I delitti contro la vita e l`incolumità personale di

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CAPITOLO I
RIFIUTO E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
SOMMARIO:
1.1. Premessa. – 1.2. Il rifiuto e la rinuncia al trattamento sanitario da parte del paziente cosciente e
capace di intendere e di volere. – 1.2.1. Considerazioni introduttive. – 1.2.2. Il diritto al rifiuto “informato” e alla rinuncia consapevole ai trattamenti sanitari nell’ambito della relazione paziente-medico. –
1.2.3. Il rifiuto dei trattamenti sanitari: un diritto “da prendere sul serio”. – 1.2.4. Il rifiuto/rinuncia ai
trattamenti sanitari del paziente competente in condizioni di autonomia. – 1.2.5. Il rifiuto/rinuncia ai
trattamenti sanitari del paziente competente in condizioni di dipendenza. – 1.3. La sospensione o la
mancata attivazione delle cure di sostentamento vitale nei confronti di pazienti in stato di incoscienza. –
1.3.1. Considerazioni introduttive. – 1.3.2. Lo stato vegetativo permanente. Le prese di posizione giurisprudenziali. – 1.3.3. Le direttive anticipate di trattamento.
1.1. PREMESSA.
In relazione al tema del rifiuto delle cure, della rinuncia ai trattamenti sanitari o della interruzione delle terapie, occorre distinguere due situazioni che non
possono essere assimilate. Da un lato, la rinuncia o la sospensione delle terapie
di sostegno vitale su richiesta del paziente cosciente e capace d’intendere e di
volere, adeguatamente informato sulle terapie e in grado di manifestare in modo
attuale la propria volontà. Dall’altro, la sospensione o la mancata attivazione
delle cure di sostentamento vitale nei confronti di pazienti incapaci di esprimere
una scelta consapevole.
1.2. IL
RIFIUTO E LA RINUNCIA AL TRATTAMENTO SANITARIO DA PARTE
DEL PAZIENTE COSCIENTE E CAPACE DI INTENDERE E DI VOLERE.
1.2.1. CONSIDERAZIONI
INTRODUTTIVE.
Il rifiuto o la rinuncia a terapie salvavita rappresenta un momento cruciale
per le dinamiche della relazione tra medico e paziente.
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La tragicità delle ragioni che fondano un rifiuto o una rinuncia a trattamenti
vitali comporta necessariamente che l’investimento emotivo e l’impegno comunicativo tra i protagonisti della relazione di cura raggiungano la massima intensità, con il rischio di una rottura degli equilibri dell’alleanza terapeutica.
Occorre peraltro sottolineare come le problematiche inerenti al rifiuto/rinuncia di cure non si esauriscano a livello del singolo rapporto paziente-curante,
ma chiamino in causa gli stessi orientamenti di fondo delle politiche sanitarie, nonché l’organizzazione ed il funzionamento del sistema sanitario nel
suo complesso. Come da più parti segnalato, giova infatti richiamare l’attenzione su un duplice rischio. Da un lato, quello per cui il rifiuto di cure possa
scaturire da un senso di “ripudio” verso l’atteggiamento di aggressività diagnostico-terapeutica e di reificazione/alienazione della persona sofferente, amplificati dall’attuale tendenza ad un eccesso di razionalizzazione e aziendalizzazione
dei servizi medico-assistenziali. Dall’altro, il rischio che il paziente si risolva a
rifiutare le cure per il timore che le carenze dei servizi di assistenza ai malati
– ed il conseguente trasferimento del carico di cura sulla cerchia familiare – lo
consegnino ad una situazione di “solitudine” e di “abbandono” terapeutico e assistenziale 1.
La complessità delle questioni in gioco e l’estrema delicatezza degli interessi
coinvolti sollecitano, pertanto, un’approfondita riflessione anche da parte del
penalista, nella prospettiva di favorire una compiuta implementazione del diritto
alla salute, nel pieno rispetto dei diritti e della dignità del paziente nonché dell’autonomia professionale e morale del medico e del personale sanitario.
1.2.2. IL
DIRITTO AL RIFIUTO “INFORMATO” E ALLA RINUNCIA CONSAPEVOLE
AI TRATTAMENTI SANITARI NELL’AMBITO DELLA RELAZIONE
PAZIENTE-MEDICO.
Il presupposto di partenza è un principio ampiamente condiviso: il consenso
informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento
sanitario 2. Il diritto al rifiuto “informato” o alla consapevole rinuncia ai trattamenti sanitari, compresi quelli necessari per il mantenimento in vita, si fonda sul
1
In proposito, cfr. il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, Rifiuto e rinuncia
consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, 24-10-2008, redatto
da Stefano Canestrari, Lorenzo d’Avack e Laura Palazzani, con il contributo dei membri del
gruppo di lavoro coordinato da chi scrive (Salvatore Amato, Adriano Bompiani, Francesco
D’Agostino, Antonio Da Re, Marianna Gensabella, Demetrio Neri, Andrea Nicolussi, Monica
Toraldo di Francia e Grazia Zuffa). Il parere è consultabile all’indirizzo www.governo.it/bioetica/pareri.html.
2
V., tra gli altri, F. GIUNTA, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 377 ss.
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medesimo terreno del consenso informato, di cui rappresenta un’estrinsecazione in chiave “negativa” 3.
In particolare, sono numerose le fonti da cui si desume l’esistenza di un diritto a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la propria volontà, in
connessione con il principio del consenso informato. I riferimenti alla Costituzione italiana sono fondamentali. L’art. 32, 2o comma, Cost. afferma chiaramente che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario
se non per disposizione di legge. Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari fa
parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., e rappresenta
l’applicazione, in ambito sanitario, del generale diritto alla libertà personale (art.
13 Cost.) inteso quale diritto all’inviolabilità della sfera psico-fisica.
Il principio del consenso come elemento coessenziale al diritto alla salute trova un’evidente conferma nella legislazione ordinaria. In breve: nella l. n. 180/1978
(secondo cui i trattamenti sanitari obbligatori, per quanto imposti coattivamente,
«devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la
partecipazione da parte di chi è obbligato»); nell’art. 33 l. 23-12-1978, n. 833, sul
Servizio Sanitario Nazionale; nel d.l. 24-6-2003, n. 211 sulla sperimentazione clinica; nella l. 19-2-2004, n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita; nella
l. 21-10-2005, n. 219 sulla attività trasfusionale e la produzione nazionale di emoderivati. Il principio sancito dall’art. 32 Cost. riceve pieno riconoscimento nella
giurisprudenza della Corte costituzionale 4, della Corte di Cassazione 5, e in quella
di merito 6, nonché un evidente riscontro negli artt. 35 e 37 – Capo IV, Informazione e consenso – del codice di deontologia medica del 2006.
A livello di fonti internazionali i medesimi principi informano la Convenzione
sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo) del 1997, di cui è
stata autorizzata la ratifica con l. 28-3-2001, n. 145 – l’art. 5 stabilisce che «un
intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la
persona interessata abbia dato consenso libero e informato» – e la Carta dei
diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione Europea del 2000 (l’art. 3 del Capo
I afferma che: «Nell’ambito della medicina e della biologia deve essere in particolare rispettato il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge») 7.
3
Per tutti, di recente, D. PULITANOv , Doveri del medico, dignità di morire, diritto penale,
in Riv. it. medicina legale, 2007, 1195 ss.; F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine
della vita, in Criminalia, 2006, 61.
4
C. Cost., n. 161/1985; C. Cost., n. 561/1987; C. Cost., n. 471/1990; C. Cost., n. 258/1994;
C. Cost., n. 238/1996.
5
Tra le tante v., di recente, Cass. civ., n. 23676/2008; Cass. civ., n. 21748/2007; Cass. civ.,
n. 5444/2006; Cass. pen., n. 38852/2005; Cass. pen., n. 14638/2004; Cass. pen., n. 26446/2002.
6
Da ultimo, A. Milano, 25-6-2008; T. Modena, 13-5-2008; T. Roma, 17-10-2007.
7
Il diritto a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la propria volontà ha ricevuto accoglienza anche nell’ambito delle principali legislazioni straniere (cfr., ad esempio,
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Il rifiuto e la rinuncia ai trattamenti sanitari si collocano dunque all’interno
delle medesime coordinate normative del consenso informato. La volontà di rifiutare consapevolmente le cure si presenta, al pari della speculare prestazione
del consenso informato, quale possibile esito di un percorso informativo e comunicativo che si snoda attraverso la dinamica del rapporto medico-paziente.
Una volta che il medico abbia fornito al paziente le informazioni necessarie, il
paziente può tanto accettare il piano di cura – fermo restando, peraltro, la possibilità di revocare in ogni momento il consenso precedentemente manifestato –
quanto decidere di non aderirvi, o di aderirvi solo parzialmente. Il rifiuto informato e la rinuncia consapevole di cure si pongono pertanto non all’esterno della
relazione medico-paziente, né in contrapposizione ad essa, ma anzi rappresentano e devono rappresentare il frutto di una scelta maturata all’interno del rapporto di alleanza terapeutica 8.
Del resto, il rifiuto o la rinuncia ad un determinato trattamento sanitario non
significa – il più delle volte – rifiutare ogni tipo di trattamento. In tale ambito,
occorre altresı̀ sottolineare con favore la crescente sensibilità verso il settore
della medicina palliativa, indice della ormai diffusa consapevolezza che i doveri
deontologici professionali del medico si proiettano verso la tutela della “salute”
in un’accezione ampia, in cui risulta compreso anche l’alleviamento della sofferenza.
Ecco, allora, che il riconoscimento di un diritto alla rinuncia o al rifiuto di
trattamenti sanitari, anche life-saving, lungi dall’interrompere il rapporto di alleanza terapeutica, determina anzi un rafforzamento dell’elemento fiduciario e
del carattere collaborativo che caratterizzano il “dialogo” tra medico e paziente.
In questo contesto si deve scongiurare il rischio che il diritto al rifiuto di cure si
traduca in potenziale veicolo di condotte di “abbandono terapeutico”. In particolare, è necessario ribadire con forza che il sanitario, nell’ambito della relazione
di cura, non deve limitarsi a registrare passivamente – con supina acquiescenza – la volontà del paziente, come ha avuto occasione di segnalare il Comitato
Nazionale per la Bioetica nel Parere Informazione e consenso all’atto medico.
«In caso di malattie importanti e di procedimenti diagnostici e terapeutici prolungati, il rapporto curante-paziente non può essere limitato ad un unico, fugace
incontro (...). Il curante deve possedere sufficienti doti di psicologia tali da consentirgli di comprendere la personalità del paziente e la sua situazione ambientale» 9. In riferimento al rifiuto o alla rinuncia ai trattamenti sanitari, ciò si tra-
F. VIGANOv , Esiste un “diritto a essere lasciati morire in pace”? Considerazioni in margine
al caso Welby, in Dir. pen. e processo, 2007, 5 ss.).
8
In questo senso si è chiaramente espresso il citato documento del CNB, in part. par. 5,
18-21.
9
Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 20-6-1992, Informazione e consenso
all’atto medico.
RIFIUTO
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duce in una valorizzazione del rapporto curante-paziente come strumento privilegiato per il medico ai fini di una “decifrazione” delle ragioni che determinano
il malato a rifiutare la cura salvavita, onde evitare che scelte irreversibili derivino
da stati depressivi, dalla prostrazione fisica e/o psicologica del paziente, dal timore per la perdita di autonomia o dal desiderio di non gravare i congiunti del
peso dell’assistenza nella malattia.
1.2.3. IL RIFIUTO DEI TRATTAMENTI
“DA PRENDERE SUL SERIO”.
SANITARI: UN DIRITTO
La concezione del rifiuto/rinuncia ai trattamenti sanitari calati nelle dinamiche della relazione medico-paziente – dunque con il compito del sanitario di
accertare i requisiti di validità del rifiuto (personale, reale, informato, chiaramente espresso e attuale) 10 – conduce alla formulazione di una riflessione di
fondamentale importanza. La tragicità e l’irreversibilità del rifiuto di cure salvavita non può che supportare la convinzione che questa scelta debba rappresentare l’extrema ratio, l’opzione ultima. Tuttavia, ciò non significa che il rifiuto
informato a trattamenti sanitari necessari quoad vitam debba essere ritenuto rarissimo o assolutamente eccezionale cosı̀ da non essere considerato
un diritto “da prendere sul serio”.
Al contrario, occorre ribadire con chiarezza che il diritto di rifiutare o rinunciare ai trattamenti sanitari anche salvavita rappresenta un tratto caratterizzante l’ispirazione personalistica posta a base della nostra Costituzione nell’ambito di un sistema laico e pluralistico.
Il nostro ordinamento ha ormai pienamente dismesso i fondamenti giuridico-ideologici – di matrice autoritaria e illiberale – invocabili a supporto dell’imposizione forzata di un trattamento liberamente e coscientemente rifiutato, pur
se necessario al mantenimento in vita della persona. Il fatto che il personale
sanitario sia investito di una posizione di garanzia nei confronti della vita e della
salute del paziente non si pone in contrasto con tale impostazione: come il consenso informato costituisce fondamento di legittimità dell’attività medico-chirurgica, cosı̀ gli obblighi giuridici di cura e di intervento del sanitario – e la sfera
di applicabilità delle disposizioni previste dal codice penale: art. 579 (omicidio
del consenziente); art. 580 (istigazione o aiuto al suicidio); art. 593 (omissione
di soccorso); art. 54 (stato di necessità) – trovano un limite nella rinuncia o nel
10
Sui requisiti del consenso (e del rifiuto informato) cfr., funditus, F. GIUNTA, Il consenso
informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, cit., 382
ss.; F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 61 ss.; R. FRESA, La responsabilità penale in ambito sanitario, in I reati contro la persona, a cura di Canestrari, in
Trattato di diritto penale, diretto da Cadoppi, Canestrari, Papa, I reati contro la persona,
I. I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, Torino, 2006, 652 ss.
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rifiuto competente ed informato opposto dal malato 11. Per converso, sorge in
capo al medico il dovere di rispettare la volontà del paziente: laddove si verifichi
un’illegittima protrazione del trattamento sanitario si può configurare il delitto
di violenza privata (art. 610 c.p.), se ne sussistono i presupposti.
Ciò detto, appare evidente che si deve abbandonare definitivamente
l’espressione tradizionale ma del tutto impropria di “eutanasia passiva
consensuale”. Occorre, allora, procedere analizzando le diverse ipotesi che possono essere ricondotte nell’ambito del diritto al rifiuto/rinuncia ai trattamenti
sanitari salvavita da parte del paziente consapevole. In particolare, è opportuno
differenziare la posizione del paziente autonomo in grado di rifiutare il trattamento sanitario indesiderato senza coinvolgere terzi, da quella del paziente che
si trova in condizioni di dipendenza tali da rendere necessario l’intervento del
medico.
1.2.4. IL
RIFIUTO/RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI DEL PAZIENTE
COMPETENTE IN CONDIZIONI DI AUTONOMIA.
Le esemplificazioni del rifiuto o della rinuncia alle terapie salvavita sono
note: l’anziana signora che osteggia l’amputazione della gamba in cancrena in
quanto non vuole sopravvivere mutilata; i casi frequenti di chi soffre di una malattia inguaribile e rifiuta di sottoporsi a interventi chirurgici, chemioterapici o
radioterapici. L’orientamento assolutamente dominante della letteratura – penalistica e costituzionalistica – esclude che il diritto all’autodeterminazione
terapeutica incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene
della vita 12.
11
V., p.t., D. PULITANOv , loc. ult. cit.; F. MANTOVANI, loc. ult. cit.; PALERMO FABRIS, Diritto alla
salute e ai trattamenti sanitari nel sistema penale, Padova, 2000, 197 ss.; PORTIGLIATTI BARBOS, Diritto di rifiutare le cure, in Digesto pen., IV, Torino, 1990, 25 ss.
12
V., tra i penalisti, per tutti, BRICOLA, Vivere, diritto o dovere: spazio aperto per il futuro?, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, a cura di Stortoni, Trento, 1992,
214; S. SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. e proc. pen.,
1995, 693; F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, 90; F. STELLA, Il problema giuridico dell’eutanasia:
l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in Riv. it. medicina legale, 1984, 1018; L.
STORTONI, Riflessioni in tema di eutanasia, in Indice pen., 2000, 478 ss.; TORDINI CAGLI, La
rilevanza penale dell’eutanasia, tra indisponibilità della vita e principio di autodeterminazione, in CANESTRARI, FORNASARI, Nuove esigenze di tutela nell’ambito dei reati contro la
persona, Bologna, 2001, 99 ss.; S. CANESTRARI, Le diverse tipologie di eutanasia: una legislazione possibile, in Riv. it. medicina legale, 2003, 763 ss.; MAGRO, Eutanasia e diritto penale,
Torino, 2001, 31 ss.; A. MANNA, Trattamento medico-chirurgico, in Enc. Dir., XLIV, Milano,
1992, 1284; F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte generale, 6a ed., Padova, 2009, 70 ss.; D. PULITANO
v , Diritto Penale, Milano, 2005, 295 ss. e 316 ss.; PALERMO FABRIS, cit., 23 ss. e 173 ss.;
VIGANOv , Esiste un “diritto a essere lasciati morire in pace”?, cit., 5 ss.; DONINI, Il caso Welby
e le tentazioni pericolose di uno “spazio libero dal diritto”, in Cass. pen., 2007, 903 ss.;
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Di fronte al dissenso manifestato dal paziente capace di intendere e di volere – sulla base di personalissime valutazioni della dignità/qualità della vita in
relazione all’invasività e all’efficacia del trattamento sanitario – sussiste il divieto
del sanitario di attuare la condotta impeditiva dell’esito letale. Pertanto, nelle
ipotesi in cui sopravvenga la morte del paziente, non si configura alcuna condotta omissiva penalmente significativa – vale a dire, il “fatto tipico” di “omicidio
mediante omissione” – del medico che non ha iniziato il trattamento sanitario
salvavita. Per converso, l’ingerenza del medico sulla dimensione fisica del paziente può essere penalmente perseguibile per il reato di cui all’art. 610 c.p.
(violenza privata), salva naturalmente l’integrazione in concorso di ulteriori fattispecie delittuose, se ne esistono gli estremi, come le lesioni personali (artt.
582-583 c.p.), il sequestro di persona (art. 605 c.p.) e lo stato di incapacità procurato mediante violenza (art. 613 c.p.).
In questo ambito il processo decisionale del paziente deve essere sorretto da
un’informazione del medico particolarmente rigorosa al fine di evitare errori diagnostici rischiosi per la vita del malato. Altrimenti si può prospettare una nuova
tipologia di responsabilità professionale: basti pensare all’ipotesi della morte del
paziente che ha rifiutato trattamenti sanitari ritenuti del tutto inefficaci in seguito ad una grave imperizia del medico nel formulare una prognosi totalmente
infausta 13.
a) In relazione al rifiuto di emotrasfusioni per motivazioni religiose da parte
dei Testimoni di Geova si possono individuare tre diverse situazioni.
Nell’ipotesi in cui il soggetto “dissenziente” sia maggiorenne, “competente”
e cosciente, la coerente applicazione del principio costituzionale dell’autodeterminazione conduce ad affermare – come per ogni altro paziente – l’assoluto divieto di qualsiasi trattamento coattivo, anche quando il rifiuto delle trasfusioni
di sangue determini un grave pericolo per la vita del paziente 14.
CORNACCHIA, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fine vita, in Teoria del diritto e dello Stato, 2002, 397; A. VALLINI, Rifiuto di cure salvavita e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza, in Dir. pen. e processo,
2008, 68 ss.; RISICATO, Dal “diritto di vivere” al “diritto di morire”, Torino, 2008, spec. 34 ss.;
CUPELLI, Il diritto del paziente (di rifiutare) e il dovere del medico (di non perseverare), in
Cass. pen., 2008, 1807 ss.
Di diverso avviso, p.t., EUSEBI, Note sui disegni di legge concernenti il consenso informato e le dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari, in Criminalia,
2006, 252 ss., laddove si esprime per la limitazione del diritto al rifiuto delle cure a quelle costituenti accanimento terapeutico.
Nella giurisprudenza più recente, esclude la responsabilità penale del medico che non abbia praticato trattamenti sanitari quoad vitam, Cass. pen., 4-7-2005, in Riv. it. medicina legale, 2006, 399 ss., con nota di M. BARNI.
13
Cfr. TASSINARI, Gli attuali progetti di legge sul cosı̀ detto “testamento biologico”: un
breve sguardo d’insieme, in Criminalia, 2006, 265 ss.
14
Cosı̀, tra gli altri, con motivazioni non del tutto coincidenti, D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti “sanitari” (a proposito dei Testimoni di Geova), in Diritto e so-
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A conclusioni opposte si perviene nel caso del paziente minorenne. A giudizio unanime della dottrina e della giurisprudenza, sulla libertà di coscienza dei
genitori Testimoni di Geova deve prevalere la tutela dei beni della vita e della
salute dei figli minori. Di conseguenza, nel caso si debba ricorrere a trasfusioni,
è legittimo l’intervento del giudice, affinché si provveda in sostituzione di chi
non adempie 15.
La situazione più problematica appare quella del paziente Testimone di
Geova che si trova in stato di incoscienza al momento in cui il medico dovrebbe
praticare una trasfusione di sangue per evitare o ridurre il rischio di un esito
infausto.
In proposito, occorre distinguere due diverse ipotesi. Nel caso del Testimone
di Geova maggiorenne e competente, che perde conoscenza dopo aver espresso
un rifiuto “informato” e consapevole direttamente al sanitario, quest’ultimo deve
rispettare la sua volontà di non procedere all’emotrasfusione. Di conseguenza,
non si possono condividere quelle prese di posizione 16 che invocano l’applicazione dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. (“necessità di salvare”) ovvero
ricorrono alla “finzione” del consenso presunto per giustificare la condotta dei
sanitari che praticano – durante l’intervento chirurgico, in presenza di un pericolo
di vita – la trasfusione di sangue, anche se rifiutata dal Testimone di Geova fin
quando cosciente 17. Come appare evidente, tale indirizzo ignora il dissenso del
paziente e finisce per vanificare l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione
terapeutica contemplato dall’art. 32, 2o comma, Cost.
Più complessa, invece, l’ipotesi in cui il paziente Testimone di Geova non sia
in grado, al momento del ricovero, di esprimere direttamente al sanitario un
rifiuto “attuale” e “informato” in relazione alla necessità e all’urgenza di ricorrere all’emotrasfusione per evitare l’esito letale. Se il paziente reca su di sé una
dichiarazione scritta di rifiuto indicativa di una precisa volontà, il sanitario si
trova di fronte ad un dilemma, in quanto il previo dissenso non può più essere
confermato.
Da un lato, il medico deve “tenere conto” delle precedenti direttive del paziente – come prescrive la “regola generale” dell’art. 5 della Convenzione di
cietà, 1981, 536 ss.; FIANDACA, Diritto alla libertà religiosa e responsabilità penale per
omesso impedimento dell’evento, (nota a Ass. Cagliari, 10-3-1982), in Foro it., 1983, 27 s.;
MAZZACUVA, Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, in Riv. it.
medicina legale, 1984, 424 ss.; F. PALAZZO, Persona (delitti contro la), in Enc. Dir., XXXIII,
Milano, 1983, 311; E. PALERMO FABRIS, cit., 210 ss.
15
Di recente, C. Cost., (ord.) 22-7-2004, n. 262, in Giur. cost., 2004, 2692 s.
16
Cfr., ad esempio, IADECOLA, FIORI, Stato di necessità medica, consenso del paziente e
dei familiari, cosiddetto “diritto di morire”, criteri per l’accertamento del nesso causale,
in Riv. it. medicina legale, 1996, 313.
17
V. anche infra, §§ seguenti. In questa direzione cfr. altresı̀ le riflessioni di PALERMO
FABRIS, cit., 208; A. VALLINI, Rifiuto di cure, cit., 79 ss., 81 s. (in part. sull’utilizzo arbitrario dello
stato di necessità “medica”).
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Oviedo, ribadita dall’art. 38 del Codice Deontologico del 2006. Dall’altro, il sanitario deve decidere di non intervenire soltanto se è convinto dell’attualità e
della “concretezza” del dissenso del paziente, nella situazione in cui si prospetta
l’eventualità di una morte altrimenti evitabile.
Ecco, allora, che nell’ipotesi in cui il rifiuto di emotrasfusioni non sia alimentato da una consapevolezza attuale di un incombente rischio di morte, il principio in dubio pro vita conduce a giustificare la condotta del sanitario che effettua la trasfusione di sangue in base alla scriminante, reale o putativa, dell’adempimento del dovere 18.
b) La tematica del rifiuto delle cure presenta aspetti peculiari nel contesto
della gravidanza. Come noto, l’avvento della medicina e chirurgia prenatale ha
attribuito al feto il ruolo di paziente e il corrispondente diritto di essere curato 19. Tuttavia, data la immedesimazione fisica dei due soggetti, ogni intervento
sul feto implica l’invasione del corpo della donna 20. Il rifiuto da parte della madre di sottoporsi ad un trattamento diagnostico o terapeutico in favore del feto
solleva un conflitto tra il diritto del nascituro alla salute e alla vita e il corrispondente diritto della madre alla vita e all’integrità fisica, nonché il suo diritto all’autodeterminazione in ordine alle cure 21.
La soluzione va ricercata anche in questo caso sul piano dei principi generali
in tema di rifiuto consapevole e informato delle cure. La donna in gravidanza, in
quanto adulto capace e consapevole, deve prestare il proprio consenso ad ogni
trattamento medico e ha il diritto di rifiutare un intervento indesiderato (a prescindere dalla natura più o meno grave o invasiva del trattamento e dal rischio
ad esso connesso).
Invero, la donna durante la gravidanza non assume obblighi di protezione
più ampi rispetto a quelli normalmente gravanti sul garante (genitore) e la po18
In tal senso, le conclusioni di F. MANTOVANI, Persona (delitti contro la), in Enc. Dir.,
Annali II, 2, Milano, 2008, 863; problematicamente, A. VALLINI, Rifiuto di cure, cit., 81.
19
F. MANTOVANI, Il c.d. diritto del feto a nascere sano (problemi medico-legali della
diagnosi e trattamento del feto in utero), in Riv. it. medicina legale, 1980, 239 ss.; ID., Diritto penale, Parte speciale. Delitti contro la persona, 3a ed., Padova, 2008, 70; EUSEBI, La
tutela penale della vita prenatale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 1096 ss.; F. PALAZZO, cit.,
300; M. ZANCHETTI, La legge sull’interruzione della gravidanza. Commentario sistematico
alla l. 22 maggio 1978, n. 194, Padova, 1992, 65 ss.; SUMMERER, Le nuove frontiere della
tutela penale della vita prenatale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2003, 1245 ss.; EAD., La responsabilità penale del medico in ambito ostetrico-ginecologico, in La gestione del rischio
in medicina. Profili di responsabilità nell’attività medico-chirurgica, a cura di Canestrari,
Fantini, Milanofiori, Assago, 2006, 95 ss.
20
P. ZATTI, La tutela della vita prenatale: i limiti del diritto, in Nuova giur. comm.,
2001, 154.
21
Sul conflitto materno-fetale, con ampi riferimenti alla letteratura e giurisprudenza straniera, v. SUMMERER, Libertà della donna e tutela del nascituro. Il conflitto materno-fetale
nella prospettiva del diritto penale, in Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà, Zatti, II, 2,
Milano, 2010 (dattiloscritto).
RIFIUTO
690
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
sizione di garanzia nei confronti del feto non può certo condurre ad affermare
l’esistenza di un obbligo di sottoporsi ad un intervento medico in favore di questo 22. Inoltre, in base ai principi generali l’adempimento di un obbligo che comporti la messa in pericolo o il sacrificio di interessi propri del garante, soprattutto quando si tratta dei beni della salute e della vita, deve considerarsi inesigibile. Occorre ricordare, infine, che l’esigenza di tutelare in primis il diritto
alla vita e alla salute della donna è affermato dalla stessa legge sull’interruzione
volontaria della gravidanza (l. n. 194/1978).
Un eventuale obbligo non soltanto morale ma anche giuridico per la donna
di sottoporsi ad un trattamento medico necessario per tutelare la salute del feto
risulterebbe comunque incoercibile. Il nostro ordinamento non ammette l’esecuzione coattiva di un trattamento sanitario, neppure se obbligatorio e neppure
se necessario a salvare la vita di un terzo. Pertanto, l’esecuzione di un trattamento medico contro l’espressa volontà della donna violerebbe non soltanto il
suo diritto all’autodeterminazione in ordine alle cure, ma anche la sua dignità e
libertà personale 23.
Il medico non può peraltro intervenire invocando la causa di giustificazione
dello stato di necessità ex art. 54 c.p. (salvo i casi in cui la donna non sia in
grado di esprimere la propria volontà), né richiedere un provvedimento dell’autorità giudiziaria al fine di ottenere il consenso al trattamento.
Ciò posto, occorre discutere se de iure condendo la peculiare relazione tra
madre e figlio durante la gravidanza possa legittimare l’imposizione di un obbligo speciale di cura e protezione, che garantisca al nascituro un livello minimo
di tutela compatibile con una ragionevole limitazione della libertà della donna
nei casi in cui il trattamento medico indicato comporti una intrusione fisica lieve
(si pensi, ad esempio, all’assunzione di vitamine, alla sottoposizione a esami diagnostici innocui, al prelievo ematico etc.) e un beneficio significativo per il nascituro 24.
1.2.5. IL
RIFIUTO/RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI DEL PAZIENTE
COMPETENTE IN CONDIZIONI DI DIPENDENZA.
La questione appare assai più complessa quando la rinuncia del paziente
comporta l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale attivati per evitare la
morte del malato. Si tratta delle ipotesi in cui la rinuncia alla prosecuzione del
22
Ammettono l’esistenza di una posizione di garanzia in capo alla madre nei confronti del
feto ex artt. 30 Cost. e 147 c.c., F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 70; ID., Il c.d. diritto del feto,
cit., 244; M. ZANCHETTI, cit., 388; SUMMERER, Le nuove frontiere, cit., 1275 ss.
23
Per tutti, v. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 61 ss.; SUMMERER, Libertà della donna,
cit., 15 s. (dattiloscritto).
24
Cfr. SUMMERER, ult. cit., 19 s. (dattiloscritto).
RIFIUTO
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
691
trattamento sanitario proviene da un paziente “competente” che si trovi in condizioni di dipendenza e sia privo dell’autonomia fisica necessaria per attuare la
propria volontà, come nei casi in cui il malato chieda che il sanitario operi la
deconnessione del respiratore artificiale o il distacco di un macchinario per il
battito cardiaco.
Il primo problema da affrontare concerne la qualificazione della condotta del
sanitario che procede all’interruzione del trattamento di sostegno vitale, ad
esempio attraverso la pressione di un pulsante o la rotazione di una manopola.
A nostro avviso, non vi è dubbio che siamo di fronte ad una condotta attiva – e
non omissiva – naturalisticamente causa del decesso del paziente. La tesi opposta richiama lo schema concettuale dell’“omissione mediante commissione”
(Unterlassung durch Tun) per sostenere che l’interruzione del funzionamento
del macchinario – anche se richiede un’azione del medico – deve essere considerata dall’ordinamento come omissione dell’ulteriore trattamento sanitario rifiutato dal paziente.
In quest’ultima prospettiva, verrebbe dunque in considerazione una condotta omissiva del sanitario e si dovrebbe procedere ad una valutazione sulla sua
“tipicità”. L’esito risulterebbe negativo in quanto l’operatività dell’art. 40 c.p.
appare preclusa dall’assenza di una violazione di un obbligo giuridico di impedire l’evento da parte del medico, che deve prendere atto del diritto del paziente
di rinunciare alla prosecuzione del trattamento sanitario. Il fatto commesso dal
medico sarebbe pertanto “atipico” 25, analogamente a quello del sanitario che
non interviene nei confronti del paziente che rinuncia ad un trapianto o rifiuta
l’assunzione di un farmaco salvavita.
Questa elegante ricostruzione non può essere accolta, perché una simile
conversione di un facere in una “astensione” appare artificiosa e funzionale all’obiettivo di non affrontare la delicata questione che pone l’eventuale sussistenza di un diritto all’obiezione di coscienza – melius: di un diritto di astensione – del sanitario.
Per affermare la legittimità della condotta del sanitario non è necessario liquidare la problematica sul terreno della tipicità, finendo per “banalizzare” la
drammaticità di una azione causale rispetto all’evento morte, volontariamente
commessa. La condotta attiva del sanitario integra la fattispecie dell’omicidio
del consenziente (art. 579 c.p.) e la questione dei doveri del medico in presenza
di una rinuncia ai trattamenti di un paziente in condizioni di dipendenza deve
trovare la sua soluzione sul piano dell’antigiuridicità, dove viene riconosciuta
l’esistenza di un conflitto valoriale, di un’antinomia tra doveri imposti dall’ordinamento.
25
1828.
F. VIGANOv , Esiste un “diritto a essere lasciati morire in pace”?, cit., 7; CUPELLI, cit.,
692
RIFIUTO
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
La liceità della condotta attiva dell’esercente una professione sanitaria deve
essere fondata sulla scriminante dell’adempimento di un dovere terapeutico
scaturente dall’art. 32, 2o comma, Cost., quello di interrompere il trattamento
sanitario rifiutato dal paziente informato e competente 26. Tale conclusione presuppone un bilanciamento dei beni di rango costituzionale, che ritiene prevalente il principio del divieto di trattamenti sanitari coatti ex art. 32, 2o comma,
Cost. – sorretto dai principi di autonomia e di dignità della persona che si desumono dal nostro complessivo sistema costituzionale – rispetto a quello della
incondizionata tutela della vita umana 27. Nelle ipotesi qui in discussione, in cui
26
In tal senso, DONINI, cit., 912 ss.; S. SEMINARA, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso
Welby: una prima lettura, in Dir. pen. e processo, 2007, 1561 ss.; F. GIUNTA, ult. cit., 106;
D. PULITANOv , Doveri del medico, dignità del morire, diritto penale, cit., 1202 s.; A. VALLINI,
Lasciar morire chi rifiuta le cure non è reato. Il caso Welby nella visuale del penalista, in
Dialoghi del diritto, dell’avvocatura, della giurisdizione, 2008, 54.
27
Il tema della legittimità del rifiuto dei trattamenti sanitari salvavita è tornato al centro
del dibattito politico e giuridico in occasione della nota vicenda di Piergiorgio Welby, il quale
affetto dal 1963 da distrofia muscolare aveva richiesto la disconnessione del ventilatore polmonare che lo teneva in vita e la somministrazione di sedativi per accompagnare il decesso. Il
ricorso d’urgenza (ex art. 700 c.p.c.) presentato dai legali di Welby per ottenere l’accertamento
del diritto all’interruzione del trattamento di sostegno respiratorio e il corrispondente dovere
dei sanitari di attuare tale diritto è stato dichiarato inammissibile dal Tribunale civile di Roma
[sez. I, (ord.) 16-12-2006, in Giur. di Merito, 2007, 996], in considerazione del fatto che l’ordinamento positivo, pur riconoscendo l’esistenza del principio di autodeterminazione in ordine ai
trattamenti sanitari e dunque del diritto al rifiuto o alla interruzione delle cure fondato sugli
artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, non prevede concreti strumenti di tutela e attuazione di tale
diritto, mancando una normativa specifica. Mentre la Procura di Roma, avendo espresso parere
favorevole al ricorso, impugnava l’ordinanza, il medico anestesista procedeva al distacco del
respiratore sotto sedazione terminale.
Il Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi sulla rilevanza penale della condotta dell’anestesista, ha stabilito che il reato di omicidio del consenziente risulta scriminato dall’adempimento di un dovere. Secondo la condivisibile presa di posizione del G.U.P., la richiesta «personale, autentica, informata, reale ed attuale» di interruzione del trattamento sanitario costituisce esercizio del diritto costituzionalmente garantito di rifiutare le cure e fonda il
corrispondente dovere giuridico del medico di dare attuazione a tale diritto nel rispetto della
volontà del paziente competente, salva la facoltà di obiezione di coscienza. Si veda la sentenza
del G.U.P. T. Roma, (23-7-2007) 27-10-2007 – con riferimenti anche alla dottrina – in Foro it.,
2008, II, 105 ss.; in Dir. pen. e processo, 2008, 59 ss., annotata da VALLINI. Tra gli altri commenti
a tale pronuncia, cfr. DONINI, cit., 902 ss.; F. VIGANOv , Esiste un “diritto a essere lasciati morire
in pace”?, cit., 5 ss.; S. SEMINARA, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby, cit., 1561 ss.;
A. VALLINI, Rifiuto di cure, cit., 68 ss.; PULITANOv , CECCARELLI, Il lino di Lachesis e i diritti inviolabili della persona, in Riv. it. medicina legale, 2008, 330 ss.; S. TORDINI CAGLI, Piergiorgio
Welby e Giovanni Nuvoli: il punto sul diritto a rifiutare le cure, in [email protected], 2008,
543 ss.; CUPELLI, cit., 1087 ss.
Una vicenda – soltanto parzialmente – analoga (caso Nuvoli) è stata affrontata dalla Procura di Sassari, che con una prima pronuncia (13-2-2007, in Guida dir., 2007, n. 16, 92 ss.) ha
dichiarato inammissibile la richiesta del paziente di emanare un provvedimento che consentisse
ad un medico di interrompere il trattamento di sostegno vitale. In seguito, la Procura di Sassari,
con richiesta di archiviazione (del 23-1-2008, in Dir. e giustizia, 2008, con nota di VALLINI) per
il reato di cui agli artt. 40, 2o comma, e 579, ha escluso la rilevanza penale del comportamento
RIFIUTO
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
693
il paziente rinuncia alla prosecuzione di un trattamento sanitario in atto, il diritto all’autodeterminazione del malato assume la consistenza dei diritti di habeas corpus: il diritto all’intangibilità della propria sfera corporea 28.
Non si tratta, dunque, di invocare come fondamento della liceità della condotta del sanitario e del successivo esito letale – non impedibile da un soccorso
di necessità coatto – un presunto “diritto di morire” 29 o un “diritto al suicidio”,
che determinerebbero conseguenze paradossali nell’ordinamento giuridico. Basti
pensare, ad esempio, alla necessità di punire come violenza privata l’intervento
salvifico nei confronti dell’aspirante suicida oppure di ritenere sussistente la scriminante della legittima difesa per l’aspirante suicida che uccida il soccorritore.
Ancora: si dovrebbe configurare un aberrante diritto del paziente a soddisfare
richieste suicide a trattamenti sanitari già esauriti (ad esempio, la pretesa del
portatore di pace-maker che il medico tolga o proceda ad una deprogrammazione dell’apparecchiatura che costituisce già parte integrante del suo corpo).
Il fondamento della liceità dell’ottemperanza mortale alla rinuncia del paziente non va ravvisato in un diritto di morire, bensı̀ in un diritto di vivere tutte
le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la
propria volontà. In questa prospettiva – che richiama direttamente l’art. 32,
2o comma, Cost. – è agevole individuare l’area della scriminante dell’adempimento di un dovere. I destinatari del dovere di soddisfare le richieste del paziente di interrompere il trattamento sono esclusivamente gli esercenti una professione sanitaria, nell’ambito di una relazione di cura tra medico e paziente 30.
del medico di Nuvoli, che, assecondando la decisione di questi, aveva omesso di praticare i
rifiutati trattamenti di nutrizione e idratazione artificiali, praticando soltanto la terapia sedativa
e antalgica. Il Pubblico Ministero ha affermato che «non integra il reato di omicidio del consenziente il comportamento del medico che lascia morire di inedia un paziente affetto da una grave
patologia invalidante, senza imporgli quella nutrizione e idratazione da questi consapevolmente
rifiutate; tale rifiuto è giuridicamente efficace, perché rientrante nell’art 32, 2o comma, Cost.,
per il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non nei
casi previsti dalla legge. Pertanto, quando viene opposto un rifiuto ad un trattamento sanitario,
la relativa omissione del medico non è tipica e non è penalmente rilevante: viene infatti meno
l’obbligo giuridico ex art. 40, 2o comma, c.p., anzi scatta per il medico il precipuo dovere di
rispettare la volontà del paziente».
28
V. D. PULITANOv , Doveri del medico, cit., 1204, laddove parla «dei diritti di inviolabilità del
proprio corpo, del proprio essere vivente».
29
In questa direzione cfr. invece le riflessioni di L. STORTONI, ult. cit., 481.
30
In questa direzione, le riflessioni di S. SEMINARA, Le sentenze sul caso Englaro e sul
caso Welby, cit., 1564. La sentenza del G.U.P. T. Roma, 23-7-2007, cit. interpreta correttamente
in termini restrittivi il concetto di “trattamento” rifiutabile ex art. 32, 2o comma, affermando che
la libertà sancita dalla norma costituzionale opererebbe soltanto nel contesto di un rapporto
sanitario in senso stretto, cioè gestito dal medico sulla base delle proprie competenze. Dello
stesso avviso, D. PULITANOv , Doveri del medico, cit., 1204, nt. 17, con riferimento al caso Welby:
«Il dovere interpella specificatamente il medico che ha in carico la cura della persona. Tale è
divenuto, nel caso Welby, il medico dichiaratosi disponibile a seguito dell’accettazione della sua
disponibilità. Con la conseguente assunzione, da parte sua, della posizione di garanzia come
694
RIFIUTO
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
In questo contesto appare altresı̀ evidente la distinzione tra interruzione di trattamenti sanitari accompagnata da sedazione palliativa e pratiche eutanasiche. Il
ricorso all’analgosedazione terminale nel momento in cui si interrompe il trattamento in corso, allo scopo di alleviare le eventuali sopravvenute sofferenze del
paziente, rappresenta una condotta ab origine lecita e conforme ai doveri professionali del medico. La somministrazione di analgesici e sedativi, nell’ambito
di un’adeguata terapia del dolore, gode del medesimo apprezzamento etico,
deontologico e giuridico che sorregge lo statuto della medicina palliativa anche
nelle ipotesi in cui determini l’anticipazione della morte 31.
A questo punto è necessario affrontare il problema della rilevanza di
un’eventuale obiezione di coscienza da parte dell’esercente la professione sanitaria. La questione si pone in quanto siamo di fronte al diniego del medico di
effettuare condotte attive doverose – come si è visto, l’interruzione del trattamento di sostegno vitale non può essere qualificata in termini omissivi – immediatamente causali rispetto all’evento morte. A nostro avviso, deve essere riconosciuto agli esercenti la professione sanitaria il diritto di astenersi da tali condotte commissive, qualora siano da loro avvertite come contrarie alle proprie
concezioni etiche, deontologiche e professionali 32. Ciò posto, in considerazione
dell’eventuale obiezione del singolo sanitario o dell’équipe medica, il paziente
ha in ogni caso diritto di ottenere altrimenti la realizzazione delle proprie richieste di interruzione del trattamento sanitario in corso. In questa direzione, sarebbe opportuno un intervento legislativo allo scopo di regolamentare con chiarezza le modalità del trasferimento della posizione di garanzia del medico obiettore ad uno disposto ad attuare la volontà del malato 33.
Non riteniamo, infine, corretto prospettare una responsabilità penale del
medico che non adempie al dovere di interrompere le terapie di sostegno vitale.
Allo scopo di offrire presidio penale al diritto di rifiutare le cure da parte del
medico di fiducia». Critico invece, sul punto, DONINI, cit., 912-916, laddove parla di fictio di un
rapporto terapeutico nuovo.
31
Sui requisiti di legittimità delle cure palliative, cfr. F. GIUNTA, Il morire tra bioetica e
diritto penale, in Politica del diritto, 2003, 559 ss.; S. CANESTRARI, I delitti contro la vita, cit.,
418 ss. Si veda anche la nuova l. 15-3-2010, n. 38 (“Disposizioni per garantire l’accesso alle cure
palliative ed alla terapia del dolore”), in Gazzetta Uff. 19-3-2010, n. 65.
32
V. il Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, Rifiuto e rinuncia consapevole,
cit., par. 7, 23 ss., laddove si riconosce il diritto di astensione e si richiama l’art. 22 del codice di
deontologia medica. Di questa opinione, S. SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, cit., 696; S. CANESTRARI, Le diverse tipologie di eutanasia, cit., 765; G.U.P. T. Roma,
23-7-2007, cit.; DONINI, cit., 914, parla espressamente di un diritto all’obiezione di coscienza in
capo al singolo medico riguardo alla sospensione di trattamenti che tengono in vita malati non
in fase terminale. Critico, A. VALLINI, Rifiuto di cure, cit., 78 s.
33
V., di recente, LA ROSA, Attività sanitaria, norme penali e conflitto di coscienza, in
Criminalia, 2008, 141. Sulle nuove configurazioni che può assumere l’obiezione di coscienza in
una società eticamente pluralista, cfr. ora TURCHI, I nuovi volti di Antigone. Le obiezioni di
coscienza nell’esperienza giuridica contemporanea, Napoli, 2009.
RIFIUTO
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
695
paziente competente in condizioni di dipendenza è stata ipotizzata l’applicabilità del reato di violenza privata 34.
A prescindere dalla questione relativa alla libertà di coscienza dell’operatore
sanitario, tale soluzione non appare convincente. Innanzitutto, non sembra agevole attribuire ad un determinato medico lo status di vero e proprio garante, ex
art. 40 cpv., del diritto del paziente a non subire ingerenze non volute sul proprio corpo 35. Inoltre, la violenza privata si configura come fattispecie a condotta
vincolata non suscettibile di essere convertita in fattispecie omissiva impropria 36. Ulteriori proposte ricostruttive – formulate sempre con l’obiettivo di colmare “un vuoto di tutela” – richiamano fattispecie del tutto estranee all’attività
sanitaria, come il delitto di maltrattamenti 37.
A parere di chi scrive anche i giuristi dovrebbero avvertire la responsabilità
di non alimentare una “contrapposizione agonistica” – con le “armi pesanti” del
diritto penale – tra medico e paziente. Muovendo da presupposti culturali
spesso confliggenti, i penalisti di orientamento cattolico o laico possono correre
il rischio di assumere prese di posizione “militanti”. Di fronte alla complessità e
alla delicatezza della relazione terapeutica occorre, al contrario, resistere alla
tentazione di indicare al legislatore o alla giurisprudenza la “minaccia penale”
come strumento pedagogico per indirizzare – nella direzione auspicata – le condotte degli operatori sanitari 38.
In conclusione, val la pena ribadire che esclusivamente il medico può procedere all’interruzione del trattamento sanitario, in quanto nella sua posizione
di garante – all’interno di una “alleanza” con il paziente orientata a scongiurare
le piaghe dell’accanimento e dell’abbandono terapeutico – può verificare con
rigore i requisiti di validità e di attualità della rinuncia del malato (la quale deve
essere consapevole, informata, autentica, reale e chiaramente espressa). Di
conseguenza, nei confronti di qualsiasi altro soggetto – ovviamente anche un
familiare del malato – che abbia causato la morte del paziente mediante l’interruzione di un trattamento di sostegno vitale non desiderato si prospetta l’applicazione del delitto di cui all’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente) 39.
34
F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale, cit., 101.
Cosı̀, LA ROSA, cit., 136; RISICATO, cit., 61, nt. 193; A. VALLINI, Rifiuto di cure, cit., 77.
36
V. gli AA. citati alla nota precedente e le osservazioni di F. VIGANOv , La tutela penale
della libertà individuale, I, L’offesa mediante violenza, Milano, 2002, 277.
37
Problematico, A. VALLINI, ult. cit., 78. Ritiene giustamente tale soluzione una “forzatura”
del dato testuale e strutturale dell’art. 572 c.p., LA ROSA, cit., 137.
38
Paradigmatica, in tal senso, la copiosa previsione di disposizioni penali in un altro settore dell’attività medica, quello della procreazione medicalmente assistita (sia consentito il rinvio a S. CANESTRARI, Limiti e sanzioni delle norme sulla procreazione medicalmente assistita, in Dir. pen. e processo, 2004, 411 ss.).
39
Conferma S. SEMINARA, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby, cit.; contra, F.
GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale, cit., 98. Di diverso avviso anche DONINI, cit., 915,
secondo cui il non medico, con il suo intervento, concorre con il paziente immobilizzato nella
35
RIFIUTO
696
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
1.3. LA SOSPENSIONE O LA MANCATA ATTIVAZIONE DELLE CURE DI SOSTENTAMENTO
VITALE NEI CONFRONTI DI PAZIENTI IN STATO DI INCOSCIENZA.
1.3.1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE.
Nella prassi sono frequenti le vicende drammatiche in cui il paziente non è in
grado di esprimere la propria volontà per perdita irreversibile della coscienza. La
questione centrale riguarda i confini dell’obbligo di curare del sanitario, in un’epoca in cui gli strumenti di rianimazione consentono di mantenere funzioni vitali anche in presenza di danni cerebrali che eliminano la coscienza e persino nel caso di
distruzione dell’intero encefalo. I dilemmi che si pongono sono angoscianti: per un
verso, occorre evitare la terribile situazione della distanasia o accanimento terapeutico; per l’altro, è necessario garantire le residue speranze di vita del malato 40.
Il punto di partenza per analizzare questa problematica non può che essere
rappresentato dall’individuazione del momento della morte. Nel nostro ordinamento si assume il criterio della morte cerebrale totale, introdotto dall’art. 1
l. 29-12-1993, n. 578 («Norme per l’accertamento e la certificazione di morte»),
in armonia con gli esiti di un vivace dibattito internazionale.
Sulla base di tale normativa la morte deve essere identificata con la cessazione definitiva ed irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, della corteccia
cerebrale – che presiede all’attività cosciente – e del tronco cerebrale sede del
sistema nervoso centrale. Questa presa di posizione del legislatore italiano recepisce le conclusioni del Comitato Nazionale di Bioetica (1991) e ha ricevuto l’autorevole avallo della C. Cost. (sent. n. 414/1995 sulla legittimità costituzionale
dell’art. 589 c.p.).
Di conseguenza, una volta accertata la morte alla stregua della disciplina
vigente, il medico deve cessare ogni attività terapeutica, pena l’applicazione degli artt. 410-413 c.p. (Vilipendio di cadavere; Distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere; Occultamento di cadavere; Uso illegittimo di cadavere) 41.
1.3.2. LO
STATO VEGETATIVO PERMANENTE.
GIURISPRUDENZIALI.
LE
PRESE DI POSIZIONE
A questo punto è necessario fare riferimento ad un quadro clinico particolare, denominato stato vegetativo permanente (SVP). Nei casi di SVP, la perdita
realizzazione di un «suicidio obiettivamente scriminato», perché espressivo di un legittimo rifiuto di cure.
Sulla necessità di prevedere comunque una disciplina ad hoc per le condotte eutanasiche
di fronte all’assoluta inadeguatezza delle fattispecie previste dal codice penale del 1930, v. S.
CANESTRARI, Le diverse tipologie, cit., 751 ss.
40
A. VALLINI, Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di incoscienza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, 1426 ss.
41
F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale, cit., 102.
RIFIUTO
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
697
della coscienza è completa ed irreversibile, ma si conservano le funzioni biologiche fondamentali (respirazione, circolazione, termoregolazione, attività gastrointestinale e renale); inoltre, sono presenti i riflessi del tronco encefalico e
talvolta il movimento spontaneo della deglutizione, anche se la motilità volontaria è del tutto assente 42. Per i soggetti in stato vegetativo permanente è possibile attuare solo il mantenimento in vita mediante nutrizione e idratazione artificiali (NIA), per via parenterale o tramite sonda gastrica, con assistenza infermieristica.
Le problematiche che solleva lo SVP sono molteplici e complesse, come dimostrano anche le tragiche vicende oggetto di pronunce giurisprudenziali (il
caso Cruzan negli Stati Uniti; il caso Bland nel Regno Unito; da noi, il noto caso
di Eluana Englaro). Innanzitutto, si discute se sia opportuno distinguere tra
stato vegetativo persistente e stato vegetativo permanente, di fronte alla difficoltà empirica di dimostrare l’irreversibilità della condizione clinica del paziente. In secondo luogo, non vi è concordia sulla qualificazione della nutrizione
e idratazione artificiali come trattamenti medici, oppure come misure ordinarie
di assistenza.
La mancata soluzione di tali questioni compromette la validità dei principali
criteri utilizzati per stabilire i confini di liceità dell’attività sanitaria nei confronti
degli individui in SVP. Come appare evidente, all’argomento del «migliore interesse del paziente» si può opporre la soluzione in dubio pro vita e il rischio di
una «china scivolosa» (slippery slope) in grado di condurre ad arbitrarie anticipazioni del momento della morte. In un contesto caratterizzato da gravi incertezze anche la nozione di «accanimento terapeutico» – già proposta in diverse
accezioni nella letteratura bioetica italiana – non può offrire «prestazioni» convincenti, in quanto risulta priva di ancoraggio a solidi presupposti scientifici.
Il caso di Eluana Englaro, la giovane donna da oltre 15 anni in stato vegetativo permanente in seguito ad un incidente stradale, mantenuta in vita artificialmente nonostante le ripetute richieste del padre, suo rappresentante legale, di
sospendere il trattamento di sostegno vitale, è stato oggetto di un aspro dibattito politico e ha dato luogo a diverse pronunce giurisprudenziali 43.
42
DEFANTI, Sugli stati di confine (brain death, brain life) e sull’identità personale nelle
malattie cerebrali, in CORRADO VIAFORA, La bioetica alla ricerca della persona negli stati di
confine, Padova, 1994, 53 ss.
43
S. SEMINARA, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby, cit., 1561 ss.; F. VIGANOv ,
Riflessioni sul caso di Eluana Englaro, in Dir. pen. e processo, 2008, 1035; G. IADECOLA, La
Cassazione civile si pronuncia sul caso “Englaro”: la (problematica) via giudiziaria al
testamento biologico, in Riv. it. medicina legale, 2008, 607 ss.; PULITANOv , CECCARELLI, cit., 330
ss.; M.C. BARBIERI, Stato vegetativo permanente: una sindrome “in cerca di un nome” e un
caso giudiziario in cerca di una decisione. I profili penalistici della sentenza Cass., 4
ottobre 2007, sez. I, civile sul caso di Eluana Englaro, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008,
389 ss.
698
RIFIUTO
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
Il ricorso presentato da Beppino Englaro, padre e tutore della donna, volto
ad ottenere l’autorizzazione ad interrompere le cure mediche, dichiarato più
volte inammissibile o respinto nel merito dall’Autorità giudiziaria 44 è stato infine
accolto dalla Corte d’Appello di Milano, che con decreto del 25-6-2008 ha autorizzato il distacco del sondino nasogastrico. Il decreto della Corte d’Appello di
Milano del 2008 conclude il lungo e complesso iter giudiziario e dà attuazione al
principio di diritto formulato dalla Corte di Cassazione, che aveva accolto il ricorso presentato da Beppino Englaro avverso il decreto della Corte d’Appello di
Milano del 16-12-2006, rinviando la decisione ad una diversa sezione della Corte
d’Appello di Milano 45. Il ricorso presentato dal Procuratore generale presso la
Corte d’Appello di Milano avverso detto decreto è stato dichiarato inammissibile
per difetto di legittimazione dalla Cassazione 46 e i ricorsi per conflitto di attribuzione sollevati dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica nei
confronti della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Milano sono stati
dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale 47.
La Cassazione, in primo luogo, ribadisce il principio generale della libertà di
autodeterminazione terapeutica e del consenso informato e precisa che questo
implica anche il diritto di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Inoltre, la Suprema Corte afferma che anche nel caso in cui il paziente non
sia in grado di manifestare la propria volontà, a causa del suo stato di totale
incapacità, «l’istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal
loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in
ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il
legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati». La
Cassazione ha sottolineato comunque che «la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non
“al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita
della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo
44
V. T. Lecco, (decr.) 2-3-1999; A. Milano, (decr.) 31-12-1999, in Foro it., 2000, I, 2022 ss.;
T. Lecco, (decr.) 2-2-2006; da ultimo, A. Milano, (decr.) 16-12-2006.
45
A. Milano, sez. I civ., 16-10-2007, n. 21748, in Foro it., 2007, I, 3025 e in Riv. it. dir. e
proc. pen., 2008, 384 ss.
46
Cass. civ., S.U., 13-11-2008, n. 27145.
47
C. Cost., (ord.) n. 334/2008.
RIFIUTO
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stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche». Il vincolo al potere rappresentativo del tutore trova un preciso referente normativo nell’art. 6 della Convenzione di Oviedo, che impone di correlare al «bénéfice direct» dell’interessato la
scelta terapeutica effettuata dal rappresentante; nell’art. 13 l. 22-5-1978, n. 194
sulla interruzione volontaria della gravidanza, relativa alla ipotesi di donna interdetta per infermità di mente; nell’art. 5 d.lg. n. 211/2003, ai sensi del quale il
consenso del rappresentante legale alla sperimentazione clinica deve corrispondere alla presunta volontà dell’adulto incapace.
Alla luce dei principi e delle norme dell’ordinamento italiano e della giurisprudenza straniera, la Cassazione ha formulato il seguente principio di diritto:
«Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato
vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al
mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore
che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può
autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione
delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima
possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno
ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti,
della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza,
l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di
autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla
percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa».
La presunta volontà della persona in stato di incoscienza deve dunque essere ricostruita, ad avviso della Corte, sulla base di «chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni
dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del
suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza», cosı̀ che «la
scelta non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato,
e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità
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RIFIUTO
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complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di
incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona».
1.3.3. LE
DIRETTIVE ANTICIPATE DI TRATTAMENTO.
Preso atto dei dilemmi posti dalla condizione clinica dello stato vegetativo, è
necessario affrontare con urgenza la tematica delle cc.dd. direttive anticipate di
trattamento (advance directives). Com’è noto, tale pratica – variamente definita con termini soltanto in parte equivalenti: living will, testamento in vita,
testamento biologico, carta di autodeterminazione del malato – tende a valorizzare la responsabilità decisionale del paziente 48. Si tratta, infatti, di dichiarazioni con cui un soggetto esprime la propria volontà in merito alle cure che preferisce ricevere, oppure intende rifiutare, nelle ipotesi in cui si venga a trovare
in stato di incoscienza o nella condizione di malato terminale 49.
Le riserve manifestate in ordine al valore da riconoscere alle direttive anticipate sono serie. In estrema sintesi: si sottolinea con preoccupazione la questione del contenuto delle advance directives – che non deve essere generico
e ambiguo, compatibile con diverse scelte terapeutiche –; della loro autenticità
o spontaneità, e del loro periodico rinnovo; delle modalità di revoca; della rappresentanza dei soggetti in stato di incapacità.
Una risposta definitiva a tali problematiche non appare certo agevole, ma ciò
non deve condurre ad affermare l’irrilevanza delle direttive anticipate. Tale strumento è compatibile con il nostro ordinamento costituzionale, in quanto valorizza il rispetto dei convincimenti personali applicando il criterio del minor scostamento possibile dalla volontà del soggetto interessato.
Sulla base di tali riflessioni, risulta pienamente condivisibile la posizione assunta dalla «Convenzione europea sui diritti umani e la biomedicina» (la nota
«Convenzione di Oviedo»). Ed invero, secondo l’art. 9, «al riguardo di un intervento medico concernente un paziente che al momento dell’intervento non è in
grado di esprimere il proprio volere devono essere presi in considerazione i desideri da lui precedentemente espressi» (nella stessa direzione, l’art. 34,
2o comma, del codice di deontologia medica del 1998).
48
CATTORINI (a cura di), Le direttive anticipate del malato, Milano, 1999; VITELLI (a cura
di), Le direttive anticipate: dalla autonomia del paziente alla carta di autodeterminazione, in supplemento a Bioetica, 2001, n. 2.
49
In argomento, v. INTRONA, Direttive anticipate, sospensione delle cure, eutanasia: la
medicina e la bioetica nel terzo millennio, in Riv. it. medicina legale, 2005, 9 ss.; EUSEBI,
Note sui disegni di legge concernenti il consenso informato e le dichiarazioni di volontà
anticipate nei trattamenti sanitari, cit., 253 ss.; TASSINARI, cit., 265 ss.; PAONESSA, La disciplina delle direttive anticipate di trattamento: uno sguardo all’esperienza straniera, in
Criminalia, 2008, 455 ss.
RIFIUTO
E RINUNCIA AI TRATTAMENTI SANITARI
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In una diversa prospettiva, si collocano invece le norme contenute nel recente disegno di legge Calabrò, che devono essere oggetto di severi rilievi critici
in quanto finiscono per negare valore alla volontà manifestata dall’interessato in
epoca precedente alla perdita di coscienza 50.
50
Per una lettura in chiave critica del disegno di legge Calabrò (“Disposizioni in materia di
alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”), si
veda, fra gli altri, D’AVACK, Il disegno di legge sul consenso informato all’atto medico e sulle
dichiarazioni anticipate di trattamento, approvato al senato, riduce l’autodeterminazione del paziente e presenta dubbi di costituzionalità, in Dir. famiglia, 2009, 03, 1281. Per
il testo del disegno di legge, si veda ivi, 1589 ss.
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