Bryan Coburn et al JAMA. 2012

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Letteratura in Urgenza
Does this Adult Patient with Suspected Bacteremia Require Blood
Cultures? Bryan Coburn et al JAMA. 2012; 308(5): 502-511
Il ricorso alla emocoltura nel sospetto di una batteriemia è abbastnza diffuso. Da questa review emerge come
negli adulti l’emocoltura non dovrebbe essere richiesta per riscontro isolato di febbre o leucocitosi. +La probabilità
pretest di batteriemia varia in funzione del conbtesto clinico (per es è bassa nella cellulite – 2% e alta nello shock
settico –69%). La probabilità pretest dovrebbe essere valuatata o sulla presenza di SIRS (QJM 1996; 89: 515522) o se presenti i criteri stabili da Shapiro e Colleghi (J Emerg Med 2008; 35: 255 264) così sintetizzabili;
almeno 1 criterio maggiore o 2 criteri minori
Criteri maggiori
Criteri minori
Sospetta endocardite
Temp > 39.4
Catetere a dimora
Temp 38.3-39.3
Età > 65 aa
Brividi
Vomito
PAS < 90 mmHg
GB > 18.000/mmc
Creatinina > 2 mg/dL
Assenza dei criteri per SIRS o dei criteri proposti da Shapiro e Colleghi identifixcano gruppi di Pz per i quali non
vi è necessità di emocolture. Queste conclusioni non si applicano a Pz immunocompromessi o con sospetto di
endocardite batterica.
Riassunto, recensione e commento di Mauro Fallani. Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza. Responsabile UOS
Medicina d’Urgenza. Dipartimento Emergenza Urgenza. Ospedale Ceccarini di Riccione. Azienda USL di Rimini
One-Hour Rule-out and Rule-in of Acute Myocardial Infarction Using
High-Sensitivity Cardiac Troponin T Tobias Reichlin et al Arch. Intern.
Published online August 13, 2012 e il commento Myocardial Infarction
Rule-out in the Emergency Department L. Kristin Newby
L’uso della troponina T ad alta sensibilità si è dimostrata utile nella diagnosi precoce dell’infarto ma non è ancora
stato identificato il miglior utilizzo possibile del test. In questo studio prospettico multicentrico sono stati arruolati
872 Pz con dolore toracico nel Dipartimento di emergenza. Lo studio prevedeva un algoritmo con un controllo
basale ed una a 1 ora e la diagnosi finale sui Pz è stata fatta indipendentemente da 2 Cardiologi. I Pz studiati
sono stati randomizzati in due gruppi di 436 unità e da primo gruppo si sono derivati i valori di riferimento e sul
2° gruppo si è ottenuta la validazione del sistema. Ebbene considerando diagnostico per rule out un valore al
primo controllo < 12 ng/L o una variazione rispetto al successivo controllo < 3 ng/L oppure diagnostico per rule
un valore al primo controllo ≥ 52 ng/L o una variazione rispetto al successivo controllo ≥ 5 ng/L circa 3 Pz su 4
(77%) soddisfano questi valori e quindi in una sola ora concludono l’iter per sospetto NSTEMI.
Nel braccio di validazione nessun Pz con NSTEMI è stato perso e 12 Pz sono stati arruolati per scoprire successivamente una diagnosi diversa (4 aritmia, 1 miocardite, 2 TEP, 1 crisi ipertensiva, 1 scompenso e 3 dolori toracici
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Letteratura in Urgenza
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di origine non determinata). Nei 101 Pz non classificabili né come rule in o rule out diagnosi di NSTEMI è stat
posta in 8 soggetti (prevalenza di NSTEMI in questi Pz 8%).
Lo studio dimostra come l’utilizzo della troponina ad alta sensibilità offra delle prospettive non ancora chiare e da
definire ma che possono rendere più veloce lo studio dei Pz con dolore toracico nei Dipartimenti di Emergenza.
Riassunto, recensione e commento di Mauro Fallani. Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza. Responsabile UOS
Medicina d’Urgenza. Dipartimento Emergenza Urgenza. Ospedale Ceccarini di Riccione. Azienda USL di Rimini
Journal of the American College of Cardiology
Evolving Considerations in the Management of Patients With Left Bundle
Branch Block and Suspected Myocardial Infarction
Ian J. Neeland, MD; Michael C. Kontos, MD; James A. de Lemos, MD
Authors and Disclosures
Posted: 08/03/2012; J Am Coll Cardiol. 2012;60(2):96-105. © 2012 Elsevier
Science, Inc.
Il lavoro è abbastanza interessante poiché pone alcuni punti di riflessione circa il trattamento di un sospetto AMI
in presenza del ben noto “nuovo blocco di branca sinistro o presunto tale”; in questo caso se volessimo essere
puntigliosi non si tratterebbe di STEMI “sensu strictu” - non essendo l’ST elevato- ma bensì di sospetta sindrome
coronarica acuta con nuovo (o supposto tale) blocco di branca sinistro (LBBB). Non a caso si parla di sospetta
SCA in quanto in molti casi il dosaggio degli enzimi cardiaci o della Ths potrebbe fare perdere tempo prezioso al
potenziale trattamento della lesione coronarica.
Il dissertare circa la diagnosi di AMI in caso di LBBB non è comunque argomento di primo pelo, poiché, fin dall’aime’, lontano 1996, Sgarbossa et All., sul NEJM, tentarono di divulgare un sistema a punti, utile soprattutto in
teoria ai medici dell’ urgenza piu’ che ai cardiologi, per potere aiutare a risolvere tale problema.
Vale la pena comunque leggere l’ articolo:
• per la spiegazione della fisiopatologia del LBBB nella sindrome coronarica acuta.
• per la revisione della letteratura cioe’ di quanti LBBB sono stati sottoposti a coronarografia che successivamente si sono dimostrati senza AMI.
• per una interessante revisione bibliografica circa la diagnostica di AMI in caso di LBBB sulla base dell ECG di
superficie.
Le conclusioni dell’articolo non sono, come potrete notare, sinceramente “outstending” (io non sarei mai riuscito a
pubblicare un lavoro con delle conclusioni simili) limitandosi a consigliare di usare peculiare attenzione nel condurre ad una terapia fibrinolitica il Paziente con sospetta SCA e LBBB; meno problematico risulta, nei centri di 2-3
livello, “esporre” il paziente ad una coronarografia diagnostica-terapeutica.
Riassunto, recensione e commento di Alessandro Venturi. U.O. Medicina Interna - Dipartimento Malattie Apparato
Digerente e Medicina Interna - Policlinico S. Orsola Malpighi di Bologna, Università degli Studi di Bologna
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Letteratura in Urgenza
Use of the CHA2DS2-VASc and HAS-BLED Scores to Aid Decision Making
for Thromboprophylaxis in Nonvalvular Atrial Fibrillation. DA Lane,
GYH Lip. Circulation 2012; 126: 860-865.
La fibrillazione atriale-FA aumenta di 5 volte il rischio di stroke mentre la terapia anticoagulante lo riduce così
come riduce il rischio di morte per ogni causa. Ciò ha portato le lineeguida a proporre la terapia anticoagulante
nei Pz che presentano/hanno presentato FA, con l’esclusione dei soggetti a basso rischio (età < 65aa, FA senza
patologia sottostante). In questo sintetico e brillante update viene analizzata l’utilità del CHA2DS2VASc nella stratificazione del rischio nel Pz con FA. Viene poi preso in considerazione il rischio emorragico nel mettere il Pz in
TAO e analizzate le performances dell’ HAS-BLED score. L’ HAS-BLED non deve essere utilizzato per escludere il
singolo Pz quando viene posta una corretta indicazione alla TAO ma eventualmente a rimuovere i fattori di rischio
affrontabili (es l’ipertensione o l’abuso di alcool).
Riassunto, recensione e commento di Mauro Fallani. Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza. Responsabile UOS
Medicina d’Urgenza. Dipartimento Emergenza Urgenza. Ospedale Ceccarini di Riccione. Azienda USL di Rimini
Intensive and Standard Blood Pressure Targets in Patients with Type 2
Diabetes Mellitus: Systematic Review and Meta-analysis. Kerry McBrien
et al. Arch Intern Med. Published online August 06, 2012
Il trattamento dell’ipertensione nel Pz diabetico è in grado di migliorare l’outcome cardiovascolare anche se rimangono incerti gli obbiettivi di riduzione pressoria. In questa metanalisi è stata valutata l’efficacia di una riduzione
aggressiva (obbiettivo 130 mmHg per la sistolica e 80 per la diastolica) rispetto a parametri standard (obbiettivo
140-160 mmHg per la sistolica e 85-100 per la diastolica) nei Pz diabetici tipo II. Con la riduzione intensiva della
PA, nei diabetici di tipo II, è stata documentata solo una lieve riduzione nel rischio di stroke, peraltro non statisticamente significativa, ma nessun effetto su mortalità e rischio di infarto miocardico.
Riassunto, recensione e commento di Mauro Fallani. Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza. Responsabile UOS
Medicina d’Urgenza. Dipartimento Emergenza Urgenza. Ospedale Ceccarini di Riccione. Azienda USL di Rimini
New Oral Anticoagulants for Atrial Fibrillation. Sarah A Spinler,
Valerie Shafir. Circulation 2012;126:133-7
NB: la prima Autrice è consulente per la Jansser Pharmaceuticals Inc.
Punto della situazione sui nuovi anticoagulanti orali, attraverso tre casi clinici che sollevano alcune delle questioni
più attuali e dibattute sul loro utilizzo.
Il dabigatran (150 mg per 2 volte al dì) è approvato per la prevenzione dell’ictus e del tromboembolismo sistemico
nei soggetti affetti da fibrillazione atriale (AF) a genesi non valvolare: lo studio principale riportato in letteratura
è il RE-LY che mostra una riduzione degli eventi/anno rispetto al warfarin (1.11% versus 1.71) senza aumento
delle complicanze emorragiche, ma con elevata incidenza di dispepsia (11.3% vs 5.8) tal da condizionare la
prosecuzione della terapia stessa. E’ consigliata riduzione della dose in presenza di clearance della creatinina
(CC) di 15-30 ml/min o per interazione con altri farmaci (tra i quali in particolare dronedarone e ketoconazolo);
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in assenza di informazioni sufficienti su sicurezza ed efficacia per CC < 15 non dovrebbe essere indicato. Linee
guida di rinomate società scientifiche hanno proposto il dabigatran come alternativa al warfarin (se in assenza di
protesi valvolare, di valvulopatia emodinamicamente significativa, CC < 15 o epatopatia severa); quelle dell’ACCP raccomandano il dabigatran rispetto agli antagonisti della vitamina K con evidenza di grado 2B. L’efficacia del
warfarin è spesso quantificata anche in riferimento al tempo nel range terapeutico (TTR) in quanto ne è dimostrata
la correlazione con il tasso di eventi emorragici e tromboembolici: il dabigatran conferma, anche in relazione ai
diversi quartili di TTR, il vantaggio rispetto al warfarin.
Il rivaroxaban (20 mg al dì) è approvato per prevenire l’ictus nella AF non valvolare: lo studio di riferimento è il
ROCKET-AF che dimostra riduzione degli eventi/anno rispetto al warfarin (1.71% versus 2.2) senza differenze
nelle emorragie maggiori. E’ raccomandata l’assunzione con il pasto principale, e la riduzione della dose per CC
di 15-50 ml/min; non dovrebbe essere indicato in caso di CC < 15. Non vi sono ad oggi linee guida sufficientemente aggiornate per raccomandare il rivaroxaban. Non vi sono dati secondo i quali i diversi quartili di TTR
dimostrino una maggiore sicurezza del warfarin rispetto al rivaroxaban
Riassunto, recensione e commento di Rodolfo Ferrari, Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso, Policlinico Sant’Orsola – Malpighi, Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna
Update in Asthma 2011. Shamsah Kazani, Elliot Israel. American
Journal of Respiratory and Critical Care Medicine 2012;186:35-40
Raccolta delle novità pubblicate nel 2011 sull’asma, alcune delle quali interessanti per il Medico d’Urgenza.
Negli USA la prevalenza dell’asma è aumentata del 12% dal 2001.
Uno degli argomenti dei quali maggiormente ancora si dibatte, per mancanza di evidenza e di consenso ampiamente condiviso, è quello della sicurezza dei β stimolanti a lunga durata d’azione (LABA): sono in corso studi su
campioni di Pazienti estremamente ampi riguardanti il rischio di ospedalizzazione e di morte quando i LABA siano
associati ai corticosteroidi inalatori (ICS); i risultati non saranno disponibili che fra 4-5 anni da ora.
Altri studi hanno valutato diversi approcci terapeutici (ad esempio somministrazione intermittente versus continua,
alte dosi vs basse dosi) per minimizzare gli effetti aversi dei ICS in particolare nella popolazione pediatrica riguardo alla crescita. Vi sono dati rassicuranti relativi alla sicurezza dell’utilizzo degli ICS in corso di gravidanza
o di polmonite.
Alcuni aspetti assolutamente peculiari e critici nella gestione e nel vissuto quotidiano dell’asma sono stati approfonditi: l’efficacia nei trial clinici non ha un corrispettivo effettivo nel mondo reale nel quale la adesione al trattamento
non è altrettanto seguita e rinforzata; le aspettative dei pazienti condizionano in modo estremamente rilevante
l’esito anche in assenza di miglioramento oggettivo della funzionalità polmonare; l’educazione del paziente asmatico fa la differenza anche e soprattutto quando esce dal setting dell’urgenza.
La terapia dell’asma sta andando verso una personalizzazione molto mirata sulle specifiche caratteristiche del
singolo paziente: in un prossimo futuro saranno disponibili in tal senso informazioni sul fenotipo dell’asma e su
alcuni marcatori di laboratorio utili per individualizzare il trattamento.
L’asma severo o difficile da controllare rappresenta un’entità estremamente eterogenea la cui presentazione clinica
fenotipica può essere correlata a diversi fattori eziologici, differenti cofattori e diversi processi biologici. In tal senso hanno un ruolo di rilievo e devono essere valorizzati fattori quali l’alterazione della funzionalità respiratoria, il
tempo di esordio clinico, la presenza dei sintomi, i livelli di ossido nitrico esalato, l’utilizzo di elevati livelli di cura,
le comorbilità, l’uso di farmaci, la disfunzione delle corde vocali, il reflusso gastro-esofageo.
Altri elementi ai quali è necessario prestare particolare attenzione sono l’etnia e le categorie razziali, la condizione socio-economica, il livello di istruzione, l’accesso alle cure ed ai controlli, le differenze nell’alimentazione, le
infezioni da rinovirus.
L’esposizione durante l’infanzia a fattori potenzialmente causali (quali il cloro delle piscine ed il paracetamolo)
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Letteratura in Urgenza
sono tuttora dibattute.
L’elemento che più pare emergere dagli studi recenti è il fatto che non tutti i pazienti affetti da asma abbiano
effettivamente la stessa malattia; vi sono diversi fenotipi di asma, che sottendono una biologia ed una fisiopatologia differenti, e che di conseguenza meritano un approccio terapeutico specifico, mirato in relazione ad alcune
informazioni bioumorali che supportino il processo decisionale.
Riassunto, recensione e commento di Rodolfo Ferrari, Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso, Policlinico Sant’Orsola – Malpighi, Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna
Does appropriate treatment of the primary underlying cause
of PEA during resuscitation improve patient’s survival? Sini
Saarinen, et al. Resuscitation 2012;83:819-22
The effects of bed height and time on quality of chest compresions
delivered during cardiopulmonary resuscitation: a randomised
crossover simulation study. A Lewinsohn, et al. Emergency
Medicine Journal 2012;29:60-3
Long-Term Prognosis Following Resuscitation From Out of Hospital
Cardiac Arrest. Role of Percutaneous Coronary Intervention and
Therapeutic Hypotermia. Florence Dumas, et al. Journal of the
American College of Cardiology 2012;60:21-7
Implementation of the Fifth Link of the Chain of Survival Concept
for Out-of-hospital Cardiac Arrest. Takashi Tagami, et al.
Circulation 2012;126:589-97
Ecco qui, in rapida sequenza, 4 tra le numerose recentissime pubblicazioni, da 4 riviste differenti, relative a specifici aspetti della rianimazione cardio-polmonare (CPR): la revisione del 2010 delle linee guida tracciate dall’ILCOR
(International Liaison Committee On Resuscitation) rappresenta infatti non un punto di arrivo, quanto una sorta di
momentaneo “stato dell’arte”, e soprattutto un nuovo punto di partenza per studi che verifichino la correttezza
della strada intrapresa e che fungano da stimolo per nuovi miglioramenti nelle future raccomandazioni.
Il primo lavoro (Saarinen, et al.) è retrospettivo, svolto in 3 istituti tra Finlandia e Svezia in un arco di tempo
variabile tra il marzo 2003 ed il marzo 2010. Si parte dal fatto che il 30-37% dei casi di arresto cardiaco intraospedaliero (IHCA) veda come ritmo iniziale documentato l’attività elettrica senza polso (PEA). Scopo dello studio
è valutare quanto spesso i Pazienti in PEA durante CPR ricevano un trattamento appropriato (secondo l’opinione di
un medico ed un infermiere che hanno revisionato la documentazione disponibile, caso per caso) e specifico della
causa dell’IHCA e quale impatto se ne abbia sull’esito. Sono stati perciò analizzati i 104 casi con IHCA in PEA
e comparati due gruppi: i 19 Pazienti (18%) per cui è stata specificamente trattata la causa primaria (per lo più
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Letteratura in Urgenza
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infarto miocardico), e gli 85 (82%) che hanno ricevuto un trattamento non specifico (quindi CPR convenzionale).
Tanti sono i risultati degni di interesse. In 53 casi (51%) si è ottenuto il ripristino della circolazione spontanea
(ROSC), 15 (14%) erano sopravvissuti a 30 giorni. Per il ROSC non si è osservata alcuna differenza tra i due
gruppi comparati; i casi per cui è stata specificamente trattata la causa primaria di IHCA erano più spesso vivi 30
giorni dopo. I sopravvissuti a 30 giorni erano inoltre più giovani (unico dato risultato statisticamente significativo
in modo indipendente all’ analisi multivariata) e meno spesso trattati nei reparti di degenza convenzionale. Tra le
cause reversibili di IHCA che precedono la PEA, si stima che ipossia ed infarto miocardico fossero presenti in oltre
la metà dei casi (terza causa più frequente sarebbe la tromboembolia polmonare), mentre ipotermia, pneumotorace iperteso, intossicazione ed ipopotassiemia sarebbero stati presenti in meno del 10% dei casi (e potrebbero
attendibilmente essere esclusi in circa due terzi dei casi durante CPR). Un’autopsia è stata eseguita in 51 casi (57%
dei decessi) per 44 dei quali è stato possibile determinare la causa di morte; secondo i dati autoptici circa la metà
dei casi presenta una causa reversibile di PEA, ma solo un quinto dei Pazienti riceve il trattamento della causa
primaria. Emerge, come dato particolarmente interessante ed importante, per quanto già sottolineato in altri studi,
come nelle 24 ore antecedenti un IHCA siano valorizzati e riportati in modo estremamente limitato ed insufficiente
i parametri ed i segni relativi all’alterazione delle funzioni vitali.
In conclusione: solo un quinto dei Pazienti con IHCA in PEA riceve un appropriato trattamento della causa primaria
(per lo più ipossia, infarto miocardico, tromboembolia polmonare); la specificità del trattamento pare in grado di
aumentare la quota di Pazienti vivi a 30 giorni.
Il secondo articolo (Lewinsohn, et al), realizzato nel Regno Unito, si occupa di un aspetto ben noto a tutti coloro che
operano nel mondo dell’Emergenza-Urgenza e di recente nuovamente enfatizzato dall’ILCOR, cioè la differenza
nell’efficacia delle compressioni toraciche (CC) (secondo tutti gli aspetti mai sufficientemente rimarcati che ne riguardano profondità, compressione cardiaca tra sterno e corpi vertebrali, rilascio, perfusione coronarica) durante
CPR in relazione all’ altezza del lettino sul quale è posto il Paziente ed all’affaticamento dell’operatore. E’ stato
generato un modello applicato su manichini posti a tre differenti livelli di altezza rispetto all’operatore (alla metà
della coscia, spina iliaca antero superiore, xifosternale) con la possibilità di misurare le pressioni intratoraciche
(ITP) generate, considerandole come surrogato dell’efficacia delle CC.
Sono stai valutati 101 operatori, differenti per estrazione ed esperienza: le ITP maggiori generate dopo 30 secondi di CPR sono state ottenute con lettino all’altezza della coscia, con una riduzione del 7% alzando il letto
alla spina iliaca, e di un ulteriore 16% allo sterno; ciò significa che la posizione del lettino incide di per sé per il
22% sulle pressioni generate durante CPR. In 45 individui si è valutato l’affaticamento: le ITP generate a 2 minuti
sono risultate significativamente inferiori (del 17%) rispetto a quelle a 30 secondi; solo il 34% dei soggetti ha
soggettivamente avvertito la fatica ed ha dichiarato la propria difficoltà nel proseguire con CC ottimali. È allora
consigliabile che la rotazione degli operatori delle CC durante CPR avvenga piuttosto dopo ogni ciclo di 2 minuti
in modo sistematico, e non avendo come criterio la percezione dell’affaticamento da parte dell’operatore stesso.
In conclusione: durante RCP il lettino dovrebbe trovarsi all’altezza del ginocchio dell’ operatore delle CC, portando il torace del Paziente in linea con la metà della coscia; se questo non fosse possibile, sarebbe allora opportuno
che l’operatore eseguisse le CC in ginocchio accanto al Paziente.
La terza pubblicazione (Dumas, et al) riguarda il quinto anello della catena della sopravvivenza, l’assistenza integrata post-risuscitazione: l’evidenza supporta gli interventi mirati specificamente alla causa dell’arresto cardiaco
extra-ospedaliero (OHCA) ed a limitare il danno ischemia-riperfusione, in relazione alla mortalità a breve termine,
ma non è ad oggi documentato quanto questi trattamenti abbiano impatto sulla prognosi a lungo termine. Questo
studio di coorte osservazionale riguarda 1001 casi raccolti in 9 anni (in un Sistema di Emergenza costituito da 13
ospedali nell’Area dello stato di Washington, ciascuno dotato di Laboratorio di Emodinamica e Unità di Terapia
Intensiva) di OHCA non traumatica, rianimati e sopravvissuti sino alla dimissione.
Dei 1001 casi dimessi vivi (sui totali 5958 di OHCA): 85% presentavano buon esito neurologico (definito come
Cerebral Performance Category – CPC – 1 o 2); nel corso del ricovero il 38.4% è stato sottoposto ad intervento
coronarico percutaneo (PCI) (l’80% entro le prime 6 ore; di questi, il 70.9% per elevazione del tratto ST all’ECG a
12 derivazioni); il 26% degli eligibili ha ricevuto ipotermia terapeutica (TH); complessivamente il 9.1% degli eligibili ha ricevuto entrambi i trattamenti. La sopravvivenza è risultata: dell’86.9% a 6 mesi, 82.2% a 1 anno, 64.1%
a 5 anni; maggiore in chi ha ricevuto PCI rispetto a chi non è stato trattato (rispettivamente 79 % versus 54% a 5
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Letteratura in Urgenza
anni), e lo stesso vale per l’HT (78 vs 60%); massima in chi è stato sottoposto ad entrambe le terapie, minima in
chi non ne ha ricevuto alcuna. Nell’analisi multivariata PCI e TH sono entrambe indipendentemente associate a
migliore prognosi (così come l’impianto di defibrillatore – ICD) ed a minore rischio di morte.
Particolare interesse riveste il dato che dimostra il beneficio della PCI sulla sopravvivenza anche nel sottogruppo
senza elevazione del tratto ST, stimolando ancor più il dibattito sul fatto che ogni caso di OHCA, indipendentemente dall’evidenza di elevazione del tratto ST, debba o meno essere sottoposto di routine allo studio coronarografico
precoce. Un dato sicuramente forte che emerge da questo lavoro è l’evidenza che nell’OHCA differenti trattamenti
siano in grado di migliorare l’esito a lungo termine, e che perciò sia mandatorio in fase ospedaliera un approccio
multidisciplinare che sappia coordinare i diversi interventi post-risuscitazione, identificando coloro che più di altri
possano trarne beneficio, minimizzando i rischi ed ottimizzando l’utilizzo efficiente delle risorse disponibili.
Anche il quarto studio (Tagami, et al) multicentrico, prospettico, di coorte, realizzato in 12 istituti ospedalieri in
Giappone, si interessa del quinto anello della catena della sopravvivenza nell’OHCA e delle evidenze che ne
supportano il crescendo di sforzi ed interessi al riguardo. Vengono analizzati i dati di due diversi periodi, uno
di 28 mesi, precedente l’approvazione di una campagna sul trattamento multidisciplinare post-risuscitazione, ed
uno successivo di 24 mesi, entrambi antecedenti l’aggiornamento 2010 delle linee guida dell’American Heart
Association; l’attenzione è rivolta all’esito come sopravvivenza ad 1 mese e minimo deficit neurologico residuo
(CPC 1 o 2).
Al confronto tra i 770 e 712 casi di OHCA analizzati rispettivamente prima e dopo la campagna di cui detto:
non sono emerse differenze riguardo ai primi 4 anelli della catena; la percentuale di ROSC non è cambiata con
l’implementazione della campagna; il tasso di esito neurologico favorevole è incrementato dallo 0.5% al 3% dei
casi; si è assistito ad un incremento della proporzione di casi sopravvissuti ad un mese con buon recupero neurologico (dal 19 al 51%); è migliorata dal 2.3 al 4.2% la sopravvivenza alla dimissione; correlano con buon esito
neurologico l’età, il ROSC in fase pre-ospedaliera, l’utilizzo pre-ospedaliero del defibrillatore, ed il trattamento
post-risuscitazione; si è assistito ad un aumento di casi sottoposti a trasferimento secondario con ambulanza medicalizzata ad ospedali di terzo livello.
Si conferma allora come il lavorare sul miglioramento del quinto anello della catena della sopravvivenza, quindi,
permetta di aumentare il tasso di persone affette da OHCA in grado di tornare a casa propria senza disabilità
fisiche o neurologiche, aumentando perciò sia la quantità che la qualità di vita, scopo primo ed ultimo della RCP.
Degno di nota è anche il fatto che il trattamento post-risuscitazione nella seconda fase dello studio sia stato garantito a tutti i casi ROSC ricoverati in Terapia Intensiva, indipendentemente dall’età e dalla causa dell’OHCA, e che
questo non abbia incrementato i casi con severo deficit neurologico (CPC 3 o 4).
Riassunto, recensione e commento di Rodolfo Ferrari, Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso, Policlinico Sant’Orsola – Malpighi, Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna
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