16 Forme dispercettive

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Forme dispercettive
Adriano Ferrari, Manuela Lodesani, Simonetta Muzzini, Silvia Sassi
Descriviamo queste due forme di paralisi cerebrale infantile (PCI) al di fuori dei capitoli
relativi alle tetraparesi ed alle diplegie perché la loro chiave interpretativa è di tipo percettivo e non motorio. Mentre infatti le patologie sopra citate presentano dominanti
aspetti motori in tutte le fasi della loro evoluzione, nelle due forme che seguono sono gli
aspetti percettivi a risultare di gran lunga i più importanti. Se l’inquadramento diagnostico di queste due forme di PCI venisse fondato esclusivamente sull’analisi dei problemi motori, classificando il bambino in base ai suoi pattern posturo-cinetici come tetraplegico, per lo più con antigravità a tronco verticale, o inquadrandolo in una delle forme della diplegia, non si potrebbero spiegare le sue reali difficoltà e la prognosi a distanza risulterebbe eccessivamente favorevole. Per una compiuta analisi dell’influenza
dei disturbi percettivi sull’organizzazione motoria vedi il capitolo 7 e per i problemi
classificativi vedi i capitoli 13 e 14.
Il bambino “cado-cado” (falling child)
Il bambino “cado-cado” non riesce a tollerare in senso “percettivo” la profondità dello
spazio che lo circonda e non sa reagire in modo competente all’azione della forza di gravità. Egli prova la continua sensazione di essere trascinato dal proprio peso fino a perdere il controllo della propria posizione, sente e crede di precipitare in modo inarrestabile anche quando è consapevole di essere sdraiato sul pavimento (Fig. 1), avverte come
in un incubo le parti del proprio corpo separarsi e disperdersi, si aggrappa perciò disperatamente a tutto ciò che trova intorno, come se il mondo intero dovesse sfuggirgli
dalle dita.
Fig. 1. Bambino “cado-cado”
Posizione supina
Influenza della startle reaction
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Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile
La sensazione di cadere, presente anche in posizione supina, non è frutto di precedenti esperienze catastrofiche, ma espressione di un fenomeno di distorsione percettiva, ai confini fra l’illusione e l’allucinazione, associato a un comprensibile stato di angoscia.
Il bambino “cado-cado” non tollera le variazioni posturali indotte dall’esterno e
spesso neppure quelle auto-generate, manifesta il proprio disagio e la propria paura attraverso subentranti reazioni di startle (Fig. 2) e commenta consapevolmente la propria
impressione di precipitare verbalizzandola: “Cado! cado!” Egli riesce a tollerare il movimento solo se esercitato in un luogo chiuso (ad esempio un passeggino avvolgente o
una carrozzina elettrica munita di bretellaggi) o rimanendo a stretto contatto col corpo
dell’adulto portatore di cure (contenimento). Il conflitto con lo spazio scompare in genere nell’acqua, dove il bambino può esprimere tutta la sua potenzialità motoria, perché l’acqua svolge per lui un ruolo di contenimento, difesa, protezione e sostegno (l’acqua è un’antica alleata perché nell’acqua non c’è vuoto e non si ha peso).
Il bambino “cado-cado” è incapace di definire i confini del proprio corpo, di tener
separato il mondo intrapersonale (autonomico) da quello extrapersonale (contestuale),
lo spazio percepito da quello agito. Lo spazio intorno a sé viene vissuto e interiorizzato
in modo distorto, come se il soggetto non riuscisse a mantenere il proprio corpo ben
racchiuso dentro la propria pelle. La pelle nel bambino “cado-cado” è un contenitore
insufficiente ed egli ne cerca altri, dentro e fuori di sé, quali il tono muscolare, il corpo
dell’adulto portatore di cure, una “nicchia ecologica” costruita opportunamente nell’ambiente peripersonale:
Dentro di sé → la spasticità (pelle “muscolare”, corazza difensiva): consente una
maggiore stabilità posturale ed emozionale, ma risulta rapidamente esauribile (il
bambino va infatti incontro a un rapido affaticamento). Si esprime con i caratteri
dell’ipertonia da aumento della reazione di sostegno, mostra una risposta esagerata
ai farmaci e risulta poco “dosabile” alla chirurgia ortopedica funzionale. Può essere
vicariata dall’impiego di ortesi, in genere AFO o KAFO, o di ausili come i gusci imbottiti e i corsetti a seggiola.
Intorno a sé → gli abiti: questi bambini non vorrebbero mai spogliarsi completamente. Il corpo nudo genera in loro angoscia e disperazione. Semplici prestazioni
motorie come girarsi su un fianco, possibili se il bambino è coperto anche solo da un
sottile lenzuolo, divengono impossibili se egli si sente troppo esposto allo spazio e al
vuoto.
Fuori di sé → il corpo dell’adulto, in particolare della madre, diventa per il bambino
“cado-cado” uno strumento di contenimento sia fisico sia psicologico.
Le sensazioni tattili, visive, acustiche, ecc., evocate dagli input ambientali devono essere trasformate, “mentalizzate” perché possano essere “contenute” e non siano più devastanti.
Nella situazione endouterina l’ambiente stesso funge da “contenitore”, viceversa nella vita extrauterina non c’è più un contenitore “fisico” e il bambino si trova di fronte ad
input ambientali non più mediati dal mezzo uterino, che determinano sensazioni corporee dotate di un carico mentale destrutturante. “L’azione della mente deve essere
quella di contenere gli input e quindi di “mentalizzarli”. Ciò è possibile nel bambino senza gravi deficit neurologici solo se l’azione di contenimento è guidata dalla “rèverie”
materna (Bion 1973) che funge da “filtro”, da mediatore tra gli input ambientali e quindi le sensazioni corporee e la mente del bambino” (Armando Ferrari 1992, citato da
Bottos 2003).
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È esperienza comune il fatto che questi bambini, pur essendo sufficientemente dotati dal punto di vista cognitivo, divenendo adulti incontrino grandi difficoltà a separarsi dalla madre, con cui mantengono un rapporto adesivo di fusione/confusione, in una
situazione che può essere definita parassitaria ancor prima che simbiotica.
In braccio al portatore di cure il bambino “cado-cado” diviene più attivo ed interessato ad agire e a interagire con l’ambiente circostante. Spesso questa situazione finisce
però per rendere il paziente ancora più povero, perché gli fa vivere attraverso il corpo e
la mente dell’adulto un’illusione di abilità che gli impedisce di prendere oggettivamente coscienza dei propri limiti. Ci dobbiamo chiedere tuttavia quali progressi psicomotori potrebbe compiere autonomamente questo bambino se il movimento genera in lui
disagio, vertigine, paura di precipitare, se lo spinge a oltrepassare il confine che separa
eccitazione e angoscia, se lo conduce alla depressione e quindi alla rinuncia.
Il bisogno di contenimento si esprime, in senso psicologico, anche come malessere al
momento dell’addormentamento (inteso come cambiamento di stato: da uno stato controllato a uno incontrollabile), come difficoltà al distacco dal corpo della madre (inteso
come cambiamento di luogo) e come disagio e indisponibilità a restare da solo, anche
momentaneamente, pur essendo a portata di voce dei portatori di cure o potendoli
chiaramente vedere al di là di un vetro. Marzani (vedi cap. 11) parla in questo senso di
ansietà di separazione e ipotizza che la funzione mancante sia di carattere fantasmatico,
poiché i disturbi si attenuano con la sola presenza di un familiare o con l’uso della voce
come sostegno al movimento.
Il bambino “cado-cado” vorrebbe essere una mente senza corpo in grado di governare il corpo senza mente di un adulto consenziente, generalmente la propria madre.
Il trattamento farmacologico dei disturbi dispercettivi del bambino “cado-cado”
contempla l’uso di antidepressivi (trazodone) e di ansiolitici (benzodiazepine, specie
nitrazepam e clonazepam) che non sempre si rivelano però efficaci.
Il bambino “cado-cado” ha tipicamente una discreta dotazione intellettiva e un linguaggio maturo e fin troppo ricco, con cui verbalizza anche esperienze che non ha mai
potuto compiere (preferendo immaginare piuttosto che sperimentare, ma dimostrando
conoscenza dei meccanismi e dei processi che presiedono alle azioni); non presenta in
genere importanti disturbi visivi e oculomotori (vedi cap. 9) e riesce a coordinare i movimenti dello sguardo con gli spostamenti del capo. Mantiene però a lungo il riflesso ottico di difesa e utilizza lo sguardo per traguardare la propria posizione rispetto allo spazio circostante, agganciandosi di volta in volta ad una “mira” vicina. A volte può incontrare difficoltà a orientare la propria traiettoria di avanzamento nello spazio, cioè a
direzionarsi correttamente con il deambulatore o la carrozzina elettrica, specie in assenza di riferimenti visivi facilitanti. Non raggiunge in genere un’elevata capacità manipolativa, ma riesce ugualmente ad essere abbastanza autosufficiente per le attività
compiute al tavolo come usare le posate o la tastiera del computer. In condizioni di riposo, gli arti superiori vengono tenuti abitualmente addotti al tronco con i gomiti e i
polsi flessi, le metacarpofalangee semiflesse e le interfalangee semiestese (mani in posizione “abbandonata”).
L’irrigidimento generalizzato (pelle muscolare), mostrato in situazioni di difficoltà o
in condizioni di disagio, è generalmente proporzionale all’entità del disturbo dispercettivo ancora presente.
La spasticità difensiva del bambino “cado-cado” deve essere tenuta distinta dalla
spasticità di natura antigravitaria legata all’organizzazione della reazione di sostegno.
Le variazioni del tono generate in relazione a un’insufficiente calibrazione percettiva si
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Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile
riducono non appena il paziente impari a sopprimerle (vedi cap. 7) e si sia meglio organizzato sul piano emotivo, indipendentemente dalla maturazione del comportamento antigravitario. Al contrario una riduzione della spasticità imposta al bambino per via
farmacologia o chirurgica, prima che questi abbia potuto risolvere il problema percettivo, finisce per ingigantire le difficoltà e per condurre il soggetto alla rinuncia o al rifiuto della stazione eretta e della locomozione che si intendevano migliorare.
La prognosi motoria del bambino “cado-cado” non è sempre la stessa. In molti soggetti il disturbo dispercettivo va lentamente attenuandosi, rendendo possibile la separazione dall’adulto nella seconda-terza infanzia e il poter restare da soli, anche a dormire, prima dell’inizio dell’adolescenza. In questo caso anche i disturbi motori vanno
parallelamente migliorando e i pazienti possono arrivare a conquistare la capacità di
spostarsi con il deambulatore o anche con i quadripodi (Fig. 3). Per altri soggetti, indipendentemente dal percorso terapeutico seguito, non avvengono cambiamenti migliorativi nell’ambito dei disturbi dispercettivi, mentre sono ugualmente possibili un maggior contenimento degli stati di angoscia e una maturazione del processo di separazione-individuazione. L’unica forma raggiungibile di autonomia locomotoria per questi
pazienti è rappresentata dall’impiego della carrozzina elettrica, che è giusto venga proposta loro anche precocemente.
La chirurgia ortopedica funzionale andrebbe affrontata il più tardivamente possibile sia per il rischio di importanti regressioni sul piano psicologico (ripresa della paura
di essere spogliato, toccato, spostato, di stare da solo, ecc.) sia per il pericolo di un’insufficienza muscolare secondaria e di un definitivo abbattimento in stazione eretta della reazione di sostegno (ricomparsa dell’astasia e dell’abasia). La chirurgia ortopedica
sconvolge infatti la strategia di controllo faticosamente sviluppata dal paziente (uso
della spasticità come difesa percettiva).
Fig. 2. Bambino “cado-cado”
Posizione seduta
Influenza della startle reaction
Fig. 3. Bambino “cado-cado”
Posizione eretta
Esauribilità della reazione di sostegno
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Il bambino “tirati su” (stand-up child)
Lo strumento utilizzato da questo bambino per limitare le conseguenze negative dei
propri disturbi dispercettivi è rappresentato dalla soppressione percettiva delle informazioni legate alla cinestesi, alla batiestesi e alla barestesi (senso di movimento, senso
di posizione e senso di pressione), informazioni che inizialmente risultano per lui poco
tollerabili (vedi cap. 7). È come se egli ripetesse continuamente tra sé: “Non sentire di
cadere... se anche cadi non ti succede niente”, ecc. Così facendo egli trascura le correzioni posturali necessarie per orientarsi, allinearsi ed equilibrarsi e finisce per perdere
davvero il controllo della propria posizione.
Alcuni autori considerano questo fenomeno un segno di “ipotonia” o di “ipoposturalità” (Bobath e Bobath, 1976; Giannoni e Zerbino, 2000), confondendo l’incapacità di
eseguire una correzione posturale (versante motorio) con l’incapacità di coglierne autonomamente il bisogno impellente (versante percettivo). Marzani (vedi cap. 11) lo attribuisce a un disturbo dello schema corporeo o a un problema di stabilità interna della sensazione del Sé corporeo. Per qualche bambino potrebbe trattarsi, invece, di un
disturbo primitivo dell’attenzione (vedi cap. 10) che potrebbe spiegare perché il paziente sia capace di eseguire “volontariamente”, ma in genere solo “dietro richiesta”, le
correzioni posturali che “automaticamente” egli non riesce al contrario a fare.
La soppressione percettiva è un processo mentale complesso che richiede una certa
“maturità” da parte del soggetto. Inizia in genere a partire dalla seconda infanzia. Prima
di questo periodo il bambino “tirati su” presenta molte analogie con il comportamento
percettivo e motorio del bambino “cado-cado”, anche se appare fin da subito meno grave.
Sul piano motorio il bambino “tirati su” riesce a produrre una reazione antigravitaria efficace, ma non sa automatizzarla e renderla stabile perché sopprime l’analisi delle
informazioni necessarie a questo scopo. Sul piano posturale sembra una persona che si
stia addormentando seduto sulla seggiola: “crolla” quando chiude gli occhi per riprendersi immediatamente dopo, come “risvegliato” dalla percezione del movimento compiuto (Fig. 4).
Non prestando attenzione alla propriocezione, per poter controllare la propria postura il bambino “tirati su” ha costante bisogno di segnali aggiuntivi e di conferme provenienti dall’esterno. Si accorge di quanto sta avvenendo alla propria posizione solo
quando viene informato da altri organi, soprattutto dalla vista, o più spesso dall’adulto
portatore di cure, che continuamente gli ripete appunto: “tirati su, mettiti a modo, stai
diritto!”.
Per l’incapacità di esecuzione simultanea di più attività mentali, la difficoltà del controllo posturale viene aumentata spostando l’attenzione del bambino a un altro compito, ad esempio facendolo parlare o chiedendogli un impegno cognitivo.
Il linguaggio di questi soggetti non è particolarmente compromesso, tende però a divenire meno comprensibile quando il paziente, riducendo la reazione di sostegno, flette anteriormente capo e tronco.
Dal punto di vista “motorio” il bambino “tirati su” si presenta come un diplegico,
più raramente come un tetraplegico con antigravità a tronco verticale capace di raggiungere e mantenere la stazione eretta con appoggio e di spostarsi con il deambulatore, ma rapidissimamente esauribile (Fig. 5). Alla richiesta di fermarsi su comando, egli
mantiene a lungo la necessità di ricorrere a passi di aggiustamento successivi all’ordine
ricevuto.
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La sua reazione di sostegno tende ad essere esagerata all’inizio della prestazione e a
divenire insufficiente solo pochi minuti dopo. Lo stato emotivo o la motivazione possono prolungare la capacità del paziente di stare in piedi e di camminare, ma è difficile
assistere a un vero investimento psicologico verso stazione eretta e marcia.
A terra questi bambini si spostano strisciando a foca (arti superiori che trascinano in
avanti il tronco e inferiori reclutati in flessione-adduzione-intrarotazione).
Il rischio di deformità dell’anca è elevato a causa delle contrazioni in flesso-adduzione, a volte violente, che accompagnano le reazioni emotive più intense.
La risposta ai farmaci antispastici risulta generalmente esagerata. La chirurgia ortopedica funzionale, per quanto dosata, finisce spesso per portare il muscolo operato all’insufficienza. È giustificato, anche in posizione seduta, l’impiego di ortesi AFO, purché
leggere, per la loro capacità di contribuire ad aumentare il controllo posturale del paziente.
Non risultano invece di grande aiuto i sistemi di postura perché il tronco del paziente tende a crollare in avanti e i bretellaggi vengono in generale mal sopportati.
Fig. 4. Bambino “tirati-su”
Posizione seduta
Capo antepulso e semiflesso, ipercifosi dorsale, tronco
antepulso ed inclinato di lato, anche semiflesse (bacino
retroverso), ginocchia semiflesse con arti inferiori
orientati di lato
Fig. 5. Bambino “tirati-su”
Posizione eretta
Capo allineato, cifosi dorsale ed iperlordosi lombare,
obliquità e lateropulsione pelvica, anche flesse (bacino
antiverso), ginocchia semiestese e valghe, piedi equinovalgo-pronati, carico asimmetrico
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Bibliografia
Bion WR (1973) Apprendere dall’esperienza. Armando editore, Roma
Bobath B, Bobath K (1976) Lo sviluppo motorio nei diversi tipi di paralisi cerebrale. Libreria Scientifica già Ghedini, Milano
Bottos M (2003) Paralisi cerebrale infantile. Dalla “Guarigione all’Autonomia”. Diagnosi e proposte riabilitative.
Piccin editore, Padova
Ferrari A (2000) I problemi percettivi connessi ai disordini motori della paralisi cerebrale infantile. Giorn Ital Med
Riab 14, 4:17-24
Ferrari AB (1992) L’eclissi del corpo. Borla editore, Roma
Giannoni P, Zerbino L (2000) Fuori schema. Springer editore, Milano
Letture consigliate
Corominas J (1993) Psicopatologia e sviluppi arcaici. Borla editore, Roma
Winnicott DW (1975) Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli editore, Firenze
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