CAP I SVILUPPO ECONOMICO I temi dello sviluppo sono oggetto di grande attenzione, infatti risulta chiaro che i paesi ricchi non possono ignorare i problemi dei paesi in via di sviluppo. Nei Pvs (Paesi in via di sviluppo) risiedono più di 5/6 della popolazione. Ci sono due motivi di fondo alla base di questo lavoro, in primo luogo la ricchezza dei paesi sviluppati non dipende dallo sfruttamento dei Pvs, che pure c’è stata, ma deriva dal progresso tecnologico che i paesi hanno saputo realizzare. Le condizioni base per lo sviluppo dei Pvs è la capacità di assimilare, adattandole le tecniche moderne di produzione ed attuare le trasformazioni istituzionali indispensabili a questo scopo. Si ritiene che lo sviluppo economico si possa perseguire con un progetto intenzionale e quindi sia essenziale la politica ed il ruolo dello Stato. SVILUPPO ECONOMICO E SVILUPPO UMANO Lo sviluppo economico, quello umano e la riduzione della povertà sono concetti diversi espressi con variabili diversi. Lo sviluppo economico si misura con la crescita del reddito medio pro capite, quello umano con la crescita del reddito e con il miglioramento dello stato di salute e d’istruzione della popolazione. La riduzione della povertà, con la diminuzione della popolazione che vive ai limiti della sussistenza. Però nonostante che lo sviluppo umano possa venire inteso come superamento della povertà, per ottenerlo non basta la crescita del reddito. Essa è utile, ma ci vuole una ridistribuzione a favore dei poveri. Nei fatti la diffusione dello sviluppo incontra oggi difficoltà, la povertà è molto diffusa, i propositi di ridurla formulati dagli organi internazionali sono falliti. È aumentata la distanza tra i paesi ricchi ed i paesi poveri. Per combatterla in modo efficace è necessario un cambiamento di rotta nelle politiche alla scala globale ed anche all’interno di molti paesi. Lo sviluppo economico, secondo Simon Kuznets, è l’aumento nel lungo periodo della capacità di fornire beni economici sempre più diversificati alla popolazione. Questa capacità si fonda sullo sviluppo tecnologico e sull’aggiustamento istituzionale ed ideologici che esso rende necessario. Definizione 1 questa che pone l’accento su caratteri essenziali sullo sviluppo: l’aumento nel lungo periodo del reddito pro capite e la diversificazione dei beni che formano il reddito. Non si può chiamare sviluppo economico qualunque aumento di beni economici, è essenziale la natura continua di questo aumento che deve poter garantire, nel lungo periodo, un flusso crescente di beni. Non è sviluppo vero neppure una crescita continua della disponibilità di uno o pochi beni. Questa definizione sottolinea quali siano le cause fondamentali dello sviluppo economico: il progresso tecnologico e gli aggiustamenti sia istituzionali che ideologici perché tesi forvianti, che hanno circolato, affermavano che lo sviluppo economico deriverebbe dalla ricchezza di risorse naturali o dallo sfruttamento di risorse altrui. Risorse naturali e sfruttamento sono sempre esistiti, ma prima del progresso tecnico degli ultimi tre secoli, non vi era mai stato uno sviluppo economico come il nostro. Quindi, vi è un nesso tra sviluppo e sviluppo economico. In effetti, lo sviluppo umano si esprime come un continuo miglioramento delle condizioni che permettono alla popolazione di vivere una vita lunga, in buona salute e creativa. Questa definizione fu proposta nel rapporto sullo sviluppo umano delle nazioni unite del 90. Vi è anche sviluppato un indice di sviluppo umano che considera poche variabili per le limitate informazioni statistiche riguardo a tutti i paesi del mondo e che hanno una relazione talvolta indiretta con le dimensioni della longevità, della salute e della creatività. Per la longevità, l’indicatore utilizzato è la speranza di vita alla nascita; per la salute, il logaritmo del livello pro capite; per la creatività, il tasso d’alfabetizzazione. Con queste variabili si è costruito un indice composto HDI. Questa misura dello sviluppo umano è diversa dal reddito pro capite, che coglie soltanto la disponibilità dei beni materiali. L’HDI comprende il reddito pro capite, ma aggiunge la speranza di vita e l’istruzione di base. Riguardo ai fondamenti, il concetto di sviluppo umano quantificato nell’HDI si fa risalire a quello di capacità secondo l’impostazione di Amartya Sen, che afferma che lo sviluppo umano deve essere valutato in rapporto all’ampliamento delle scelte che esso permette nel doppio significato: di ampliamento delle alternative e della libertà di scegliere tra loro. Le possibilità di scelta, infatti, riguardano la situazione economica nel quale si vive, le capacità di scelta non sono oggettive ma soggettive. Le possibilità sono per tutti; le capacità 2 riguardano la salute e l’istruzione, una persona malata o analfabeta non può e non sa scegliere tra diversi tipi di vita che se fosse sano o istruito gli sarebbe consentito. In definitiva, mentre l’HDI è un indice, migliore del reddito pro capite, resta insoddisfacente perché contiene poche variabili di benessere, ma non ne contiene nessuna rispetto alla dimensione sociale dello sviluppo. La definizione di Kuznets di sviluppo economico come crescita del reddito pro capite, coglie solo una componente dello sviluppo umano, questo deve comprendere oltre alla crescita di beni materiali anche altre dimensioni, come la salute e l’istruzione. Invece, abbiamo visto che questi due indici sono correlati nel confronto tra paesi ed emerge, infine, che l’HDI non coglie la dimensione sociale dello sviluppo. SVILUPPO E POVERTÀ Consideriamo la relazione tra sviluppo e popolazione. La popolazione è stata considerata nel suo insieme, però lo stesso PIL pro capite può essere accompagnato da una maggiore od una minore concentrazione della ricchezza. Infatti, le fasce povere della popolazione possono essere relativamente più povere o meno rispetto alle fasce ricche a parità di reddito pro capite medio riferito a tutta la popolazione. Questo è uno degli aspetti fondamentali della dimensione sociale dello sviluppo, che anche se può essere considerata da molti punti di vista, quello della giustizia distributiva è principale. Non a caso dobbiamo riconoscere che se ci sono tante concezioni di giustizia distributiva, tutte per essere veramente tali devono affermare come minimo che lo sviluppo va giudicato in base alla capacità di ridurre la povertà 3 assoluta. Per Povertà Assoluta s’intende la condizione di persone che non possono contare su un reddito giornaliero superiore ad uno o a due dollari pro capite. Ricordiamo che una società non può dirsi evoluta se al suo interno esiste una parte consistente della popolazione che lotta per la pura sopravvivenza. Un’adeguata definizione di sviluppo umano si deve riformulare aggiungendo una piccola parola, ma importante “sviluppo umano è il continuo miglioramento delle condizioni che permettono a tutta la popolazione di vivere una vita lunga, in buona salute e creativa”. L’HDI ed il rapporto tra la quota di popolazione, in condizioni di povertà assoluta, dimostra che la correlazione esiste, come risulta dal grafico, dai dati per un campione di 67 Pvs ed è migliore tra quella tra PIL pro capite e povertà. Nelle differenze tra povertà assoluta tra paesi incide il diverso reddito pro capite, ma ancor più il diverso sviluppo umano; molto importante è anche la distribuzione del reddito, come pure i caratteri geografici. 4 Traducendo tutto questo in termini di politica dello sviluppo, la riduzione della povertà assoluta è un obiettivo raggiungibile non solo mediante la crescita del reddito medio, esso deve essere promosso con politiche di riequilibrio sociale, cioè con la riduzione della distanza economica tra le classi più ricche con il resto della popolazione. Gli stessi effetti si potrebbero ottenere con il miglioramento e la diffusione dei servizi sanitari e scolastici, però il riequilibrio sociale è un prerequisito di queste politiche. Classi ricche e ristrette non hanno alcuna inclinazione verso le politiche sociali e lo squilibrio sociale rende difficile l’aumento della scolarità ed il miglioramento dello stato di salute dei poveri. La relazione sviluppo economico e popolazione fa emergere che i valori medi (PIL pro capite e HDI) non riescono a dar conto della povertà assoluta che è invece un aspetto essenziale dello sviluppo in termini di social capability. Quello che più influisce accanto alla crescita del reddito pro capite è la disuguaglianza distributiva o povertà relativa. Considerato il campione di 67 paesi in via di sviluppo, che in totale comprendono una popolazione di 3 miliardi di persone ed una popolazione povera di 2 miliardi e 350 milioni di persone che vivono con meno di 2 dollari pro capite al giorno. La stima con variabili indipendenti costituite da: costante, dummy per i paesi dell’Asia meridionale ed America latina, PIL pro capite, HDI e rapporto tra quota del reddito del 10% più povera della popolazione e quota identica più ricca, tutto ciò permette di calcolare l’entità complessiva della popolazione povera per effetto del solo riequilibrio distributivo a parità di altre condizioni. La simulazione indica cosa accadrebbe alla popolazione povera in senso assoluto in ogni paese se, fermi restando il reddito pro capite e l’HDI, adottasse politiche di riequilibrio dei redditi a favore dei poveri. La popolazione povera passerebbe da 2 miliardi e 350 milioni a 2 miliardi, ovvero sia queste politiche ridurrebbero la povertà assoluta di 350 milioni. Se la distribuzione del reddito poveri – ricchi, in tutti i paesi del campione, divenisse uguale a quello della Thailandia, i poveri sotto i 2 dollari si ridurrebbero di altri 200 milioni. Infine, se diventasse pari a quella che si registra al paese che preso come campione di Pvs, che ha il miglior rapporto poveri – ricchi “Ungheria”, i poveri si ridurrebbero ad 1.500 milioni. 5 SVILUPPO ECONOMICO E DISTRIBUZIONE DEL REDDITO Povertà Assoluta e Disuguaglianza Distributiva sono collegate, il problema è vedere se vi siano effetti sistematici dell’aumento del reddito pro capite sull’andamento della disuguaglianza distributiva. In effetti, esiste l’ipotesi che la crescita del reddito pro capite generi, di norma, un aumento degli squilibri distributivi, cioè se così fosse ridurre la povertà sarebbe più difficile perché la crescita economica, da una parte, contribuirebbe a ridurre la povertà assoluta, ma dall’altra la ostacolerebbe. Fu Simon Kuznets a proporre l’ipotesi di lungo periodo che la disuguaglianza dei redditi familiari fosse destinata a crescere nelle prime fasi dello sviluppo economico e che, successivamente, cominciasse a ridursi. Questa ipotesi è stata verificata analizzando che dal reddito pro capite e della sua ridistribuzione in alcuni paesi industrializzati (Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti) durante il XVIII secolo e la prima parte del XIX (800–900). L’ipotesi di Kuznets è stata oggetto di molte verifiche, se nell’esperienza contemporanea vi sia applicazione, onde confermare l’ipotesi della U di Simon. Robinson e Adelman, nel 89, scrivevano che nei paesi in via di sviluppo, vi sono alcune lezioni da trarre dall’esperienza post–bellica, vi è stato un peggioramento iniziale della distribuzione dei redditi; secondo, questo peggioramento è dovuta ad una questione di scelte politiche. La crescita economica, da un lato, aiuta a ridurre la povertà, perché aumenta il reddito medio pro capite; dall’altra potrebbe ostacolarla, riducendo il reddito delle classi povere rispetto alle classi ricche. Se andiamo a considerare poi che povertà assoluta e povertà relativa sono legate tra loro e sapendo che l’avvio dello sviluppo economico potrebbe produrre un aumento della disuguaglia distributiva, e quindi alla povertà relativa, emerge una conferma che l’obiettivo della riduzione della povertà assoluta non può essere affidato solo alla crescita del reddito pro capite. Questa crescita è utile, ma sono indispensabili anche politiche ridistributive a favore dei poveri. Però, emerge che la concentrazione della ricchezza sia della terra che del capitale umano, dia luogo a politiche che proteggono interessi settoriali che impediscono la crescita del resto della società. 6 SVILUPPO E POVERTÀ SU SCALA MONDIALE Il problema è vedere quanti sono i poveri nel mondo e quanto sono poveri. È noto che oltre i ¾ del genere umano oggi vive in paesi arretrati, dove lo sviluppo economico moderno non si è realizzato. Ora considerando i dati di lungo periodo a livello mondiale si è constatato che nell’attuale epoca di globalizzazione, le difficoltà gravi che s’incontrano nella riduzione della povertà (1 miliardo e 200 mila persone sono ai limiti della sussistenza) devono essere fatte risalire a 2 circostanze. Da una parte vi è la difficoltà che incontra la diffusione dello sviluppo nei paesi arretrati, l’opposto di quando accadeva nell’800 e nella prima parte del 900, dall’altra vi è un aumento della distanza economica tra i paesi ricchi ed i paesi poveri. Nel rapporto sulla povertà sulla Banca mondiale del 1990 si facevano previsione secondo cui nel 2000 la povertà assoluta sarebbe stata sradicata giungendo a non più dell’11% della popolazione mondiale. Le previsioni d’oggi (Dollar e Collier 2001) spostano avanti di 15 anni le previsioni d’allora per giungere ad una popolazione povera di 800 milioni nel 2015, sarebbe necessaria una politica d’aiuto ed un loro orientamento rivolto veramente verso l’obiettivo dello sviluppo umano. Nel frattempo s’assiste ad un fenomeno che ricorda la storia già vista 10 anni fa, cioè di creazione dell’OXE, Comitato assistenza dello sviluppo dell’organizzazione dei paesi sviluppati o la FAO, secondo cui nel 2015 vi sarà il dimezzamento della povertà assoluta. Secondo lo scenario ottimistico di Dollar e Collier, quest’obiettivo non potrebbe mai essere raggiunto in termini assoluti perché ci vorrebbe una politica internazionale dei paesi ricchi e quella interna dei paesi poveri, diventassero al massimo grado virtuoso, il che è tutt’altro che scontato, quindi sarebbe necessario un forte riequilibrio tra i paesi ricchi e poveri. LE POLITICHE Nei sistemi economici moderni esistono tendenze che rendono difficile combinare sviluppo economico e riduzione della povertà, ma ciò è anche questione di volontà politica. È facile vedere che sviluppo ed equilibrio distributivo non sono sempre incompatibili, anzi sembra che ridistribuire prima e crescere poi, sia una via efficace per sostenere lo sviluppo stesso. La lotta alla povertà che è da considerare il 7 fondamentale obiettivo di sviluppo umano, richiede non solo che ogni paese attui politiche interne adatte alla crescita economica e alla ridistribuzione del reddito e delle opportunità a favore dei poveri, ma anche politiche internazionali nuove con l’obiettivo di ridurre la distanza tra i paesi ricchi ed in via di sviluppo. Allo stesso modo, all’interno di ogni paese non si può pensare che la povertà venga sconfitta dalla semplice crescita del reddito medio come a livello mondiale non si può pensare che i paesi poveri possano giovarsi solo della crescita economica mondiale. Gli esempi di Taiwan e Brasile, sono esempi opposti di come è possibile perseguire una strategia di sviluppo che prima ridistribuisce reddito ed opportunità ai poveri, e poi, anche in questo modo ottiene la crescita economica come nel caso di Taiwan. Si è visto però che sono necessarie, nello stesso tempo, per raggiungere quest’obiettivo, la riforma agraria ed un efficiente servizio sanitario e scolastico. Questo è tutt’altro che facile soprattutto per ragioni politiche. L’ideologia dominante va in senso opposto perché legata alla convenzione che aiutare i poveri, e all’interno dei paesi e a livello mondiale rischierebbe di minacciare lo sviluppo economico, mentre sarebbe lo sviluppo economico anche se squilibrato, l’unica maniera valida per aiutarli. Nel mondo, i Pvs sarebbero aiutati solo dalla crescita economica mondiale, anche se da essa traggono relativamente più vantaggi i paesi ricchi. Nei fatti, dal 60 al 2000, la crescita economica mondiale ha registrato un apprezzabile 1,74% medio annuo del PIL, ed 1,11% in termini di PIL pro capite, è stata una crescita rilevante, il PIL mondiale è quasi raddoppiato, mentre quello pro capite medio di tutti gli abitanti, nel 2000, è giunto a 154. Dobbiamo dire, però, che questo aumento non si è verificato in tutti i paesi perché, come si può notare dalla tabella, abbiamo avuto successi notevoli, vedi quello del Giappone, Spagna, Italia, per citare solo alcuni casi ed altri, invece, il Mali, Niger, Senegal, sempre dalla tabella, che hanno avuto dei veri e propri fallimenti, paesi tutti concentrati in Africa ed in America latina. Da questi risultati si può vedere la geografia del sottosviluppo; in questa fascia, la maggior concentrazione della povertà è al centro, in Africa ed in Asia. Da questi dati risulta che i paesi poverissimi, dove il PIL raggiunge annualmente i 1.500 dollari, comprendono il 10% della popolazione, mentre i paesi ricchi sono quelli che hanno un PIL superiore a 9.000 dollari e la fascia di popolazione mondiale è di 18%. Si dice, a ragione, che i 8 2/3 della popolazione mondiale hanno 1/3 della ricchezza, mentre più del 60% della ricchezza è controllato da meno di 1/5 della popolazione. MISURA DEL BENESSERE ECONOMICO La misura del benessere economico più usata è il PIL, e per fare i confronti bisogna convertire il PIL nazionale in moneta comune, di regola in dollari. Però, il tasso di cambio non costituisce un adeguato fattore di conversione, infatti, accade talvolta di leggere che la moneta nazionale dei paesi in via di sviluppo è sopravalutata e quindi lo è anche il suo reddito. In realtà è vero che in genere la moneta dei Pvs è sopravvalutata per i cambi e scambi internazionali, rispetto ad una situazione di piena libertà commerciale e valutaria, ma per cause più potenti, di natura strutturale, il loro reddito convertito in dollari mediante il tasso di cambio non è sopravalutato, ma sottovalutato perché il tasso di cambio dipende dalla produttività delle differenze tra i due paesi. In altri termini emerge che confronti tra paesi possano essere condotti legittimamente confrontando i redditi procapiti e le disuguaglianze distributive, sia per quanto riguarda il benessere materiale, sia riguardo lo sviluppo umano o più specificatamente la povertà. LE DETERMINANTI DELLA POVERTÀ ASSOLUTA Il confronto tra la differenza dei paesi a riguardo della povertà assoluta non si riduce semplicemente alle differenze dello sviluppo economico perché, per accertare l’effetto sulla povertà assoluta, sia nell’HDI, sia nel livello dello sviluppo economico (PIL), sia della distribuzione del reddito, le variabili distributive sono 2. Una è la quota di reddito nazionale del 10% più povera della popolazione; l’altra è il rapporto tra quota del reddito posseduto dal 10% più ricca della popolazione e l’indice di Gini (che misura la distanza della distribuzione del reddito dal perfetto egualitarismo). Inoltre, sono considerate le variabili dummy di natura geografica. Si conferma il legame di segno negativo tra povertà assoluta, H DI e PIL. Ciò significa che la quota di libertà assoluta è tanto minore quanto maggiore è il reddito che può disporre la fascia più povera della popolazione. Occorre ricordare che il PIL pro capite entra nel calcolo dell’indice dello sviluppo umano, però le differenze in termini 9 di sviluppo umano danno meglio conto della povertà, come conta anche la distribuzione del reddito, infine contano i caratteri geografici, storici, politici e istituzionali. VERIFICHE DELLE IPOTESI DI KUZNETS Per verificare in modo rigoroso l’ipotesi sopra indicata, ci dovrebbero essere dati sulla distribuzione del reddito non solo per tutti i paesi del mondo, ma anche indagini ripetute e confrontabili in ciascun paese, in modo da accertare se le disuguaglianze distributive aumentino all’avvio dello sviluppo in gran parte dei paesi. In effetti, una delle maggiori critiche ai tentativi di accertare l’andamento ad U degli squilibri distributivi, è la possibile presenza di circostanze specifiche ad un paese che non possono essere colte adeguatamente nelle variabili indipendenti. Ad esempio si sottolinea che tra i paesi poveri, molti sono Africani, tra i paesi ricchi tutti sono Europei o di cultura europea, tra i paesi intermedi sono paesi latino americani. È noto che la cultura americana e quella musulmana risentono ancora delle loro origini tribali comunitarie, questa organizzazione sociale prevede una notevole uguaglianza distributiva con la presenza di una stretta elite di notabili; che la cultura europea prevede anch’essa un eguaglianza distributiva in seguito alla diffusione dei sistemi di Welfare State, che caratteristica peculiare dei sistemi latino – americani è sempre stata una forte disuguaglianza distributiva. Quindi, in conclusione, lo sviluppo economico, per ragioni molteplici e complesse, è venuto a coincidere con l’equilibrio distributivo dei paesi europei e di origini europei, è mancato dando luogo alla coincidenza di bassi redditi procapiti con l’equilibrio distributivo nei paesi africani; è rimasto a metà strada con elevati squilibri nell’America latina. CAP II I FATTI STILIZZATI I fatti stilizzati sono caratteri fondamentali dello sviluppo economico, proposti all’attenzione degli economisti da Kaldor e, a quarant’anni dalla loro formulazione, sono ancora un utile riferimento. Lo sviluppo industriale capitalistico moderno è 10 caratterizzato, per lunghi periodi, da tassi non decrescenti di aumento della produttività del lavoro, da un rapporto crescente tra capitale e lavoro, da un tasso di profitto costante, da un rapporto grossomodo costante tra capitale e prodotto e da una quota costante dei salari sul reddito. Sono questi i 5 fatti stilizzati da Kaldor, che insieme al sesto sono oggi un fondamentale riferimento per l’analisi dello sviluppo. Il concetto o l’espressione fatti stilizzati evoca due idee che furono fondamentali nel pensiero di Kaldor, la prima è che la teoria economica deve partire dai fatti nel momento stesso in cui viene formulata, non è utile formulare ipotesi in base a congetture circa il comportamento dei soggetti economici, ma è importante osservare concretamente ciò che avviene e formulare ipotesi interpretative che ne spieghino il senso. La seconda idea che giustifica l’aggettivo “stilizzanti” è che il sommario dei fatti che occorre raccogliere deve comprendere grandi tendenze secolari. Poiché i fatti, così come registrati e presentati dagli statistici sono sempre soggetti a numerose difficoltà, incertezze, secondo Kaldor il teorico, dovrebbe essere libero da una visione stilizzata dei fatti. Nel processo di trasformazione e sviluppo economico nelle società capitalistiche la crescita continua, un continuo aumento dell’ammontare del capitale per lavorare il capitale/prodotto, sono fatti stilizzati da cui partire per i modelli teorici. Si tratta, va sottolineato, di fatti o tendenze secolari, validi su orizzonti di tempo molto lunghi. Quest’elencazione, fatta più di 40 anni è diventato un punto di riferimento fondamentale per molti studiosi. LA PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO Il primo fatto stilizzato di Kaldor riguarda l’assenza nel lungo periodo di una tendenza calante del tasso di crescita della produttività del lavoro, esso contraddice convinzioni molto diffuse. Molte parti della teoria economica precedente riteneva che lo sviluppo economico moderno fosse un processo, fondato sulla crescita continua del prodotto e della produttività ma anche tale per cui alla lunga il ritmo di questa crescita fosse destinato a ridursi. A molti autori classici lo sviluppo appariva una rapida espansione del prodotto sostenuta da una rapida crescita della produttività del lavoro, seguita da un rallentamento. Secondo gli economisti neoclassici, un’analoga tendenza alla stagnazione veniva data all’accumulazione del capitale. La teoria di 11 Kaldor andava controcorrente. Si può notare che nelle considerazioni, sia in quelle classiche che neoclassiche che in quelle di Kaldor (di segno opposto) vi è sempre un accostamento diretto tra la crescita del prodotto (PIL) e andamento della crescita della produttività del lavoro. Il reddito (PIL) è uguale al prodotto tra produttività oraria del lavoro, orario di lavoro, tasso di occupazione e popolazione. Il tasso di crescita del PIL è approssimato dalla somma del tasso di crescita della produttività oraria del lavoro, dell’orario, del tasso di occupazione e della popolazione. Quindi l’andamento della produttività oraria del lavoro è una sola delle 4 componenti additive che insieme determinano l’andamento del prodotto. Se consideriamo i principali paesi industrializzati nel loro insieme vediamo che il primo fatto stilizzato da Kaldor è confermato, cioè nel lungo periodo i tassi di crescita della produttività oraria del lavoro e del prodotto non hanno alcuna tendenza decrescente, anzi è lievemente crescente. Ancora si nota che l’andamento di lungo periodo del reddito per lavoratore è molto simile all’andamento di lungo periodo del reddito pro capite, prendendo il complesso dei paesi per i quali si hanno i dati di più lungo periodo, cioè i paesi europei dal 1830-2000, i tassi di crescita del reddito pro capite presentano una tendenza crescente. Un ultimo argomento connesso al primo fatto stilizzato riguarda il ruolo dell’andamento della popolazione, il reddito pro capite è un rapporto con il reddito al numeratore e la popolazione al denominatore. La sua crescita è la differenza tra tasso di crescita del reddito e tasso di crescita della popolazione, ci si può chiedere se l’andamento di lungo periodo crescente del tasso di crescita del reddito pro capite non dipenda semplicemente dal declino della crescita demografica tipico dei paesi ricchi. In realtà non è così, l’assenza di una riduzione di lungo periodo del reddito pro capite nei paesi avanzati non è semplicemente la conseguenza della riduzione della popolazione, perché nella prima metà del 900 registrarono incrementi notevoli della produzione interna pro capite sia paesi con forte aumento di popolazione (Canada, Brasile), sia paesi con debole aumento (Russia, Svezia). Come si può vedere la crescita del prodotto pro capite è indipendente dalla crescita della popolazione, anche se ciò non significa che la crescita del reddito pro capite non sia in qualche modo influenzata dalla crescita della popolazione, ma semplicemente che la dinamica della popolazione, da sola, non costituisce la variabile esplicativa 12 dell’andamento del reddito pro capite. Ancora emerge che, nei paesi avanzati, il reddito pro capite non è sostenuto semplicemente dalla ridotta dinamica della popolazione e che i paesi arretrati restano tali non solo per l’incremento della popolazione, ma perché il loro sviluppo economico non si è ancora avviato o è troppo lento. Quindi il tasso di crescita del reddito pro capite dei paesi industrializzati non mostra nessun andamento di lungo periodo decrescente. Il tutto conferma il primo fatto stilizzato da Kaldor, per cui, si può produrre con minor sforzo e minor tempo. L’ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE Il primo fatto stilizzato di Kaldor è confermato nel senso che i tassi di crescita del reddito pro capite e della produttività oraria del lavoro non presentano alcuna tendenza secolare al declino, ora dobbiamo considerare il rapporto prodotto/capitale che chiamasi per comodità produttività del capitale, abbiamo visto che anche il prodotto per lavoratore continua a crescere nel lungo periodo e il suo tasso di crescita non si riduce. Quindi, importante osservazione è che diverso è l’andamento di lungo periodo del reddito in rapporto al capitale (produttività del capitale): il reddito per lavoratore aumenta, la produttività del capitale è costante (4° fatto stilizzato), il suo tasso di crescita di lungo periodo è quindi nullo. La conseguenza è che lo stock di capitale per lavoratore aumenta e la sua crescita è simile alla crescita del prodotto per lavoratore (2° fatto stilizzato). SAGGIO DI PROFITTO E LA QUOTA DEI SALARI Per completare l’esame dei primi 5 fatti stilizzati di Kaldor, bisogna vedere se il saggio di profitto e la quota dei salari si possano considerare davvero costanti nel lungo periodo (3° e 5° dei fatti stilizzati). Riguardo al saggio di profitto, Barro ed altri affermano che il fatto stilizzato di Kaldor che concerne la stabilità dei tassi reali di rendimento sembra essere stato influenzato dall’esperienza inglese, in questo caso pare che il tasso d’interesse reale abbia seguito un andamento di lungo periodo lungo una linea che non presenta nessuna inclinazione. Per gli Stati Uniti, i dati di lungo periodo suggeriscono un moderato declino d’interesse reale. I tassi di rendimento, in alcuni paesi che sono cresciuti molto in fretta, come Corea del Sud e Singapore, sono 13 molto più alti di quelli degli Stati Uniti, ma sono scesi nel tempo. Sembra opportuno sostituire l’ipotesi di Kaldor di tassi di rendimento grossomodo stabili con l’ipotesi di tassi di rendimento decrescente durante lo sviluppo economico. Questa posizione riflette una lunga tradizione del pensiero economico, rispetto alla quale Kaldor prende le distanze secondo cui l’accumulazione di capitale sarebbe inesorabilmente accompagnata dalla caduta del suo rendimento. Per i salari, in un’economia, il capitale è lavoro prodotto dai lavoratori autonomi, fossero remunerati come quelle relative alle imprese capitalistiche, la quota dei salari sul reddito sarebbe costante come conseguenza necessaria della costanza del rapporto Capitale/PIL. Se la quota dei profitti è costante, resta costante anche quella dei salari. In conclusione, tutti 5 i fatti stilizzati da Kaldor appaiono accettabili dopo 40 anni dalla loro indicazione. Altri fatti stilizzati molto importanti sono quelli messi in rilievo da vari autori, come Kuznets, vedi la riduzione di peso dell’agricoltura e l’aumento dell’industria. Ora i modelli aggregati, dove si assume che esista un solo bene, non sono in grado di analizzare il processo di crescita dell’industria e di declino dell’agricoltura. Invece, questo processo è uno delle maggiori regolarità dello sviluppo moderno. Nella maggior parte dei paesi, oggi industrializzati, l’occupazione nel settore agricolo era un secolo fa dal 40 al 60% del totale, attualmente è dal 2 al 4%. Oggi la quota d’occupazione sociale si è ridotta a vantaggio dei servizi. Le cause di queste trasformazioni sono diverse, in primo luogo con lo sviluppo cambia la struttura della domanda dei beni di servizio. I prodotti dell’agricoltura sono caratterizzati da un’elasticità della domanda elevata a bassi livelli di reddito e molto più bassa a livello di reddito elevato. I beni industriali e di servizi cresce, invece, molto velocemente con il reddito di sviluppo medi e avanzati. Vi è una crescita della domanda di esportazione e degli investimenti che accompagnano il peso dell’industria, in rapporto con l’agricoltura. Quindi, in conclusione possiamo dire che dai risultati di Abramovitz sulla crescita degli Stati Uniti a riguardo della produttività era spiegato dalla crescita del rapporto Capitale/Lavoro. Il risultato dell’autore veniva confermato dall’analisi di Solow, secondo cui gli USA, alla crescita della produttività totale doveva essere attribuito l’87% dell’incremento del prodotto pro capite, che nei 40 anni era raddoppiato, all’aumento di capitale il restante 12%. Dunque l’aumento 14 del prodotto per addetto risultava attribuibile non all’aumento di capitale, ma a qualcosa che possiamo chiamare Progresso Tecnico. Il terzo fattore di produttività, che deriva dalla nozione di residuo, risultava decisivo negli Stati Uniti e non era attribuibile né al lavoro né al capitale. CAP III DECOLLO E CRESCITA SECOLARE LA TEORIA CLASSICA DELLO SVILUPPO È importante prima di parlare della teoria economica dello sviluppo e della crescita economica, della scuola economica classica, sorta in Inghilterra tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del XIX e che ebbe come esponenti principali Smith Adam, Ricardo, Malthus, tanto per citare i più famosi. È importante il richiamo della scuola classica perché fiorisce nell’epoca della prima Rivoluzione Industriale, per la problematica dello sviluppo. È utile precisare i caratteri fondanti del capitalismo che i classici definiscono come formazione sociale e sistema di produzione dominante. Per svolgere un’attività produttiva moderna occorrono lavoro e mezzi di produzione, che non sono più non prodotti, come la terra coltivabile e le altre risorse naturali, che erano elementi base dell’economia agricola tradizionale. Ora, i mezzi di produzione sono anche prodotti, come le macchine, le attrezzature e materie prime. L’industria moderna, con la divisione del lavoro permette e richiede grandi investimenti in mezzi di produzione che sono a loro volta prodotti, per l’attività industriale occorre spendere un capitale e le macchine, le attrezzature, le materie prime assunsero il nome di beni capitali. Al tempo dei classici, raramente i proprietari terrieri s’impegnavano in attività poco nobili come quelle manifatturiere, svolte da altri soggetti in possesso di capitali e per questo chiamati capitalisti. Il sistema capitalistico presentava tre classi fondamentali: lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri. Caratteristica fondamentale del rapporto di produzione capitalistico tipico è che i lavoratori liberi concorrono all’attività produttiva vendendo ai capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, la loro prestazione lavorativa. Delle tre classi del sistema capitalistico due sono nuove rispetto alla società tradizionale, che era 15 composta dai signori della terra nella maggior parte dei casi. Per i lavoratori, il salario è il reddito, per i capitalisti il profitto e per i proprietari terrieri la rendita. Si suppone che all’inizio, nell’epoca della prima Rivoluzione Industriale, il salario fosse al livello della sussistenza e consumato per intero, che anche i proprietari terrieri consumassero per intero le loro rendite, mentre i capitalisti reinvestissero per intero o quasi i loro profitti. IL MODELLO DI CRESCITA D’ISPIRAZIONE CLASSICA Nella teoria economica classica i problemi più importanti sono considerati a livello dell’intero sistema economico. Nell’economia si suppone che esiste un solo bene prodotto che può essere consumato o reinvestito nel processo. Secondo i classici, un problema fondamentale per lo sviluppo è quello del sovrappiù e della sua destinazione. Per sovrappiù s’intende quella parte del prodotto totale dell’economia che non occorre reimettere nel processo produttivo per mantenere il prodotto a livello corrente. Esso, dunque, potrebbe essere interamente consumato senza compromettere nulla. Se, però in parte, viene reinvestito, consente di ampliare le dimensioni del prodotto. Quindi, il problema del sovrappiù nella sua esistenza e consistenza è essenziale nella fase del decollo industriale, senza sovrappiù non si può avere decollo economico se non sostenuto interamente dall’esterno. Nell’impostazione classica, anche i beni consumati dai lavoratori, per la loro sussistenza non appartengono al sovrappiù perché necessari a mantenere il livello preesistente del prodotto. Un’altra particolarità del modello di crescita è che esso prevede solo capitale circolante, mentre i modelli successivi suppongono solo capitale fisso. Le conseguenze sono che, nei modelli macroeconomici contemporanei, dove si suppone solo capitale fisso moderno, il problema del sovrappiù non può essere posto con semplicità. Nella prima versione di questo modello, diversamente da quello Ricardiano, si suppone che la terra sia identica ovunque e che per ottenere un’unità di prodotto al tempo t+1 occorre impegnare A m (unità di prodotto come mezzo di produzione) e A l (unità di prodotto per pagare i lavoratori). Sia A=A l +A m , allora A è il capitale fisico che occorre anticipare per ottenere un’unità di prodotto dopo un anno. Però, dopo un anno, questo capitale non esiste più, perché è interamente usato per le materie prime, 16 completamente consumate nel ciclo produttivo ed in mezzi di sussistenza ai lavoratori. In questo senso si dice che il capitale è solo capitale circolante, intendendo con questa espressione che esso dura solo 1 anno. Se non cambiano le tecniche di produzione e dunque A resta costante, il capitale da anticipare al tempo t-1, sarà AQ t , per mantenere al tempo t+1, a livello preesistente, il capitale da anticipare sarà lo stesso al tempo t ed al tempo t-1. Se A=1 per riprodurre al tempo t+1 la quantità di prodotto realizzata un anno prima, occorre reimpiegare per intero tale produzione, il sistema riesce appena a realizzare una riproduzione semplice. Se, invece, A<1, per riprodurre al tempo t+1 la quantità di prodotto realizzata al tempo t, basta reimpiegare solo una parte di tale produzione, in questo caso il sistema genera un sovrappiù. Chiamiamo K t il capitale investito nella produzione e accumulazione di capitale, la crescita nel tempo di Q t . Dal ricavato della produzione Q t 1 , si può trarre il capitale necessario per un nuovo ciclo produttivo e se tale capitale è superiore a quello del precedente ciclo abbiamo accumulazione di capitale. Il saggio di crescita prodotto è pari al saggio di profitto. Messo al confronto questo modello con i fatti stilizzati di Kaldor, ci si rende conto che esso è in grado di riprodurre solo 3 dei primi 5 fatti stilizzati: la crescita al tasso costante del prodotto, la costanza del rapporto capitale – prodotto e del saggio di profitto. Non riproduce, invece, la crescita del salario di pari passo con la produttività. L’impostazione classica consente di far emergere il sovrappiù perché può esserci crescita economica, occorre che l’economia produca un sovrappiù e ciò dipende dalle caratteristiche fisiche, tecniche e sociali del sistema. Tutti tre le condizioni sono rilevanti. Importanti sono le risorse naturali, ma lo sono anche le tecnologie ed è decisivo il livello dei salari per la sussistenza e riproduzione dei lavoratori. Se il sovrappiù esiste, occorre che sia reinvestito e non in consumi di lusso, o guerre. Il secondo punto è che nell’economia in via di sviluppo il profitto è non solo lo stimolo, ma anche la fonte principale dell’accumulazione di capitale, sempre che esso sia reinvestito. In terzo luogo, il problema della domanda effettiva che nei Pvs è secondario, nella teoria classica è quasi sempre ignorato, ciò che non è consumato, i profitti sono interamente investiti cosicché il valore della domanda è pari a quello del prodotto. Infine, il salario, quando c’è un serbatoio di disoccupazione e sottoccupazione, la condizione tipica che i classici si trovarono di 17 fronte e che si verifica oggi nell’economia arretrate, tenta ad essere costante ad un livello determinato. Per capire meglio questo punto è utile richiamare il modello di sviluppo dualistico proposto da Lewis. L’offerta di lavoro illimitata discende dall’ipotesi che parte dal dualismo agricoltura – industria. Il mondo premoderno, caratterizzato dalla presenza di lavoro agricolo preponderante, è considerato rispetto al mondo industrializzato. Nella società tradizionale, a ciascuno è riconosciuto il diritto di partecipare al reddito totale a prescindere dal contributo produttivo, in virtù dell’appartenenza alla comunità. Questo principio fa sì che la giustizia e la stabilità sociale non si ottengono con criteri distributivi di merito, ma di appartenenza. Un altro elemento fondamentale della divisione della teoria dello sviluppo economico degli autori classici e soprattutto di Adam Smith, è la divisione del lavoro, inteso con gli effetti della sua produttività ed i legami con l’ampiezza del mercato. Secondo Smith, la causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro sia stata la divisione del lavoro. Per capire meglio questa affermazione risulta essenziale tra divisione tecnica e divisione sociale del lavoro. La prima riguarda la divisione di lavoro attuata all’interno di un’unità produttiva che si esprime nella riduzione a parità di tempo di lavoro delle mansioni svolte da ciascuno. Così l’operaio che svolgeva prima molte mansioni ora si concentra su un numero minore e perciò le svolge con maggiore rapidità. La divisione sociale del lavoro è quella del lavoro tra unità produttive diverse che producono beni diversi tra loro. Nelle economie primitive, le unità produttive di base, famiglia allargata, provvedeva da sé o a tutti o quasi ai suoi bisogni, nell’economia moderna molte imprese concorrono a soddisfare i bisogni di ciascuno, producendo diversi beni. Divisone di lavoro è sinonimo di specializzazione, infatti, ogni soggetto economico può concentrarsi su compiti ristretti e svolgerli meglio. Smith parla che la divisione del lavoro è limitata dall’ampiezza di mercato, per la precisione è tanto maggiore quanto è tanto maggiore l’ampiezza di mercato. Questa affermazione è molto chiara perché basta il semplice confronto tra le unità produttive di un’economia primitiva e quella moderna, perché le prime sono autosufficienti, non specializzate e poco produttive ed il mercato per i prodotti di ciascuno coincide spesso con un unità produttiva stessa. Unità produttive specializzate, invece, operano su mercati estesi. Dimensioni di mercato e divisione 18 del lavoro non sono importanti solo differenze così profonde, ma si tratta di 2 realtà connesse che permeano tutto il mondo contemporaneo anche dei paesi industrializzati, come ci hanno dimostrato Kaldor ed altri. Prendiamo il caso dei computer, un tempo quando i computer erano pochi, le imprese davano anche il software. Il mercato non era abbastanza grande da consentire la sopravvivenza di imprese indipendenti specializzate nella produzione di soli programmi. In seguito, le norme espansione del settore ha consentito che imprese specializzate nella produzione del solo software non solo potessero nascere, ma come Microsoft, dominano il mercato. Ancora più chiara è il legame tra divisione tecnica del lavoro e ampiezza del mercato. La specializzazione delle operazioni interne alle imprese avviene solo nella misura in cui i volumi di produzione dell’impresa sono ampi da renderla profittevole e ciò maggiormente per l’introduzione di nuovi macchinari o impianti. È molto costoso fabbricare un martello per piantare un solo chiodo, molto meglio sarebbe usare qualunque strumento a portata di mano. Quindi la divisione sociale del lavoro crea la necessità dello scambio, nel senso che ogni soggetto economico cede i suoi prodotti o parte per ottenere beni prodotti da altri. MODELLO HARROD – DOMAR Questo modello prende il nome da due economisti che giunsero quasi in contemporanea a stabilire un’equazione che esprime il tasso di crescita che può restare costante nel tempo e realizzare il pieno impiego della capacità produttiva. Modello questo che si colloca su prospettiva diversa da quella della teoria economica dei classici, perché si trovavano in presenza di economie in fase di decollo industriale. Questo modello si occupa dei problemi che possono sorgere nel mantenimento dello sviluppo una volta che esso sia avviato e consolidato. MODELLO DOMAR Keynes aveva evidenziato le difficoltà di autoregolazione di un’economia capitalista, in particolare la difficoltà di avere un livello d’investimento sufficiente a generare una domanda effettiva pari alla capacità produttiva. La teoria keynesiana, però, era costruita sull’ipotesi che lo stock di capitale e la capacità produttiva siano dati e 19 appartiene pertanto all’analisi di breve periodo. Domar parte dal problema keynesiano di eliminare l’eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda e dalla teoria di Keynes, secondo cui, per ottenere la piena occupazione occorre generare un investimento adeguato. Però Domar sottolinea che vi è un duplice ruolo dell’investimento, da una parte contribuisce a formare la domanda aggregata e nel presente ad occupare la capacità produttiva esistente, dall’altro aumenta successivamente la capacità produttiva stessa e ripropone nel futuro e continuamente il problema keynesiano. Il problema di Domar è, dunque, se esista un livello o un sentiero temporale dell’investimento in grado di mantenere costantemente la piena occupazione della capacità produttiva. Quindi, il livello dell’attività produttiva Y t è determinato dal lato della domanda effettiva dal livello degli investimenti con la propensione al risparmio. L’equazione fondamentale di Domar s I t 1 – I t dice v It che per avere permanentemente l’uguaglianza esatta tra domanda effettiva e capacità produttiva occorre che l’investimento cresca ad un tasso costante pari ad s . v MODELLO DI HARROD Il problema di Harrod, nel linguaggio della teoria contemporanea, non è solo quello dell’esistenza di un sentiero temporale del reddito in grado di mantenere sempre la piena occupazione della capacità produttiva, ma anche quello della stabilità di tale sentiero. In altre parole, egli s’interroga riguardo alle difficoltà di autoregolazione del sistema economico. Harrod indica con Y *t 1 la domanda attesa dall’impresa al tempo t+1, supponendo che il risparmio desiderato e l’investimento siano sempre uguali, infine si suppone che la piena occupazione della capacità produttiva sia realizzata al tempo t e le imprese decidano i loro investimenti sulla base degli incrementi attesi. Il tasso di crescita costante del reddito s g y (t ) si ha se le imprese, partendo da una v situazione di pieno utilizzo della capacità produttiva al tempo t, fanno previsioni esatte, cioè tali da portarle ancora in una situazione analoga al tempo t+1. Da questo modello emerge che Harrod chiama s tasso di crescita garantito e né emerge una v 20 visione del capitalismo come sistema di produzione in sé tendenzialmente esplosivo verso la crescita o la stagnazione, ciò non corrisponde in pieno con la realtà dei fatti, così come si sono succeduti nella storia del capitalismo. L’instabilità può essere attenuata sia dalla politica economica sia per il fatto che le imprese sono organizzazioni cioè corpi collettivi finalizzati alla produzione e ai profitti. Oltre al problema della piena occupazione della capacità produttiva, Harrod tratta anche la piena occupazione della manodopera, questa condizione N t Yt può essere mantenuta yt nel tempo solo se il tasso di crescita dell’offerta di lavoro che si suppone costante è pari ad n è uguale a quello della domanda. Il tasso di crescita del reddito, che soddisfa tale uguaglianza è gy=λ+n che viene detto tasso di crescita naturale, esso verrà denotato con Gn . CAP IV L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA Il progresso tecnico è un fattore decisivo dello sviluppo economico, però lo abbiamo trattato come una black box, per usare l’espressione di Rosenberg, esso è rimasto sempre come un qualcosa che si aggiunge all’accumulazione dei fattori produttivi, la cui natura varia. Il progresso tecnico è innanzitutto un processo, messo in moto da innovazioni fondamentali, esso è caratterizzato da incertezza riguardo ai risultati, incertezza che dipende da due fattori: la prima di natura tecnica, (perché le innovazioni non nascono perfettamente funzionanti, ma ci sono continui adattamenti e miglioramenti); la seconda ragione è di natura ambientale (economica sociale ed istituzionale), perché ogni innovazione deve essere assimilata, cambia i modi di lavorare e di consumare e cambia i rapporti delle risorse a cui si applica, processo questo anch’esso lento e soggetto a una lunga serie di condizionamenti. Nel caso dei pionieri (paesi leader dello sviluppo ed innovazione) questi due lenti processi di adattamento tecnico e di assimilazione avvengono in contemporanea e l’uno contribuisce all’altro. Le maggiori difficoltà si hanno nella fase innovativa perché, nel caso dei pionieri, nessun innovatore avrà i finanziamenti necessari, spiegando la bontà della propria idea. I paesi arretrati hanno il vantaggio di acquisire soluzioni 21 tecniche dei paesi avanzati senza inventarle e svilupparle, ma questo vantaggio è solo potenziale, perché è vero che non devono inventare ex novo, ma devono affrontare il problema dell’assimilazione, che ha caratteristiche complesse. Tutto ciò porta con sé un processo lungo e lento, perché anche i ritardatari devono spendere risorse nella reinvenzione sia per i costi di assimilazione. Va sottolineato che, per i PVS, ci sono altri ostacoli, derivanti dall’arretratezza del contesto socio-economico. La liberazione dei mercati delle merci e dei capitali, attraverso l’intervento delle multinazionali, non è soluzione adeguata, perché storicamente non ha risolto il problema dello sviluppo in nessun paese arretrato. SVILUPPO ECONOMICO E PROGRESSO TECNICO Lo sviluppo economico e il progresso tecnico possono essere visti sotto 3 aspetti: gli aspetti del progresso tecnico, la sua natura e i meccanismi che lo producono. Di questi tre aspetti, i primi due sono chiari da tempo; è noto ed accettato che il progresso tecnico è stato ed è ancora oggi alla base dello sviluppo economico e che va visto come mutamento in senso migliorativo (innovazione) dei mezzi e dei modi di produrre (innovazione dei processi) e come realizzazione di nuovi beni e servizi che sono meglio in grado di soddisfare i bisogni (innovazione dei prodotti). Si è d’accordo che in tale direzione conta non il semplice progresso scientifico, bensì se è nei limiti in cui esso viene applicato, diverse scoperte restarono a lungo inefficaci, divennero progresso tecnico solo quando furono impiegate effettivamente, grazie ad imprenditori che fecero delle scelte economiche per realizzare le innovazioni applicative, per non parlare che passano decenni dalle prime applicazioni di un’innovazione alla sua diffusione. Più controverso è il terzo aspetto che riguarda i meccanismi. Con riferimento ai paesi in via di sviluppo, da una parte vi è l’idea che il progresso tecnico, una volta prodotto, s’imponga da solo come un bene libero a disposizione di tutti, dall’altra si contrappone l’idea che questi costi siano invece elevati. Si può dire con Nelson e Pack che da una parte vi è il paradigma accumulazione e dall’altro quello assimilazionista. Secondo il primo i paesi ritardatari sono tali perché è in ritardo il processo di accumulazione del capitale, però quando il processo di accumulazione si mette in moto, essi potranno transitare agevolmente 22 verso settori a maggiore impiego di macchine e lavoro qualificato. Il secondo paradigma ritiene che i paesi ritardatari si trovano ad operare su un’altra funzione di produzione e che lo sviluppo dipenda dalla capacità di adottarne una nuova, il che non è solo questione di accumulazione di capitale fisico e umano ma di acquisizione di competenze questo paradigma è di gran lunga più realistico. GLI EFFETTI DEL PROGRESSO TECNICO Il progresso tecnico ha segnato la storia e ci sono state tre grandi epoche che sono legate a fasi di crescita della popolazione, queste fasi di aumento della popolazione coincidono con grandi fasi di progresso tecnico. Esse sono state permesse da innovazioni che hanno apportato miglioramenti all’efficienza dei convertitori d’energia determinando in tal modo enormi aumenti di disponibilità d’energia e di beni prodotti all’inizio dell’epoca primordiale della caccia i convertitori non superasse l’1 o il 2%, la rivoluzione agricola permise di arrivare al 10/15%, quella industriale oltre il 30%. L’economia americana, ad esempio, ha attraversato 4 grandi cicli dalla fine del 700, ognuno dei quali è stato proceduto da innovazioni, secondo Alexander ci sono state innovazioni fondamentali verso gli anni 50 del settecento (settore tessile), trenta dell’800 (settore ferroviario), degli inizi del 900 (mezzi di trasporto su gomma e beni di consumo di massa) e degli anni ottanta (tecnologie informatiche). La crescita economica avviene ad ondate nel tempo, precedute da importanti innovazioni tecniche. Si potrebbe pensare che il meccanismo che lega lo sviluppo economico al progresso tecnico dipenda dal fatto che le innovazioni, sul piano economico, danno risultati solo gradualmente perché il sistema economico incorpora lentamente le innovazioni, a volte passano intere generazioni per incorporare innovazioni. Vi è però anche un’altra ragione, ossia il progresso tecnico stesso è in sé un processo lungo in quanto le innovazioni non nascono mai perfezionate. LA NATURA DEL PROGRESSO TECNICO Una ragione per cui l’innovazione è alla base di ondate di crescita economica è che essa configura il progresso tecnico come processo il quale messo in moto 23 dall’invenzione di un modo nuovo e più efficiente di fare cose note, va avanti con applicazioni ed adattamenti per fare anche altre cose, alcune delle quali nuove. In questo processo, importanti non sono i principi tecnici innovativi, spesso conosciuti da sempre quanto l’idea e la forza di applicarli, nello stesso tempo importante è anche la diffusione dei nuovi meccanismi in altri impieghi e la spinta che un’innovazione dà ad altre innovazioni. Ad esempio gli occhiali, un oggetto così banale eppure la sua invenzione allungò di altre il doppio la vita lavorativa degli artigiani specializzati, all’inizio per leggere si usavano cristalli e lenti di ingrandimento; il trucco fu di migliorarle e nel montarle due assieme ed inforcarle sul naso, lasciando le mani libere. Pare che ciò accadde per la prima volta a Pisa verso la fine del XIII secolo, con gli occhiali si eseguirono lavori accurati, ma è vero anche il contrario e ciò che gli occhiali incoraggiarono l’invenzione di strumenti di precisione, aprendo all’Europa nuove prospettive. I Musulmani conoscevano l’astrolabio, gli Europei però, andarono oltre, inventando una gamma di strumenti correlati alla misurazione di precisioni e al controllo, vedi il micrometro, il calibro ed altri verso il 1600 nei paesi bassi furono inventati il telescopio e il microscopio. Un’altra caratteristica del progresso tecnico è che non sempre l’invenzione dà risultati immediati. Specie per quanto riguarda lo sfruttamento di nuove fonti di energia, prima di giungere a nuove applicazioni significative, passa molto tempo. Vedi, ad esempio la forza vapore, infatti il motore atmosferico sprecava moltissime energie, trascorse molto tempo prima che Watt inventasse un motore adatto. Ai nostri tempi ricordiamo la macchina di Babbage, alla base dei computer, è del 1874, solo negli anni 80 del 900, con il microprocessore c’è stata la rivoluzione informatica. Quindi il progresso tecnico è un processo che, messo in moto da un’invenzione, darà i frutti solo in tempi lunghi. LE DIFFICOLTÀ DELLE INNOVAZIONI Questa considerazione sulla lunga e faticosa vicenda sullo sviluppo tecnico, porta a comprendere il vantaggio degli inseguitori. Questo vantaggio è solo potenziale perché si possono importare o imitare le tecniche senza dover passare per il costoso processo, in realtà non è affatto facile sfruttare tale vantaggio perché devono superare difficoltà specifiche rispetto ai pionieri. Si potrebbe dire che gli innovatori hanno 24 pochi fondi, sono in possesso di molte informazioni ed hanno un elevata attesa che l’innovazione abbia successo. I finanziatori hanno fondi, ma hanno minori informazioni e minore fiducia nel loro successo. Quindi ci vuole un atto che dovrebbe portare ad una politica di assoluto “lasciar fare”, onde favorire uno sviluppo industriale come quello messo in pratica dall’Inghilterra, espressione del governo di mettersi in disparte. In sintesi, si tratta dell’avvio di una vera e propria azione pubblica nel campo sociale e sia di una serie di interventi a sostenere l’imnnovazione industriale. LE DIFFICOLTÀ DELL’ASSIMILAZIONE Dopo che un’innovazione ha visto la luce, è stata perfezionata, ha iniziato a diffondersi, il processo che darà effetti di sviluppo economico non è ancora compiuto. Esso si completa solo dopo in una lunga e difficile fase di assimilazione, fase nella quale le nuove soluzioni tecniche vengono sempre più acquisite. Vedi il caso del trattore Bull, che andò avanti con i perfezionamenti tecnici, via via seguirono modifiche e perfezionamenti che aumentarono l’efficienza della macchina. Questo processo fu accompagnato da una serie di rilevanti cambiamenti, vedi la superficie coltivata, quella agricola, però ridusse l’impiego di lavoro di circa 1,7 milioni di lavoratori agricoli e tante altri mutamenti. IL PROGRESSO TECNICO E LA RINCORSA DEI PAESI INSEGUITORI Il vantaggio dei paesi inseguitori è solo potenziale, perché quanto maggiore è la distanza tecnologica, tra sistemi produttivi avanzati e paesi inseguitori, tanto più difficile è l’assimilazione delle tecniche prevalenti nei paesi avanzati. Talvolta i problemi di assimilazione sono seri da richiedere una re – invenzione, onde superare questo gap tecnologico. La necessità d’investimenti per la re–invenzione, l’incertezza circa i risultati, l’indispensabile intervento di forme organizzative sono aspetti documentati in esempi storici. Ad esempio, nell’industria automobilistica fondamentale fu l’innovazione del sistema di produzione che fu chiamato 25 “Fordismo”. Il nuovo modo di fabbricare auto fu perfezionato con la produzione in serie di prodotti che portò ad un aumento enorme della produttività con un lungo cammino. Il caso dell’industria automobilistica sottolinea la necessità della re invenzione delle innovazioni e le necessarie tappe di acquisizione delle conoscenze tacite per non parlare della forte incertezza dei risultati. Lo studio ci permette di vedere con precisione le ragioni per le quali il processo di rincorsa tecnologica sia così lungo e perché non si possono saltare le tappe. IL RUOLO DEL MERCATO L’inseguimento tecnologico è costoso, incerto e difficile, ora le sole forze di mercato da sole possono ottenere il risultato di generare un processo di trasferimento tecnologico tanto consistente e durevole da sostenere nel tempo uno sviluppo economico a tassi elevati di crescita? Per rispondere a questo interrogativo bisogna ricordare che poiché in un’economia di mercato l’imitazione tecnologica è di regola una scelta economica essa dipende anche dalle condizioni esterne all’impresa. A favore dei Pvs gioca sicuramente il basso costo del lavoro e anche l’abbondanza di risorse naturali o prodotti agricoli utilizzabili come base per un’industria di trasformazione, ma, in questi paesi, ogni potenziale imitatore deve fare i conti con diversi svantaggi che rendono difficile l’avvio o la prosecuzione di un processo d’industrializzazione, vedi l’arretratezza del contesto socio istituzionale, carenze del sistema finanziario, di quello giuridico nonché di quello scolastico ed, infine, un difficile reperimento di manodopera con le caratteristiche necessarie; in secondo luogo, mentre nei paesi industrializzati il sistema è costituito da una fitta rete di imprese che offrono beni e servizi necessari e si scambiano preziose informazioni, nei Pvs questa rete è molto meno ricca. Una terza carenza riguarda le infrastrutture, resta fermo che questi svantaggi sono maggiori quanto lo è l’arretratezza del paese in questione. A questi svantaggi di contesto, si sommano quelli inerenti all’imitazione tecnologica, quindi escluso che il processo d’industrializzazione di un Pvs si possa realizzare ad opera di imprese locali, restano solo 2 strade: il sostegno pubblico e le imprese estere. Non a caso molti svantaggi si possono superare se il trasferimento tecnologico è affrontato da un’impresa estera. In teoria i vantaggi che un paese ospita 26 può ottenere dalla presenza di imprese multinazionali di grande esperienza derivano dall’efficienza nel breve termine e da potenziali ricadute a lungo termine. Il principale svantaggio è l’incapacità di acquisire le competenze, dal momento che un’impresa estera investe meno nel capitale basato sulla conoscenza all’estero che in patria, in pratica fino al 2000, le imprese estere operanti nei paesi in via di sviluppo non hanno investito quasi nulla in innovazioni dal momento che le loro spese in ricerca e sviluppo nei paesi ospiti sono state praticamente zero; se un paese ritardatario vuole costruire il suo capitale di competenze, deve far crescere le imprese nazionali grandi o piccole. Studi accurati sull’America latina indicano (dati 2000) che pur con limiti e debolezze un processo di rincorsa tecnologica era avvenuto in Argentina, Brasile e Messico, fino al 1980, sotto una politica protezionistica, ad opera di piccole e medie imprese nazionali, esso s’interruppe ponendo le basi alle difficoltà attuali a seguito dell’apertura al commercio estero e all’imprese multinazionali. IL RUOLO DELLO STATO Nel caso dei Pvs, il ruolo che le forze di mercato senza l’intervento pubblico possono avere nel trasferimento tecnologico è molto limitato, per questo motivo l’intervento dello Stato vi è stato o direttamente o indirettamente, in vario modo, con creazione di imprese pubbliche, agevolazioni sotto forma di sussidi al credito, esenzioni fiscali e quant’altro. Tra tutte, la più comune è stato il protezionismo, ossia la creazione di barriere a danno delle importazioni industriali, per le dottrine liberiste, questi interventi di regola generano distorsioni rispetto ai prezzi giusti, che rispecchiano i rispettivi costi relativi. In realtà, l’uguaglianza tra prezzi relativi e costi relativi è una condizione necessaria di efficiente allocazione delle risorse. Amsden afferma che l’industrializzazione consiste nel passare da un insieme di distorsioni, quella legata alle rigidità del sottosviluppo e alla produzione agricola, verso un altro insieme di distorsioni che è basato sullo sviluppo delle competenze. 27 IL MECCANISMO DI CONTROLLO RECIPROCO ED IL PROGETTO Lo Stato dispone di molti strumenti per favorire l’industrializzazione, tra questi vi è una particolare forma di ingegneria istituzionale, che consiste in un meccanismo di controllo reciproco messo in atto dallo Stato nei riguardi delle imprese, meccanismo che richiede un’azione normativa da parte dello Stato. Di controllo, perché consiste in una serie monitorate di premi legati ai risultati. Reciproco, perché è anche una specie di contratto implicito per il quale lo Stato fissa gli obiettivi da raggiungere e promettere premi e castighi che devono diventare obblighi per lo Stato che deve onorare. Meccanismo simile è stato applicato con successo in molti paesi del Sud – Est Asiatico, ma anche altrove, ed è stato del tutto assente in Argentina e che richiede 3 condizioni per essere messo in atto ed operare: un vero e proprio progetto di sviluppo concepito da parte dello Stato intenzionalmente; che lo Stato sia munito o si munisca di competenza in materia economica ed industriale non inferiore a quella degli imprenditori e manager di imprese private; infine una distribuzione del reddito di partenza non troppo squilibrata. Occorre dire che si tratta in primo luogo di un sistema di distorsione del libero mercato che non ha nulla a che fare con gli incentivi a pioggia né con permanenti condizioni di favore accordate all’industria nazionale nel suo complesso, ma di un sistema che lega strettamente e in modo verificabile vantaggi provvisori a chi ha dimostrato di meritarseli. È chiaro che un meccanismo istituzionale di questo tipo può operare meglio nel caso delle grandi imprese nazionali. CONCLUSIONI I Psv possono avere un vantaggio solo potenziale in quanto che hanno la possibilità di acquisire soluzioni tecniche, che non devono inventare, ma devono comunque affrontare il problema dell’assimilazione, vedi superare la barriera delle conoscenze tacite e questo può avvenire solo per tappe. Quindi emerge il problema della specializzazione produttiva. 28 CAP V RITARDO, RINCORSA E CONVERGENZA Il sesto fatto stilizzato di Kaldor afferma che non vi sono prove significative di convergenza nei tassi di crescita del reddito pro capite tra paesi del mondo neppure nel lungo periodo. La convergenza nei tassi di crescita e nei livelli è uno dei maggiori risultati della teoria della crescita neoclassica. LA CONVERGENZA NEL MONDO NEOCLASSICO Il modello neoclassico dimostra che il tasso di crescita della produzione tende ad eguagliare quello dell’offerta di lavoro più quello del fattore di progresso tecnico (gy= n + λ). Ora essendo, per ipotesi, tali grandezze costanti si può vedere che il livello del reddito quando gy = n + λ percorre un sentiero di steady state ossia un tasso di crescita costante. Per semplicità, si parta dalla funzione Cobb – Douglas e si supponga nullo il tasso di progresso tecnico, si ha cioè Yt = AL1t K t , ora poiché domanda ed offerta di lavoro coincidono, il tasso di crescita di L è dato da n (tasso di crescita dell’offerta) e quindi il tasso di crescita del capitale per addetto è la differenza tra crescita del capitale e crescita del lavoro (n), cioè del lavoro impiegato e di quello offerto, cioè gkt = SAKt 1 - n. Il termine SAK t 1 è funzione decrescente di K t , poiché ha esponente negativo essendo <1, nella funzione di produzione neoclassica; esso si avvicina asintoticamente a zero, per cui il tasso di crescita del capitale ed è rappresentato nel grafico dalla curva decrescente, è elevato in corrispondenza dei livelli del capitale per addetto bassi. A questi livelli del capitale per addetto a sinistra nel grafico, la produttività è elevata (perché il capitale è scarso) e quindi la sua accumulazione è accelerata ed è accelerato l’aumento di capitale per addetto. Man mano che l’accumulazione avanza, cioè si sposta verso destra, l’accumulazione rallenta perché diminuisce la produttività del capitale che diviene via via più abbondante. 29 La linea costante (n) del grafico e la curva monotona decrescente (SAK t 1 ) s’incontrano certamente nel quadrante positivo in corrispondenza di un valore unico di K t che chiamano con K * , in corrispondenza del quale si ha il tasso di crescita steady state. Poiché la curva decrescente indica il tasso di crescita del capitale e la retta quello della forza lavoro, esse s’intersecano quando i due sono uguali e in questo punto il capitale per addetto non varia essendo la sua variazione la differenza tra crescita del capitale e crescita del lavoro. Quindi a sinistra di K * si ha SAKt 1 - n >0 e pertanto gkt >0 e K cresce nel tempo avvicinandosi sempre più a K * , mentre a destra avremo SAKt 1 - n <0 e pertanto gkt <0 e K diminuisce nel tempo, anche se si avvicina sempre più a K * , la convergenza allo stato steady state è dunque dimostrata, cioè lo steady state è stabile, perché è dato da un livello del capitale per addetto che si mantiene inalterato nel tempo e che viene raggiunto automaticamente dal sistema economico, sia muovendo dall’alto che dal basso, nel caso in cui il sistema si trova rispettivamente ad un livello superiore o inferiore del prodotto per addetto. Lo steady state rappresenta anche quel sentiero di crescita a tasso costante del prodotto pari alla crescita dell’offerta di lavoro, che mantenendosi nel tempo permette la costante piena occupazione o quanto meno un tasso di disoccupazione costante. 30 Nelle fasi iniziali dello sviluppo, con capitale per addetto scarso (economia povera) il tasso di crescita sarà positivo ed elevato, ma decrescente fino a che il capitale per addetto non arriva al valore di equilibrio K * . Se il paese è più ricco di capitale (economia ricca), la produttività di questo fattore è bassa con tasso di crescita minore. Se poi il paese fosse così ricco di capitale (con produttività del suo capitale così bassa) che la sua crescita non riuscisse a tenere il passo con quella della popolazione allora il rapporto K/L diminuirebbe fino al valore di K * . In quanto questa economia si collocherebbe inizialmente a destra del punto K * . Nel caso che il progresso tecnico sia un free good, cioè un bene libero, disponibile per tutti senza costi, ritardi, in questo caso le funzioni di produzione e il tasso di progresso tecnico Harrod - neutrale, λ, sarebbero uguali ovunque. Allora abbiamo 3 proposizioni che sono la base della teoria neoclassica della convergenza: a) Il tasso di crescita del prodotto per addetto gy, che è pari a gy - n è ovunque uguale a λ; b) Il tasso di crescita è tanto minore quanto più alto è il livello del reddito per addetto; c) Il livello del reddito per addetto tende ovunque al sentiero dello steady state. Tornando al caso più semplice, senza progresso tecnico, considerando 2 economie in condizioni di crescita in stato stazionario, uguale in tutto, tranne che nelle propensioni al risparmio che indichiamo con S 1 e S 2 con S 1 >S 2 , nel grafico all’economia con propensione al risparmio più bassa, corrisponde la curva 31 tratteggiata, che è la funzione S 2 AK t 1 , la curva continua rappresenta invece la funzione S1 AKt 1 , relativa all’altra economia. Nel grafico si può vedere facilmente che entrambe le economie non vanno verso lo stesso sentiero di steady state, anche se verso lo stesso tasso di crescita, in quanto l’economia con propensione al risparmio più bassa ha una soluzione di steady state per il capitale per addetto K * inferiore a quello dell’altra economia. Si ha, dunque, un unico tasso di crescita di steady state, ma due sentieri di steady state e quello dell’economia con propensione al risparmio più bassa sarebbe sempre inferiore. Il modello neoclassico, quindi, prevede convergenza nei livelli del reddito, per addetto condizionata dalla propensione al risparmio, l’economia povera e quella ricca convergono allo stesso livello del reddito per addetto solo a parità di condizioni circa la propensione al risparmio; nei tassi di crescita del reddito per addetto, il modello neoclassico prevede convergenza assoluta. L’IPOTESI DELLA RINCORSA La teoria neoclassica della convergenza tra paesi poveri e quelli ricchi dipende in sostanza oltre che dall’ipotesi della produttività marginali decrescenti dei fattori produttivi, dalla concezione del progresso tecnico esogeno che avvantaggia i paesi come manna dal cielo, come un bene libero disponibile per tutti senza costi, ritardi o difficoltà. Solo in questo caso, infatti, il progresso tecnico può essere trascurato nel confronto fra i paesi, se il progresso tecnico è un fattore comune, in tale confronto esso può essere ignorato. Gli storici dell’economia, vedi Rosenberg, ma anche 32 economisti attenti alla storia come Nelson e Lundvall, concepiscono il progresso tecnico non come un bene libero, ma il risultato di conoscenze e capacità che si ottengono con costi e sforzi legati anche a fattori nazionali specifici. Fattori nazionali di ogni sistema economico-sociale che acquistano un rilievo tanto maggiore quanto più importanti siano considerate le macchine e le attrezzature. Superate tali soglie, l’apprendimento ed il miglioramento organizzativo vanno avanti e possono essere adottate nuove tecnologie. La storia ed i fattori specifici di un paese influiscono pesantemente su un processo di innovazione tecnologica. Certo più corretto è considerare ciascun paese come caratterizzato da un paradigma tecnologico separato e non come il cliente di un supermercato mondiale delle tecnologie, in grado di scegliere a piacimento e comprare quello che è a disposizione di tutti. L’idea fondamentale dell’approccio del gap tecnologico attribuisce rilievo alle circostanze che favoriscono o rallentano i processi d’inseguimento dei paesi ritardatari. Mentre la crescita di un paese leader indica la crescita delle frontiere, delle conoscenze e strutture organizzative, un fattore di sviluppo dei paesi inseguitori è l’imitazione che essi possono utilizzare anche se non facilmente. LA CONVERGENZA CONDIZIONATA Abbiamo visto che vi è stata una convergenza tra i 16 paesi industrializzati, intesa come saggio di crescita della produttività post bellica. Infatti, i paesi che nel 50 avevano il livello più basso di produttività oraria, hanno avuto la crescita maggiore dal 50 al 79. Numerosi studi econometrici avevano mostrato che una parte significativa delle differenze fra i tassi di crescita poteva essere spiegata con le differenze del PIL pro capite iniziale. Quindi, diverse osservazioni hanno attenuato la prima impressione circa l’esistenza della legge della convergenza. De Long ha mostrato, per esempio, che se è possibile provare una convergenza di lungo periodo nei livelli di produttività dei paesi attualmente avanzati, ciò non vale per i paesi del secolo scorso. Quindi, si è mostrata come l’ipotesi di convergenza valga solo per alcuni periodi di tempo. Chiaramente le cose cambiano, quando si considerano anche i paesi non industrializzati perché si può parlare di convergenza solo all’interno di alcuni gruppi di paese. Quindi, alla luce di questi risultati molte ricerche hanno 33 cercato di accertare la presenza di processi di convergenza condizionata, cioè se le economie arretrate convergano verso quelle avanzate non in senso assoluto. Si ricorda che nel modello neoclassico i paesi poveri crescono più dei paesi ricchi perché sono in transizione lungo la curva. Una versione estrema di convergenza assoluta può essere quella per cui i paesi arretrati sono immaginati tutti sulla stessa curva, differendo tra loro per il livello iniziale. Essi possono avere diversi S e diverse α nell’ipotesi di convergenza condizionata che consideri i paesi arretrati trovarsi su diverse curve Sxt 1 . L’EQUAZIONE “ALLA BARRO” L’analisi delle circostanze che nei diversi paesi possono sostenere o ostacolare la crescita economica, può essere vista da un altro punto di vista, che può essere accomunato a quello della convergenza condizionata. Il metodo dell’equazioni alla Barro, che intende essere più generale ed ammette che i diversi paesi possono avere sia diversi tassi di crescita di transizione, sia diversi tassi di crescita di steady state. L’idea è che non conti tanto questa distinzione, ma identificare le variabili che possono sostenere lo sviluppo dei paesi arretrati. Si può fare il confronto sempre tra i due paesi arretrati, con la differenza che essi hanno 3 diversità accanto alle 2 già esaminate (differenze nel tasso di risparmio, differenze nella funzione di produzione), ora si introduce una terza, cioè tasso di progresso tecnico. CAP VI RENDIMENTI CRESCENTI E MODELLI DI CRESCITA CUMULATIVA La teoria della crescita sviluppata fino agli anni 50, insieme ai fatti stilizzati da Kaldor e alla contabilità della crescita di Solow, portano a risultati poco soddisfacenti per gli economisti e per certi versi contraddittori, perché la crescita della produttività va spiegata per intero o quasi, dal progresso tecnico ed essendo quest’ultimo considerato variabile esogena, gli strumenti dell’analisi economica apparivano di limitata utilità per la spiegazione dello sviluppo economico. Arrow, nel 1962, 34 affermava che una visione dello sviluppo economico che dipende così pesantemente da una variabile esogena, tanto più difficile da misurare come la quantità di conoscenza, difficilmente si può considerare soddisfacente. Ora proiezioni di trend temporali sono in conclusione una confessione d’ignoranza e dal punto di vista pratico, non sono variabili su cui la politica economica possa agire. D’altra parte, le differenze notevoli tra paesi nei tassi di crescita del (PIL) e del prodotto per addetto apparivano conciliabili con tale risultato solo se s’immagini un progresso tecnico che si presentasse come specifico in ogni singolo paese. Per quanto, vi sono ragioni per ritenere che ogni paese abbia effettivamente una sua strada, non si deve trascurare che la trasmissione internazionale della conoscenza esiste e continua per quanto, a differenza di quanto afferma la teoria tradizionale, la sua applicazione non sia facile e rapida. La difficoltà era, dunque, quella di conciliare in comune progresso delle conoscenze con profili di sviluppi diversi. Alcuni economisti hanno cercato di rispondere a questa difficoltà dimostrando che il progresso tecnico è, in parte endogeno. Questa concezione va sotto il nome di teoria della crescita endogena. LE ECONOMIE DI SCALA E L’EQUAZIONE DI VERDOORN KALDOR Le economie di scala si dividono in economie di scala statiche e dinamiche, si hanno le prime, quando al crescere della produzione diminuiscono i costi unitari, senza che questo richiede un miglioramento delle conoscenze, invece nel concetto di economie di scala dinamiche entra in modo essenziale l’apprendimento o in generale il miglioramento delle conoscenze derivante dallo svolgimento di un’attività produttiva. Si hanno economie di scala crescenti, quando un incremento equiproporzionale di tutti i fattori pari a λ, conduce ad un aumento più che proporzionale del prodotto che si moltiplica per il numero maggiore di λ. Le indivisibilità sono la causa principale delle economie di scala (a livello d’impresa, di settore industriale o quant’altro sistema produttivo). Connesso al problema delle indivisibilità è anche un problema delle soglie, nozione importante nella teoria dello sviluppo economico. Spesso una soglia è causata semplicemente da un costo fisso (d’impresa, di settore, di area), se la dimensione dell’attività produttiva che deve ripagarlo è insufficiente l’attività stessa 35 non è economicamente sostenibile; se però si supera la soglia della sostenibilità economica, la quota di costo fisso che grava su ogni unità prodotta è decrescente e l’attività produttiva diviene competitiva ed espansiva. In definitiva, le economie di scale indicate devono essere considerate necessariamente a livello dell’intero sistema economico. Nell’ipotesi di Verdoorn che incorpora le economie di scale a livello del sistema economico, la produttività è determinata dalla dimensione prodotto. Ciò avviene anche nelle economie di scala dinamiche. Nella letteratura economica contemporanea per economie di scala dinamiche s’intendono quegli aumenti dovuti all’apprendimento e più in generale al miglioramento delle conoscenze, generati dall’attività produttiva. Tale forma di apprendimento nel linguaggio degli economisti con l’espressione learning by doing coniata da Arrow, che nota che l’apprendimento associato ad un problema o ad un’attività sempre identica è soggetto a rendimenti decrescenti ed a sostegno della tesi che l’esperienza nel produrre genera aumenti di produttività, cita anche alcuni studi di casi. Il 1° riguarda la costruzione di carlinghe di aerei, in cui l’ammontare di ore di lavoro necessario per produrle decresce col numero di carlinghe prodotte, fenomeno questo chiamato curva di apprendimento che è stato osservato anche nella produzione di altre macchine. Egli ricorda ancora il lavoro di Verdoorn sul legame tra produttività e prodotto e l’esperienza dell’acciaieria svedese di Horndal, dove senza investimenti né mutamenti tecnici per un periodo di 15 anni, il prodotto per ora lavorata crebbe del 2% l’anno. Secondo Arrow vi è l’apprendimento generato dall’esperienza, cioè dalla pratica concreta dell’attività produttiva. Quindi, il learning by doing dipende dalla dimensione (o scala) dell’attività produttiva; quanto più numerose sono le persone che lavorano, tanto più numerose sono quelle che imparano lavorando. In secondo luogo, esso dipende in modo essenziale dal tempo, ogni singola persona impegnata nell’attività produttiva impara di più quanto più a lungo dura tale impegno. Queste due osservazioni consentono di capire perché si parla di economie di scala dinamiche, sono economie perché l’apprendimento aumenta l’efficienza e riduce i costi; di scala perché dipendono anche dalla diminuzione; dinamiche perché il tempo svolge un ruolo essenziale. Sarebbe del resto errato vedere le economie di scala statiche e quelle dinamiche come fenomeni del tutto indipendenti. Adam Smith, aveva notato che 36 l’ampliarsi delle dimensioni di un’impresa consente di suddividere il lavoro e quindi di concentrare l’attenzione di ogni lavoratore su operazioni più ristrette facilitando il loro apprendimento e il miglioramento continuo nella loro esecuzione, lo stesso avviene all’ampliarsi delle dimensioni del sistema economico che permette il formarsi di imprese sempre più specializzate su un ambito di prodotti più ristretto, con specializzazioni delle attrezzature e concentrazione di risorse intellettuali e organizzative. Quindi il miglior sfruttamento delle indivisibilità da un lato, il miglior apprendimento e più alto tasso di innovazione dall’altro sono legati strettamente. Indicando con Y la produttività e aggiungendo un trend esponenziale e ct che esprime il progresso tecnico esogeno si ottiene Y t =A Yt B e ct ; da cui si ricava la ben nota equazione di Verdoorn - Kaldor cioè g y =B gy + C, così chiamate perché proposta e stimata statisticamente già dall’economista olandese Verdoorn e poi ripresa da Kaldor economista ben più noto e ascoltato. Verdoorn stimò l’equazione per serie storiche, senza tener conto della correlazione automatica tra produzione e produttività generata dall’imperfetta flessibilità dell’occupazione rispetto a variazioni di breve periodo nel prodotto. Le stime di Kaldor, invece, sono di tipo cross - country, cioè su diversi paesi, ognuno dei quali fornisce due osservazioni, una per il tasso di crescita del prodotto ed un’altra per la produttività. Stando alle verifiche fatte la relazione Verdoorn - Kaldor sembra convalidata, almeno per i casi dove la crescita del prodotto è abbastanza rapida da produrre un effetto significativo sulla produttività. RENDIMENTI CRESCENTI E FUNZIONAMENTO DEI MERCATI Per Kaldor la presenza dei rendimenti crescenti è difficilmente integrabile nella teoria economica che preferisce descrivere il funzionamento di un’economia di mercato partendo dall’ipotesi che tutti i mercati sono concorrenziali e che ritiene tale assetto più favorevole all’efficienza allocativa. Infatti, nel caso di economie di scala statiche determinata da indivisibilità si tendono a generare situazioni di monopolio, se questi fattori produttivi siano sfruttati da privati, chi produce di più ha costi più bassi a chi ha costi più bassi aumenta la sua quota di mercato. La stessa cosa si può dire per le economie di scala dinamiche, poiché l’apprendimento in generale non può essere 37 internalizzato per intero, cioè sfruttato in modo esclusivo dove viene generato, ossia il lavoratore e il tecnico che imparano lavorando, lasciando l’azienda portano con se le conoscenze apprese. Quindi, il learning by doing genera esternalità positive che il mercato non è in grado di valutare in modo corretto. Il mercato in questi casi è fonte di cattiva allocazione di risorse. IL RUOLO DELLA DOMANDA E LA COMPETITIVITA’ INTERNAZIONALE Il ruolo della domanda e della competitività internazionale è importante alla luce delle idee Kaldoriane e che portano i rendimenti crescenti con altri aspetti onde sviluppare un modello di divergenza di economie aperte, capace di descrivere sia circoli virtuosi di crescita accelerata di prodotto sia circoli viziosi di ristagno. La relazione Verdoorn - Kaldor sembra valere solo in periodi in cui le economie crescono abbastanza rapidamente, è vero anche che in questi casi sono i rendimenti crescenti che sostengono una rapida crescita della produttività, dando luogo ad una crescita accelerata di tutta l’economia. Modelli di crescita accelerata di economie aperte sembrano importanti per spiegare molti casi storici tra cui la rapida crescita pluridecennale dei NIC asiatici e negli anno 50 - 60 i paesi CEE - Italia e Germania e in particolare del Giappone. ASPETTI SVILUPPO DELL’EVOLUZIONE DI KALDOR DELLA (TEORIA TEORIA DELLO NEOCLASSICA E NEOKEYNESIANA DELLA CRESCITA) Negli anni 50 nella teoria della crescita erano state proposte due soluzioni al problema posto da Harrod della differenza tra tasso di crescita garantito G W =S/V e tasso di crescita naturale G N =N+λ, considerando n e λ come parametri esogeni, la teoria neoclassica e quella neokeynesiana teorizzavano la sequenza della flessibilità della quota dei salari nel reddito nazionale che avrebbe realizzato l’uguaglianza G W =G N condizione per il perdurare nel tempo della piena occupazione. Non solo il tasso di crescita della produttività era esogeno, ma lo era anche quello del prodotto 38 essendo pari a(n+λ). La teoria neoclassica della crescita è rimasta ferma su questa posizione per qualche decennio e solo negli ultimi vent’anni se né allontanato con la teoria della crescita endogena, che ha per obiettivo di endogenizzare gli aumenti della produttività e quindi di λ e nel fare ciò tiene fermo il presupposto della piena occupazione. Per la teoria neokeynesiana, le cose sono in modo diverso, perché l’idea di una crescita con piena occupazione permanente sia della capacità produttiva sia della forza lavoro era vista con minor convinzione. Basti pensare all’espressione età dell’oro, riferimento ad una situazione mitica, per indicare tale tipo di crescita, Kaldor, mantenne a lungo la convinzione che nel lungo periodo l’ipotesi di piena occupazione fosse più idonea. Abbandonando il presupposto della piena occupazione e l’analisi di steady state veniva abbandonata la natura esogena del tasso di crescita non vincolante l’uguaglianza con (n+λ) e quindi tipicamente neoclassica che la crescita fosse determinata dall’insieme di due cause, l’aumento nella disponibilità di fattori e il progresso tecnico. La posizione di Kaldor negli anni 60 è radicalmente opposta e afferma che la crescita economica è sempre indotta dalla domanda e non vincolata dalle risorse, che non determinano la crescita, in parte perché si tratta di fattori mobili fra regioni, in parte perché non sono mai allocati in maniera ottimale, in parte perché il capitale viene generato automaticamente e in conseguenza della crescita della domanda. Si rendeva conto del rischio dei prezzi e la bilancia dei pagamenti in seguito ad un’espansione troppo rapida della domanda interna. In due relazioni tenute nel 1970 affermò che il principale fattore autonomo che governa sia il livello sia il ritmo di crescita della domanda effettiva di un paese industriale con un’ampia quota di esportazioni nella propria produzione totale e di importazioni nel suo consumo, è la domanda esterna per le sue esportazioni; il fattore principe che governa queste ultime è la competitività a livello internazionale. Quindi, una rapida crescita dell’economia deve essere trainata dalle esportazioni o stimolata dalla competitività. Secondo Kaldor l’ipotesi di pieno impiego della manodopera, comune nella moderna teoria della crescita, non costituisce il presupposto adatto a spiegare le differenze nell’andamento della crescita, non solo nei paesi in via di sviluppo ma anche nelle economie industrializzate. Oggi vi sono 30 milioni di disoccupati nei paesi OCSE, sembra di poter dire che la piena occupazione ha rappresentato una 39 situazione eccezionale anni 60 - 70, sia nel tempo che nello spazio. Inoltre, Kaldor sottolinea la possibilità di movimento dei fattori fra regioni e il fatto importantissimo che molto raramente la manodopera è allocata in modo ottimale, per cui vi è sempre un’offerta di lavoro aggiuntiva potenziale e le cause di queste non efficiente allocazione sono diverse. Kaldor ricorda che dove prevale l’impresa familiare (contadina, artigiana) i lavoratori sono spesso sottoccupati, perchè l’obiettivo dell’impresa non è il massimo profitto, ma il massimo reddito familiare. Quindi, se un membro familiare non trova lavoro altrove lo si tiene nell’impresa familiare anche se la produttività marginale del lavoro è inferiore al salario di mercato. In questo caso si realizza il caso d’inefficiente allocazione di cui parla Kaldor che la crescita economica può ridurre. Anche la segmentazione del mercato del lavoro può ridursi se la crescita economica è abbastanza rapida, con l’aumento dell’offerta di lavoro effettiva. La seconda osservazione riguarda l’elevata o bassa competitività internazionale, che causa per Kaldor l’aumento o la diminuzione di quote di mercato. Anche se tale competitività è considerata dagli uomini d’affari, un importante fattore nella spiegazione dei risultati economici relativi delle economie aperte agli scambi con l’estero, essa al contrario, non trova posto nella teoria della crescita dominante, per cui la crescita economica è l’effetto combinato dell’aumento dell’offerta di fattori e della loro produttività. In ultimo Kaldor afferma che il capitale (inteso come produttività industriale) viene generato come parte e in conseguenza della crescita della domanda. LA COMPETITIVITÀ INTERNAZIONALE E LA CRESCITA: IL MODELLO BECKERMAN Kaldor sottolinea che il ruolo della competitività internazionale ed aggiunge che la crescita delle esportazioni ha una ricaduta positiva sulla competitività internazionale in virtù della legge di Verdoorn. Più in generale, la mutua interazione tra tale legge e le variazioni delle esportazioni creano un circolo di causalità cumulativa che agisce in una direzione virtuosa o viziosa, tale processo di causalità cumulativa fu espresso nel modello da Beckerman (1962). Siano x, y, w e p i tassi di crescita rispettivamente di domanda aggregata, produttività del lavoro, saggio di salario monetario e prezzo 40 interno, sia α il prezzo delle esportazioni del paese relativamente ai paesi concorrenti. Si hanno 4 equazioni nel modello, dove compaiono i parametri a, b, d, m, n ed avremo 4 relazioni: 1. x = a + b (1 - α); 2. y = c + dx; 3. w = m + ny; 4. p = w - y Nella prima relazione a è il tasso di crescita della domanda mondiale e si può scrivere x – a = b(1- α). A sinistra del segno di uguale è così indicata la crescita del rapporto tra domanda aggregata per i beni prodotti nel paese considerato e domanda mondiale. Nella seconda equazione il tasso di crescita della domanda aggregata determina la produttività interna e riflette la legge di Verdoorn. La terza equazione implica che i salari crescono meno della produttività solo se questa cresce in fretta. La quarta equazione indica che la crescita dei prezzi interni è uguale a quella del rapporto tra salari e produttività del lavoro. Dalle quattro equazioni si ottiene p = m+(n-1) (c+dx). Il tasso di crescita dei prezzi interni di un paese, in base ai rendimenti crescenti che sono alla base della crescita della produttività è inversamente correlato a quello della domanda. L’aspetto più originale del modello Beckerman è l’equazione x=a+b (1- α) ossia la prima che non esprime la tradizionale equazione di domanda di esportazione, bensì l’idea che chi è più competitivo guadagna quote di mercato, equazione che risulta adatta ad interpretare situazioni in cui la competitività di un paese relativamente ai suoi concorrenti è molto forte o debole e la sua quota di mercato è distante da quella che è pienamente tale situazione competitiva. Un caso tipico è stato quello dei paesi CEE – Italia – Germania e del Giappone dove negli anni 50 ebbero una posizione competitiva (anche grazie ai bassi salari e alla svalutazione delle monete nazionali) relativamente forte in molti prodotti nei confronti degli USA ed Inghilterra. Un’equazione simile a quella di Beckerman è oggi tornata in voga nella letteratura economica, all’interno delle cosiddette teorie evoluzionistiche che applicano alla teoria economica l’idea darwiniana della selezione naturale e della conseguenza evoluzione delle specie biologiche. In particolare possiamo considerare l’applicazione economica dell’idea della sopravvivenza del più adatto, si consideri 41 una popolazione di individui di una data specie in cui convivono soggetti con un patrimonio genetico diverso e tale da determinare un adattamento differenziato all’ambiente circostante. Chiaramente il gene riesce a sopravvivere e a riprodursi tanto più, quanto migliore è il suo adattamento all’ambiente. Dopo 30 anni si sta, dunque, riscoprendo magari senza rendersene conto l’importanza della formulazione di Beckerman sul legame competitività – crescita. COMPETITIVITÀ E CRESCITA IN UN MODELLO MICRO – FONDATO L’approccio evoluzionistico, applicato da Beckerman, anche se suggestivo, non serve a colmare la carenza costituita dall’assenza di un chiaro fondamento in una teoria dell’impresa ben specificata. Ricordiamo che quasi tutte le teorie dell’impresa sono di natura statica, cioè non si occupano della crescita dell’impresa. Nel rapporto tra competitività e crescita a livello d’impresa, l’unica proposta di una teoria fondata è quella di Boggio. Si suppone che molte imprese operanti in un dato mercato, dove si vendono molte varietà di un certo prodotto, ciascuna impresa produce una varietà diversa. La crescita della capacità produttività di ognuna delle imprese richiede investimenti e fondi per finanziarli. Tali fondi possono derivare da autofinanziamento o da fonti esterne. Anche nel secondo caso, tuttavia, la capacità di generare profitti risulta essenziale; pertanto si può concludere che il tasso di crescita della capacità produttiva è funzione crescente del saggio di profitto. A riguardo della crescita attesa della domanda per i prodotti di una data impresa, dipende da fattori esterni ed interni, questi ultimi sono il prezzo a cui l’impresa vende il suo prodotto e le spese per promuovere le vendite. Spese queste ed il prezzo influiscono anche sul tasso di profitto e sulla capacità produttiva. Tali spese ed il prezzo di vendita saranno determinati in modo da rendere uguale il tasso di crescita della capacità produttiva e quello della domanda. Quindi, quanto più l’impresa è competitiva nei costi, tanto più lo è anche nei prezzi e tanto più rapida è la sua crescita. Dal livello micro si può passare a quello macro, se le imprese di un paese sono più competitive, nei costi e nei prezzi, la loro crescita e di conseguenza la crescita del paese stesso sono più rapide. Questo è il presupposto fondamentale della teoria Kaldor – Beckerman sul legame tra 42 competitività internazionale e crescita nei paesi industrializzati o in via, questo presupposto come le equazioni di Beckerman, può costituire una teoria dei circoli cumulativi viziosi o virtuosi dello sviluppo. Il modello presenta il nucleo teorico fondamentale dei processi cumulativi che si presta a varie direzioni. Una di esse è suggerita dalla constatazione che nella realtà difficilmente si osservano processi di crescita continuamente accelerati, giacché lo sviluppo economico è instabile perché a periodi di crescita accelerata ci sono rallentamenti e ciò può essere originato dal fatto che le imprese hanno difficoltà a procurarsi ed organizzare i fattori di produzione. Nel modello di Beckerman, la disponibilità dei fattori (lavoro capitale fisico e umano) non viene esplicitata e non rappresenta un vincolo allo sviluppo. In realtà, possono esserci difficoltà sia per quanto riguarda l’organizzazione interna dell’impresa sia nel loro coordinamento intersettoriale. In senso generale tanto maggiore è il tasso di crescita dell’economia tanto maggiori sono le difficoltà che tutti i fattori di produzione siano sempre disponibili nella misura richiesta. In un’economia aperta, la mancanza di fattori che possano esser importati a bassi costi di trasporto può causare solo problemi temporanei, anche se non trascurabili, problemi più seri sorgono dalla mancanza di fattori che non possono essere importati, vedi i servizi di infrastrutture, fornitura di semilavorati, gli immobili. Il caso estremo è quello della terra, nel caso in cui l’impresa debba ampliare gli impianti. Tutte queste circostanze sono indicate come attriti che frenano la crescita economica e che sono tanto più forti e rilevanti quanto più tale crescita è rapida. Questo modello è adatto a descrivere il passaggio dal decollo alla rapida crescita mantenuta per un tratto di tempo. Una crescita accelerata, che poi si stabilizza il suo ritmo, descrive una curva prima crescente e poi decrescente nelle differenze tra i tassi di crescita e quelli medi a livello mondiale, ed è stato proprio questo l’andamento che si è registrato in Cina, in Corea del Sud, Malaysia, Thailandia dove si sono registrati elevati tassi di crescita economica negli ultimi decenni. 43 CAP VII LA TEORIA DELLA CRESCITA ENDOGENA Nella discussione sulle ricerche empiriche si è avuto modo di sottolineare che non ci sono prove di tendenze diffuse alla convergenza. Ciò è un problema per la teoria neoclassica della crescita, per la quale la convergenza diventa sulla base delle sue ipotesi un risultato consolidato. Per ovviare a queste difficoltà, negli anni 80, nacque la teoria della crescita endogena come tentativo di superare quella neoclassica della crescita, anche se ne condivide molti postulati. Infatti, all’interno dei modelli di crescita endogena viene ripresa l’ipotesi neoclassica tradizionale della piena occupazione della forza lavoro, che comporta rilevanti conseguenze analitiche. La principale è che l’obiettivo ultimo per il quale questa nuova teoria della crescita viene formulata, cioè spiegare la non convergenza, deve essere raggiunto soltanto considerando le ragioni che possano mantenere differenziali rilevanti nei tassi di crescita della produttività nei diversi paesi. Non a caso il tasso di crescita pro capite, con piena occupazione, è la somma di crescita per addetto della produttività per addetto e del tasso di crescita del tasso di attività della popolazione. Tuttavia il tasso di crescita del tasso di attività poco si presta ad analisi economiche che siano al livello di generalità adottato per i principali modelli di crescita, ancora nel medio – lungo periodo esso è di entità modesta e si preferisce trascurarlo e il tasso di crescita del prodotto pro capite viene ad identificarsi con quello della produttività e da esso deve essere spiegato. Quindi i modelli di crescita endogena devono essere considerati e giudicati per la loro effettiva capacità di spiegare i differenziali di crescita della produttività e del reddito pro capite. Nei paesi con una vasta riserva di manodopera disoccupata o sottoccupata sono molto numerosi, vi è già una spiegazione molto semplice della non convergenza, che è presente sia nel modello Domar sia in quello classico. Se non si parte dal presupposto della piena occupazione, il reddito pro capite di un paese può continuare a crescere più del reddito pro capite di un altro non solo se la produttività cresce di più nel primo, ma anche solo se il reddito cresce in misura maggiore. La crescita endogena è contrapposta all’approccio prevalente negli anni 60, secondo cui il sentiero verso cui l’economia converge è caratterizzato da un tasso costante di crescita della produttività del tutto esogeno. Questa teoria è alla ricerca di 44 elementi in grado di influenzare la crescita della produttività che siano riconducibili a scelte economiche, elementi che chiameremo endogeni, non rispetto al modello, ma alla sfera di fenomeni riconducibili a scelte economiche. Gli elementi fondamentali del meccanismo neoclassico di convergenza sono due: l’ipotesi di progresso tecnico come free good esogenamente dato e l’ipotesi di produttività decrescente del capitale. La teoria della crescita endogena affronta il problema della non convergenza seguendo due strade, sostituisce la prima ipotesi (il progresso tecnico) con quella di progresso tecnico endogeno; allarga il concetto di capitale, cioè di fattore riproducibile, in modo da eliminare ogni fattore ad esso complementare e quindi anche la causa della sua produttività marginale decrescente. Ciascuna di queste due ipotesi è in grado di spiegare i processi di sviluppo non convergenti, a maggior ragione se sono combinate. Quanto al progresso tecnico, che sostiene la produttività dei fattori produttivi, se esso non è disponibile in egual misura per tutti i paesi o sistemi economici, allora significa che nel lungo periodo esso sostiene la produttività dei fattori in misura differente e non in egual misura uguale. Nell’ambito di tale ipotesi di progresso tecnico endogeno, è del tutto ammissibile che la crescita continua ad essere più rapida nei paesi industrializzati e più lenta nei paesi arretrati, con il risultato che le distanze in termini di reddito pro capite aumentino anche nel lungo periodo. La seconda ipotesi riguarda il modo di concepire il capitale; la definizione di capitale più adeguata all’analisi dello sviluppo è quella di fattore riproducibile. La distinzione particolare che lo rende economicamente differente da altri fattori della produzione è il fatto che a differenza della terra o della pura forza lavoro che sono fattori non riproducibili, il capitale è nel contempo un fattore di produzione (input) e risultato della produzione stessa (output). Quindi, il capitale con il progresso tecnico è uno dei motori dello sviluppo. La teoria neoclassica tradizionale ha sempre ipotizzato che questo motore dello sviluppo non possa funzionare da solo, ma abbia sempre bisogno di essere associato a fattori non riproducibili. Pertanto, siccome il capitale è riproducibile e gli altri fattori di cui esso necessita per produrre non lo sono, tale teoria ha sempre sostenuto che la produttività marginale del capitale fosse decrescente. Se si potesse immaginare un capitale che comprenda tutto ciò che occorre per produrre, cosicché questo tutto fosse riproducibile, allora non vi sarebbe 45 motivo per assumere che esso abbia produttività marginale decrescente. Tra i fattori della riproduzione più importanti consideriamo sia il puro lavoro, quanto il lavoro istruito, cioè il capitale umano, costituito da istruzione scolastica, formazione sul lavoro. Quindi, consideriamo due fattori principali: il capitale fisso e quello umano, che, entrambi sono riproducibili. La teoria della crescita endogena è l’idea di rendimenti crescenti di scala, idea che altri filoni di pensiero, da Smith a Kaldor, avevano sviluppato ma che risultava ostica all’ortodossia neoclassica per la difficoltà di conciliarla con un mercato di concorrenza perfetta o più in generale con un sistema dei prezzi formalizzato secondo i canoni di tale ortodossia. Un modo per conciliare rendimenti di scala crescenti e mercati concorrenziali quello che utilizza alcuni casi d’esternalità ed è centrale l’idea che, mentre a livello della singola impresa i rendimenti continuano ad essere costanti, nel sistema economico preso nel suo insieme essi sono crescenti. LA CRESCITA ENDOGENA A TASSO COSTANTE ALCUNI MODELLI Vi è un modello AK che deriva il suo nome dalla funzione di produzione dove K t sta ad indicare l’insieme dei fattori accumulabili o riproducibili la cui formula è Y t =AK t ; in questo modello i fattori non accumulabili non hanno importanza, ovvero tutti i fattori sono accumulabili, anche il contributo produttivo del lavoro istruito oltre a quello tradizionale (beni capitali prodotti). Questo capitale riguarda sia i beni capitali creati dalla mano pubblica sia le conoscenze accumulate con le spese di ricerca e sviluppo. Una propensione al risparmio aumenta il tasso di crescita non solo temporaneamente ma anche permanentemente. Quindi, 2 paesi con propensioni al risparmio diverse crescono secondo tassi di crescita diversi e non c’è nessuna convergenza. Alcuni modelli tendono ad evidenziare in modo distinto i fattori accumulabili che nel modello AK risultano aggregati nel concetto del capitale esteso. Il caso più importante è quello dove si considerano distintamente il capitale fisico e quello umano e la funzione di produzione può essere scritta y t =C t . H 1t dove C indica il capitale fisico e H il capitale umano e nella funzione non compare il lavoro 46 non istruito, in quanto i rendimenti costanti si ottengono, benché i fattori produttivi abbiano produttività marginali decrescenti, solo a patto che i fattori produttivi rilevanti siano accumulabili. 47