Forma come copia. La proprietà intellettuale e lo strano caso delle

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Pasquale Beneduce*
Forma come copia.
La proprietà intellettuale e lo strano caso delle citazioni
1. Il tema proposto dall’incontro è un luogo forte del pensiero
filosofico-giuridico occidentale. Bisogna prendere allora, per
quanto mi riguarda, alcune precauzioni, prima di visitare questo insidioso ed enigmatico dispositivo concettuale. Qualche tempo fa
ho visto e ascoltato una magnifica intervista a Jilles Deleuze che ripercorreva come un abecedario i punti cardinali della sua opera.
L’autore appare piuttosto malandato, fuma moltissimo, ma risponde con gusto e precisione alle domande, guardando diritto
nella macchina da presa. Ad un certo punto dice una cosa che io
uso qui opportunisticamente. Afferma che quando si legge un libro
o di fronte a un evento, bisogna mettersi in agguato. Interpreto
così questa suggestione: di fronte ad un tema impegnativo, come
quello della forma, della libertà e della costrizione della forma, bisogna mettersi leggermente di lato. La questione di mettersi di lato
e in agguato comporta anche una serie di vantaggi. Fra questi c’è
il fatto che si è nell’attesa di un incontro. L’attesa può farsi interminabile e trascorrere in una posizione scomoda ma, in qualche
modo, si ha tutto il tempo di desiderare e immaginare l’evento che
sta per accadere.
A proposito di mettersi di lato rispetto a un tema o a un evento,
vorrei occuparmi della forma esclusivamente dal punto di vista
operazionale, dei suoi usi in campi disciplinari differenti, in particolare, nella mia ipotesi, del concetto di forma rispetto alla materia apertissima del diritto d’autore. Farò qualche osservazione a
proposito di un passaggio di Fichte in materia di proprietà intel-
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lettuale, fra la regola della proprietà esclusiva della forma dei pensieri di un autore e le eccezioni inaudite della sua riproducibilità
da parte di altri, che si appropriano di quella forma senza che ciò
suoni immorale e riprovevole di fronte all’opinione pubblica, né
come il movimento di una condotta delittuosa prossima al furto o
alla pirateria. Prima però vorrei dare qualche indizio su come bisogna guardare alla questione della forma dal mio punto di osservazione.
Nella scienza delle costruzioni, la forma si declina subito al plurale, si tratta sempre di forme. Per esempio le forme, nell’arte della
fonderia, consistono nelle «cavità ricavate in terra o in sabbia per
colarvi i getti» ma poi «occorrono le anime». Seconda citazione: le
forme si ottengono, secondo la scienza della costruzione, «stipando
la terra intorno a modelli solitamente in legno». Questa operazione
è detta formatura.
Cosa si può scorgere dentro questi strani enunciati rubati alla
scienza delle costruzioni? Primo. C’è tutta l’ambiguità del concetto
di forma, di come essa arriva al nostro discorso frammentata e plurale, in qualche modo involucro e anima, a un tempo la superficie
esterna e l’interno oscuro di un oggetto, il pieno luminoso e il
vuoto privato di un congegno. La forma non è più soltanto il contenitore, come magari ci si potrebbe attendere, ma le cavità dentro
cui si colano i getti dei pensieri. Secondo. L’idea della formazione,
della formatura, suggerisce l’andamento di una operazione, per
meglio dire l’effetto di una operazione. Si tratta del progetto e del
cantiere mobile di quel dispositivo piuttosto che del suo status
atemporale. Non c’è dubbio, allora, che c’è una difficoltà, prima
ancora che concettuale, una difficoltà visiva nel guardare le forme.
Altro indizio. Vorrei accennare al problema di come la forma
gioca in un linguaggio, particolarmente metamorfico e liquido,
quale è quello della pubblicità. Vorrei fare un solo esempio. 1954,
l’Olivetti produce la Lettera 22 che sostituisce la M40. La M40 è
una macchina pesantissima, la Olivetti è molto contenta di sostituire la M40 con la Lettera 22, perché quest’ultima pesa soltanto tre
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chili e settecento grammi, come recita la reclame. Nella pubblicità
della Lettera 22 c’è tutta una serie di segnali anche qui molto interessanti. In primo luogo, la Lettera 22 è una macchina da scrivere
che promette «copie nitide della realtà», «la forma grafica della
vostra figura sociale». La macchina dell’Olivetti si rivolge ai tutori
dell’ordine, quando scrivono i loro rapporti, ai viaggiatori di commercio per le loro commissioni e agli inviati speciali dei giornali
per preparare un servizio. In questi casi, la forma grafica appare
come copia: cioè si sdrammatizza l’idea di forma unica e assoluta e
la forma stessa si presenta, in una definizione di grande potenza
espressiva, come copia dell’essere sociale. La pubblicità, come è
noto, spende sempre molta teoria nel costruire spot. In questo caso
spende un linguaggio e un concetto di forma che appare essenzialmente come copia: la forma grafica riproduce copie infinite
della realtà, in qualche modo anticipa e accompagna, come un’ombra, i ruoli sociali e il loro stare al mondo.
Propongo una osservazione ulteriore. Qui la copia non è esclusivamente l’idea di copia che pure ha attraversato tutta la modernità, l’idea della scarsezza. Intendo riferirmi all’esperienza per la
quale da una parte c’è un originale che si deve, in qualche modo,
afferrare, riprendere, accostare, dall’altra parte c’è una copia che
quasi fatica a seguire quell’originale fino a che non riesce finalmente a riprodurlo nei suoi schemi. Qui piuttosto c’è l’idea della
copia e della forma come abbondanza, come capacità di riprodursi
a prescindere dalla fedeltà ad una origine, a un punto d’origine
fisso.
Propongo una nuova citazione, leggermente audace. C’è una
strana definizione della prostituzione in alcuni vocabolari fra Otto
e Novecento che io trovo straordinaria: la prostituzione è la forma
di far copia di sé. Il far copia di sé consiste in un abbandonarsi quasi
libertino ad altri pur se di fronte ad un compenso. Qui si tratta di
un vero e proprio rilascio. La forma e la copia di sé si intendono
come rilascio di se stessi, come abbandono della propria persona
senza alcuna economia di sé, per così dire irriflesso e oltre i limiti.
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Questo è un altro modo, ancora una volta aforistico e di lato, di affrontare il fuoco tematico della forma.
In effetti questa doppia dimensione tanto della forma come
unicità, come impronta individuale intangibile, quanto della forma
come pluralità di schemi non più universali, capacità di riprodursi
in relazione anche a situazioni differenti, attraversa tutto il pensiero occidentale. Allo stesso modo, a proposito della proprietà intellettuale, non incrociamo soltanto la forma dell’ingegno quale
unicità originale e irriproducibile ma un’idea di forma declinabile
che comprende ed esige la possibilità di copia.
Vorrei esemplificare questa condizione della forma attraverso
due immagini contrapposte dell’autore nell’iconografia occidentale del talento. Rispetto alla produzione, al rilascio da parte dell’autore della propria energia intellettuale nell’opera, possiamo
guardare in primo luogo il dipinto di Antonello da Messina San
Gerolamo nel suo studio del 1474. Qui l’autore è seduto, ritratto
allo scrittoio, in uno studio in rilievo rispetto al pavimento del salone che lo ospita. Intorno a lui si scorgono gli oggetti dello scrivere. Alle sue spalle, sugli scaffali, numerosi volumi, in uno spazio
dichiaratamente protettivo della persona dell’autore. San Gerolamo è intento alla lettura silenziosa di un libro. In questo caso
l’iconografia riguarda l’autore sovrano che si appoggia su un territorio familiare e lo governa. Al tempo stesso è proprietario dello
spazio e degli oggetti che incontra negli atti del leggere e dello scrivere. Nel caso del dipinto di Antonello da Messina viene dunque
rappresentata la creazione intellettuale come forma solitaria, in
qualche modo, privata e assoluta dell’ingegno al lavoro.
A questo punto vorrei proporre un’immagine assai diversa da
questa, dove al contrario l’opera intellettuale si identifica letteralmente con la copia, a prescindere da un atto di creazione originaria. Mi riferisco all’immagine che si incontra in una riproduzione
settecentesca del Decreto di Graziano, dove, all’interno del volume,
si scorge il ritratto di un personaggio che scrive. Seduto e leggermente di lato, gira il capo in direzione di una serie di persone, in
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fila alle sue spalle, che, a loro volta sedute, vengono rappresentate
nell’atto di mostrare all’autore in primo piano i volumi che esse
reggono fra le mani.
Su questa scena ufficiale della creazione intellettuale, queste figure incarnano i filosofi dell’antichità, i padri della Chiesa, le autorità morali della tradizione: a tutti costoro l’uomo, rivestito da
un’ampia toga che lascia vedere soltanto il volto e le mani, si rivolge come ai necessari precedenti storici del proprio lavoro.
Ascolta le loro voci sussurrate, spia i loro gesti, riferisce al proprio
presente tutto ciò, riproducendo e imitando i pensieri custoditi da
quei libri. Il personaggio dell’autore-scrittore, legge e scrive, letteralmente ricopiando quei maestri e i loro libri. La scena risulta ancora più affollata, se si volge lo sguardo alla cornice che delimita lo
spazio centrale e che propone minuscoli ritratti di altre auctoritates, uomini di santità e di scienza i quali vegliano su quanto sta accadendo in primo piano.
Come si può osservare, c’è questo doppio gioco tra l’originale e
la copia. Mi riferisco all’alternanza tra la forma intesa come originale, come garanzia dell’unità dell’opera e del suo autore, e la
forma come copia, necessaria e invadente, tendenzialmente ripetibile all’infinito.
Restiamo al campo visuale per un altro esempio significativo,
tratto questo volta dal linguaggio cinematografico. Nel 1950 Joseph L. Mankiewicz firma All about Eve, il film con Bette Davis,
George Sanders, Anne Baxter, una pellicola che riguarda molto da
vicino il nostro tema. Per raccontare la storia bisogna prendere
anche come spettatori una decisione visuale. Si presentano due
scelte ai nostri occhi. Dobbiamo guardare Margo, la famosa attrice
di Broadway, che prende sotto la sua protezione Eve, una giovane
ammiratrice, la quale a sua volta intende diventare attrice ad ogni
costo, fino a rubarle la parte? Oppure bisogna osservare la storia
esclusivamente dal punto di vista di Eve, la ragazza ambiziosa che
vuole recitare a Broadway ed è disposta a tutto pur di raggiungere
la celebrità? Insomma dobbiamo privilegiare la vita e il talento ori-
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ginale dell’attrice di successo oppure la sua possibile copia non autorizzata, incarnata dalla giovane Eve? Il congegno stesso del film
ci trae dall’impaccio. Il talento non ha nulla di così originale e irriproducibile che non possa essere sottratto e imitato, che non
possa trasferirsi dall’uno all’altro sotto forma di copia. Tutti ricordano il finale con il trionfo della cinica spodestatrice Eve; pochissimi, mi pare, il secondo finale della storia, quando la giovane
attrice, che ha ormai soppiantato quella più matura, dopo la recita
scintillante che le darà la fama, si ritira la sera a casa e trova sulla
porta un’incantata e servizievole ammiratrice. Si ripete la situazione dell’inizio. La copia si appresta a diventare, in un tempo circolare e in un gioco senza fine, l’originale: la giovane attrice che ha
raggiunto la gloria sarà d’ora in poi vittima di una reiterata usurpazione di identità, «oggetto del desiderio» da parte di una copia
ulteriore e invadente, pronta a rubarle l’anima e la scena.
2. Le apparizioni dell’autore, intento alla creazione dell’opera,
risultano, pertanto, sotto forme plurali e provvisorie.
Nel dibattito di fine Settecento sull’editoria pirata Immanuel
Kant in un saggio del 1797, dal titolo Che cosa è un libro?, immaginava un irregolare quadrilatero della funzione intellettuale. In
questo caso l’autore non era il signore solitario dell’ingegno e della
sua proprietà intellettuale sull’opera ma occupava soltanto uno
degli angoli della misteriosa figura geometrica. Accanto all’autore,
Kant colloca l’editore, il libro, il pubblico dei lettori, affollando all’inverosimile lo spazio della creazione intellettuale: «un libro è
uno scritto che rappresenta un discorso tenuto da qualcuno al
pubblico per mezzo di segni visibili. Chi nel suo proprio nome
parla al pubblico, si chiama scrittore. Chi discorre pubblicamente
per mezzo di uno scritto nel nome di un altro (dell’autore), è l’editore».
Secondo il filosofo, lo «scritto» non è immediatamente la «designazione di un concetto» come per esempio sarebbe stato l’inci-
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sione in rame del ritratto di una persona, oppure il calco in gesso
di un busto. Uno scritto rappresenta soprattutto un «discorso al
pubblico», ovvero lo scrittore parla pubblicamente per mezzo dell’editore. L’editore a sua volta parla per mezzo del suo operaio, il
tipografo, non nel suo proprio nome – altrimenti «si spaccerebbe»
per l’autore - ma in nome dello scrittore: l’editore è legittimato, secondo Kant, da una procura, un vero e proprio mandatum che gli
è stato attribuito dall’autore.
In conclusione, l’idea dell’autore del libro (che rappresenta un
discorso al pubblico) e che parla al pubblico per mezzo di un editore, che a sua volta parla nel nome dello scrittore, è un gioco interminabile di specchi, un’idea eminentemente relazionale e plurale
della forma dell’ingegno. Questa forma del talento è, per così dire,
sin dall’origine pubblica e aperta, inconclusa.
Ancora, in questa stessa prospettiva di un paradigma dell’autore per statuto debole e instabile, si possono leggere, a mo’ di
esempio, i dizionari fra Sette e Ottocento. L’espressione autore
(auctor) trascende per molti versi il significato esclusivamente intellettuale del talento all’opera. Si troveranno piuttosto i significati
di: autore politico (il fondatore di una città), paterfamilias, tutor,
autore di un negozio giuridico, autore in senso giudiziario, legislatore, autorità della storiografia o della scienza. Lungo l’elenco dei
significati possibili del lemma autore, si incontra finalmente anche
quello di autore letterario, scrittore, autore pubblicato. Tuttavia in
quest’ultimo senso, il termine non occupa una posizione privilegiata e primaria nella gerarchia dei significati possibili. L’instabilità
del paradigma dell’autore risulta, come si vede da tutti questi
esempi, sistematica.
Accanto agli sforzi per reinventare l’idea di auctor, (dal verbo
augere accrescere, a indicare l’azione di un soggetto che aggiunga
con il proprio talento una nuova opera al patrimonio storico comune di una cultura e di una società) questa debolezza del paradigma dell’autore si rifletterà poi precisamente sull’idea successiva
dell’autore proprietario.
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Mi riferisco naturalmente all’età dei diritti, inaugurata dalla Rivoluzione francese con la legge 19 luglio 1793 in tema di autore,
che cancellava la pratica di antico regime dei privilegi agli editori
come agli autori. Dal canto suo il secolo diciannovesimo provvederà ad affermare la natura morale e patrimoniale dei diritti dell’autore, aprendo tuttavia nuove aporie. Non si tratterà solo, come
è noto, di giustificare il concetto di una proprietà sconosciuta alla
tradizione romanistica. L’inedita proprietà dell’autore infatti è per
definizione senza res, spirituale e immateriale. Inoltre è una proprietà a scadenza, a tempo: il suo è un destino a orologeria, sottratto
alla volontà del proprietario, consegnato tutto intero alla volontà
del legislatore, che fisserà variamente i tempi di vita della proprietà
intellettuale. Trascorso il termine, la legge inesorabilmente lascerà
«cadere nel dominio pubblico» l’opera dell’ingegno individuale.
Date queste aporie di partenza sarà necessario caricare simbolicamente la proprietà intellettuale di una peculiare energia di appropriazione da parte del suo dominus, immaginando un vero e
proprio vincolo amoroso fra l’autore e l’opera.
In sintesi, proprio in quanto la proprietà intellettuale è priva
di res, differente dalla proprietà raffigurata nell’art. 544 del Code
Civil, e a scadenza, cioè la sua durata non dipende dal consenso
dell’autore che si priva del libro ma dalla volontà del legislatore,
questa proprietà immateriale è obbligata a invocare un autore sublime, un proprietario «per eccesso». In tale caso l’autore è sempre un proprietario per eccesso, un proprietario, per così dire,
molto sentimentale dell’opera di sua proprietà. Fra le varianti possibili del proprietario, l’autore è l’unica figura a cui si chiede un
sentimento così forte della sua proprietà. A nessun altro proprietario di fondi si chiederebbe un attaccamento, un legame amoroso
con il proprio fondo, o, per un altro esempio, un legame sentimentale con il proprio edificio di cinque piani.
3. Vorrei ora senz’altro riprodurre e commentare il passo di Fi-
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chte che si è segnalato all’inizio di questo contributo. Il testo risale all’ottobre del 1791 ed ha per titolo Dimostrazione dell’illegittimità dell’editoria pirata. Un ragionamento e una parabola. In
effetti la scena è occupata dalla figura dell’editore, dell’editore legittimo contro l’editore pirata, piuttosto che dall’autore. Il confronto fra Kant, Fichte e un altro intellettuale, Reimarus, il solo ad
approvare la pirateria, si svolge in un arco d’anni che va dal 1785
al 1798, come si può vedere dalla bella antologia a cura di Riccardo
Pozzo.
Procediamo per gradi. Nei passaggi seguenti si può scorgere il
tentativo da parte di Fichte di argomentare la proprietà dell’autore
sul suo libro, nonostante il fatto che in quel libro si debbano distinguere paradossalmente due elementi: «ciò che è corporeo nello
stesso, la carta stampata, e ciò che è intellettuale».
La proprietà del libro, inteso quale involucro materiale e tangibile, è trasmessa al compratore all’atto della vendita, senza alcuna contraddizione o imbarazzo. A sua volta il compratore del
libro può farne l’uso che vuole, lo può leggere, dare in prestito, rivendere o addirittura farlo a pezzi e bruciarlo. Per quanto riguarda
l’elemento intellettuale, si tratta al contrario di riconoscere al suo
interno una ulteriore distinzione. È proprio a questo punto che Fichte impiega il termine strategico di forma: «questo elemento intellettuale è diviso di nuovo in ciò che è materiale, il contenuto del
libro, i pensieri che espone, e la forma di questi pensieri, la maniera
della quale, la connessione della quale, le formule e le parole con
le quali il libro li espone».
L’elemento materiale, costituito dai pensieri dell’autore, diventa
di proprietà del lettore, esclusivamente attraverso una decisa azione
da parte sua: si tratta di leggere il libro, meditare il suo contenuto,
accoglierlo nelle proprie connessioni di idee. Occorre cioè il nostro
lavoro di lettori, per includere stabilmente quei pensieri dell’autore
nell’orizzonte culturale e domestico che ci appartiene. Ciò che al
contrario «assolutamente nessuno può far proprio, essendo fisicamente impossibile, è la forma di questi pensieri, la connessione di
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idee e i segni con i quali esse sono esposte». Come si vede, qui la
forma evocata da Fichte rappresenta in astratto una barriera insormontabile contro ogni pretesa da parte di chiunque di appropriarsi
della peculiare connessione, maniera, stile personale, che un autore
conferisce una volta per tutte ai propri pensieri.
Fatte queste premesse, Fichte può sostenere che è universalmente considerato riprovevole «copiare letteralmente senza citare
il vero autore». Si tratta del mestiere infamante dei plagiari che incontrano una generale disapprovazione. L’azione del plagiario tuttavia consiste sempre nel fatto che costui si impossessa di una cosa
che non è sua, utilizzando le parole proprie di uno scrittore come
sue. Il plagiario non nega l’autorità dell’autore, si limita a ignorarla
e, aggiunge Fichte, «il plagiario non riconosce all’autore l’onore
che gli spetta e non lo cita dove avrebbe dovuto citarlo», ma non
è meno plagiario quando ha copiato il libro di un anonimo. Il plagio insomma conferma a suo modo la legittimità della forma proprietaria, l’impossibilità della sua copia.
All’opposto è lecito il caso di chi si limita ad applicare i pensieri di un autore, in quanto il lettore non arriva ad impadronirsi
della forma, dell’impronta personale che un autore ha dato alle
proprie riflessioni: tale forma resta di proprietà esclusiva dell’autore, per così dire dall’altro lato, rispetto all’atto di lettura praticato
dal lettore. Il lavoro del leggere è necessario per accogliere nell’esperienza di vita del lettore i pensieri custoditi in un libro ma
non potrebbe mai impensierire il suo autore.
Il problema della certezza della proprietà intellettuale, che sembrava suggellato una volta per tutte con il ricorso al concetto di
forma, si riapre tuttavia clamorosamente quando lo stesso Fichte
enumera una serie di eccezioni più o meno autorizzate a quel dispositivo enunciato in precedenza. Intendo riferirmi alla questione
delle citazioni:
«(con) le citazioni nelle quali si dice solo di un autore che ha
scoperto, mostrato, esposto, qualcosa, nel qual caso né ci si impadronisce della sua forma, né si pronunciano propriamente i suoi
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pensieri, ma solo si costruisce ulteriormente su di essi, ma anche
(con) le citazioni nelle quali vengono riportate le parole proprie
dell’autore. In questo caso ci si impadronisce realmente della
forma dell’autore, senza però spacciarla come propria, il che tuttavia non entra nel merito della cosa. Questa autorizzazione pare
poggiare su un contratto tacito degli scrittori tra di loro a citarsi reciprocamente riportando le loro proprie parole; eppure nessuno
qui permetterebbe che un altro, senza speciale necessità, copiasse
da lui passi particolarmente lunghi».
Le citazioni consistono letteralmente in una copia. La forma
delle citazioni è insomma quella di una copia dall’originale, un trasferimento dell’originale nella sua copia. La copia sarebbe così autorizzata da un presunto contratto tacito fra gli scrittori e avrebbe
a oggetto la libertà negoziata di «citarsi reciprocamente riportando
le loro proprie parole».
Lo stesso Fichte riconosce che «senza una speciale necessità»
nessuno permetterebbe ad altri di copiare da lui «passi particolarmente lunghi». Si può osservare tuttavia che queste eccezioni si
giustificano esclusivamente come possibilità contrattate, effetti stipulativi, affidati alla deontologia interna a una comunità letteraria
o scientifica.
Propongo ulteriori domande. Chi decide: a) circostanze e condizioni di questo contratto tacito? b) sussistenza delle «speciali necessità» che giustificano la copia? c) pertinenza e misura dei passi
ricopiati che rendono legittima l’operazione delle citazioni delle
parole proprie dell’autore? d) fino a quando dura nel tempo questa misura fissata in modo stipulativo? e) in che occasione la lunghezza dei passi citati può essere ricontrattata in virtù di una nuova
etica fra le parti che volessero riconsiderare in più o in meno la
lunghezza della citazione?
In definitiva, chi decide quando il contesto discorsivo, tecnico
e etico legittima la citazione, cioè la copia, di una forma originale?
Quanto è arbitrio e quanto è norma in questo processo di autocensura, di scelta della ‘misura’ tollerabile della citazione? In que-
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sto caso tutto il dispositivo della forma escogitato da Fichte per affermare l’esclusività della proprietà intellettuale, l’originalità irripetibile della forma, scricchiola vistosamente proprio in occasione
del suo mostrarsi, della trasmissione della forma dei pensieri da un
autore all’altro, fino a dover fronteggiare sul suo cammino lo statuto ambiguo della citazione.
Nell’atto stesso in cui Fichte, con il ricorso alla forma, ritiene
di aver messo al riparo la proprietà spirituale dell’autore, e soprattutto il lavoro dell’editore legittimo contro le minacce della pirateria editoriale, riemerge all’altezza di un’eccezione – quella delle
citazioni – tutta la debolezza della regola.
L’asimmetria di un insieme di parole proprie di un autore riportate all’interno del testo di un altro autore – poiché è proprio
questa condizione di esistenza della citazione a costituire il problema della citazione – trova un’ulteriore conferma linguistica ancora una volta nelle pagine dei dizionari. La citazione non è mai
esclusivamente riproduzione, volendo alludere in questo modo ad
un trasferimento neutro e chirurgico. È sempre inserimento delle
parole di un autore nel discorso e/o scrittura di un altro autore, riferimento a qualcuno/qualcosa ricordati come modello, oppure,
nel linguaggio dell’architettura, richiamo, ripresa, riecheggiamento
di altri stili, in modo esplicito o allusivo. Tanto più che questa convocazione, questo richiamo per così dire piuttosto brusco e perentorio – si pensi alla citazione giudiziaria dove si intima a
qualcuno di comparire – è fatta per conferire autorità e forza ulteriore alle argomentazioni di un autore. Pertanto la misura della citazione nel testo di un altro è sempre storicamente determinata,
un rilascio ricontrattabile sotto forma di copia, intesa come una risorsa disponibile in abbondanza.
Torniamo a Fichte. Alla stessa zona grigia delle citazioni appartengono «i florilegi, gli esprits, per realizzare i quali di solito
non serve molto spirito, e altri piccoli furti» che né aiutano né danneggiano.
Fra queste ulteriori eccezioni primeggia la lezione: «nessun do-
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cente tollera che qualcuno faccia stampare le sue lezioni; però nessuno ha mai avuto da ridire se i suoi uditori cercano di appropriarsi
dei suoi principi espandendoli in forma orale o scritta. Su cosa si
fonda questa differenza? Nel secondo caso sono gli studenti a pronunciare i pensieri del docente, che sono divenuti i loro attraverso
la loro riflessione e l’accoglienza degli stessi nelle loro serie di idee;
nel primo caso invece i curatori delle lezioni si impadroniscono
anche della sua forma, che non può mai diventare loro proprietà e
fanno torto al suo diritto perfetto».
In conclusione, l’autore, se può tutto contro un curatore privato che senza consenso ha pubblicato le sue lezioni, nulla potrebbe nei confronti degli uditori/studenti che cercano di
appropriarsi dei suoi pensieri, espandendoli attraverso la discussione e gli appunti. In questo modo si consuma ancora una volta
il sacrificio della forma esclusiva sull’altare della copia, intesa qui
come abbondanza, rilascio di sé, espansione.
L’espansione della lezione – si noti appena la felice scelta linguistica di Fichte – è in questo modo incontrollabile, la lezione
sfugge letteralmente, per la sua natura gassosa e infiammabile di discorso in pubblico, alla logica proprietaria dell’autore, raggiungendo gli studenti nel luogo condiviso dell’aula. Il discorso in
pubblico del docente finisce così inesorabilmente nella loro serie
di idee.
I giuristi italiani dell’Ottocento riprenderanno il tema spinoso
delle eccezioni alla regola della proprietà intellettuale senza riuscire a chiuderne il varco. Anche in questi testi, la proprietà privata
e immateriale dell’autore resta, nel caso imbarazzante della lezione,
sospesa, pericolosamente esposta sull’abisso della non-proprietà.
In uno studio di metà secolo, si sosteneva che la lezione sino a un
istante prima della sua recita in pubblico appartenesse al professore inteso come autore, l’autore della propria lezione. Al contrario per tutto il tempo della durata della lezione stessa, il discorso
conosceva una strana mutazione, la sua natura diveniva interamente pubblica, il professore era soltanto il funzionario pubblico
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di un discorso che si espandeva letteralmente nella dimensione comune agli spettatori di uno spazio pubblico. Secondo questa teoria, l’autore «non parla come individuo ma come rappresentante
del pubblico». Adempie a un dovere superiore che oscura, per un
lungo drammatico intervallo di tempo, la personalità dell’autore
privato. E tuttavia in questa enigmatica rappresentazione dell’immateriale, l’incantesimo si scioglie non appena la lezione termina
e il professore-funzionario tace. Il testo verbale della lezione si riprende la sua natura di creazione individuale e privata. La lezione
torna nella disponibilità del suo autore, il docente perde l’identità
provvisoria di funzionario e riacquista quella di autore privato del
proprio scritto. Lo stato di eccezione della lezione è cessato e può
tornare così la regola proprietaria.
Nota
Le fonti cui si è fatto riferimento nel testo sono le seguenti.
CLAIRE PARNET (a cura di), Abecedario di Gilles Deleuze, Video intervista
per la regia di Pierre-André Boutang.
Sul tema dell’autore e dell’opera cfr. M. FOUCAULT, Qu’est-ce qu’un auteur,
in «Bulletin de la société française de philosophie», LXIV, 1969, pp. 73-104,
trad. it. Che cos’è l’autore, M. Foucault, Scritti letterari, Milano, 1971, pp. 14-21.
Un riposizionamento del problema in P. BOURDIEU, Raisons pratiques. Sur la
théorie de l’action, Paris 1994, tr. it. Ragioni pratiche, Bologna 1995, pp. 51-87.
Su Foucault e il diritto cfr. A. SERRANO-GONZALEZ, Michel Foucault. Sujeto,
derecho, poder, Saragoza, 1987; CHRISTIAN SCHAUER, Aufforderung zum Spiel.
Foucault und das Recht, Köln-Weimar-Wien, 2006.
In generale sul rapporto autori-editori e per una antropologia storica della
lettura è d’obbligo il rinvio a R. CHARTIER e G. CAVALLO (a cura di), Storia della
lettura del mondo occidentale, Bari 2004; ID., Inscrivere e cancellare. Cultura
scritta e letteratura dall’XI al XVIII secolo (2005), Bari, 2006. Su alcuni aspetti
della storia del diritto d’autore mi permetto di rinviare a P. Beneduce, Autore e
proprietario. Per una storia sui diritti dell’ingegno alle origini dell’Italia liberale,
in Saperi della borghesia e storia dei concetti fra Otto e Novecento, a cura di R.
GHERARDI e G. GOZZI, Bologna, 1995, pp. 425-469; ID., Il corpo eloquente, cit.,
pp. 291-396; ID., Privilegi e diritti dell’autore nel pensiero economico-giuridico
della prima metà dell’Ottocento in Italia, in Das privileg im europäischen Vergleich, B. DOLEMEYER und H. MOHNHAUPT (hrsg.), Frankfurt am Main, 1997,
pp. 401-418; ID., L’autore pallido. Corpi e spiriti del lavoro intellettuale nei saperi
dell’Ottocento, in (Ed.) G. VALERA, Le forme della libertà, London, 2000, pp. 93105. ID., Cetacei, ceti. Talento e corpi al lavoro nel linguaggio degli ordini fra letterarietà e scienza, in Corpi e professioni tra passato e futuro, a cura di M.
Malatesta, Milano, 2002, pp. 39-58; ID., Il funzionario irritabile. Biografia dell’autore immaginario nelle Carte Ferraris, in Dal Monferrato alla Costruzione
dello Stato sociale italiano. L’esperienza intellettuale sociale e politica di C. F. Ferraris (1850-1924), a cura di C. MALANDRINO, Torino 2007 pp. 355-391. Fra gli
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RELAZIONI
studi generali sul tema della proprietà intellettuale cfr., per la vicenda francese,
J. BONCOMPAIN, La révolution des auteurs, Paris 2001; per la vicenda inglese B.
SHERMAN e L. BENTLY, The making of modern intellectual property law, Cambridge 1999. Per una messa a punto comparativa della legislazione in materia
vedi anche W. Cornish, Intellectual property. Omnipresent, distracting, irrelevant?, Oxford 2004. Sulla storia della dottrina e della legislazione in materia di
proprietà intellettuale, in una chiave europea e coparativa, è doveroso il rinvio
ai lavori di Laura Moscati, fra questi mi limito a ricordare Il Code civil e il destino della proprietà intellettuale in Europa, in «Rivista di Diritto Civile», 54
(2008), pp. 429-312; Il caso Pomba-Tasso e l’applicazione della prima convenzione internazionale sulla proprietà intellettuale, in Mélanges en l’honneur d’Anne
Lefebvre-Teillard, Paris, 2009, pp. 747-764; Intellectual property law in the European Lega Context: Tools and Perspectives, in «European Bussiness Law Rewiew«, 22/1 (2011), p. 79-92.
I passaggi di I. Kant e J.G. Fichte sono tratti da L’autore e i suoi diritti. Scritti
polemici sulla proprietà intellettuale, a cura di Riccardo Pozzo, Milano 2005; di
Pozzo cfr. anche l’importante introduzione ai contributi.
Sulla lezione fra discorso pubblico e testo privato cfr. A. TURCHIARULO, La
proprietà letteraria, Torino, 1857, pp. 111 ss.; in generale N. STOLFI, La proprietà
intellettuale, Torino, 1915, I, pp. 422 s.
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