; 90; 91; 92; 94; 95; 96; 97; 98;
99; 101; 102; 103; 104; 105; 107;
110; 111; 112; 114; 116; 118; 120;
123; 124; 125; 127; 128; 132; 136;
148; 153; 171; 173; 175; 178; 179;
184; 187; 188; 189; 191; 192
J
Jervis G.................................... 124; 190
Jouvenel (de) B.................................. 84
Joyce J. ............................................ 130
K
Kaddoura A.R.......................... 126; 192
Kant E.............................. 147; 148; 190
Kotasek J. .................................. 71; 190
Krathwohl D. ........................... 139; 190
Kyòstiò O.K..76; 77; 78; 79; 80; 81; 82;
83; 190
Maserati ...........................................143
Massucco Costa A. ..................148; 191
Mazzini G. .....................................4; 92
Melino M. ................................153; 187
Meucci L..................................116; 191
Mezzacapa D. ..........................153; 187
Mezzogiorno ........................59; 61; 184
Milano.......25; 43; 44; 71; 98; 108; 114;
116; 117; 122; 127; 130; 131; 132;
154; 162; 172; 178; 187; 188; 189;
190; 191; 192; 193
Mills C.W. ...............................111; 193
Minucci A. .......140; 181; 182; 187; 192
Mitterrand ........................................171
Modena ............................................143
Moinot P. .................................108; 192
Moles A. ..........................126; 134; 135
Montedison ......................................175
Moravia A........................................177
Mori G. ....................................178; 192
Moro T...............................................22
Murialdi G. ..............................178; 188
N
L
La Bruyére (de) J. ...................... 89; 190
Labriola A........................................ 141
Lacouture J. ..................... 122; 159; 190
Laeng M. ................................... 71; 190
Laporta R. ................................ 184; 190
Larizza M................................. 160; 189
Lengrand P..... 67; 68; 70; 143; 152; 191
Lenin V.I...17; 23; 24; 36; 95; 113; 138;
155; 156; 167; 181; 191
Leon A. .................................... 179; 191
Leonardo Da Vinci .......................... 159
Levi Arian G.............................. 51; 189
Lewin K. .............................. 9; 127; 191
Libia......................................... 178; 192
Lipset S.M. .............................. 162; 191
Lombardo Radice L. .......... 72; 153; 191
Lopes H. .................................. 126; 192
Lorenzetto A. ........................... 184; 191
Luperini R................................ 124; 191
M
Maheu R. ......................................... 108
Malraux A................................ 122; 123
Manacorda G.23; 31; 37; 47; 51; 52; 53;
54; 62; 151; 154; 155; 167; 169
Mantova............................................. 90
Mao Tse Tung............................ 24; 191
Marcuse H. ...................... 101; 139; 191
Marivaux (de) P.C. ............................ 91
Marshall A. ........................................ 44
Martinazzoli A................................. 132
Marx K. ..5; 6; 7; 12; 13; 14; 15; 16; 17;
18; 21; 23; 24; 25; 27; 31; 32; 33;
34; 35; 36; 37; 39; 41; 43; 44; 46;
47; 50; 51; 52; 53; 58; 62; 63; 64;
65; 83; 93; 94; 95; 96; 97; 98; 99;
100; 101; 102; 103; 104; 106; 112;
113; 121; 130; 131; 137; 140; 143;
146; 148; 154; 155; 158; 161; 163;
166; 167; 168; 169; 172; 178; 187;
190; 191; 192; 193
Napolitano G............158; 171; 192; 193
New York .....20; 49; 75; 111; 139; 187;
188; 190; 192; 193
O
Olivetti .............................................175
Omero ..............................................130
Orwell G. ...........................................84
Osimo A...............................................4
Owen R. .......................................52; 54
P
Pajetta G.C.........................................87
Parigi.17; 67; 68; 69; 70; 71; 89; 90; 92;
108; 114; 116; 120; 123; 139; 179;
187; 188; 189; 190; 191; 192; 193
Partito Comunista Italiano ....13; 14; 15;
16; 17; 18; 21; 23; 24; 25; 27; 39;
52; 87; 125; 153; 167; 191; 193
Passeron J.C.............................102; 187
Pasteur L. .........................................133
Pavlov I.P.........................................133
Peers R.......................................15; 192
Pelloutier M. ....................................156
Petòfi A..............................................91
Petrovski A.V. .........................126; 192
Piccone Stella S. ......................124; 192
Pirelli ...............................................175
Pirodda G...................................92; 192
Pisoni I.......................................49; 192
Pomari F. ...................................98; 192
Prato.................................................177
Progetto 80......114; 122; 123; 125; 126;
192
R
Rago M. .....................................93; 192
Rahnema M..............................126; 192
Reimer E. ...................................71; 192
Richmond W.K. .........................71; 190
Rinaldi D..................................170; 192
Ripellino A.M. ...................................90
Rogers C. ...................................49; 192
Roma.. 5; 13; 14; 15; 16; 17; 18; 21; 23;
24; 25; 27; 31; 32; 33; 34; 35; 36;
37; 39; 43; 44; 46; 47; 50; 51; 52;
53; 54; 58; 59; 62; 63; 64; 65; 68;
71; 87; 90; 100; 108; 114; 121; 122;
126; 135; 139; 142; 143; 145; 146;
147; 148; 151; 154; 160; 163; 167;
168; 169; 170; 172; 179; 181; 187;
188; 189; 190; 191; 192; 193
Romano G. .........................................90
Romano S.........................................116
Rossitto F. ............................59; 60; 192
Rostow W.W....................................111
Rousseau J.J. ....................................163
Rutherford F.J. .........................135; 192
S
Sabbatini M..............................124; 192
Salinari C. ..................................93; 192
Salvadori M.L. ...........................61; 192
Salvemini G. ..................................4; 65
Sangallo (da) A. .................................90
Sansone L.R. ....................................177
Savi T.......................................153; 187
Scientific Management ................38; 56
Sereni E............................111; 112; 192
Sicilia ...................................................4
Slichter S.H......................................111
Socrate ...............................................68
Somalia ..............................................85
Spinella M................................152; 192
Stati Uniti... 5; 55; 59; 72; 75; 144; 161;
162
Stefanelli R. .........................42; 57; 193
Strachey J.........................................112
Suchodolski B. ... 9; 68; 69; 70; 74; 150;
151; 152; 193
Svezia.................................................90
T
Tassinari G...............................153; 187
Taylor F. .... 8; 38; 46; 56; 59; 142; 143;
144
Tcheprakov V. 109; 110; 111; 112; 144;
193
Teissier G.........................................114
Tenca C. .....................................92; 192
Terracini U...........................9; 125; 193
Thompson W..............................47; 193
Timofeev T. .....................130; 131; 193
Tocqueville (de) A. .....9; 160; 161; 162;
163; 188; 193
Togliatti P. ... 13; 14; 15; 16; 17; 18; 21;
23; 24; 25; 27; 39; 52; 122; 167;
169; 170; 191; 193
Torino17; 18; 21; 34; 44; 46; 51; 61; 64;
87; 88; 91; 92; 94; 99; 101; 113;
116; 121; 140; 141; 142; 144; 152;
179; 187; 188; 189; 190; 191; 192;
193
Toscana ....................................178; 192
Touraine A. ................................76; 193
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Trentin B.................................... 57; 144
Turati F. ............................................... 4
Vico G.B..........................................179
Visalberghi A...................................178
Y
Yellow Springs ..................................75
U
Unione Sovietica................................ 88
V
Vasari G............................................. 90
Venturi F.................................... 91; 193
Verne J............................................. 133
W
Waller R.D.................................22; 192
Ward F.C. ................................126; 192
Watergate.........................................151
Wechsler D. .............................179; 193
Wellek R. ...................................92; 193
Wells H.G. .......................................133
Winckelmann J.J..............................122
Z
Zamjatin E..........................................84
Zasulic V..............................................7
Zucconi A. ...............................114; 193
Pagina 185 di 185
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