1 Principi fisici di MRI

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1 - PRINCIPI FISICI DELL’IMAGING CON
RISONANZA MAGNETICA
Introduzione
Il fenomeno della Risonanza Magnetica (RM) coinvolge campi magnetici e onde elettromagnetiche
a radiofrequenza (RF). È stato scoperto nel 1946 indipendentemente da due gruppi di scienziati: uno
diretto da Bloch a Stanford e l’altro con a capo Purcell ad Harvard 1, 2. Da allora, l’imaging
mediante RM (Magnetic Resonance Imaging: MRI) è stato un utilissimo strumento specialmente
nella chimica analitica e nella biochimica [3, 4]. La MRI può generare immagini con eccellente
contrasto tra i tessuti molli e con alta risoluzione spaziale in ogni direzione. Analogamente ad altre
tecniche di imaging, la MRI utilizza radiazioni elettromagnetiche per studiare i diversi distretti
anatomici all’interno del corpo umano. Tali radiazioni, comunque, sono a bassa energia per cui, se
utilizzate in condizioni normali, possono tranquillamente essere considerate non dannose.
L’idea di eseguire studi con la RM sull’uomo è dovuta a Jackson che, nel 1967 ha acquisito i primi
segnali RM da un animale vivo. La prima immagine RM di un campione contenente acqua è stata
generata nel 1972 da Lauterbur [5]. Nel 1974 Lauterbur generò la prima immagine RM di un
animale in vivo [6]. Successivamente moltissimi gruppi, in modo più o meno indipendente,
contribuirono al miglioramento della tecnica e delle tecnologie stesse per la generazione e la
ricostruzione delle immagini mediante RM [7, 8, 9, 10, 11, 12].
Nel presente capitolo saranno mostrate le basi fisiche del fenomeno della Risonanza Magnetica e
della formazione delle immagini mediante RM. La descrizione dei vari processi coinvolti non può
essere considerata esaustiva: sono infatti trattati prevalentemente i concetti base, cercando di
mantenere un filo logico nelle varie sezioni. Un grande sforzo, inoltre, è stato fatto per cercare di
spiegare nel modo più “semplice” possibile concetti piuttosto complessi che richiederebbero uno
spazio decisamente maggiore rispetto a quello disponibile. Per cui, per una più approfondita
esposizione dei principi fisici alla base della MRI si rimanda a testi specifici 13, 14, 15]. Inoltre, in
[16, 17 sono spiegati i principi fisici della RM e come questi sono applicati per lo studio del
sistema cardiovascolare.
Il fenomeno della Risonanza Magnetica
Il fenomeno della Risonanza Magnetica può essere studiato utilizzando diversi tipi di nucleo
atomico (1H, 13C, 19F, 23Na, 31P) ma per la formazione di immagini RM è utilizzato l’atomo 1H.
Un’analogia meccanica del fenomeno del magnetismo del nucleo atomico è quella di una massa
carica elettricamente che ruota intorno al proprio asse e che genera quindi un piccolo campo
magnetico, con una propria direzione ed un proprio verso. Questo fenomeno di rotazione è detto
“spin” e fa sì che il nucleo possegga un momento magnetico  (figura 1).
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1
Figura 1. Schematizzazione di una massa, elettricamente carica, dotata di movimento di rotazione intorno al proprio
asse detto “spin”. Ne risulta un momento magnetico ().
Nel caso dell’atomo di idrogeno: 1H, il nucleo è composto da un solo protone (carica elettrica
positiva).
Il nucleo atomico
La proprietà che permette ad un nucleo atomico di interagire con un campo magnetico esterno è lo
spin intrinseco. È un fenomeno quantistico secondo il quale il nucleo ruota intorno al proprio asse,
come schematizzato in figura 1. I valori assunti dallo spin, I, dipendono dal numero di protoni e
neutroni presenti nel nucleo.
Se I = 0, non c’è interazione tra il nucleo e il campo magnetico esterno. Noi consideriamo, in questo
studio, solo i nuclei degli atomi di Idrogeno 1H che consistono in un singolo protone con spin I=1/2.
Il momento angolare, p, del nucleo dovuto allo spin I è dato da:
p = I
(1)
dove  è la costante di Planck e p e I sono quantità vettoriali.
Ciò che lega il momento magnetico  ed il momento angolare p è il rapporto giromagnetico:
μ

(2)
p
È una costante caratteristica del tipo di nucleo; per esempio, per l’idrogeno 1H si ha  = 42.57
MHz/T.
Interazione con un campo magnetico esterno
Possiamo pensare il nucleo dell’atomo di idrogeno 1H come una barretta magnetica con un polo
nord e un polo sud (cioè un dipolo). Secondo le leggi della meccanica quantistica il momento
magnetico di dipolo del nucleo può assumere 2I+1 orientamenti in un campo magnetico esterno,
corrispondenti a 2I+1 livelli energetici permessi. La “barretta magnetica” protone, può quindi
allinearsi al campo esterno in posizione parallela o antiparallela, come schematizzato in figura 2.
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Figura 2. Livelli di energia degli spin in un campo magnetico; sinistra: livello basso di energia, destra: livello alto di
energia
In effetti il modello quantistico è il modello che dovrebbe essere usato per spiegare tutti i fenomeni
di risonanza magnetica nucleare. Tuttavia l’uso del modello classico, in cui gli spin possono
assumere tutte le orientazioni in un campo magnetico esterno, risulta migliore dal punto di vista
intuitivo per la visualizzazione della maggior parte degli esperimenti di risonanza magnetica
nucleare.
Per I = 1/2, come si ha per il nucleo dell’atomo di idrogeno 1H, tutte le previsioni del modello
classico si accordano esattamente con la teoria quantistica applicata ad un sistema macroscopico.
Nel modello classico, una massa con carica elettrica che ruota intorno al proprio asse, quando è
immersa in un campo magnetico B0, tende ad allinearsi lungo B0. Quindi il protone risente di una
forza torcente che fa sì che il protone inizi a precedere intorno a B0.
Un’analogia a tale fenomeno è quello della trottola che, oltre a ruotare intorno al proprio asse, ruota
con moto precessionale intorno ad un asse perpendicolare al pavimento (direzione della forza di
gravità).
La frequenza di precessione (il numero di rotazioni intorno alla direzione di B0 nell’unità di tempo)
dipende dal tipo di nucleo e dall’intensità di B0.
La frequenza di precessione può essere calcolata in base alla legge di Larmor:
  B 0
(3)
dove  è la frequenza di Larmor (unità di misura: MHz),  come già visto è il rapporto
giromagnetico (unità di misura MHz/Tesla; descrive il rapporto delle proprietà magnetiche e
meccaniche del nucleo in questione e dipende dal tipo di nucleo), B0 è l’intensità del campo
magnetico in cui si trova immerso il nucleo unità di misura il Tesla (T) dove 1 T = 10 kG = 10.000
G (Gauss).
Dalla formula (3) si ottiene che, aumentando l’intensità del campo magnetico B0, la frequenza 
aumenta, cioè la velocità di rotazione del nucleo intorno alla direzione di B0 aumenta.
Nella pratica, non si osserva mai un singolo nucleo o un singolo momento magnetico, ma l’effetto
combinato di tutti i nuclei del campione.
Quello che si osserva perciò è la magnetizzazione totale M, data dalla somma vettoriale dei singoli
momenti magnetici: M =   , come mostrato in figura 3.
Figura 3. Rappresentazione grafica del vettore di magnetizzazione totale M
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All’equilibrio c’è solo una componente lungo B0, dovuta al fatto che i momenti magnetici tendono
ad allinearsi al campo magnetico esterno.
Impulsi a radio frequenza (RF)
Per rivelare la magnetizzazione totale è necessario perturbare in qualche modo il sistema che si
trova nel suo stato di equilibrio e costringere M ad allontanarsi da B0.
L’impulso di eccitazione è dato dall’applicazione di un secondo campo magnetico B1,
perpendicolare a B0 e rotante attorno a B0 alla frequenza , esattamente uguale alla frequenza di
precessione dei nuclei.
Il campo B1 causa lo spostamento di M dalla posizione di riposo parallela a B0 e lo costringe ad
eseguire una traiettoria a spirale, come mostrato in figura 4.
Figura 4. Vettore di magnetizzazione M durante l’attivazione di un campo aggiuntivo B1.
Quando B1 viene spento, M continua a precedere descrivendo un cono ad un angolo  da B0.
Il valore di questo angolo, detto angolo di flip, dipende dall’ampiezza di B1 e dalla durata temporale
della sua applicazione.
Infatti:
  B1 t
(4)
dove t è il tempo in cui l’impulso B1 è rimasto acceso.
Se B1 è applicato per un tempo opportuno, si può causare il posizionamento di M a 90° rispetto a
B0. In questo caso l’applicazione di B1 è chiamata impulso a 90°. Si può causare anche il
posizionamento di M in direzione -B0. Questo è detto impulso a 180° o impulso di inversione.
B1 è anche detto campo magnetico a radiofrequenza perché f = /2 è normalmente compresa tra 1
MHz e 500 MHz, banda di frequenze che corrisponde alle onde radio. Quindi gli impulsi B1 sono
chiamati anche impulsi a radiofrequenza.
Segnale di decadimento libero (FID)
Dopo l’applicazione dell’impulso a 90°, il vettore di magnetizzazione M genera esso stesso un
campo magnetico oscillante a radiofrequenza. Questo può essere rivelato perché capace di indurre
una corrente alternata in una bobina, la stessa bobina che è usata per generare il campo B1. Il
segnale indotto dal vettore di magnetizzazione aumenta durante l’applicazione dell’impulso a 90° e
dopo la disattivazione di B1 tale impulso decade a zero a causa del fenomeno del rilassamento, che
fa tornare M alla sua posizione di equilibrio M0 parallela a B0.
Questo tipo di segnale di decadimento, ottenuto in assenza di B1, è chiamato segnale di
decadimento libero ed in inglese è detto FID (Free Indunction Decay) oppure FIS (Free Indunction
Signal), come mostrato in figura 5. Nel presente testo chiameremo il FID segnale RM.
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4
Figura 5. Segnale di decadimento libero successivo ad un impulso a 90°.
Il sistema di riferimento rotante
Noi siamo interessati al comportamento del vettore di magnetizzazione durante le sequenze di
impulsi.
Il movimento del vettore M visto, risulta molto complicato e difficile da visualizzare se si vogliono
considerare tutti i fenomeni coinvolti, specialmente quando sono applicati due o più impulsi. Al fine
di facilitare la descrizione (sia matematica che visiva) del fenomeno, si preferisce descriverlo dal
punto di vista di un osservatore che ruota attorno all’asse parallelo a B0, in sincronismo con i
momenti magnetici nucleari.Questo è il sistema di riferimento rotante.
È come osservare gli oggetti che si muovono in una giostra che ruota: se siamo interessati solo al
movimento degli oggetti e non alla giostra che gira, è più comodo osservarli mentre siamo anche
noi sulla giostra, e ruotiamo con essa. Il “sistema di riferimento di laboratorio” equivale a quando
osserviamo gli oggetti mentre siamo fermi, fuori della giostra; il “sistema di riferimento rotante”
equivale a quando osserviamo gli oggetti stando sulla giostra.
Nel caso di sistema rotante, i protoni che precessano con frequenza  appaiono fermi, mentre quei
protoni che, per qualche fenomeno aggiuntivo (che spiegheremo più avanti), precessano a velocità
minore, sono osservati come rotanti in senso antiorario; analogamente, i protoni che precessano con
frequenza maggiore di  sono osservati come rotanti in senso orario (vedi figura 6).
Figura 6. Rappresentazione grafica, su un sistema rotante di assi, di protoni che precessano a diverse frequenze.
Parametri di interazione tessuto - Risonanza Magnetica
Il contrasto nelle immagini di risonanza magnetica nucleare dipende dalle diverse proprietà
magnetiche dei tessuti. Sebbene ci siano molti parametri che influenzano il segnale proveniente dal
campione sotto osservazione, i parametri comunemente usati, rilevabili dal segnale RM emesso dal
materiale, sono tre: la densità protonica, T1 e T2. Questi parametri normalmente assumono valori
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diversi per tessuti diversi e anche valori diversi per uno stesso tessuto che si trovi in uno stato
normale (fisiologico) o patologico.
Densità protonica
La maggior parte degli atomi di idrogeno nel corpo umano appartengono alle molecole d’acqua e
sono proprio queste molecole che andiamo a rivelare con l’esperimento di risonanza magnetica.
Il termine densità protonica si riferisce semplicemente al numero di protoni per unità di volume ed è
effettivamente proporzionale alla densità di acqua nei tessuti. Ad esempio l’osso ha una densità
d’acqua molto bassa, il fegato alta ed il sangue molto alta.
Figura 7. Effetto della diversa densità protonica sul vettore M e sull’ampiezza del segnale RM.
L’ampiezza iniziale del segnale RM immediatamente dopo la fine dell’impulso di eccitazione a 90°
è proporzionale alla densità protonica del tessuto osservato (vedi figura 7): più è alta la densità
protonica, maggiore è l’ampiezza del segnale.
Il fenomeno del rilassamento degli spin
Il rilassamento degli spin è causato dallo scambio di energia tra uno spin e l’altro e tra gli spin e
l’ambiente che li circonda. Queste interazioni danno origine a due tipi di decadimento del vettore
M, chiamati rilassamento spin-spin e rilassamento spin-reticolo rispettivamente. Il risultato finale
del rilassamento è il ritorno di M nel suo stato iniziale di equilibrio parallelo a B0.
Il rilassamento spin-spin, caratterizzato dal tempo di rilassamento trasversale T2, è causato
dall’interazione tra i momenti magnetici nucleari.
Il campo magnetico sperimentato istantaneamente da ciascun nucleo è certamente dominato dal
campo esterno applicato B0, ma c’è anche un contributo al campo locale proveniente dai nuclei più
vicini. Queste interazioni spin-spin provocano una debole variazione della velocità di precessione di
ciascun nucleo.
Il risultato di ciò è una perdita della coerenza della fase dei nuclei tra loro, cosicché la componente
trasversale del vettore di magnetizzazione M (Mxy), cioè la componente perpendicolare al campo
B0, si riduce esponenzialmente nel tempo (vedi figura 8). La costante di tempo del rilassamento
trasversale del vettore Mxy è T2, che perciò rappresenta il tempo necessario affinché lo sfasamento
dei nuclei determini la riduzione della componente trasversale Mxy del 63%.
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Figura 8. Il rilassamento spin-spin causa la precessione dei momenti magnetici nucleari a velocità diverse. La perdita
della coerenza di fase provoca il decadimento esponenziale della magnetizzazione trasversale con costante di tempo T2.
Il rilassamento spin-reticolo, caratterizzato dal tempo di rilassamento longitudinale T1, causa il
graduale riallineamento dei momenti magnetici con B0, come mostrato in figura 9. Questo
fenomeno dipende dalle proprietà intrinseche del nucleo ma anche dal microambiente in cui si trova
immerso (nuclei circostanti, temperatura, presenza di molecole di grandi dimensioni o/e di molecole
paramagnetiche come quelle dei mezzi di contrasto, etc.) e per questo si parla di interazione spinreticolo. Quindi la componente di M parallela a B0, ossia la componente longitudinale Mz, torna al
valore di equilibrio M0 in un tempo caratteristico T1. T1 è il tempo necessario affinché il 63% dei
nuclei riacquisti il suo stato di equilibrio, dopo che un impulso a RF ne ha modificato la posizione
di 90 rispetto alla posizione di riposo. Il T1 dei tessuti è in genere dell’ordine di 1 secondo.
Figura 9. Il rilassamento spin-reticolo causa il ritorno della componente longitudinale MZ del vettore di
magnetizzazione al suo valore M0 di equilibrio, con costante di tempo T1.
Una volta che il vettore di magnetizzazione M è tornato al suo valore di equilibrio M0 parallelo a
B0, non c’è nessuna possibilità di avere una magnetizzazione traversale diversa da zero. Per questo
motivo T2 è sempre minore o al limite uguale a T1.
Pseudo – rilassamento, caratterizzato dal tempo T2*. La presenza di una disomogeneità del campo
magnetico all’interno del campione causa inevitabilmente un ulteriore defasamento relativo dei
nuclei tra loro, tanto che è necessario definire un altro tempo di rilassamento T2*, esprimendo la
velocità di decadimento trasversale osservata (complessiva) 1/T2*, come la somma di due contributi:
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

il contributo del rilassamento spin-spin
il contributo del rilassamento dato dalle disomogeneità del campo magnetico B0.
Quindi:
1/ T2* = 1/ T2 + 1/ T2disom
dove:
(5)
1/ T2disom =  B0
in cui B0 è l’ampiezza della variazione (disomogeneità) del campo magnetico, nella regione
occupata dal campione.
Parametri di misura del segnale RM
Tempo di ripetizione TR
In una sequenza di impulsi, il tempo di ripetizione o TR è il tempo che intercorre tra un impulso RF
e l’altro.
In figura 10 è mostrato, a titolo di esempio su tre tessuti con tre diversi valori di T1, come il
parametro TR può essere opportunamente fissato, al fine di enfatizzare il contrasto tra i diversi
tessuti.
Figura 10. Contrasto tra tessuti con diverso T1, in funzione di diversi valori di TR
Tempo di Eco TE
Il tempo di eco, TE, è il tempo tra l’impulso di eccitazione RF e il centro dell’eco, cioè l’istante in
corrispondenza del quale il segnale eco acquisito ha ampiezza massima. L’ampiezza della
magnetizzazione traversale Mxy (e quindi del segnale eco acquisito) al picco dell’eco dipende da TE
e dal T2 del tessuto. Infatti, per uno stesso tipo di tessuto, per TE brevi, abbiamo che la componente
Mxy di M si è ridotta di una quantità legata al T2 del tessuto in esame, per cui il segnale eco
acquisito avrà un’ampiezza determinata dal TE scelto.
L’operatore nella macchina RM può definire opportunamente il TE e trovare quel valore che generi
immagini con maggior contrasto tra i tessuti. Nella figura 11 sono mostrati, a titolo esemplificativo,
tre diverse curve relative a tre diversi tessuti; dalla figura si vede chiaramente che ci sono valori di
TE per cui la distinzione tra i tessuti è maggiore rispetto ad altri valori di TE.
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Figura 11. Contrasto tra tessuti con diverso T2, in funzione di diversi valori di TE
Angolo di flip FA
Il flip angle, FA, corrisponde all’angolo  = B1t compreso tra la direzione del campo B0 ed il
vettore di magnetizzazione M (vedi paragrafo “Impulsi a radio frequenza”). Come si vede dalla
formula, un alto valore di  (FA) si ottiene con una durata più lunga di attivazione dell’impulso RF
o con un’ampiezza del campo B1 maggiore. Per cui, FA = 90° corrisponde ad un tempo di
attivazione dell’impulso RF doppio rispetto ad un FA = 45°; è per questo motivo che, quando
occorre acquisire immagini molto velocemente per monitorare fenomeni di breve durata (come
avviene tipicamente per le immagini cardiovascolari), si cerca di fissare valori di FA piuttosto bassi.
La formazione di immagini RM
Le immagini RM sono ottenute dopo un’analisi di Fourier che è una tecnica molto efficiente e
versatile per identificare la localizzazione spaziale dei segnali RM emessi dalle varie sorgenti del
corpo in esame. Si possono costruire sia immagini 2D che 3D, con diverse caratteristiche spaziali e
dimensionali. Le immagini sono ricavate dai segnali RM, cioè dai segnali eco digitalizzati.
Molte immagini RM sono mostrate come piani 2D suddivisi in una griglia di punti (detti pixels).
L’intensità di un pixel rappresenta l’ampiezza dei segnali RM emessi dalla corrispondente regione
del corpo in esame. Viene ora descritto come le informazioni spaziali sono codificate in questi
segnali RM e poi decodificate durante la formazione di un’immagine RM in un processo detto
ricostruzione dell’immagine.
Gradienti di campo magnetico
Un gradiente di campo è un campo magnetico che viene aggiunto a B0, la cui intensità varia
linearmente con la posizione lungo un asse scelto. Il sistema di misura RM ha tre gradienti, uno
lungo ciascun asse x, y e z. Questi assi sono fissi nel magnete e l’origine è al centro del magnete,
mentre il campo B0 è per convenzione diretto lungo l’asse z.
Prescindendo dalla direzione del gradiente (che può essere lungo x, y o z), il relativo campo
magnetico è sempre diretto lungo B0, cioè lungo l’asse z, come mostrato in figura 12.
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Figura 12. Aggiunta di un campo magnetico variabile lungo l’asse x
La figura 12 mostra come varia, grazie al gradiente, l’intensità di B0 lungo l’asse x:
GX 
dB z
dx
(8)
il campo magnetico totale è allora dato da:
B z ( x )  B o  xG x
(9)
per cui il valore di Bz è diverso a seconda della posizione del punto considerato lungo l’asse x.
Dalla formula:  = B avremo quindi che la frequenza di precessione dei protoni  è diversa a
seconda del campo Bz a cui essi sono soggetti, cioè è funzione della loro posizione lungo l’asse x.
Figura 13. Segnale RM acquisito, con gradiente attivo, in funzione della posizione spaziale delle molecole di idrogeno.
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La figura 13 mostra come varia la frequenza del segnale emesso dalle varie bottiglie d’acqua, in
funzione della loro posizione spaziale: la bottiglia che è influenzata da un campo B < B0 (bottiglia
1) emette un segnale con frequenza  < 0. Analogamente, il contenuto della bottiglia 3 emette un
segnale con frequenza  > 0 mentre per la bottiglia 2 la frequenza è 0. Il segnale risultante è dato
dalla somma dei tre segnali. Da notare inoltre come l’ampiezza dei tre segnali sia diversa a seconda
della quantità di acqua (cioè del numero di nuclei di idrogeno) presente nelle bottiglie.
La discriminazione spaziale è effettuata attivando opportunamente i tre gradienti (lungo x, y, z),
così da ottenere tre tipi di codifica, lungo le tre direzioni spaziali: 1) eccitazione selettiva, 2)
codifica di frequenza, 3) codifica di fase.
1. La tecnica di eccitazione selettiva è il metodo grazie al quale l’eccitazione di RM, e dunque il
segnale ricevuto, è limitata ad una fetta scelta in un campione o in un paziente; per questo tale
codifica è anche detta selezione della fetta. Si ottiene applicando un impulso a 90° insieme ad un
gradiente detto “Slice Selection Gradient” lungo l’asse z, cioè in direzione perpendicolare alla fetta
desiderata, come è mostrato nella figura 14.
L’effetto dell’attivazione contemporanea del gradiente e dell’impulso RF è dunque quello di far sì
che solo i protoni all’interno della fetta (che quindi precessano esattamente alla frequenza  = B0)
siano eccitati.
Figura 14. Eccitazione selettiva di una fetta.
Infatti, l’impulso a 90° ha un’ampiezza ed un andamento temporale tale da contenere uno stretto
intervallo di frequenze vicine alla frequenza fondamentale 0  B0 : solo quegli spin la cui
frequenza di risonanza appartiene a questo intervallo saranno eccitati (vedi figura 14).
2. La codifica di frequenza sfrutta la proprietà che la frequenza di risonanza nella RM è
direttamente proporzionale all’intensità del campo magnetico. Quando applichiamo un gradiente
(ad esempio lungo x) abbiamo una frequenza di risonanza che è funzione della posizione lungo la
direzione del gradiente, ovvero
  x    B0  xGx 
(11)
Il gradiente di codifica di frequenza viene attivato durante la fase di acquisizione del segnale RM.
Conoscendo l’intensità del gradiente Gx, dalle informazioni frequenziali del segnale acquisito, si
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11
può risalire alla posizione dell’oggetto lungo la direzione del gradiente del campo. Tale operazione
è effettuata mediante un’analisi in frequenza del segnale.
3. La terza discriminazione spaziale è detta codifica di fase. È così chiamata perché in questo caso
vengono valutati i cambiamenti di fase della precessione dei protoni durante l’attivazione del
gradiente. La direzione della codifica di fase è perpendicolare alla direzione della codifica di
frequenza. Se ad esempio viene applicato un impulso a 90° ad una colonna di spin seguito da un
gradiente di codifica di fase, gli spin precedono a differenti velocità (frequenze i) defasandosi gli
uni rispetto agli altri. Quando il gradiente viene spento, gli spin sentono lo stesso campo magnetico
B0 e quindi tornano a precedere tutti alla stessa frequenza mantenendo però uno sfasamento
(dovuto alla precedente attivazione del gradiente di fase) la cui entità dipende dalla posizione lungo
la direzione di codifica di fase.
Per la formazione dell’immagine RM il gradiente di codifica di fase è attivato e disattivato più
volte, variando opportunamente ogni volta la sua ampiezza.
Riassumendo, la successione di attivazione e disattivazione dei gradienti (sequenza) per la codifica
spaziale, che permette la formazione dell’immagine RM, consiste in:
1) Selezione di una fetta ed eccitazione selettiva degli spin (intervallo 1 di fig.15). Il gradiente
di selezione della fetta fa sì che i diversi protoni precedano a diverse frequenze cosicché solo i
protoni che giacciono in una fetta e che precedono ad una specifica frequenza (0), risentono
dell’impulso RF avente frequenza 0 ;
2) Attivazione di un gradiente di codifica di fase tra l’impulso di eccitazione RF e il periodo di
lettura (intervallo 2 di fig. 15). Immediatamente dopo la disattivazione dell’impulso RF e del
gradiente di selezione fetta, viene attivato per un brevissimo tempo il gradiente di fase, in
modo tale che le frequenze di precessione dei protoni (e dunque le relative fasi) lungo la
direzione del gradiente siano diverse tra loro; il gradiente di fase viene poi disattivato, per cui
tutti i protoni ritornano a precedere alla frequenza iniziale 0, ma restano tra loro sfasati in
modo diverso lungo la direzione del gradiente di fase.
L’informazione spaziale nella direzione della codifica di fase può essere risolta se vengono
acquisiti molti segnali RM, in cui l’ampiezza del gradiente di fase viene modificata (da valori
positivi di ampiezza massimi, via via a valori minori, fino a raggiungere valori negativi e
minimi negativi);
3) Attivazione di un gradiente di lettura durante il quale è raccolto il segnale RM (intervallo 3 di
fig. 15). Ciascun segnale è acquisito mentre questo è a forma di eco, durante l’attivazione del
gradiente di lettura (o di codifica di frequenza), cosicché si crea una distribuzione di diverse
frequenze lungo la direzione del gradiente stesso.
Al fine di ottenere l’immagine, questa sequenza è ripetuta più volte, variando ogni volta l’ampiezza
del gradiente di fase, come mostrato nell’esempio di figura 15, intervallo 2.
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Figura 15. Rappresentazione schematica di una sequenza per la generazione di immagini RM.
La serie di segnali così acquisiti, viene opportunamente digitalizzata e memorizzata in una matrice
detta k-spazio.
Il K-Spazio
L’evoluzione di un sistema di spin dopo l’eccitazione è studiata più facilmente nel K-spazio. Il Kspazio è importante per la formazione delle immagini RM perché è proprio nel K-spazio che
vengono memorizzati i segnali RM acquisiti: i campioni dei segnali acquisiti sono i campioni della
matrice del K-spazio! Tale spazio è in realtà il dominio della trasformata di Fourier dell’immagine
RM che vogliamo ottenere. k sta per numero d’onda k= 2/, con componenti Kx, Ky e Kz .
Infatti, le immagini possono essere decomposte nella somma di onde seno e coseno con differente
frequenza ed orientazione. Il K-spazio consiste nell’insieme dei coefficienti che costituiscono il
fattore peso di queste onde seno e coseno. Le coordinate del K-spazio sono dette frequenze spaziali
e la loro unità di misura è: cicli per unità di lunghezza. Per cui, le frequenze spaziali Kx e Ky
corrispondono ad un’immagine 2D con coordinate x e y.
Il K-spazio contiene informazioni sull’intensità dei vari contorni dell’immagine piuttosto che le
distribuzioni spaziali delle varie strutture anatomiche; tali distribuzioni spaziali sono invece
rappresentate nelle immagini RM. Le immagini sono trasformate dal K-spazio al dominio spaziale
mediante una trasformata inversa di Fourier, come sarà descritto più avanti. Ogni punto del Kspazio contiene informazioni su tutta l’immagine RM (come si vede nell’esempio di figura 16).
La figura 16 mostra i contributi di sei punti del K-spazio nell’immagine finale. Come mostrato in
figura, la distanza dei punti dal centro del K-spazio determina la frequenza delle linee ripetute: più
si è lontani dal centro, più le linee sono fitte (frequenze più alte). L’orientazione (obliquità)
dell’andamento sinusoidale è perpendicolare alla direzione del vettore K.
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Figura 16. Un singolo punto nel K-spazio corrisponde ad un andamento sinusoidale di una specifica frequenza ed
orientazione nell’immagine RM.
Il centro del K-spazio contiene informazioni sulla struttura grossolana dell’immagine, mentre le
regioni più lontane dal centro codificano i dettagli. Perciò le alte frequenze spaziali (cioè alti valori
di Kx e Ky) danno informazioni sui dettagli degli elementi dell’immagine, mentre le basse frequenze
spaziali danno informazioni più grossolane sulla struttura dell’immagine.
La transizione dalle informazioni grossolane ai dettagli è graduale dal centro del K-spazio ai suoi
estremi. Alle volte per ottenere le immagini RM può essere utile non acquisire tutto il K-spazio ma
solo una parte di esso, soprattutto se si vuole ridurre il tempo di acquisizione dei dati (come in
effetti accade nell’ambito cardiovascolare). Per esempio, applicando il metodo “Half- Fourier”,
vengono acquisiti solamente i segnali che riempiono la metà positiva del K-spazio e le righe più
centrali della metà negativa.
Dal K-spazio all’immagine RM: la Trasformata di Fourier
La trasformata di Fourier decompone segnali o curve in una somma di onde seno e coseno aventi
ciascuna differenti frequenze [18].
Per ricostruire le immagini RM, viene utilizzata l’operazione di Trasformata Discreta di Fourier
(solitamente chiamata DFT) piuttosto che una trasformata continua. I dati memorizzati nel K-spazio
sono infatti dati numerici, cioè discreti. La DFT e la sua inversa sono definite come una serie
matematica (cioè una somma di termini) in cui il numero dei termini corrisponde al numero dei
campioni della curva da trasformare. I termini della serie sono sommati per calcolare il valore di un
pixel (cioè di un punto) nell’immagine finale RM. La trasformata di Fourier veloce (Fast Fourier
Transform, FFT) è un algoritmo ormai riconosciuto come il più efficiente per il calcolo della DFT,
ed è quello implementato ormai in tutte le macchine di RM.
Una DFT bidimensionale (DFT-2D) ricostruisce un’immagine 2D dal K-spazio. La DFT 2D è
implementata come tante FFT separate, una per ogni riga del K-spazio, su cui vengono poi calcolate
le FFT lungo le colonne, tante quante sono le colonne del K-spazio. Per cui, se il K-spazio contiene
256 righe e 256 colonne, la ricostruzione dell’immagine RM richiede in tutto 512 FFT. La
Trasformata di Fourier volumetrica (3D), utilizzata per ricostruire immagini volumetriche, è
un’estensione della DFT 2D.
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