Venosa antica dalla fondazione all`età di Orazio

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Aperiodico on-line di attualità e cultura
reg. del tribunale di Potenza n° 363 del 3 luglio 2007
Rubriche – Archeologia & Arte
Articolo pubblicato sull’uscita N° 1 del 11 luglio 2007 - Eccoci
Venosa antica dalla fondazione all’età di Orazio
di Marino Faggella
Prima di stendere queste pagine, dettate dal proposito di seguire il tracciato di un
percorso storico- archeologico che ripercorrendo idealmente la via Appia mi
conducesse fino a Venosa, attraversato più volte dal dubbio, ho creduto che in fondo
non avesse senso riparlare di Orazio e della sua città natale, soprattutto dopo la
celebrazione del Bimillenario della morte del poeta che ha richiamato per l’occasione
in Basilicata fior di studiosi di provenienza internazionale i quali, celebrando in modo
degnissimo il Venosino, hanno lasciato una traccia indelebile di scrittura in quelle
giornate di studio. Eppure, ripensando alle cose che in occasione
di
quell’anniversario sono state dette e scritte, ho avuto spesso il sospetto che non tutto
fosse stato asserito giustamente e a proposito: come, ad esempio, il fatto di insistere
troppo sulla cosiddetta “ lucanità” di Orazio, riconosciuta in alcuni casi a forza
nell’opera del poeta. Questo è anche il prezzo che, a mio modo di vedere, la cultura
ufficiale doveva pagare alla regione e alla città che ospitava i lavori, la quale in quella
occasione, quasi esclusivamente nel nome di Orazio, usciva da un lungo isolamento
geografico e culturale da cui a dire il vero ancor oggi a malapena la riscatta una
nuova notorietà ( sottolineata anche da una recente attività editoriale, sebbene in
alcuni casi essa arrivi a sfruttare un po’ troppo anche l’opera del maggior poeta
locale) anche alla luce degli ultimi esiti dell’attività archeologica che attira sempre
più l’attenzione di studiosi e visitatori esterni a Venosa, una città che è in grado di
fornire in un unico, anche se complesso contenitore, una ricca ed interessantissima
quantità di dati storico-monumentali che, insieme alle amenità locali, aspettano di
essere riscoperti e fruiti da viaggiatori interessati e curiosi di sapere.
Prima di soffermarmi più da vicino sulla questione dell’appartenenza più o meno
sicura di Orazio alla Lucania, ritengo sia opportuno cominciare dai dati storicoarcheologici, anche per vedere che cosa oggi sopravvive, a partire dalla fondazione
della città, dei tempi storici del poeta.
La colonia di Venosa, dove Orazio nacque nel 65 a.C., come testimonia anche il
poeta, venne fondata dai Romani nel 291 a.C., quale caposaldo strategico-militare al
termine delle guerre sannitiche, testa di ponte fondamentale della conquista del sud
d’Italia per arginare gli improvvisi assalti dei popoli indigeni, dopo che erano stati già
respinti, come sostiene lo stesso poeta, gli antichi abitatori “ pulsis, vetus est fama
Sabellis”. La conquista di questo baluardo situato sulle ultime propaggini
dell’Appennino lucano nella zona di confine tra l’Apulia, la Lucania e il Sannio fu di
importanza fondamentale nel processo di penetrazione romana nell’area dauna
giacché consentiva il controllo della piana dell’Ofanto e dei territori precedentemente
occupati dai Sanniti. La nuova colonia, proprio a causa della sua posizione strategica
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in un fondamentale luogo di transito e perché attraversata dalla Via Appia, la più
importante arteria di comunicazione del mondo antico, che collegando Roma a Capua
attraverso il Sannio giungeva fino a Brindisi, era destinata ad avere con gli anni un
ruolo sempre più importante sia economico che militare, e tanta floridezza da essere
ancora definita splendida civitas in una tarda epigrafe del IV secolo d.C.
La forma urbana
La scelta del sito in cui impiantare la città, la sua stessa forma urbana furono
condizionate per gli occupanti dalla duplice necessità di coniugare la valenza
strategico-militare del luogo con l’opportunità di reperire in loco autonomamente
tutto ciò che servisse sia al loro mantenimento sia all’opera funzionale di costruzione
e fortificazione urbana. Un esteso pianoro, delimitato dai valloni scoscesi del
Ruscello e del Reale e integrato nel sistema collinare che costeggia la valle
dell’Ofanto, corrispondendo perfettamente ai requisiti di difendibilità e di continuato
approvvigionamento degli abitanti, venne individuato quale sede della nuova colonia.
L’insediamento fu delimitato da una cinta muraria in calcare che seguiva tutto il
bordo collinare e di cui resta allo scoperto un breve tratto visibile nell’attuale largo
Marcello, una delle poche emergenze monumentali del periodo coloniale che ancora
sopravvivono.
Lo sviluppo dell’impianto cittadino antico si estendeva per circa 40 ettari, compresi
fra la Chiesa della SS. Trinità e il più recente Castello Pirro Del Balzo. La forma
stretta ed allungata dell’altopiano, sul quale fu edificata Venosa, ha finito col
condizionare decisamente il successivo sviluppo urbanistico della città, che ancora
oggi, nel centro storico, conserva l’antico impianto urbanistico, costituito da lunghi e
stretti isolati di forma rettangolare, affiancati, lungo il loro lato breve, in direzione EO da due platèiai 1, corrispondenti ai due attuali assi viari maggiori di Corso
Garibaldi e Vittorio Emanuele II, che percorrevano il centro storico nella sua
lunghezza, incrociando strade ortogonali secondarie. La forma urbanistica dell’antica
Venusia, certamente poco standardizzata e non propriamente rispondente né alla
struttura planimetrica di forma quadrangolare con viabilità cruciforme del più antico
modello “ castrense “ né agli archetipici più ricorrenti dei primi impianti coloniali
romani, fa pensar piuttosto ad un’influenza del successivo modello ippodameo 2,
come dimostra lo schema rettangolare degli isolati e dell’impianto viario, la
collocazione asimmetrica delle porte e l’articolazione a gradoni dei vari quartieri per
dare una soluzione di tipo modulare al problema del dislivello delle quote.
L’insediamento coloniale
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Vie larghe che attraversavano tutta la città.
Ippodamo di Mileto, architetto attivo ad Atene alla fine del IV secolo a.C., al fine di razionalizzare qualsiasi impianto
urbanistico, sostenne l’opportunità di planimetrie regolari anche in presenza di luoghi accidentati o in pendio che
potevano comunque essere sistemati a terrazze.
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L’insediamento coloniale, come testimoniano gli storici Strabone e Dionigi di
Alicarnasso, comportò l’azzeramento di un centro sannitico molto popoloso,
precedentemente sorgente in quell’area collinare, che fu occupato da L. Postumio
Megello, uno dei consoli dell’anno 291, al quale tuttavia non spettò di assegnare il
nome alla città né di far parte dei tresviri coloniae deducendae, perché tirato in uno
scandalo dal senato come dice Livio, ma all’altro console di parte aristocratica Fabio
Rulliano: circostanza che, come vedremo, non fu senza importanza circa la
successiva vicenda storica della colonia. Gli storici moderni ancora discutono
sull’ubicazione del centro preromano che secondo alcuni non sarebbe sorto nell’area
della colonia ma altrove.
Comunque si voglia risolvere la questione dell’aggregato sannitico, esso più che far
pensare ad un centro modesto sorto spontaneamente e senza causalità insediative (
l’organizzazione vicatim testimoniata da Livio ) dovette essere probabilmente
polyànthropon ( ricco di uomini), come sostiene Dionigi, a causa del più avanzato
sistema di urbanizzazione daunico, fatto proprio dalle tribù sabelliche. L’avvenuto
sincretismo etnico-culturale fra i nuovi occupanti e le popolazioni locali è
ampiamente testimoniato dal fenomeno di oscizzazione dell’area, come dimostra il
diffuso uso nella toponomastica della grafia e del formulario osco che venne ereditato
anche dai Romani dopo l’insediamento coloniale. Lo stesso Dionigi sostiene che per
la deduzione coloniale di Venosa si mobilitarono 20.000 coloni, numero che agli
storici moderni è risultato esagerato soprattutto se confrontato con il
dimensionamento di altre colonie latine di simili caratteristiche. Tuttavia
l’indicazione di un numero così elevato di coloni non è da imputare ad un probabile
errore dello storico, ma potrebbe essere spiegato con l’integrazione degli abitanti
indigeni nel nuovo centro, che sarebbero stati accolti a vario titolo: l’aristocrazia
daunica, fondendosi con i nuovi dominatori, avrebbe dato origine ad un nuovo ceto
egemone, mentre il resto della popolazione locale di estrazione popolare sarebbe stata
impiegata quale manodopera nella coltivazione dei campi di proprietà dei nuovi
coloni.
A questo punto riteniamo sia necessario dire qualcosa di più preciso a proposito della
formazione del sistema coloniale latino, della sua genesi e del suo statuto. Secondo
gli storici moderni l’espansione romana nel sud della penisola nasceva da una duplice
necessità: sia per corrispondere al desiderio di nuove terre dell’operoso e prolifico
ceto contadino romano, sia per esigenze militari e di sicurezza. Inizialmente Roma si
era limitata ad assorbire nella cittadinanza i popoli confinanti vinti in guerra. Ma con
l’avanzare della conquista si dovette pensare ad un diverso sistema di organizzazione
e difesa del territorio costituendo l’istituto della colonia, che in punti particolarmente
strategici delle aree conquistate (prevalentemente in centri già esistenti) comportava
la deduzione di cospicui gruppi di cittadini romani o di alleati (non di rado costituiti
dai soldati con le loro famiglie) col duplice compito di difendere il territorio
conquistato e di coltivarne le terre, di regola un terzo di quelle tolte al nemico, da qui
il nome di colonia che si assegnava alle nuove comunità. Esse si distinsero in
coloniae latinae, ( formate da un numero di coloni variabile da 1500 a 6000 )
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costituite inizialmente dai federati latini e impiantate nelle zone continentali, e
coloniae romanorum, più ridotte e destinate alla difesa delle zone costiere.
Venosa ebbe tutte le caratteristiche di una colonia latina di ampio dimensionamento,
come dimostra sia la sua consistenza demografica sia la presenza nella città di un
senato e delle più alte magistrature esistenti a Roma: Edili, Pontefici, Questori,
Duonviri, Decurioni e per un certo tempo anche Tribuni.
Le vicende storiche successive alla sua fondazione videro la città saldamente legata
alla madrepatria. In occasione della seconda guerra punica Venosa, come testimonia
Livio, fu tra le diciotto colonie che inviarono aiuti ai romani, duramente impegnati
contro Annibale proprio nei territori dauni. La città pagò a caro prezzo la sua alleanza
con Roma, tanto da vedere il suo territorio devastato e spopolato. Nel 200 a.C. si rese
necessario, pertanto, compensare il salasso con un primo ripopolamento ( effettuato
dai veterani di Scipione) che fu completato alla fine del II secolo, allorché, per effetto
della politica graccana la città si assestò per effetto di una più organizzata deduzione
di coloni. In occasione della guerra sociale ( bellum Marsicum) Venosa, da sempre
alleata di Roma, fu l’unica colonia latina a passare dalla parte degli insorti. Tale
eccezionale defezione può essere spiegata solo con un rivoluzionamento della
situazione interna che avrebbe causato la caduta dell’antico ceto di governo,
sostituito al potere da quei gruppi sociali di rango inferiore probabilmente esclusi dai
più importanti diritti di cittadinanza che, come in passato non avevano fatto mistero
di avere simpatia per Annibale, così ora si schieravano con gli italici sperando di
vedere finalmente mutata la loro situazione.Venosa dovette subire la devastazione per
il suo tradimento, subendo l’onta della capitolazione dalla truppe di Metello. Sebbene
la città fosse stata insieme con Nola l’ultimo baluardo degli insorti, tuttavia ottenne
da Roma il perdono e il diritto di cittadinanza sancito dalla sua qualifica di
municipium 3e dall’appartenenza all’antichissima tribus Horatia, alla quale è iscritto
anche il nome del poeta. Tramontata la repubblica e impostosi l’impero, Venosa,
forse per aver manifestato idee repubblicane, subì diverse volte un sequestro di terre,
finché la sua popolazione definitivamente si assestò per effetto della seconda
deduzione triunvirale del 43 a.C.
Fu proprio durante il governo di Ottaviano Augusto, come attesta la complessa
documentazione archeologica, che la città, seguendo l’esempio di Roma, proprio nel
tempo in cui Orazio visse fu ulteriormente ingrandita ed abbellita di straordinari
monumenti 4 pubblici e privati.
La documentazione archeologica
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Il sistema municipale, che progressivamente venne a sostituire quello coloniale, ebbe inizio nella prima metà del IV
secolo, allorché Roma in seguito alla grande estensione dei territori conquistati, non avendo più la possibilità di inviare
coloni in luoghi molto lontani, dovette rinunziare all’amministrazione diretta di essi annettendoseli per ragioni
militari.Gli abitanti dei municipi ( da munus capere ),pur continuando a vivere nel loro territorio e godendo di
autonomia amministrativa, non solo ricevettero tutti i diritti politici della cittadinanza, garantiti dall’iscrizione ad una
delle tribù romane, ma parteciparono altresì agli oneri dello stato.
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Svetonio nella Vita di Augusto sostiene che Ottaviano rifece Roma col marmo dopo averla trovata di mattoni:«Urbem,
neque pro maiestate imperii ornatam, ex inundationibus incendiisque obnoxiam, excoluit adeo, ut iure fit gloriatus,
marmoream se relinquere, quam lateritiam accepisset (cfr. cap. 28 )».
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Esistono ancora, dove si trovano quelle antiche fabbriche, che cosa oggi resta di
quelle splendide costruzioni di marmo che illustrarono, abbellendola la città di
Orazio? Sono queste le domande cui cercheremo di dare risposta tracciando le linee
di un percorso archeologico attraverso la lettura delle testimonianze antiche
attualmente presenti nella città per definire il contesto storico-culturale cui riferire
l’opera del poeta. E’ questa un’analisi che richiederebbe ben altre conoscenze della
pura e semplice cognizione dei semplici fatti della storia. Si tratterebbe, oltre
all’archeologia, di mettere in moto molte e diverse discipline ( economia, sociologia,
politica, etnografia, etc.) per dare alla ricerca una maggiore completezza; ma, pur
riconoscendo l’importanza di codesti contenuti, non si farà di essi gran conto in
queste pagine. Non me ne voglia, inoltre, il lettore se in alcuni casi, mettendo da parte
l’abito dello studioso, in assenza concreta di dati storici, ci si affiderà a ricostruzioni
personali non propriamente ortodosse o condivisibili proprio nella considerazione del
periodo urbanistico oraziano.
Nella prima età imperiale, parallelamente a quanto accaduto a Roma, si attuò un
progressivo e straordinario processo di monumentalizzazione anche nella coloniamunicipio di Venosa, che iniziatosi nell’ultima fase repubblicana, fu completato
nell’età augustea. Si trattò di un forte impulso innovativo che interessò tanto l’edilizia
pubblica quanto quella privata che si concretò nelle seguenti realizzazioni: grandi
interventi di restauro, come il rifacimento della rete idrica e la costruzione
dell’acquedotto, per far fronte all’incremento di popolazione dopo la deduzione
coloniale; edificazione ex novo delle Terme principali e del Foro, non sicuramente
identificabile nella conformazione attuale della città, del quale si riconoscono tuttavia
alcune lastre pavimentali impiegate nella costruzione medievale dell’Incompiuta;
incremento dell’edilizia privata, sia quella abitativa, che fu abbellita e divenne più
funzionale per il maggiore impegno di spesa dei committenti, sia quella artigianale, in
particolare nella zona orientale, dove la traccia di fornaci di laterizi testimonia
l’accresciuta richiesta di materiale rispondente all’impulso di un’edilizia innovativa;
costruzione dell’Anfiteatro, ancora visibile nella zona orientale della città, che
comportò l’azzeramento di un intero quartiere, i cui resti sono ancora visibili sotto i
muri della SS. Trinità.
Percorrendo la città moderna, l’immagine che di essa appare agli occhi del visitatore
interessato è piena di antiche memorie, anzi, si può dire che non solo l’impianto
urbanistico, ma ogni pietra del centro moderno parli un linguaggio antico. Infatti
quasi ad ogni passo è possibile imbattersi in iscrizioni, frammenti di colonne, capitelli
che indubitabilmente portano il marchio di Roma. Ciò è stato già sottolineato dagli
eruditi locali,5 a partire dal Cappellano che alla fine del Cinquecento nota che a
Venosa: “non v’è casa che non sia fabbricata sovra edifici antichi”, mentre in tempi
più recenti non sono mancati di quelli che si lamentano, come il Cenna nella sua
L’opera degli studiosi venosini, che nel corso dei secoli si è tradotta in scritti di contenuto storico-archeologico, pur
non avendo un assoluto valore scientifico, è in alcuni casi molto importante, soprattutto quando essi ci forniscono
notizie dettagliate intorno all’ubicazione e alle caratteristiche di monumenti antichi che purtroppo non esistono più.
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cronaca, anzi, versa, come lui dice:” un lago di lacrime, scorgendo tante belle statue,
tante bellissime pietre, tanti superbissimi sepolcri intagliati di varie e diverse
scritture(…) spezzate e diminuite che a pena vi si scorgono nelli moderni edifici”.
Non è agevole, infatti, anche per lo studioso provvisto di sicuro metodo scientifico,
che voglia tracciare, attraverso la lettura delle testimonianze archeologiche, un iter di
ricostruzione storica dalla fondazione di Venusia fino all’età di Augusto, orientarsi
nelle anguste vie del centro tutte disseminate di frammenti romani a causa della
complessa stratificazione storica e dell’ampio fenomeno del riuso del materiale
archeologico impiegato ampiamente in ogni epoca ( è emblematico il caso
dell’Incompiuta, cattedrale dinastica, interamente costruita con materiale di spoglio )
a partire dal periodo tardo antico, vuoi per la fortunata circostanza di avere a portata
di mano manufatti già pronti per l’esclusivo uso edilizio ( recupero ), vuoi per il
prestigio in ogni tempo derivato ai potentati pubblici e privati 6 originato
dall’esibizione dell’antico in fabbriche più moderne con finalità ideologiche o
propagandistiche ( reimpiego 7).
La casa di Orazio
Volendo, innanzitutto, puntare l’attenzione sui primi due secoli della colonia, anche
lo studioso più avveduto si accorge di essere in possesso di dati non molto numerosi,
per di più problematici e difficilmente utilizzabili. Si tratta di pochi elementi che a
mala pena ci informano sul modello stradale, prima glareato in terra battuta e poi
lastricato; sulla natura delle abitazioni private, che passarono dall’uso iniziale di una
tecnica elementare all’utilizzazione di materiali migliori messi in opera in modo più
scaltrito; sulla canalizzazione e smaltimento delle acque.
Occorre dire che in qualsiasi attività di ricerca oggi non è più possibile fare la storia
degli oggetti archeologici, estraendoli semplicemente dal proprio contesto di
rinvenimento ( nel caso di Venosa, data l’ampia stratificazione storica e la
sovrapposizione dei manufatti, l’operazione sarebbe improduttiva e in molti casi è
stata addirittura distruttiva), senza tener conto delle complesse relazioni che pur
sempre intercorrono fra loro, in quanto ciascun oggetto, racchiudendo un incredibile
potenziale di informazioni, è parte integrante di un complesso mosaico storico che
aspetta di essere ricostruito e decifrato. Attualmente all’interno del circuito cittadino,
senza tener conto della zona orientale lungo l’antica Via Appia,( importante per la
presenza di numerose necropoli, monumenti funerari e tracce di tabernae ), si
riconoscono due ampi ed importanti serbatoi archeologici, complessi per la
L’esempio più consistente di utilizzazione privata è quella di un Telamone in calcare, raffigurante Atlante, ben visibile
in un portichetto medievale all’interno del Palazzo Dardes, l’unico elemento sopravvissuto di un edificio per spettacoli,
forse un Odeon, che non trova altri riscontri nella città.
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L’argomento è stato di recente oggetto di studio da parte di Luigi Todisco che, accanto all’uso strumentale effettuato
in ogni epoca del materiale archeologico, ha sottolineato la riutilizzazione dello stesso per ragioni politico-religiose da
parte dei Normanni e dei Benedettini a partire dal XII secolo, per sottolineare, gli uni, il prevalere della religione
cattolica sulle altre religioni, gli altri per rinsaldare il loro potere attraverso l’esibizione nei loro palazzi di spolia di
provenienza romana.
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stratificazione dei manufatti, ma strettamente integrati fra loro e tali da fornire al
ricercatore una dovizia di dati molto interessanti: Il Parco Archeologico ( la cui
principale emergenza monumentale è costituita dalle Terme, databili fra il I e il II
secolo d. C.) e il complesso monumentale della SS. Trinità 8 che insieme sono un
esempio unico e straordinario di giacimento archeologico non disturbato dall’edilizia
moderna.
L’abbazia della SS. Trinità, sulle cui pietre è scolpita molta parte della storia antica
di Venosa, è il complesso monumentale della città maggiormente interessato dal
fenomeno del reimpiego di manufatti appartenenti all’età romana. Infatti sia
all’interno che all’esterno della fabbrica è possibile rinvenire: colonne e capitelli in
cipollino, nicchie con ritratti di principi imperiali, epigrafi di diversa provenienza,
lastre e blocchi squadrati, protomi leonine e fregi dorici, la cui interpretazione e
datazione ci permette di ricostruire faticosamente una significativa ed estesa tranche
d’histoire di Venosa antica, compresa nell’arco di tempo che va dalla prima
colonizzazione al tardo Medioevo.
Comunque, dopo le incertezze e le difficoltà di ieri, la ricerca archeologica più
recente9 è approdata a risultati più consistenti soprattutto relativamente alla
complessa stratificazione urbana dell’Abbazia, con particolare riferimento alla natura
e allo sviluppo dell’edilizia abitativa a partire dalla prima occupazione del sito nella
prima fase della colonizzazione fino all’età repubblicana.
Nel complesso abbaziale restano, purtroppo, poche tracce della fase urbana
corrispondente al momento oraziano, ma esse non sono meglio e più esattamente
documentate nel resto del centro storico, come dimostra l’ identificazione erronea
della casa del poeta da parte di studiosi locali, ( in particolare il Cappellano e il
Cenna) in alcuni edifici, attualmente ancora visibili nell’attuale Piazza Calvino, la cui
datazione, tra la fine del I e il II secolo d.C. potrebbe anche coincidere con l’età di
Orazio, ma non la destinazione d’uso della fabbrica che fa pensare chiaramente non
ad un’abitazione privata, ma ad un edificio pubblico di tipo termale, formato da due
vani, uno rettangolare, l’altro di forma ovale nel quale era probabilmente situato il
tepidarium.
Per rispondere alla precedente domanda ( Che cosa sopravvive a Venosa del tempo di
Orazio?) si deve allora concludere amaramente che, a parte le municipalistiche
Il complesso abbaziale della Trinità, che si colloca all’interno del circuito difensivo di età romana, edificato su
commissione degli Altavilla nel XV secolo si articola in tre parti: la Chiesa Vecchia , ridisegnata sulla pianta di una
precedente basilica paleocristiana; la Chiesa Nuova, conosciuta col nome l’Incompiuta, perché, pur iniziata nel XII
secolo, non è stata mai finita, di essa infatti sopravvivono solo colonne e pilastri; la Sede Abbaziale che conserva una
cappella a cupola costruita con grandi massi e che alcuni studiosi, a causa dello stile che ricalca modelli francesi, fanno
risalire ai Normanni o all’opera dei Benedettini.
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Dalle campagne di scavo promosse dal Prof.Adamasteanu, in concomitanza con l’istituzione della Sovrintendenza
Archeologica della Basilicata, è iniziata una serie di ricerche culminate nelle iniziative del Bimillenario della morte di
Orazio, che , dopo i dubbi e le incertezze del passato e correggendo anche molti errori, ha indirizzato gli studi in una
direzione più risolutamente scientifica, che ha consentito di giungere a risultati di altissimo valore per l’impegno
comune di un numero sempre più consistenti di studiosi che hanno scelto di interessarsi del comprensorio melfesevenosino.
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falsificazioni degli eruditi e degli abitanti locali, anche lo studioso moderno è
costretto ad ammettere a causa dei segni scarsi e poco evidenti, che non molto
sopravvive nei muri e nelle pietre della città che faccia pensare sia al tempo che alla
persona di Orazio.
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