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Le Vie della Musica
Il Sannio quotidiano
Giovedì 28 luglio 2005
23
COLORI SONORI „ Successo, la sera del 16 luglio, all’apertura della rassegna patrocinata dall’Assessorato alla Cultura della Provincia
Suoni e colori dal mondo dello Zawinul Syndicate
Acolloquio con Joe Zawinul che, con i suoi giovani musicisti, ha infiammato il Teatro Romano
B
di Donato Zoppo
uon vecchio
Joe.
Catapultato
il 16 luglio
nel Teatro
Romano di Benevento dopo una giornata di volo
perpetuo (è appena tornato da Barcellona) senza
dormire: «I’m tired, very
tired», sono stanco, afferma mentre ciondola con la
sua andatura inconfondibile e si disseta con grappa on the rocks. Basta salire sul palco - vera dimensione catartica, luogo
di rigenerazione - e si parte, anche a 72 anni suonati. La rigenerazione non
può che essere energetica:
i giovanotti dello Zawinul
Syndicate sono cuori pulsanti e muscoli tesi ai quali il vecchio Joe attinge
generosamente. Ma è anche l’Italia a farlo ringiovanire: «Io amo suonare
in Italia, c’è un’atmosfera
incredibile. Conosco molto bene il vostro paese,
dovrei parlare meglio l’italiano ma lo capisco bene, purtroppo se non lo
parli ogni giorno lo dimentichi facilmente. La
prima volta ci sono stato
nel 1954. Amo Giuseppe
Verdi, Puccini, Rossini.
Conosco anche Enrico
Rava ma non molti artisti
jazz italiani: non sono un
grande ascoltatore, al trimenti non sarei qui!».
Una rassegna dal titolo
«Colori Sonori», organizzata dalla compagnia Solot, non poteva esordire
in modo migliore: per
l’ottimo afflusso di pubblico (ricordiamo la concomitanza del Pomigliano
Jazz Festival con nomi del
calibro di Mc Coy Tyner e
Dave Holland), per l’affetto dirompente che la
band ha riscosso, per la
dinamica cromatica del
Syndicate, una formazione che vive e gioca sul colore, sull’energia, sulla
vertiginosa abilità di costruire e rompere. Un corpo ritmico tricefalo ha
catturato il pubblico: non
una monolitica sezione
ritmica (come quella dei
Santana, ad esempio) ma
un vulcano di fantasia,
espressività e dinamismo,
sia per la presenza di un
batterista straordinario
come Nathaniel Townsley
(in vero stato di grazia)
che per i due nuovi percussionisti Aziz Sahmaoui e Arto Tuncboyaciyan, marocchino il primo, armeno il secondo.
La multirazzialità è il tratto distintivo del Syndicate: nuova formazione, decisamente agguerrita, con
l’entrata del chitarrista
Alegre Correa e dei due
nuovi
percussionisti.
Confermati la vocalist
africana Sabine Kabongo
- potente e sensuale presenza scenica - e il prodi-
Joe Zawinul in concerto
gioso bassista Linley
Marthe, un ragazzone delle Mauritius che non fa
rimpiangere le gesta di Jaco Pastorius. Ricordiamo
anche che Zawinul ha da
poco pubblicato l’apprezzato live-album «Vienna
Nights» (BirdJam / BHM
2005), il resoconto di due
infuocate serate al suo locale viennese, il Birdland.
E’ in corso di produzione
anche un DVD dal vivo.
E’ forte la sensazione di
un legame con l’esperienza davisiana degli anni
‘60/’70, una continuità
apparentemente impercettibile ma esistente. Come
Miles Davis lanciava le
sue stilettate di tromba,
evocava, suggeriva, Joe
spinge, aizza, con fare imperioso e spesso perentorio, anche aggressivo. Na-
sce una musica priva di
punti di riferimento, non
ci sono centri di gravità nè
fulcri, se non la persona e
la storia di Zawinul, che
dirige con sapienza il vagone ritmico, lo fa sostare
nei pressi del blues o di
memorie danubiane, lui
vecchio e solenne austriaco che ascoltava i dischi
di Fats Waller quando era
in conservatorio a Vienna.
«L’Austria era una nazione molto particolare, multiculturale: c’era musica
tzigana, ungherese, ceca,
turca, rumena, anche riferimenti alla vostra musica, alla vostra cultura. Apprezzavo le vostre canzoni napoletane come «Santa Lucia» e «O’ sole mio»,
mi piaceva molto Beniamino Gigli però amavo il
jazz, da quando avevo do-
dici anni, fu la prima cosa
che ascoltai, nel 1944. Il
jazz per me era un altro
mondo, un’altra cultura.
Amavo davvero tanto il
jazz, più della musica
classica. Finita la guerra
io studiavo clarinetto al
conservatorio ma ascoltavo Fats Waller e il pianoforte jazz, non Gustav
Mahler!”.
Si può cogliere anche
un discorso di continuità
con l’esperienza indimenticabile dei Weather Report. Manca Wayne Shorter: afferma qualcuno;
non c’è più Jaco: dirà
qualcun altro. La differenza non è solo nei singoli
componenti ma nell’evoluzione della musica: se i
Weather Report erano inimitabili nello sviluppare i
grandi temi («Birdland»
su tutti ma anche «Black
Market»), il Syndicate
elabora una logica del
frammento, che è flash e
illuminazione e vive per
questo di propria vita e
propria luce. Su una direzione ricca di ostinati e di
colori si avvolgono innumerevoli variazioni, per
un sound che è metamorfosi continua. L’orecchio attento coglie richiami sudamericani e caraibici, pulsazioni funk e
scosse elettroniche: è un
sound che assorbe tutte le
svolte che Zawinul ha impresso al jazz, dall’espe-
rienza «soul jazz» con
Cannonball Adderley all’avventura elettronica.
«Ho cambiato me stesso
cambiando il jazz. E’ avvenuto tre volte ma non so
perchè, so solo che è successo.
Ho cambiato il sistema
della musica. Dopo di me
è venuto Miles Davis, non
prima: sono stato il primo
ad affrontare l’elettronica,
prima di Miles. Ricordo
ancora quando scrissi «In
a silent way»: non c’era
ispirazione, la musica era
dappertutto, veniva da te,
era una cosa inspiegabile”.
La musica dello Zawinul Syndicate è sempre
avvolta da una selva di definizioni: «world music»,
“contemporary
jazz”,
“nu-jazz” o semplicemente “fusion”. Eppure risulta
impossibile definire questa incontrollabile materia
sonora, che è musica del
mondo e dal mondo, rielaborata e rivissuta, assimilata ed espulsa perdendo
forma ma non le radici. Le
radici di un legame indissolubile con le origini: il
jazz dei bordelli e delle
sale da ballo, di bettole
con puttane, papponi e signori eleganti, delle fanfare nelle strade calde di
New Orleans è tutto lì, in
una musica nera e colorata, avveniristica ma con
un passato lontano.
Il nuovo disco del gruppo veneto prodotto dall’Associazione ‘Liocorno’
Folk e rock, canzone d’autore e futuro:
vola a sud l’anima dei Marmaja
LA BIOGRAFIA
Arrivano da Rovigo a cavallo del vento, e portano con sè
racconti di desideri e di speranze, di emarginati e di emigrati,
di sogni e di fango. Arrivano con umori zingari e atmosfere da
carovana in viaggio verso nuovi e vecchi mondi sonori. Portano danze e umori di festa, ma anche il dolore della strada e
della vita. Uniscono il rock al folklore con la passione, il mestiere e la spontaneità. Succede così che a brani sferzanti e festosi si frappongano liriche toccanti di netto stampo «cantautorale»: un amore quello dei MARMAJA per i cantautori italiani, con particolare riferimento a Fabrizio De Andrè, ribadito e dimostrato più volte. Gruppo ormai «storico» della
musica italiana, i MARMAJA hanno avuto la prima ribalta
importante nel 1994 con la partecipazione ad «Arezzo Wave»
per arrivare nel 1999 all’esordio discografico con «In tel vento sona’» segnalato con entusiasmo dalla critica e ancora oggi apprezzato e ricercato dal pubblico ai loro concerti. Recentemete, oltre al secondo disco «Il metro dell’età», più intimo e lirico nella struttura e nei testi, i MARMAJA hanno partecipato ad eventi dal vivo di grande spessore, spesso affiancati
dai
«cugini»
GANG
e
dai
modenesi
«TUPAMAROS».Hanno vinto l’edizione 2004 del Premio
«Piero Ciampi» a Livorno. Hanno chiuso un recente concerto di Cristiano De Andrè, interpretando insieme a lui una ispirata versione di «Creuza de ma» di Fabrizio De Andrè. Un altro tributo alla canzone d’autore italiana è una versione irresistibile di «Ho visto un re» di Jannacci e Dario Fo, sapientemente aggiornata, che fornisce l’occasione per le sempre stimolanti e a volte sorprendenti «ospitate» dei loro concerti,
dai GANG a Gualtiero Bertelli alle Mondine di Novi. Ma
un’altra dimensione connaturata nello spirito e nella gioiosa
musicalità dei sette musicisti rodigini è quella dei festival di
strada, con frequenti e indimenticabili partecipazioni in versione «buskers» a Ferrara», alla «Festa dell’illustrazione per
l’infanzia» di Sarmede e alla «Festa dell’uva» di Potenza Picena. Recentemente, hanno partecipato con altri gruppi e artisti italiani alla compilation contro la guerra «Not in my name» dove hanno interpretato una loro versione del branosimbolo «Il disertore» di Boris Vian, e a quella interamente di
musicisti veneti «Mi no vao a combatar». Sono stati ospiti del
programma di RAI2 « «Follia Rotolante», tour televisivo itinerante dedicato al nuovo panorama folk-rock italiano.
I Marmaja sono:
Maurizio Zannato: voce
Guido Frezzato: clarinetto, sax, flauti etc.
Nicola Astolfi (sostituisce Elia Mantovani, scomparso nel
2004): chitarra acustica e elettrica
Giovanni La Terza: fisarmonica, ghironda, cori
Cristiano Vincetti: basso, contrabbasso, cori
Antonio Carrara: batteria
I testi sono di Maurizio Zannato, la musica di Guido Frezzato ed Elia Mantovani
DISCOGRAFIA
In tel vento sonà - 1999
Il metro dell’età - 2002
Marmaja - 2004
www.marmaja.com
www.liocorno.net
(d. z.) Cani sbandati e
senza dio. Marmaglia di
anarchici. Disertori. Ragazzi che si inventano, si
suonano, si registrano e
si autoproducono un disco (tre a dire la verità).
Ne hanno ricevuti di apprezzamenti i Marmaja e
noi non faremo eccezione. Gente in gamba, che
lavora, che suda e che
vince il Premio Ciampi
nel 2004. Fatica e soddisfazioni, non si scherza
con loro. Il terzo album
“Marmaja” colpisce dritto al cuore, a partire dal
disegno nel disco: tarocchi, vento, sogni e disperazione, sguardi persi o
speranzosi, navi e fabbriche, barche e passi decisi. Guardando questa
confezione ci si tuffa in
un clima diverso, si assapora il cd come se fosse
una pagnotta fumante o
un vinile caldo degli anni
‘70. Considerando che il
gruppo opera in regime
di autoproduzione (sebbene sostenuta dall’Associazione Liocorno del
mitico Flavio Carretta e
distribuita da Storie Di
Note ), il risultato è davvero soddisfacente.: suoni accattivanti, confezione professionale, un disco da ascoltare e osservare con piacere.
Marmaja è un sestetto
proveniente da Rovigo:
Maurizio Zannato (canto), Walter Sigolo (fisarmonica e ghironda), Antonio Carrara (batteria),
Cristiano Vincetti (basso
e percussioni), Guido
Frezzato (fiati, chitarre,
mandolino). Responsabile delle chitarre era Elia
Mantovani, scomparso
poco dopo la pubblicazione del disco: è a lui
che dedichiamo queste
righe. Ma ricordiamo che
Mantovani era presente
nel primo disco “In tel
vento sonà” (1999) e nel
secondo “Il metro dell’età” (2002), nella collaborazione con Gang e
Tupamaros (Unione delle
Tribù), Cristiano De Andrè e Mercanti Di Liquore. ”Marmaja” è un disco
entusiasmante: dall’etnofolk degli esordi la band
Le Vie della Musica
Settimanale di cultura musicale de
‘Il Sannio quotidiano’
e-mail: [email protected]
Anno VI (III n.s.) n° 24
Coordinatore responsabile
Armin Viglione
Collaboratori
Adriano Amore
Domenico Coduto
Carlo De Matola
Angela Falato
Massimo Forni
Rito Martignetti
Erminia Passaro
Amalia Rossini
Donato Zoppo
I Marmaja in azione
rodigina è arrivata ad un
notevole e maturo lavoro
di sintesi, incontrando la
canzone d’autore e il
combat-rock, sapori latini e folk progressive, tra
Inghilterra, Irlanda e chitarre elettriche; miscelando influenze di Gang,
Fabrizio De Andrè, Jethro Tull e il Parto Delle
Nuvole Pesanti. Basta
ascoltare un pezzo travolgente come “La mia
anima vola a sud” per capirlo subito. Flauti, sax e
ritmi serrati, il carismatico Zannato che guida le
danze, l’impatto del collettivo è frontale. Per i
Marmaja è anche uno
sguardo verso il futuro:
come afferma la stessa
band, “il filo rosso che
lega tutte le 12 tracce è
quello del futuro, di ciò
che verrà e ci aspetta, dove si cerca l’anima per
non essere invisibili, o
tra le carte per la predizione di un ritorno”.
Marmaja è movimento,
dinamismo, poesia vibrante e passionale: spiccano “E’ naturale”, “6
marzo” (dedicata a Piero
Ciampi), “Radio rosa”.
E’ melodia, sensualità
(“Sorriso che disordina”,
“Sarò lieve”, la malinconica chiusura di “I tuoi
occhi” con il chitarrista
Riccardo Marchetto), tabacco e tarocchi (“Pas-
La mia anima vola a sud
serà”). Un pugno di canzoni incalzanti, intense
(“Aria”, “Balla con me”),
immediate ma non prive
di ricercatezza, con briosi impasti strumentali e la
trascinante voce di Zannato; dal vivo il gruppo è
noto per le sue esibizioni
corali e energiche, il disco riflette solo in parte
questa carica.
La band ha sentito il bisogno di segnare una linea di continuità con la
canzone popolare: con la
partecipazione di Gualtiero Bertelli ha riarrangiato “Vedrai com’è bello”, uno dei brani simbolo di questo cantore veneziano. Non manca un
legame con la nuova canzone: “6 marzo” vede la
presenza del cantautore
trevigiano Alberto Cantone. In generale la dimensione “d’autore” è
evidente nella personale
cifra stilistica, nel suadente amalgama strumentale, nel testo, sanguigno,
emozionante,
dall’alto profilo civile.
Strada e fabbrica, sogni
e realtà, musica popolare,
canzone e rock: i Marmaja dimostrano di saper
amalgamare culture, generazioni ed esperienze
diverse. Il loro folk-rock
è avvincente e “Marmaja” è un disco consigliatissimo.
di Vincetti - Zannato
E la mia anima vola a sud
dove si specchia il mare
e sa di vento e di parole,
pelle di mandaranci in fiore.
E la mia anima vola a nord
e insegue la sua ombra
e la sua ombra è un bambino
che aspetta il carnevale
e come un canto vissuto male,
come un bisogno di ritornare.
Rema che la mia pace è in un porto
Napoli, ci arrivi col fiato corto,
Genova che è stato un ciuffo da amare,
una carezza lasciata appassire.
E la mia anima è un gigante
che insegue la sua ombra
e la mia vita sarà un istante
sdraiata sopra un’onda
e la mia ombra non può tornare
perché oggi non c’è il sole
è come un vino andato a male,
come una rosa affidata al mare.
Rema che la sua pace è in un porto
Rema che arriva col fiato corto,
Quanti saluti da fare
da questa barca scalfita dal sale,
da questo vento che ha odore di mare.
Tracce di luna, terra distante,
pelle bruciata, terra a ponente,
sior capitano son forestiero
solo paura e solo mistero.
Rema che la mia pace è in un porto
Napoli, la vivi col fiato corto,
Genova che è stato un ciuffo da amare,
una carezza lasciata ...
Brindisi che ci volevo arrivare
libero, fino al fondo del mare
una carezza lasciata appassire
che la mia ombra non vuole tornare
che la mia pace non vuol riposare.
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