Aristotele - Altervista

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Aristotele
A. nacque a Stagira, ai confini con la Macedonia. Fu allievo di Platone e ne frequentò l'Accademia. Dopo la morte del
maestro, lasciò Atene e fondò una propria scuola ad Asso. Nel 342 venne chiamato da Filippo II, re di Macedonia, per
fare da istitutore al figlio, il grande Alessandro Magno. Nel 336, quando Alessandro salì al trono, ritornò ad Atene e
fondò il Liceo, una scuola filosofica che per un certo periodo superò in prestigio l'Accademia platonica. Con la morte di
Alessandro, e il conseguente diffondersi di un clima antimacedone, venne costretto all'esilio nella Calcide, dove morì
pochi mesi dopo.
Le principali opere di Aristotele, divise in gruppi tematici, sono:
1. Opere di logica: Categorie, Organon, Elenchi sofistici.
2. Opere fisiche: Fisica, Meteorologia, Anima.
3. Opere etiche: Etica nicomachea, Magna moralia.
4. Opere linguistiche: Retorica, Poetica.
5. Opere biologiche: Ricerche sugli animali (zoologia), Le parti degli animali (anatomia), Riproduzione di animali
(genetica), Movimento degli animali.
Le opere si dividono in esoteriche, rivolte ai soli studenti, ed essoteriche, rivolte al vasto pubblico; di queste ultime,
però, si è persa ogni testimonianza.
A. fu il primo grande organizzatore del sapere, suoi i primi ragguagli storico-teoretici sui presocratici, sue le prime
raccolte organiche del sapere logico, fisico e biologico. Grande osservatore della natura, non dimenticò di cimentarsi
in importanti studi sull'etica e sulla retorica. Il suo metodo di indagine venne preso a modello dalla filosofia scolastica
medievale; per i cristiani diventò un'auctoritas nel campo delle scienze, della metafisica e della cosmologia. Per
questo motivo la filosofia di A., diversamente da quelle di molti altri pensatori greci, rimase in parte viva lungo tutto il
corso del Medioevo grazie alla teologia cristiana, che fece proprie molte delle conclusioni più importanti del suo
pensiero.
1. Le divisioni della conoscenza
Per A. ogni cosa è un "ente", ovvero ciò che tutte le cose hanno in comune è il loro "essere qualcosa" (ente=essente).
Aristotele divide dunque le scienze in insiemi omogenei in rapporto all'ente di cui si occupano:
1. Le scienze pratico empiriche, ovvero tutte quelle forme di conoscenza che si riferiscono all'ente in quanto
determinazione: sono le discipline che si concentrano sull'analisi di un particolare aspetto dell'ente: la medicina
indagherà l'ente in quanto "corpo", l'astronomia l'ente in quanto "oggetto celeste", la biologia l'ente in quanto
"organismo vivente", la politica l'ente in quanto "cittadino", e così via. Queste discipline si occupano dei fenomeni e dei
casi particolari empirici e contingenti.
2. Le scienze teoretiche, ovvero teorico-astratte, che non si occupano di analizzare gli aspetti particolari degli enti, ma
ne individuano le cause necessarie, ovvero portano alla luce il modo in cui gli enti particolari si manifestano. Esse
sono la fisica, la matematica e la logica. La prima si occupa di determinare le cause dei corpi materiali, la seconda di
tradurre in rapporti numerici la realtà, la terza esprime le leggi necessarie a cui sono soggetti tutti gli enti.
3. La metafisica, scienza prima. Vi è poi una scienza per A. che si pone al di sopra delle altre, ed è la scienza che si
occupa degli enti in quanto enti, ovvero dei meccanismi inerenti alle cause e le necessità dell'ente preso e analizzato
per la sua caratteristica di essere "qualcosa che esiste". Tale scienza è la metafisica, o ontologia, ovvero "scienza
dell'ente", cioè dell’essere determinato.
A. concede, comunque, pari dignità ad ogni scienza perché ogni scienza costituisce un legittimo ambito di
conoscenza. Diversamente da Platone, che svalutava la ricerca attorno agli enti sensibili, in quanto derivazioni
imperfette degli enti eterni e perfettissimi oltre-sensibili, preferendo la sapienza concettuale a scapito della
conoscenza fisica, in A. è salda la convinzione che ogni ambito, soprattutto quello fisico-sensibile, è meritevole di
indagine.
2. Le critiche a Platone
A. fu allievo di Platone nell'Accademia, ma le sue teorie presero vita dalla critica alle teorie del maestro. In particolare,
criticò la teoria delle idee con un argomento che prenderà il nome di "terzo uomo". La dottrina delle Idee di Platone
predicava l’esistenza dell’Iperuranio, un mondo a parte, una regione del cosmo completamente trascendente rispetto
al mondo terreno, nella quale era conservata la pura forma ideale di ogni imperfetta forma terrena. A. critica tale
impostazione idealistica affermando che se esiste nell’Iperuranio l’idea pura dell’uomo ideale, deve anche esistere
l’Idea pura dell’uomo non ideale, di quell’uomo imperfetto che costituisce la copia imperfetta dell’uomo perfetto, perché
nell’Iperuranio vi deve essere l’Idea pura di ogni aspetto della realtà. Così facendo nell’Iperuranio deve esistere non
solo l’Idea dell’uomo ideale, ma anche l’Idea dell’uomo che partecipa all’Idea ideale. Insomma, un gioco infinito di
rimandi a concetti nidificati uno nell'’altro che produrrebbe una crescita esponenziale delle Idee presenti
nell’Iperuranio.
A. critica anche l'impostazione platonica che vuole l'idea assolutamente trascendente rispetto all'ente sensibile. Egli si
domanda, infatti, come possa una cosa terrena partecipare, cioè avere un qualche collegamento, con un mondo
iperuranico completamente trascendente, completamente “altro” rispetto a sé. E ancora: come può un uomo essere
diverso dall’idea ideale di se stesso? L’uomo ideale per A. è già l’uomo che si concretizza esattamente nelle sue
qualità contingenti: ogni uomo, in definitiva, è già la perfetta rappresentazione di se stesso; non si capisce perché, per
essere ideale, debba essere qualcosa d’altro rispetto a ciò che è.
Per uscire da queste contraddizioni, A. sposta l'attenzione dall'idea immutabile alla sostanza, ovvero all’essere
determinato: la sostanza è ciò che rendere un certo ente ciò che è, entro gli esatti limiti della sua determinazione. In
pratica all’idealismo platonico si contrappone il realismo aristotelico, secondo cui il mondo non è una copia di un
mondo ideale, ma è ciò che è come lo percepiamo. Le idee non hanno vita a sé, ma sono solo concetti della mente,
ovvero copie, riproduzioni intellettuali e astratte della realtà.
Da questa visione concreta e realistica del creato nasce anche un nuovo senso della filosofia in A.: per Platone la
filosofia è ricerca della verità, ascesa verso il mondo delle idee pure; per A., invece, è scienza, cioè spiegazione
concreta e analitica del mondo in cui viviamo.
Egli usa anche un linguaggio diverso nelle sue opere rispetto a Platone: non più dialoghi, miti, allegorie, ma trattazioni
espositive e sistematiche adatte a opere che si propongono di essere realistiche e scientifiche. Così facendo A. ha
lasciato ai posteri una vasta enciclopedia scientifica che è stata per circa due millenni alla base di ogni sapere umano.
3. La Metafisica e la Sostanza: il sinolo forma/materia
La Metafisica per A. studia l’essere in sé, cioè la Sostanza (dal latino sub-stantia, "stare sotto", "sorreggere") è ciò che
permette all'ente di essere fatto (determinato) proprio nel modo in cui è fatto e nella forma in cui si presenta. La
sostanza degli enti sensibili A. la intende come unione (sinolo) di forma e materia: un ente è ciò che è e non un'altra
cosa proprio perché ha una certa forma che si plasma entro una materia, che può essere anche più di una per ciascun
ente (esempio: una finestra (forma) è composta dalla sostanza "vetro" e dalla sostanza "legno"; una statua di Achille è
sinolo della forma-achille e della sostanza di cui è fatta -marmo, legno, ecc.). La combinazione forma/materia, il sinolo,
determina in modo necessario ciò che un ente è: la candela è la combinazione di una forma (più o meno affusolata
attraversata all'interno da uno stoppino che spunta a una sua estremità) con una determinata materia (la cera più la
materia dello stoppino). Materia e forma in natura non possono esistere separate, ma solo unite tra loro.
A. ci dice anche che esistono qualità accidentali: gli accidenti sono quelle qualità che si possono aggiungere all'ente
pur non mutandone la sostanza (il colore, il profumo, le diverse forme, ecc., ma senza cera e stoppino la candela non
sarebbe tale).
Per A. alla base dell’esistenza c’è una materia prima, con le caratteristiche della "materia madre" (chora) platonica. La
materia prima non ha alcuna forma, è priva di ogni determinazione, altrimenti sarebbe una sostanza (un sinolo) e a
sua volta avrebbe bisogno di un'altra sostanza alla sua base. La materia prima è quindi una materia pura, eterna,
plasmabile. Essendo indeterminata e priva di forma, non è conoscibile ma solo ipotizzabile come concetto limite della
natura in quanto è la condizione dell’esistenza stessa (senza di lei alla base dell’esistenza bisognerebbe ipotizzare il
non essere). Tutte le materie che sono già sinolo (marmo, legno, ecc.) sono chiamate da A. materia seconda.
4. Atto e potenza: la meccanica del divenire
Un'altra distinzione aristotelica è quella tra atto e potenza. La potenza è la predisposizione della materia ad assumere
una certa forma, è quella forza che permette alla forma di plasmare la materia secondo una certa logica. L'atto è
invece la forma stessa realizzata, ovvero la materia plasmata sotto l'azione della forma (il seme è la materia che
contiene in sé - in potenza – la forma di una pianta - cioè l’atto-).
Il passaggio dalla potenza all’atto determina il divenire. Il mutamento si esprime infatti nel passaggio da un certo ente
ad un altro, è quindi il passaggio da uno stato potenziale (la potenza) per cui un ente è predisposto strutturalmente ad
accogliere un'altra forma e a volte anche un'altra materia, a uno stato realizzato (l'atto) per cui l'ente ha ricevuto di
fatto quella forma e quella materia che erano già presenti potenzialmente nelle sue possibilità (l'acqua è
potenzialmente predisposta a divenire ghiaccio; un blocco di marmo è in potenza predisposto a divenire una statua o
una colonna).
Il movimento o divenire presuppone il concorso di quattro cause:
1. Causa efficiente, ovvero ciò che dà inizio al divenire (l’azione dello scultore, il germogliare del seme);
2. Causa materiale, ciò che viene trasformato (il marmo, il germoglio);
3. Causa formale, la forma con cui si realizza il divenire (statua, pianta);
4. Causa finale, ovvero ciò che è la conclusione del processo (quella statua particolare, quella pianta).
5. Il movimento
Il passaggio da una sostanza all'altra, ovvero il divenire, ha bisogno di qualcosa che faccia mutare la sostanza iniziale
nella sostanza finale, un qualcosa che muova una sostanza verso l'altra. Quando la legna bruciando diventa cenere,
la sostanza che permette il passaggio dal primo ente al secondo è il fuoco. A sua volta anche il fuoco deve avere un
suo movente, ovvero qualcosa che lo accenda, qualcosa che lo faccia uscire da uno stato potenziale per diventare un
fuoco in atto. Ma anche ciò che muove il fuoco deve avere una causa alle spalle che lo muove a sua volta. Per cui A.
sentenzia che "ogni mosso ha un movente alle spalle che lo fa muovere".
Egli capisce, però, che la catena dei movimenti non può andare indietro all’infinito: per questo individua l'esistenza
necessaria di un qualcosa che rappresenti la causa originaria di ogni cosa, un primo movente che dia il moto ad ogni
altra cosa, ma che sia immobile, cioè non mosso da nulla: un motore immobile, o primo motore.
Tale primo movente è Dio, ovvero la prima causa di tutto (causa incausata, senza una causa alle spalle) che dà
consistenza alla catena delle altre cause moventi, un puro atto, senza potenza, perché se fosse potenza dovrebbe
avere alle spalle un ulteriore atto che gli permetta di essere potenza di qualcosa.
Dio per A. è eterno, immutabile, proprio perché non è soggetto al divenire e al mutamento, ma ne è causa finale,
ovvero ciò in cui ogni movimento trova base stabile e sicura entro cui accadere. Il dio aristotelico non ha
evidentemente quei tratti (morali) cristiani che prenderà successivamente; egli non agisce sul mondo né interviene
sulla vita umana. E’ invece pura contemplazione di se stesso, è la base stabile che garantisce ad ogni cosa di non
cadere nel nulla, di mantenersi nella regione dell'essere e del divenire.
La differenza tra l'Iperuranio platonico e il Motore Immobile aristotelico, che sono accomunati dal fatto di rappresentare
l'immutabilità e l'eternità che garantisce che tutto non sia nulla, sta nel fatto che, mentre per Platone l'immutabile è
completamente trascendente all'essere terreno, per A. l'immutabile è esso stesso presente nell'essere terreno in
quanto è ciò che fornisce la prima spinta al divenire, ed è, come pura perfezione, anche causa finale a cui tutto tende.
6. La logica
C’è nell’uomo il desiderio di conoscere le cose in mezzo alle quali egli vive. Lo strumento di cui si serve per conoscere
è la ragione. Ogni uomo ha una certa capacità naturale di ragionare correttamente, di accorgersi e difendersi
dall’errore: si può pensare ai ragionamenti chiari e lineari di tanta gente semplice e senza studi o anche ai bambini.
Questa è la logica naturale, la quale tuttavia non è sufficiente quando si tratta di risolvere questioni difficili e
complesse. Occorre in questi casi una logica scientifica, cioè di ordine superiore, che abbia regole ben precise e
sistematiche in grado di insegnare come impostare bene e risolvere i problemi più articolati e difficili.
Padre della logica scientifica è proprio Aristotele, che ha studiato profondamente la natura della conoscenza di tipo
logico. Egli rifiuta l’innatismo platonico, per cui concepisce l’anima alla nascita come tabula rasa, priva di alcun
concetto nato con lei, ma potenzialmente pronta ad accogliere la conoscenza attraverso un graduale passaggio che
comincia con la sensibilità (è quindi un empirista), prosegue con l’immaginazione e culmina con l’intelletto.
1) L’attività intellettiva inizia attraverso i 5 organi di senso. A. ammette anche un senso interno, detto senso comune,
che unifica in una sola rappresentazione le impressioni che i 5 sensi accolgono di uno stesso oggetto.
2) La seconda fase è l’immaginazione, che coordina le varie sensazioni formando l’immagine dell’oggetto anche
quando quest’ultimo non è più presente ai sensi, immagine che la memoria conserva.
3) La terza fase è l’intelletto, la sua funzione è quella di conservare l’essenza universale ed immutabile delle cose (i
concetti che si formano grazie ai sensi e all’immaginazione).
I concetti costituiscono la conoscenza intuitiva (perché immediata e conseguita senza alcun ragionamento). Tale
conoscenza non è ancora scientifica. Infatti occorre che i vari concetti vengano confrontati e messi in rapporto tra loro
per capire i legami e la dipendenza che reciprocamente hanno. Questa è la conoscenza discorsiva (la mente passa,
discorre, da un concetto all’altro per cogliere i nessi logici intercorrenti tra loro). Questo tipo di conoscenza si esprime
mediante: la definizione, il giudizio, il ragionamento.
1) La definizione è l’individuazione dell’essenza di una cosa.
2) Il giudizio lo si utilizza ogni volta che si attribuisce o nega un predicato ad un soggetto (il limone è giallo, non blu).
Può essere vero o falso. Sicuramente non è vero quando un soggetto ha un predicato che non gli spetta (i triangoli
sono velenosi). Tuttavia si può dimostrare la verità del giudizio mediante il ragionamento che può essere di due tipi:
quello deduttivo (dall’universale al particolare) e quello induttivo (dal particolare all’universale).
La forma tipica del ragionamento deduttivo è il sillogismo (Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è
mortale). La prima frase è detta premessa maggiore, la seconda premessa minore, la terza conclusione. Nel
sillogismo la conclusione è vera se le premesse sono vere. Questo tipo di sillogismo A. lo chiama apodittico; se le
premesse sono solo probabilmente vere si chiama dialettico; se le premesse sono certamente false si chiama
sofistico.
La veridicità delle premesse è verificabile mediante altri sillogismi, le cui premesse, però, devono a loro volta essere
dimostrate da altri sillogismi ancora. Ovviamente non si può procedere all’infinito. Occorre fermarsi ad alcuni principi
primi (assiomi) che abbiano in sé la ragione della loro verità senza derivarle da altri, e da essi partire. Tali principi sono
universali e apodittici (dimostrativi) e sono chiamati logici primi, perché fondamento di ogni dimostrazione. Essi sono:
1. Il principio d’identità: ogni essere è uguale solo a se stesso (A = A).
2. Il principio di non contraddizione: una cosa non può essere insieme affermata e negata (A non è Non A).
3. Il principio del terzo escluso: di due proposizioni contraddittorie, se una è vera, l’altra è necessariamente falsa (A
o è o non è B).
Tutti e tre questi principi indicano in fondo la stessa cosa, ovvero l’impossibilità, per il pensiero, di contraddirsi. Infatti A
non è non-A perché A è A, ed è impossibile, quindi, trovare il modo di affermare e negare insieme una stessa cosa di
uno stesso soggetto. La possibilità che gli opposti si identifichino è logicamente sempre esclusa.
6.1 Le 10 categorie
Ragionare o parlare significa giudicare, ovvero, come si è visto, attribuire un predicato a un soggetto. A. chiama
categorie gli attributi, cioè i predicati che possono essere utilizzati per esprimere giudizi. Queste categorie sono 10,
cioè:
1) Sostanza: ogni cosa è una sostanza in possesso di una certa natura che lo distingue (uomo, cane, mulo).
2) Quantità: ogni cosa ha una quantità di materia misurabile (Pietro è alto tot e pesa tot).
3) Qualità: ogni cosa ha una o più caratteristiche qualitative:( Pietro è malato, bianco, noioso).
4) Relazione: ogni cosa è in rapporto con le altre (Pietro è il figlio del farmacista).
5) Azione: che può essere transeunte quando produce i suoi effetti su un essere diverso da chi la compie; o
immanente quando produce un effetto su chi la compie (Pietro ferisce Giovanni; Pietro ferisce se stesso).
6) Passione: quando si subisce qualcosa da qualcuno (Pietro viene sgridato dal professore).
7) Tempo: gli esseri corporei sono legati al tempo in cui succedono tutti gli avvenimenti (Ieri Pietro è caduto).
8) Luogo o spazio: quello occupato dai corpi (Pietro è in casa).
9) Situazione: la posizione in cui l’essere si trova (Pietro è in piedi).
10) Stato: il modo in cui ci si trova a essere (Pietro è armato).
Le categorie sono i modi di essere della realtà, da cui sono state ricavate per astrazione. Hanno quindi solo una realtà
mentale, non oggettiva e separata dalle cose da cui sono state ricavate. La logica per A. si fonda sempre sulla realtà
dell’oggetto da cui il concetto deriva, mai sul concetto puro, che per lui non esiste separato dagli oggetti.
7. L’anima
Anche per A. l'uomo è corpo e anima, ma contrariamente a Platone non la considera come un’entità divina, ma come
il principio immanente delle cose animate. Il corpo è solo materia e potenza, che diventa in atto, cioè vivo, proprio
grazie all’anima, che è unita al corpo in una unione inscindibile.
L’anima ha tre funzioni: vegetativa (è tipica di tutti gli esseri viventi che si nutrono, crescono, si riproducono e
periscono); sensitiva (è tipica degli animali e degli uomini perché provano sensazioni e desideri); intellettiva (propria
solo degli uomini che parlano, ragionano, dirigono le altre forme di vita e possono raggiungere quella sapienza che è il
fine ultimo della vita umana).
La virtù (areté) dell'uomo è, secondo A., la "corrispondenza dei mezzi al fine". Quindi la virtù consiste in tutte quelle
attività umane che favoriscono il raggiungimento dello scopo che ci si prefigge, e, se scopo ultimo e supremo
dell'uomo è la contemplazione della verità divina, allora la virtù ultima e suprema consiste nella saggezza e nella
sapienza, quelle attività intellettive che, occupandosi della scienza suprema dell'essere in quanto essere, mettono in
contatto gli uomini con la parte divina della loro anima. Felicità e bene dell'uomo sono quindi agire secondo virtù in
osservanza del fine più degno: la contemplazione di quel motore immobile al quale tutto il creato rivolge lo sguardo e
che è il fine ultimo e supremo di ogni cosa.
8. L'etica
Come già in Platone, anche in A. lo scopo ultimo della vita umana è la contemplazione della verità. Per A., però, la
verità è Dio, nella forma del motore immobile che rappresenta il vero fine al quale ogni cosa tende. La contemplazione
del divino è scopo ultimo e supremo, senza ulteriori scopi successivi. Bene supremo e felicità dell'uomo è dunque la
visione della verità che consiste nella contemplazione di Dio. Scopo dell'uomo e dei sapienti che riconoscono la vera
natura della verità (i filosofi) è quella di favorire la formazione di quei giusti mezzi (strutture politiche e sociali) che
possano rendere possibile la visione della verità e una vita da svolgersi secondo ragione, che è la suprema virtù
umana.
A. afferma che per ogni essere il bene consiste nella piena attuazione della propria essenza; perciò per l’uomo, che è
animale razionale, il bene consiste nel pieno e compiuto sviluppo della ragione che è possibile attraverso la pratica
delle virtù etiche e delle virtù dianoetiche.
Le virtù etiche consistono nel dominio degli impulsi sensibili e della loro sottomissione alla ragione in maniera che
siano evitati i vizi sia in eccesso che in difetto. Perciò la virtù etica è detta giusto mezzo (la forza è il giusto mezzo tra
la temerarietà, che è l’eccesso, e la viltà, che è il difetto). Le più importanti sono la generosità, che è il giusto mezzo
tra l’avarizia e la prodigalità; la magnanimità, che è il giusto mezzo fra l’umiltà e la vanità; la mansuetudine, che è il
giusto mezzo fra l’indolenza e l’irascibilità. Quella fondamentale, secondo A., è la giustizia, che è il giusto mezzo fra
commettere ingiustizia e subirla.
Le virtù dianoetiche riguardano invece l’attività conoscitiva e intellettiva. Comprendono: l’arte, che è la capacità di
produrre oggetti, la saggezza, che è la capacità di agire correttamente nel mondo, la sapienza, che è la virtù
dianoetica per eccellenza in quanto è con lei che l’uomo può raggiungere la contemplazione della verità, quindi la vera
felicità.
L’etica di A. si allontana parecchio dal rigido intellettualismo etico di Socrate. Infatti virtuosi si diventa praticando la
virtù finché non si acquista l’abitudine costante ad essere virtuosi sempre. Egli, tuttavia, rimane pur sempre un
intellettualista perché sostiene che l’abitudine virtuosa dipende dalla volontà, ma la volontà è resa possibile dalla
conoscenza del bene. Non siamo ancora, dunque, al volontarismo etico di stampo cristiano.
9. La politica
Per A. nessun individuo può bastare a se stesso, ciascun individuo ha bisogno degli altri per sopravvivere. In questo
senso, l'uomo, per sua natura, è animale politico, cioè sociale e tende sempre all'aggregazione, dalle sue forme più
semplici (la famiglia, il villaggio) a quelle più complesse (lo Stato, rappresentato dalla polis). Chi tendenzialmente è un
asociale per A. è "o una belva o un Dio", ovvero non è umano.
Che la vita sociale costituisca un aspetto essenziale dell'uomo è dato dall'osservazione del comportamento umano:
prima gli uomini si aggregano in famiglie, poi in villaggi, infine nello Stato. Il fatto che l'aggregazione in forma di Stato
venga per ultima dimostra che gli altri tipi di aggregazione non riescono a compiere del tutto il loro fine. Solo lo Stato,
dunque, rappresenta la forma di aggregazione politica e sociale suprema, solo lo Stato (nella forma della polis greca)
può predisporre opportunamente i mezzi in grado di permettere il raggiungimento del bene e della felicità dell'uomo.
Come in Platone, lo Stato aristotelico sacrifica comunque la libertà di alcuni uomini (operai, agricoltori, commercianti,
schiavi), in quanto strumento per la realizzazione dei fini di altri uomini: al bene e alla felicità supremi possono infatti
pervenire solo i cittadini liberi e illuminati dalla contemplazione intellettiva della verità.
Per A. la migliore forma di governo è quella che s’ispira alla virtù del giusto mezzo, cioè il governo della classe media,
l’unica classe che può salvare dagli eccessi di chi possiede troppo o di chi non possiede nulla. A., però, non ha in
mente uno Stato ideale come aveva ipotizzato Platone, perché ritiene che ogni forma di governo possa essere buona
o cattiva in base alle condizioni storiche e sociali in cui si sviluppa. E’ un sostenitore delle buone leggi che, quando
sono tali, sono sempre alla base di un buon governo.
10. La concezione estetica (poetica)
A differenza di Platone, A. esprime un giudizio positivo sull’opera estetica, pur ritenendola sempre un’imitazione.
L’’artista nella sua produzione imita la natura, infatti, ma lo fa non per curare l’aspetto sensibile della realtà, bensì per
cogliere l’essenza universale delle cose. La principale forma d’arte per lui è la tragedia alla quale riconosce una
funzione purificatrice (catarsi) dell’anima dalle passioni.
Anche la retorica per A. è un’arte, e la reputa indispensabile alla vita pubblica e politica in generale come tecnica
della persuasione. Egli riabilita tale disciplina rispetto a Platone, che l’aveva invece disprezzata, tuttavia sottolinea che
la retorica non deve essere sofistica, ma deve essere utilizzata sempre a fin di bene e in servizio della verità.
11.L’Universo
Secondo Aristotele l’universo comprende: il mondo celeste, detto anche sopralunare, formato da cieli concentrici, di
cui il più esterno è quello delle stelle fisse e quello più interno è quello della luna, composto di un elemento puro,
l’etere (la quinta essenza), perfetto, immutabile, armonico; il mondo terrestre, formato dalla terra, immobile al centro
dell’universo (geocentrismo) e composto da 4 elementi: terra, acqua, fuoco, aria.
Per Aristotele lo spazio è paragonabile ad un vaso contenente gli oggetti. Il tempo è in connessione con il divenire pur
non potendosi identificare con esso perché i movimenti cambiano, mentre il tempo è omogeneo e immutabile.
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