Heidegger, la cura e l`ascolto

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Martin Heidegger (1889 – 1976)
la cura e l’ascolto nell’essere: Heidegger
0. Alcune convinzioni di partenza
0.1. le opere della filosofia non sono sistemi, trattati, ma sentieri, cammini, itinerari.
Nell'esergo dell'edizione delle sue opere complete sta un motto che indica il carattere "viatico" del
suo pensiero, al quale anche i titoli di alcuni suoi testi richiamano: un pensiero costantemente "in
cammino" per "sentieri interrotti" (mai percorsi interamente, per una completezza impossibile) , che
non pretende di attingere certezze incontrovertibili, ma si accontenta di semplici "segnavia". Il
motto in esergo dice: "Itinerari - non opere" [Wege - nicht Werke]) (Volpi Franco (a cura di)
Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1998, p.56)
0.2. la rilevanza e la rivoluzione del linguaggio della filosofia di Heidegger.
La filosofia di Heidegger è una rivoluzione linguistica. Si tratta di un piglio innovativo che nasce
dalla convinzione che l’essere, la realtà, si dà all’uomo nel linguaggio, si dà nella parola e questa
deve essere articolata in modo da diventare o mostrarsi come “la casa dell’essere”; la filosofia è
ascolto (guida qui la disinvolta interpretazione del passaggio della Metafisica di Aristotele: to òn
léghetai – l’essere si dà nella parola, accade nel linguaggio, viene al dire; del resto, come da
tradizione, la filosofia nasce come lògos). Attesta Gadamer: «Fu una nuova esperienza del
linguaggio della filosofia. La si potrà paragonare forse all’esperienza che, a suo tempo, si fece con i
Sermoni tedeschi di Meister Eckhart, o con la lingua di Lutero, il quale, con la sua traduzione della
Bibbia, conferì al tedesco una nuova immediatezza.» (Gadamer Hans-Georg, Linguaggio, Laterza,
Roma-Bari, 2005, p. 94) Un linguaggio difficile, insolito e complesso, ma presto famigliare e
imprescindibile in quanto apre o indica nuovi cammini di riflessione e scoperta, costruisce e
descrive un nuovo mondo.
Può valere, per le opere, l’impresa, il linguaggio di Heidegger, l’annotazione che Foucault confida a
proposito della sua opera filosofica: «Voglio mettermi risolutamente a fianco degli scrittori, di
quelli che hanno una scrittura transitiva. Voglio dire con questo che la scrittura deve indicare,
mostrare, manifestare al di fuori di se stessa qualcosa che senza di essa rimarrebbe nascosto, o
perlomeno invisibile. Ecco, è là che, nonostante tutto, io trovo il mio incantamento per la scrittura».
(Foucault Michel, Il bel rischio, Cosmopolis 2013) … «la scoperta del piacere del disfare il
linguaggio abituale e di inventarne uno nuovo» (Francesca Bolino).
0.3. il tema della “svolta” (delle “torsioni”).
Heidegger dà molto rilievo alla svolta (svolte, torsioni, conversioni, nuove direzioni) che il suo
pensiero vive nel suo travagliato e discusso (soprattutto politicamente) impegno filosofico. Ancora
una volta, non si tratta solo di vicende personali di Heidegger ma di urgenze proprie della filosofia.
C’è una costante alla radice di queste torsioni: la necessità di dover superare e comporre antiche
contrapposizioni diventati dualismi metafisici (tra essere e tempo, essere e dover essere, tecnica e
teoria, poesia e filosofia…) destinati a consegnarsi a opposte ideologia (filosofiche e politiche)
incapaci di dar conto e di rispettare la natura dell’uomo e delle sue situazioni ambientali.
0.4. la difficoltà ad imparare (la resistenza e il rifiuto) sta nella difficoltà a disimparare.
[«non è certo compito minore … reimparare rispetto a imparare per la prima volta.» (Aristotele,
Politica 1289a3,5)]
«Le interpretazioni errate, i fraintendimenti, impediscono il cammino verso la conoscenza autentica
più di quanto faccia la totale ignoranza» (Heidegger Martin, (1927) 1975 I problemi fondamentali
della fenomenologia, il Melangolo, Genova 1999, 309). Ancora Gadamer parla di demolizione
mirata: «demolizione degli strati sovrapposti sino a ritornare alle esperienze originarie del pensiero
che alla fine – allora come oggi – non s’incontrano altrove se non nel linguaggio realmente
parlato.» (Gadamer, Linguaggio, 97)
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1. Dalla metafisica all’ontologia (prima torsione)
dalla domanda sull’essere, propria della metafisica alla indagine ontologica dell’esserci
(Heidegger Martin 1927, Essere e Tempo, Longanesi & C., Milano 1976)
Tradizionalmente la metafisica ha identificato l’essere con la semplice-presenza, con il darsi
oggettivo e atemporale (sempre presente) di «ciò che è»; concepito come sostanza o mondo o Dio,
l’essere descritto dalle ontologie tradizionali è indagato come una realtà oggettiva, sempre presente,
individuabile dall’intelletto mediante il procedimento astrattivo che coglie l’essere e cerca l’essenza
in tutto ciò che è, stando come soggetto, osservatore esterno, di fronte ad un oggetto: l’essere.
Da questo semplicistico approccio allo studio dell’essere sono derivati alcuni pericolosi pregiudizi:
si crede che il concetto di essere sia il più generale di tutti e pertanto sia il più chiaro (mentre in
realtà, nota Heidegger, «è il più oscuro»); dalla generalità se ne deduce l’ovvietà: si ritiene che tutti
comprendano il significato della nozione di essere come quando si afferma che «il cielo è azzurro»
o che «io sono contento»; dietro l’apparente ovvietà della nozione di essere si cela il problema del
senso dell’essere, problema che resta «oscuro e privo di guida».
Poiché il problema dell’essere è incessantemente riproposto da un ente storico, temporalmente
determinato, l’uomo, Heidegger ritiene necessario impostarne l’indagine a partire da quell’ente che
ha la preminenza sugli altri enti in quanto egli solo pone il problema dell’essere, si interroga sul suo
senso. L’ontologia deve dunque partire da un’indagine preliminare sull’essere dell’uomo: l’esserci,
l’essere determinato qui e ora. E si rende necessario un cambiamento, una svolta radicale nel modo
di impostare la questione fondamentale del nostro essere realtà e parte della realtà.
In passaggi più essenziali:
1.1. la metafisica, astraendo o andando oltre il dato fisico, studia i modi generali di essere
dell’essere e la loro relazione; essa parla dell’essere allo stesso modo con cui l’uomo parla
dell’ente; l’essere è così oggetto, cosa, pura presenza; l’uomo ne parla come se l’essere (la realtà)
fosse un oggetto davanti a lui e lui ne fosse in qualche modo all’esterno, tra spettatore e giudice; la
ragione, il pensare in generale sono esterni all’essere: parlano dell’essere come cosa. La metafisica
che mette in scena il proprio discorso sull’essere rappresenta quindi uno sdoppiamento tra ragione –
essere, soggetto – oggetto, interno – esterno e dimentica invece di occuparsi del fondamento del
discorso sull’essere, cioè l’ente da cui parte la domanda sull’essere: l’uomo; occorre passare dalla
metafisica, che è discorso sull’essere come ente, come oggetto, alla ontologia, che è discorso
dell’essere nei modi dell’esserci, cioè di quell’essere che domanda e chiede, pone il problema.
1.2 nella (nuova) ontologia la riflessione verte anch’essa certamente sull’essere, questione
centrale della filosofia e questione finora propria del sapere metafisico, ma ora porsi il problema
dell’essere significa studiare l’uomo da cui parte la domanda e la ricerca sull’essere. Uomo non
considerato “onticamente”, cioè come ente-oggetto-cosa (come accade all’essere nella metafisica
tradizionale; qui l’uomo diventa cosa per se stesso), contenuto d’analisi di saperi determinati, ma
considerato “ontologicamente”, come “esserci”, esser qui, contrassegnato da una temporalità
mondana e storica; cioè ente che si pone la domanda dell’essere, che sta dentro il suo domandare e
nell’essere. L’ontologia, a differenza della metafisica, studia i modi di essere dell’esserci. Diventa
dunque essenziale: la distinzione tra ente e essere, l’indagine si fonda preontologicamente
sull’esserci e l’ontologia studia – descrive i modi di essere dell’esserci (la metafisica tradizionale
studia invece i modi di essere dell’essere).
«Se il problema dell’essere deve esser posto esplicitamente e portato a soluzione nella piena
trasparenza di se stesso l’elaborazione di questo problema richiederà, in conseguenza delle
delucidazioni da noi date, l’esplicazione del modo in cui si può volger lo sguardo all’essere,
realizzarne la comprensione e afferrarne concettualmente il senso; e richiederà la preparazione della
possibilità della scelta corretta dell’ente esemplare, nonché l’elaborazione della giusta via di
accesso a questo ente. Ma volger lo sguardo, comprendere, afferrare concettualmente, scegliere,
accedere a, sono comportamenti costitutivi del cercare e perciò parimenti modi di essere di un
determinato ente, di quell’ente che noi stessi, i cercanti, sempre siamo. Elaborazione del problema
dell’essere significa dunque: render trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione di
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questo problema, in quanto modo di essere di un ente, è anche determinata in linea essenziale da ciò
a proposito di cui in esso si cerca: dall’essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra
l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine
Esserci [Dasein]. La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede
l’adeguata esposizione preliminare di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere.» (Heidegger
Martin 1927 Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, 22-23)
1.3. L’ontologia di Heidegger si apre pertanto con una «Analitica dell’esserci»; poiché lo specifico
modo di essere dell’esserci è l’esistenza, l’ex-sistere, il trascendimento, l’oltrepassamento,
l’analitica esistenziale dovrà portare alla luce la struttura costitutiva dell’esserci e i suoi esistenziali.
Con questa espressione Heidegger intende i tratti costitutivi dell’esistenza. L’indagine metafisica
lascia lo spazio all’indagine ontologica e diventa analitica dell’esistenza, analitica dell’uomo come
“Esserci” (Dasein), fenomenologia ontologica (non ontica) dell’Esserci.
«Il problema della distinzione fra essere in generale ed ente si trova non senza motivo al primo
posto. Infatti la sua discussione deve anzitutto permettere di scorgere tematicamente, in maniera
chiara e metodicamente sicura, qualcosa come l’essere nella sua distinzione dall’ente, e di
sottoporlo ad indagine. Insieme alla possibilità di effettuare con sufficiente chiarezza questa
distinzione fra essere ed ente, e quindi di compiere il passaggio dalla trattazione ontica dell’ente alla
tematizzazione ontologica dell’essere, sta o cade la possibilità dell’ontologia, cioè della filosofia
come scienza, Le discussioni di questo capitolo sollecitano pertanto il nostro interesse dominante.
L’essere e la sua distinzione dall’ente possono esser fissati solo se siamo in possesso della
comprensione dell’essere come tale. Avere la comprensione dell’essere significa però comprendere
anzitutto quell’ente alla cui costituzione d’essere appartiene la comprensione dell’essere: l’esserci.
La messa in luce della costituzione fondamentale dell’esserci, cioè della costituzione della sua
esistenza, è il compito dell’analisi ontologica preparatoria della costituzione esistenziale
dell’esserci. Noi la chiamiamo analitica esistenziale dell’esserci. Essa deve mirare al chiarimento di
ciò su cu si fondano le strutture fondamentali dell’esserci nella loro unità e totalità.» (Heidegger
Martin (1927)1975 I problemi fondamentali della fenomenologia, il Melangolo, Genova 1999,
p.218-219)
2. fenomenologia ontologica dell’Esserci (analitica dell’esserci) (seconda torsione)
Fenomenologia dei modi originari con i quali l’esserci si rapporta costitutivamente al mondo.
2.01 nota sulla fenomenologia e sulla fenomenologia trascendentale: evoluzione di significato di
una espressione ricorrente nel linguaggio della filosofia.
2.01.1. scienza dei fenomeni e indagine delle forme di conoscenza corrispondenti; questa
definizione colloca il campo di indagine della fenomenologia nella sensibilità di cui indica principi,
ampiezza e limiti. Così Kant.
2.01.2. scienza dell’esperienza della coscienza: “descrizione del cammino della coscienza
naturale la quale urge verso il sapere vero”; così intesa il suo campo di applicazione è la coscienza
come manifestazione dell’Assoluto considerata nel suo cammino di formazione. Così Hegel.
2.01.3. indagine dei “vissuti psichici” intesi come atti intenzionanti il mondo: il ritorno alle cose
stesse, alla realtà si attua esplorando, con metodo trascendentale come la realtà si manifesta
originariamente negli atti della coscienza intenzionate il mondo. L’indagine è di natura sia logica
che ontologica, “di tipo teoretico-coscienzalistico” (Gadamer). Così Husserl.
2.01.4. analitica dell’esistenza nei suoi caratteri originari e nella temporalità dell’essere, non
individuabili con gli strumenti concettuali delle scienze (naturali e sociali) e delle filosofie
tradizionali; campo di applicazione: ontologia ed ermeneutica. Così Heidegger.
Fenomenologia come analitica dell’Esserci
2.1. l’Esserci è esser-nel-mondo (esser qui, essere in situazione, la “mondanità” [Weltlichkeit] ci
caratterizza), secondo un rapporto ontologicamente biunivoco: 1. l’Esserci è definito dalle relazioni
concrete che si intrattengono con le cose; il mondo è l’ambito ineludibile dell’Esserci. 2. Viceversa,
il mondo è sistema organizzato in forza della sua relazione con l’Esserci; il mondo è l’insieme di
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oggetti-strumenti, non oggetti-cose; l’insieme di stati di cose, poste in relazione, non cose intese
come sostanze separate.
«secondo la famosa tripartizione l’animale è definito ‘povero di mondo’ (weltarm),… la pietra
‘senza mondo’ (weltlos) e …l’uomo ‘formatore di mondo’ (weltbildend). (Esposito Roberto 2004
Bìos. Politica e filosofia, Einaudi, Torino, 169-170)
2.2. l’Esserci come esser gettato / progetto secondo un rapporto doppio: di condizionamento
(chiusura), di progettazione (apertura)
2.2.1. Esserci è esser-gettato (analitica dell’esser-gettato, della “gettatezza”). L’uomo accade in un
mondo già orientato, già organizzato che rivendica su di lui un diritto di priorità; l’accoglienza e
l’ingresso sono subordinati ad un processo di iniziazione, educazione (adattamento,
“assoggettamento”: diventar soggetto assoggettandosi cfr. Foucault). L’Esserci, in questa
situazione, può ridurre i propri progetti a una ripetizione partecipata e la propria partecipazione è
adeguamento, “deiezione”. Senza intenti moralistici ma al solo scopo di avviare una fenomenologia
analitica dell’esserci quotidiano (della quotidianità), la riflessione diventa descrizione dei modi
quotidiani diffusi della deiezione.
2.2.1.1. Esserci nel si: il si anonimo, “si dice”, “si pensa”, la quotidianità dell’Esserci.
«Innanzi tutto e per lo più, l’Esserci è assorbito dal suo mondo. Questa immedesimazione col
mondo e l’in-essere su cui si fonda, determinano l’essenza del fenomeno relativo alla domanda:
«Chi è colui che è nella quotidianità dell’Esserci?» Tutte le strutture dell’essere dell’Esserci, e
quindi anche il fenomeno che viene in questione col problema del Chi, sono modi del suo essere. Il
loro carattere ontologico è di natura esistenziale. Perciò occorre, prima di tutto, procedere a una
giusta impostazione del problema e alla esatta determinazione della via per la quale deve essere
scoperta questa nuova regione fenomenica, la quotidianità dell’Esserci. L’esame del fenomeno
mediante il quale è possibile rispondere al problema del Chi, conduce a strutture dell’Esserci che
sono cooriginarie all’essere-nel-mondo: il con-essere ed il con-Esserci. In esse si fonda un modo di
essere-se-stesso quotidiano la cui illuminazione chiarificherà ciò che possiamo chiamare il
«soggetto» della quotidianità, il Si.» (Heidegger 1927, 148)
Alcuni aspetti analitici relativi al con-essere della quotidianità: [1] «Questo essere-assieme dissolve
completamente il singolo Esserci nel modo di essere “degli altri”, sicché gli altri dileguano ancora
di più nella loro particolarità e determinatezza.» [2] «La medietà è il carattere esistenziale del Si.»
[3] «Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso. […] “io” non “sono” io nel senso del me-Stesso che mi
è proprio, ma sono gli altri nella maniera del Si» (Heidegger 1927, 162-166 passim)
2.2.1.2. Esserci nella cura: una cura che insegue per abitudine e sbriga ciò che per lo più si fa in un
rapporto con gli altri di emulazione che soggioga alla cura del e nel quotidiano. Un protendersi
verso il futuro (prendersi cura, occuparsi di) condizionati da un passato da confermare e riprodurre
e, dunque, fare del futuro una mera protesi del presente o dello stesso passato.
«L’essere-assieme, anche se nascostamente, è sempre preoccupato di questa commisurazione agli
altri. Esistenzialmente considerato, esso ha il carattere della contrapposizione commisurante.
Quanto più questo modo di essere passa inosservato all’Esserci quotidiano stesso e tanto più
tenacemente ed originariamente opera in esso.
Questa contrapposizione commisurante, fondata nell’essere, presuppone che l’Esserci, in quanto
Esserci-assieme quotidiano, si muova nella soggezione agli altri. Non è se stesso, gli altri lo hanno
svuotato - del suo essere. L’arbitrio degli altri decide delle possibilità quotidiane dell’Esserci.»
(Heidegger 1927, 162-163)
2.2.1.2.1. Occorre tuttavia prendere atto della ambiguità della cura (quasi sintesi di gettatezza in
deiezione e gettatezza in progetto, in aver-da-essere). La cura può essere intesa anche come un
protendersi, nella temporalità, verso il futuro. Dunque l’ambiguità: 1. «… questo protendersi non è
però mai assoluto e puro, ma è sempre condizionato da un “essere-già-nel-mondo”: come tale la
cura è fatticità, cioè legame imprescindibile a un condizionamento, a una finitudine dati in un
passato già scorso.» (Volpi 1998, 30); 2. Tuttavia «la cura è anche un “essere-presso-l’ente-che-siincontra-nel-mondo”… non si esplica in una attualità perfetta sempre piena e presente a se stessa,
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ma è essenzialmente un “poter-essere” … un “essere-avanti-a-sé”, esprime l’e-sistenzialità
dell’esserci, ossia lo stare fuori del suo poter-essere dalla puntualità del presente e il suo protendersi
verso la maturazione nel futuro. » (Volpi 1998, 30) La cura si lega dunque, in schema, con
l’articolazione temporale di futuro, passato e presente ma in una correlazione ambivalente delle tre
dimensioni.
2.2.1.3. Esserci nella chiacchiera: un dire e esser condivisi senza dover dar conto …
«Il termine «chiacchiera» qui non ha alcun significato «spregiativo». Esso non fa che designare
terminologicamente un fenomeno positivo che costituisce il modo di essere della comprensione e
dell’interpretazione dell’Esserci quotidiano. […] La tendenza del suo essere è di portare coloro che
odono ad esser partecipi dell’essere-per ciò di cui il discorso discorre.
In virtù della comprensione media che il linguaggio espresso porta con sé, il discorso comunicante,
successivamente, può essere compreso anche senza che colui che ascolta si collochi nella
comprensione originaria di ciò sopra cui il discorso discorre. Più che di comprendere l’ente di cui si
discorre, ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come tale. L’oggetto della
comprensione diviene il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e
superficialmente. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella
medesima medietà.
Il sentire e il comprendere sono ormai vincolati anticipatamente a ciò che il discorso dice. La
comunicazione non «partecipa» il rapporto originario all’essere dell’ente di cui si discorre; l’essereassieme si realizza nel discorrere-assieme e nel prendersi cura di ciò che il discorso dice. Ciò che
conta è che si discorra. L’esser-stato-detto, l’enunciato, la parola, si fanno garanti dell’esattezza e
della conformità alle cose del discorso e della sua comprensione. […] Ciò-che-è-stato detto si
diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice. La
chiacchiera si costituisce in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso nelle quali la
incertezza-iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza. […] La totale
infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica ma un fattore
determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione
preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di
fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime da una
comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più
nulla di incerto.» (Heidegger 1927, 211-213)
2.2.1.3.1. Il piacere della chiacchiera consiste nel poter prender parte ad un discorso già definito,
confezionato e condiviso, senza quindi dover assumere la responsabilità di dar conto di quanto si
dice (“si fa per dire… si dice per così dire… per chiacchierare un po’…”), nella consapevolezza
rasserenante e rassicurante che ciò che vien detto è sicuramente e pacificamente condiviso e
considerato vero. La ripetizione è la verità di quanto vien chiacchierato.
2.2.2. Esserci è progetto: “l’essenza di questo Esserci consiste nel suo aver-da-essere”; “essere
avanti-a-sé-essendo-già-in-un-mondo”; gettatezza come aver-da-essere.
2.2.2.1. analitica dell’Esserci come progetto, come aver-da-essere
«L’Ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi siamo. L’essere di questo
ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente si rapporta sempre al proprio
essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere. L’essere è ciò di cui ne va
sempre per questo ente. Da questa caratterizzazione dell’esserci derivano due ordini di
conseguenze: 1. L’«essenza» di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di
questo ente, per quanto in generale si può parlare di essa, dev’essere intesa a partire dal suo essere
(existentia) […]
2. L’Essere di cui ne va per questo ente nel suo essere, è sempre mio. […] L’ente a cui nel suo
essere ne va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria.
L’esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’«ha» semplicemente a titolo di proprietà
posseduta da parte di una semplice-presenza. Appunto perché l’esserci è essenzialmente la sua
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possibilità questo ente può, nel suo essere, o «scegliersi», conquistarsi, oppure perdersi e non
conquistarsi affatto o conquistarsi solo «apparentemente». (Heidegger 1927, 64,65)
2.2.2.2. analitica dell’Esserci come temporalità: essere e tempo
La temporalità è costitutiva dell’essenza dell’esserci; è orizzonte da cui è possibile comprendere
l’Essere; è l’orizzonte in cui l’esserci si apre alla sua essenza: aver-da-essere.
«Costituzione originaria dell’essere dell’esserci si rivela, all’analitica ontologica dell’esserci, la
temporalità (Zeitlichkeit). L’interpretazione della temporalità conduce ad una comprensione e ad un
concetto di tempo più radicali rispetto a quelli che era stato possibile fino ad oggi enucleare in
filosofia. Il concetto di tempo a noi noto, quello tradizionalmente trattato dalla filosofia, è soltanto
una derivazione della temporalità quale senso originario dell’esserci. Ma se la temporalità
costituisce il senso ontologico dell’esserci umano e se alla costituzione ontologica dell’esserci
appartiene la comprensione dell’essere, allora anche la comprensione dell’essere deve risultare
possibile solo sul fondamento della temporalità. Da qui sorge la prospettiva per una possibile
verifica della tesi: l’orizzonte a partire da cui è comprensibile qualcosa come l’essere in generale è
il tempo. Noi interpretiamo l’essere a partire dal tempo (tempus). Questa è un’interpretazione
temporale (temporale). La problematica fondamentale dell’ontologia, quale determinazione
dell’essere a partire dal tempo, è quella della Temporalità dell’essere (Temporalität).» (Heidegger
1927/1975, 14-15)
2.2.2.3. analitica della temporalità dell’Esserci come esser-per-la-morte
La temporalità dell’Esserci è una temporalità finita, limitata. La certezza del finito è la certezza
della morte. Rimossa dal pensiero, rimandata a condizione generica dell’uomo, resa oggetto di
curiosità e chiacchiera in quanto accade ad altri: questo è il modo diffuso e quotidiano con cui essa
si presenta all’attenzione e ai discorsi. È dimensione ontologica dell’Esserci come progetto quando
è colta come vita di una temporalità finita. Un tempo infinito toglie il motivo e lo stimolo del
progettare. La definizione di piani e l’impegno nelle possibilità, nel proprio aver-da-essere si
realizzano proprio in situazione di finitudine. L’esser-per-la-morte non significa affatto vivere
assillati dal pensiero della propria fine e da strani calcoli o tecniche per negarla, ma vivere
l’esistenza che l’essere-per-la-morte ci presenta come assolutamente singolare e irripetibile nella
apertura della possibilità, nella assunzione della temporalità come aver-da-essere.
«Prima di tutto bisogna caratterizzare l’essere-per-la-morte in quanto essere-per una possibilità, e
precisamente per la possibilità più specifica dell’esserci stesso. Essere-per una possibilità, cioè per
un possibile, può significare: aver a che fare con un possibile nel senso di prendersi cura della sua
realizzazione.» (Heidegger 1927, 317)
L’esserci come esser-per-la-morte è «colui che esperisce la propria morte, piuttosto che come la
fine della vita, come ciò che fin dall’inizio le conferisce senso. […] l’intenzionalità alla morte
costituisce la forma originariamente politica in cui l’esistenza si ‘decide’ in qualcosa che sta sempre
al di là della semplice vita.» Esposito Roberto 2004 Bìos. Politica e filosofia, Einaudi, Torino, 167)
In conclusione: l’esser-per-le-morte attesta l’assoluta singolatità dell’Esserci; la temporalità che
viene così evidenziata nel recupero della finitezza (essere-per-la-morte) come dimensione umana è
scoperta e salvaguardia dell’esserci come esser-nel-mondo e come aver-da-essere; l’Esserci come
aver-da-essere è contesto e sede di trascendenza, di un progettare che supera la dimensione del
finito. Mentre il concetto di infinito (come per ogni valore assoluto) applicato all'uomo produce
nell’esserci l'oblio dell'essere, il recupero della finitezza è l’apertura dell’esistenza all’ascolto
operativo nell’essere.
2.2.2.4. analitica storica particolare dell’Esserci nella tecnica (e nella sua ambiguità)
2.2.2.4.1. un primo rapportarsi. Nelle culture industrializzate il problema dell’essere, il rapporto con
la realtà (l’ambiente, compresi gli uomini), si pone come problema di dominio/progresso nel
mondo. La tecnica diventa un passaggio imprescindibile per l’uomo e per il suo produrre e operare;
la visione stessa del mondo è in termini di dominio. La stessa metafisica infatti, che riduce l’ente a
cosa, è pensiero tecnico e la tecnica, in generale, inaugura la civiltà del “dominio operativo
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sull’essere”, riduce ogni esperienza a cosa (merce) e ogni cosa a strumento, affida progetti di
progresso e di salvezza dell’uomo al dominio, alla volontà di potenza.
«Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con
entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza. Ma siamo ancora più gravemente in suo potere
quando la consideriamo qualcosa di neutrale; infatti questa rappresentazione, che oggi si tende ad
accettare con particolare favore, ci rende completamente ciechi di fronte all’essenza della tecnica.
[…] La rappresentazione comune della tecnica, per cui essa è un mezzo e un’attività dell’uomo,
può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica.» (Heidegger
Martin La questione della tecnica in Saggi e Discorsi, Milano, Mursia 1976, pp. 5-27; ripreso da
D’Atri, Annabella (2008), La filosofia di fronte a natura e tecnica, BUR, Milano, p. 407, 408)
2.2.2.4.2. ma dalla tecnica può nascere un diverso rapporto con il reale: con il disvelarsi dell’essere.
La direzione ha una solida tradizione storica, quella secondo cui la tecnica era fortemente abbinata
ad arte e scienza; non se ne poteva staccare se voleva essere colta nella sua essenza e nella sua
funzione [tema ripreso e rifondato nella “torsione 3 e 4”].
«Il secondo punto da considerare circa la parola téchne è ancora più importante. Dalle origini fino
all’epoca di Platone la parola téchne si accompagna alla parola epistéme. Entrambe sono termini
che indicano il conoscere nel senso più ampio. Significano il «saperne di qualcosa»,
l’«intendersene». Il conoscere dà apertura. In quanto aprente, esso è un disvelamento. Aristotele, in
una trattazione particolare (Etica Nicomachea VI, 3 e 4) distingue la téchne e la epistéme in base al
che cosa e al modo del loro di-svelare. La téchne è un modo dello alethèuein. Essa disvela ciò che
non si pro-duce da se stesso e che ancora non sta davanti a noi, e che perciò può apparire e riuscire
ora in un modo ora in un altro. […] Una volta non solo la tecnica aveva il nome di téchne. Una
volta si chiamava téchne anche quel disvelare che pro-duce la verità nello splendore di ciò che
appare. Una volta si chiamava téchne anche la pro-duzione del vero nel bello, téchne si chiamava
anche la pòiesis delle arti belle [...]. Che cos’era l’arte? Cos’era, forse per brevi, ma sommi,
momenti della storia? Perché portava il semplice nome di téchne? Perché era un disvelamento producente e perciò faceva parte della pòiesis. […]
La tecnica è un modo del disvelare. La tecnica dispiega il suo essere nell’ambito in cui accadono
disvelare e disvelatezza (Unverborgenheit), dove accade l’alétheia, la verità. […] Anzitutto,
bisogna che cogliamo nella tecnica ciò che ne costituisce l’essere, invece di restare affascinati
semplicemente dalle cose tecniche. Fino a che pensiamo la tecnica come strumento, restiamo anche
legati alla volontà di dominarla. E in tal caso, passiamo semplicemente accanto all’essenza della
tecnica. Se però ci domandiamo come ciò che è strumentale dispiega il suo essere in quanto specie
particolare della causalità, allora potremo cogliere questo essere come il destino di un
disvelamento.» (Heidegger - D’Atri 2008, 410,416,414)
2.3. Concludi: nella varietà delle forme fenomenologicamente richiamate dall’analisi, l’aver-daessere è la specifica trascendenza dell’esserci: «…con l’analisi dell’essere-nel-mondo abbiamo
mostrato che alla costituzione ontologica dell’esserci appartiene la trascendenza. L’esserci stesso è
il trascendente. Esso si oltrepassa, cioè va oltre se stesso nella trascendenza. La trascendenza rende
possibile anzitutto l’esistere inteso come rapporto a sé in quanto ente, agli altri in quanto enti e
all’ente nel senso dell’utilizzabile o del sussistente. Perciò la trascendenza in quanto tale, nel senso
da noi interpretato, è la condizione di possibilità a noi più vicina della comprensione dell’essere, è
ciò che ci è più vicino, ciò rispetto a cui un’ontologia deve progettare l’essere.» (Heidegger
1927/1975, 310).
2.3.1. una proposta etica con radici ontologiche (a comporre il dualismo essere / dover essere) e una
trascendenza nel finito. La finitezza è il contesto dell’esserci come esser-nel-mondo, esser-per-lamorte; come sentieri non completati / indicati, segnavie. L’infinito è il modo di vivere la finitezza,
non un’esistenza in sé.
3. La "svolta" (Kehre): e-sistere nell'apertura (radura, Lichtung) dell'essere (terza
torsione dal 1934)
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«che in tale svolta l’oblio si volti in salvaguardia dell’essere invece di lasciare che la dissimulazione
avvolga questa essenza … la svolta dell’oblio dell’essere nella verità dell’essere». Una posizione
che apre e incoraggia un’altra direzione della filosofia contemporanea: la cultura dell’ascolto, da
questa impostazione prende impulso la filosofia ermeneutica del ‘900.
Heidegger analizza e affronta la cultura dell'oblio dell'essere entrando in polemica anche sul tema
dell’umanesimo che si presenta come una cultura “metafisica”: l’essere e l’uomo sono ridotti a ente,
considerati nella dimensione di oggetti, cose; la tecnica, in questo contesto, è dominio, la storia è
ricostruzione per la conferma del presente…
Occorre ricostruire una priorità: «ciò che prima di tutto «è», è l’essere»; occorre ripristinare le
condizioni del suo disvelamento / verità (ontologica, fenomenologica, ermeneutica) e pensare
dunque l’esistenza nella "radura", nel disvelamento (verità) dell'essere. La svolta, riferita all’uomo e
alla filosofia, è giocata su tre termini: pensiero, linguaggio, essere; dalla loro relazione l’essere
compare come verità, disvelamento (alètheia), pro-duzione (condurre fuori).
3.1. l’essenza dell’agire è pro-ducere: nell’agire del pensiero l’essere viene al linguaggio.
«Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire. Non si conosce l’agire
se non come il produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza
dell’agire, invece, è il portare a compimento (Vollbringen). Portare a compimento significa:
dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere.
Dunque può essere portato a compimento in senso proprio solo ciò che già è. Ma ciò che prima di
tutto «è», è l’essere. Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza
dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essente
soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel
pensiero l’essere viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita
l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a
compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al
linguaggio e nel linguaggio la custodiscono. Il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca
un effetto o una applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa. Questo agire è probabilmente il
più semplice e nello stesso tempo il più alto, perché riguarda il riferimento dell’essere all’uomo. Ma
ogni operare riposa nell’essere e mira all’ente. Il pensiero, invece, si lascia reclamare dall’essere per
dire la verità dell’essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare.» Heidegger Martin 1936
(corso),1949 (pubblicazione) Lettera sull’umanismo, Segnavia, Adelphi, Milano 1984, p.267-268
3.2. quindi “la svolta”. «Se si intende il «progetto» menzionato in Sein und Zeit come un porre di
tipo rappresentativo, allora lo si considera come un’operazione della soggettività, e non lo si pensa
nel solo modo in cui la «comprensione dell’essere» può essere pensata nell’ambito dell’«analitica
esistenziale» dell’«essere-nel-mondo», cioè come il riferimento estatico alla radura dell’essere.
Esperire in modo sufficiente e partecipare a questo pensiero diverso, che abbandona la soggettività,
è reso peraltro più difficile dal fatto che con la pubblicazione di Sein und Zeit la terza sezione della
prima parte, Sein und Zeit, non fu pubblicata. Qui il tutto si capovolge. La sezione non fu pubblicata
perché il pensiero o non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a
capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica. (Heidegger 1936/1949, 280-281)
Qual è dunque la svolta? Lo svelarsi dell’essere. Svelamento come uscita dall’oblio, traduzione
letterale del termine greco “alètheia”, solitamente tradotto con “verità”, qui inteso
etimologicamente: a-lètheia (alfa privativo + léthe = oblio, dimenticanza), uscire dalla
dimenticanza, il togliersi della dimenticanza. Detto in forma positiva: l’accadere l’apparire il
manifestarsi dell’essere (“to òn fàinetai”); il darsi o l’accadere dell’essere nel linguaggio, il darsi
nella parola (“to òn léghetai”); occorrerà specificare in quale parola, che non sia cioè quella
descritta nella chiacchiera e nel si dice, si pensa… (fenomenologia dell’esserci nella gettatezza in
forma di deiezione). La filosofia prende ora l’avvio non più dall’analisi fenomenologica delle
strutture ontologiche dell’esserci, ma dall’essere stesso non considerato nelle forme della metafisica
tradizionale che lo assumeva a oggetto della propria indagine, ma dell’essere nel suo disvelarsi,
apparire, venire alla luce, darsi… nel suo accadere, nella sua apertura. «…l’epoca dell’essere. Ciò
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che è propriamente non è affatto questo o quell’ente. Ciò che propriamente è, che dimora e sussiste
essenzialmente come proprio nell’è, è solo l’essere. […] Ciò che è non è affatto l’ente. Infatti
all’ente vengono accordati l’“esso è” e l’“è” soltanto nella misura in cui ci si rivolge all’ente avendo
riguardo al suo essere. Nell’“è” viene espresso l’“essere”; ciò che “è”, nel senso che costituisce
l’essere dell’ente, è l’essere.» (Heidegger M. La svolta, il Melangolo, Genova 1990, p. 23, 27) Con
la svolta occorre pensare l’essere non più come essere dell’ente, ma in se stesso, nella sua radicale
differenza dall’ente. (Volpi F., a cura di, Heidegger, Laterza Roma-Bari 1998, 47)
3.2.1. Sono le indagini sull’esserci e sulla sua intrinseca trascendenza, scritta nella sua essenza, nel
suo aver-da-essere, ad aver forse suggerito o indicato la strada della svolta. Ora l’essenza e la
trascendenza dell’esserci consiste nello stare nell’apertura dell’essere; stare fuori nell’apertura
dell’essere; l’essenza dell’uomo «accede propriamente al suo illuminare». Occorre ridefinire il
termine esistenza. (vedi 3.3.)
3.2.2. La svolta è qui il passaggio dall’analitica dell’esserci (condotta in forma di fenomenologia
ontologica) allo stare nelle verità (disvelamento) dell’essere. «Il problema della verità non è più
affrontato a partire dall’esserci e non è più associato al carattere “aperturale” proprio dell’esistenza.
Luogo della verità intesa come svelatezza non è più tanto la Erschlossenheit [apertura, “svelatezza”]
dell’esserci, ma è l’apertura, la radura (Lichtung) dell’essere stesso in cui di volta in volta l’esserci
si viene a trovare.» (Volpi 1998, 44)
3.2.3. Ma quella svolta è qualcosa di più radicale. È anche la riscrittura e definizione metodologica
dell’intera ricerca filosofica di Heidegger. Quella fenomenologia dell’esserci va rivisitata all’interno
della disponibilità dell’esserci a stare nell’e-sistenza, nel disvelamento dell’essere. «…che in questa
svolta l’oblio si volti in salvaguardia dell’essenza dell’essere invece di lasciare che la
dissimulazione avvolga questa essenza … la svolta dell’oblio dell’essere nella verità [disvelamento]
dell’essere»(Heidegger M. La svolta, il Melangolo, Genova 1990, p. 21)
«È nell’apertura formata dalla radura dell’Essere che si apre lo spazio-tempo in cui si colloca
l’esserci (Da-sein) dell’uomo. E la radura dell’essere non è sempre identica, ma muta a seconda
dell’accadere e del succedersi delle epoche della storia.» (Volpi 1998, 49) Non si dimentichi
l’Essere e Tempo: l’essere è consegnato alla temporalità, alla sua temporalità; la temporalità come
luogo del suo manifestarsi.
3.3. ri-definizione di esistenza. «L’uomo è, ed è uomo, in quanto è colui che e-siste. Egli sta fuori
nell’apertura dell’essere, la quale è come tale l’essere stesso che, in quanto getto, si è gettata e
acquisita a sè (erworfen) nella «cura» l’essenza dell’uomo. Gettato in tal modo, l’uomo sta «nell’»
apertura dell’essere. «Mondo» è la radura dell’essere in cui l’uomo sta fuori a partire dalla sua
essenza gettata. L’«essere-nel-mondo» nomina l’essenza dell’esistenza in riferimento alla
dimensione diradata (gelichtet) dalla quale l’«e» dell’e-sistenza dispiega la sua essenza (west).
Pensato a partire dall’e-sistenza, il «mondo» è in un certo modo proprio l’al di là entro e per l’esistenza. L’uomo non è mai anzitutto uomo, al di qua del mondo, come «soggetto», sia questo
inteso come un «io» o come un «noi». Inoltre egli non è mai solo un soggetto che si riferisce
contemporaneamente sempre a oggetti, cosicché la sua essenza starebbe nella relazione soggettooggetto. Piuttosto, nella sua essenza l‘uomo è innanzitutto e-sistente nell’apertura dell’essere, la
quale dirada quel «tra» (Zwischen) al cui interno può «essere» una «relazione» tra soggetto e
oggetto.» (Heidegger 1936/1949, 302)
Non è immediata la relazione tra soggetto e oggetto, ma è apertura creata nell’essere. Quindi la
nuova definizione di esistenza come "e-sistenza": "lo stare nella radura dell'essere, lo chiamo esistenza dell'uomo"; "in ordine al contenuto e-sistenza significa stare-fuori (Hin-aus-stehen) nella
verità dell'essere" o "lo stare-dentro-estatico nella radura dell'essere", stare nell'apertura dell'essere e
della verità. L’essenza dell’Esserci (dell’esistenza) non si configura (genericamente) come un averda-essere, o, meglio, l’aver-da-essere indicato in Essere e Tempo è qui declinato nella dimensione e
nell’atteggiamento dell’ascolto, stare nell’apertura, disvelamento dell’essere.
3.4. il linguaggio, l'essere e l'e-sistenza
«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i
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custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere;
essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono. »
(Heidegger 1936/1949, 267-268). (ripresa della citazione 3.1.)
«Ma l’uomo non è solo un essere vivente che, accanto ad altre facoltà, possiede anche il linguaggio.
Piuttosto il linguaggio è la casa dell'essere, abitando la quale l'uomo e-siste, appartenendo alla verità
dell'essere e custodendola. Così, nella determinazione dell’umanità dell’uomo come e-sistenza, ciò
che importa è allora che l’essenziale non sia l’uomo, ma l’essere come dimensione dell’estaticità
dell’e-sistenza.» (Heidegger 1936/1949, 287)
«L’essere è la protezione che, per la sua verità, protegge l’uomo nella sua essenza e-sistente, in
modo da fare dimorare l’e-sistenza nel linguaggio. Per questo il linguaggio è ad un tempo la casa
dell’essere e la dimora dell’essere umano.» (Heidegger 1936/1949, 312)
Destino - compito dell'uomo (come Esserci, essere-nel-mondo la cui essenza è aver-da-essere) è
porsi in ascolto e custodire l’accadere (il manifestarsi, lo svelarsi, la verità) dell'essere nel
linguaggio; svelarsi dell’essere nel linguaggio e ascolto che chiariscono il senso dell’essere-nelmondo: «Il pensiero lavora a costruire la casa dell’essere; in quanto è tale casa, la compagine
(Fuge) dell’essere dispone di volta in volta secondo il destino l’essenza dell’uomo nel suo abitare
nella verità dell’essere. Questo abitare è l’essenza dell’«essere-nel-mondo» (cfr. Sein und Zeit).»
(Heidegger 1936/1949, 309)
Il mondo (la realtà, l’essere) non si riduce al modo in cui l’uomo (l’Esserci, l’esser nel mondo) ne
parla. In tal caso quando l’uomo parla del mondo parlerebbe del suo parlare del mondo, il discorso
si chiude su se stesso, il linguaggio si imbozzola nella sua casa fittizia. Nella parola accade l’essere
in quanto la parola è apertura e radura dell’essere e non viene trasformata in chiacchiera
dell’Esserci. Occorre vivere il linguaggio come radura dell’essere e stare nel linguaggio come
nell’accadere dell’essere. Se la filosofia puó essere ancora una guida lo è in quanto sa costruire
(ricostruire) le condizioni dell’essere nel suo manifestarsi; manifestarsi che è la realtà.
4. Il linguaggio, stare nell’apertura (radura Lichtung)dell’essere o frequentare il
linguaggio. (o torsione linguistica ermeneutica dell’ontologia; quarta torsione)
«…il componimento, inteso come parola che noi non abbiamo davanti, ma che a partire da sé deve
accoglierci nello spazio della sua verità… Frequentazioni della parola non sono mai possibili; sarà
invece la parola a "trovarci" o a "trascurarci"»
4.1. premessa sul linguaggio: non semplice strumento, ma il prender forma e lo svelarsi della realtà
(l’essere accade nella parola o il darsi dell’essere alla parola, secondo l’ardita traduzione che
Heidegger compie del passaggio di Aristotele, Metafisica IV, to òn léghetai). Nella filosofia
contemporanea, e non solo, il linguaggio non è più inteso come semplice strumento di
comunicazione tra parlanti o di trasmissione dei pensieri in segni (vocali o scritti). Non è certo il
linguaggio a far esistere la realtà (questa è semmai la concezione mitica e magica della parola) ma è
il linguaggio a definire la realtà secondo senso e ad indicare quella che è per noi la natura o
l’essenza della realtà, a programmarne, di conseguenza, il rapporto d’uso e di consumo economico
o culturale. Del resto l’apprendimento del linguaggio è esperienza del mondo e prassi di
orientamento nella realtà; imparare una nuova lingua non è solo possedere un nuovo strumento
espressivo ma entrare in una nuova visione della realtà. Il linguaggio è l’apparire, il manifestarsi, il
disvelarsi, la verità dell’essere.
4.2. l’arte, la poesia, una sede privilegiata e prima del linguaggio, della parola nella sua funzione
di svelamento (verità), accadere dell’essere; il mettersi-in-opera della verità dell’essente, sottratto al
destino di cosa; il conseguente ruolo della filosofia. «Il parlato della poesia costituisce il dettato
d’origine “stanziandolo” come il fermamente detto alla parola». Note: intorno alla poesia (le
citazioni a presentazione dei binomi sono tratte da Heidegger Martin, L'inno Andenken di Hölderlin,
ed. Mursia, Milano 1997; e da Heidegger Martin, Trakl Georg Il canto dell’esule, Marietti, Milano
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2003; il connesso Heidegger Martin, La parola nella poesia; Heidegger Martin L’origine dell’opera
d’arte, Bompiani, Milano 2002)
4.2.1. la parola del poeta è inizio (parola ortiva): "Basta averle dato ascolto per una volta, perché
facilmente da quel momento in poi le "introduzioni" estese diventino per noi un impedimento. Ma
se una volta siamo riusciti a darle ascolto, è stato solo dopo un lungo cammino. Percorrere questo
cammino significa lasciarsi alle spalle molte di quelle cose che ci sono abituali e che probabilmente
sono per noi una luce, significa rinunciare alle mete che possono essere raggiunte rapidamente e alle
speranze che non contano nulla" .
4.2.2. nella poesia la parola supera il suo dire (poiché è parola ortiva): "La parola del poeta e quel
che in tale parola è poetato superano poetando il poeta e il suo dire. Quando attribuiamo "alla
poesia" questo carattere, ci limitiamo sempre alla poesia essenziale. Essa soltanto compone
poeticamente cose iniziali, essa soltanto svincola cose originarie in vista del loro proprio avvento".
Dunque: la parola della poesia è parola ortiva.
4.2.3. l'ascolto: "Ma la parola può essere solo a partire da se stessa e può essere solo parola; quindi
solo la parola può "avere la parola"… Ascoltare, infatti, non è soltanto percepire la parola.
Ascoltare è in primo luogo concentrare l'attenzione… siamo tra quelli che aspettano"
4.2.4. i binomi ossimorici che rendono la poesia la radura dell’essere, il suo giungere dell’essere
alla parola e il luogo dell’e-sistenza come stare fuori nel.
4.2.4.1. pluralità - unità
"È tratto proprio della parola poetante quello di vibrare in una pluralità di significati che si coglie
come una proprietà… La ricchezza di ogni parola genuina, ricchezza che non è mai una dispersa
molteplicità di significati, bensì l'unità semplice dell'essenziale, ha il suo fondamento nel fatto che
tale parola nomina qualcosa di iniziale, ed ogni inizio è inesauribile ed unico nel contempo"
4.2.4.2. ricchezza - semplicità
"La ricchezza della parola poetante non è tuttavia in contrasto con la sua semplicità. La ricchezza di
questa parola non è mai altro che l'adempimento della semplicità. … Del tratto celebrativo fa parte
lo splendore. Propriamente, però, lo splendore deriva dal rilucere ed apparire dell'essenziale. Non
appena risplende l'essenziale, tutto, nelle cose e nelle persone, entra, sciolto dai vincoli, nel suo
splendore, e lo splendore, a sua volta, esige l'ornamento e che ci si orni. Non accade mai, però, che
gli ornamenti producano di per sé lo splendore della celebrazione"
4.2.4.3. indefinito - rigoroso
"Il pensiero della parola poetante risiede completamente al di fuori dell'opposizione di "esatto" e
"inesatto", e tuttavia possiede un rigore suo proprio"
4.2.4.4. agire - senza effetti
"Si apre qui un proprio spazio di un agire storico che non ha bisogno dei "fatti" per produrre effetti
e non ha bisogno degli "effetti" per essere"
4.2.4.5. immagini – pensiero (immagini del pensiero; le immagini precedono, generano e
sorreggono il pensiero)
"Siamo tentati di dire che sole e vento sono "fenomeni naturali", ai quali poi si assegna "anche" un
qualche altro significato; sole e vento sono per noi dei "simboli". Quando parliamo e ragioniamo in
questo modo, diamo per assodato di conoscere "il" sole e "il" vento "in se stessi". Crediamo che
anche i popoli e gli uomini antichi abbiano "dapprima" conosciuto "il sole", "la luna" e "il vento",
per poi utilizzare questi presunti "fenomeni naturali" come "immagini" di certi mondi nascosti.
Come se non fosse vero il contrario, ossia che sono "il sole" e "il vento" a diventare fenomeni
sempre a partire da un "mondo" e ad essere quel che sono solo in quanto, a partire da questo
"mondo", sono messi in poesia, senza affrontare il problema di chi sia a mettere in poesia. … la
teoria dell'"immagine" nella poesia, la teoria della "metafora", non apre alcuna porta nell'ambito
della poesia innica hölderliniana e non ci conduce ad alcuna soluzione. Un'unica considerazione è
qui sufficiente: anche le "cose stesse", prima di diventare dei cosiddetti "simboli", sono già
comunque in poesia"
4.2.4.6. essere (stare) - apparire (l’essere come puro presentificarsi)
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"…le cose… stanno ora nello splendore della parola poetante, stanno e appaiono [stanno
nell'apparire; il loro stare è apparire; il loro essere, la loro essenza, è apparire], cosicchè il poeta
d'ora in poi può volgersi con il pensiero verso il loro essere, benchè egli sia lontano…"
4.2.4.7. festa - attesa
"Quanto più solenne è il giorno celebrativo, ossia quanto più grande è l'attesa dell'inconsueto, tanto
più ci si scoglie dai vincoli del consueto. Quanto più ci si scioglie da questi vincoli, tanto più ci si
atteggia in modo vibrante e aperto".
4.3. il compito della filosofia (ermeneutica); l’incontro del poetare con il filosofare.
La filosofia imposta se stessa come ermeneutica ontologica dell'accadere dell'essere nel linguaggio;
con il compito di accompagnare l’uomo come esserci, esser-nel-mondo, mantenerlo nella radura
dell’essere sostenendolo nell’ascolto operante. Poichè il testo poetico conserva la parola nel suo
punto ortivo, rappresenta l’essere nel darsi alla parola, la realtà che si dà alla parola, si manifesta nel
linguaggio, la filosofia evidenzia nel testo poetico l’accadere dell’essere e sostiene il movimento
dell’esistenza definito nei vari modi: stare fuori nel, puntualizzare, immettere nel cammino, ascolto
del dis-velarsi; e indicato con il ricorso a ossimori che indicano uno stare come trascendersi, un
abitare come sentirsi in esilio, un pensare che è un domandare, un dire che è un mostrare il silenzio
o ciò che non può essere detto. In citazioni: “l’esilio come punto ortivo del dettato d’origine”,
“stanziarsi nell’esilio”, “Ecco: l’anima è un’indole estranea sulla terra”, “Il parlato della poesia
costituisce il dettato d’origine stanziandolo come il fermamente disdetto alla parola”, “il domandare
è la pietà del pensare”…
4.3.1. L’infinito (dell’arte, della filosofia, dell’etica, dell’esserci, dell’e-sistenza) come modo di
vivere il finito, fuori o alla fine di umanistiche filosofie antropocentriche (e come da sensibilità
romantica ed hegeliana).
“Il migrare entro la sua notte è ‘infinito tormento’. Il che non ha niente da spartire con una pena
senza fine. L’infinito è ciò che resta esente da ogni sconfinamento e da ogni sfinimento. L’infinito
tormento è il dolore perfettamente finito, cioè compiuto, giunto a se stesso: è il dolore che
raggiunge la pienezza del proprio stanziarsi”. (Heidegger, La parola nella poesia, 353)
4.3.2. L’infinito nella parola finita come sede in cui l’essere si dà alla parola evidenziandosi come
ciò che non può essere detto definitivamente e che richiede l’ascolto. Nel senso dell’e-sistenza:
«Noi siamo appesi ad una frase che è il proprio commento interminabile, e noi tutti siamo la nostra
stessa discussione, siamo la versione di un’esistenza che si complica raccontandosi. Solo allora ci
muoviamo, quando rimaniamo fermi sulla frase che è il nostro infinito commento, noi siamo
l’esistenza di un commento che racconta l’interminabilità di ogni commento, e sarà per questo che
per scrivere e raccontare l’unica cosa che non conta è il punto dal quale si incomincia, non c’è alcun
inizio e non c’è alcuna fine; siamo noi e la nostra stessa esistenza il flusso di una frase interminabile
che si complica commentandosi, e sarà anche per questo che non conta o che non ha alcun destino
un pezzo isolato di questa frase, che non ha rilevanza lo stato immobile della nostra frase, e che
invece l’unica realtà di una frase è il suo capovolgersi nel corso del commento che essa svolge di se
stessa in modo interminabile. Che una frase dica qualcosa di più e di diverso da quello che dice,
questo è l’enigma e insieme il destino della nostra esistenza quando ci mettiamo a scrivere la nostra
vita; noi diciamo una frase e contemporaneamente ne intendiamo molte altre che sono ramificate
nella prima, la nostra vita è la progressione inarrestabile di una frase che si complica, che
contraddice se stessa, noi diciamo una frase e non ci rendiamo conto che questa frase è un destino
infinito di frasi, che si sovrappongono le une alle altre e si complicano, e poi non se ne vede la
fine.» (Gargani G. Aldo 1990 L’altra storia, A.Mondadori, Milano, p. 45-46)
4.3.3. Linguaggio: appello ascolto e riconoscimento (come commento). «Se io mi racconto, e mi
racconto a te, allora la mia narrazione dipende da una struttura interlocutoria, da un rivolgersi. Ma
se posso rivolgermi a te, devo essere già stata interpellata, trascinata in una struttura interlocutoria
che è possibilità del linguaggio, prima ancora di riuscire a trovare un mio modo di farne uso. Ciò
deriva dal fatto che non solo il linguaggio appartiene sempre prima all'altro, e io lo acquisisco
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attraverso una complicata forma di mimesi, ma anche la stessa possibilità di agire linguisticamente
scaturisce da una situazione in cui si viene interpellati da un linguaggio che non si è mai scelto.»
(Butler Judith 2005, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, 75)
4.3.4. Riprendendo dall’inizio per concludere: «Heidegger ha voluto che la raccolta completa dei
suoi scritti recasse il motto “Sentieri, non opere”. L’essere in cammino lungo piste che conducono
nel fitto bosco, ma che ad ogni svolta possono immettere nella radura, nella Lichtung dove nuova e
inattesa luce si fa incontro a chi si è avventurato lungo il difficile percorso: è questa la metafora che
Heidegger ha privilegiato per esprimere il senso del suo pensare.» (Gadamer Hans Georg 1983 I
sentieri di Heidegger, Marietti, Genova 1987 risvolto di copertina) e della filosofia.
4.3.5. Nota di riflessione senza fine (provvisoria e fuori contesto per ora): la doppia rilevanza di
Heidegger nella filosofia del ‘900. 1. La direzione della filosofia verso nuovi sentieri (esistenza,
esserci, mondo, tecnica, linguaggio, ontologia), 2. La cecità della filosofia (tra isolamento e
sostegno) nei confronti della tragedia dei totalitarismi del secolo (nazismo e fascismo).
4.4. il compito (la natura) dell’arte (l’origine e la natura dell’arte in fenomenologia esistenziale)
Il testo di riferimento principale è il saggio: Heidegger Martin, L’origine dell’opera d’arte, in
Holzwege, Sentieri erranti nella selva, ed. Bompiani, Milano 2002.
4.4.1. Arte e manifestarsi dell’essere. Arte e uscita della cosa dalla metafisica per una ontologia.
L’arte ci allontana dallo sguardo sulla realtà dominato dal concetto di cosa; ci porta ad abbandonare
lo sguardo metafisico per uno sguardo ontologico, dell’essere che si manifesta nell’essente.
Nell’arte viene alla luce con interezza l’affidarsi dell’Essere all’essente, lo svelarsi, l’accadere
dell’Essere nell’essente e in esso, viceversa e di conseguenza, l’accadere della verità, del
disvelamento dell’Essere. Tre modelli di gestione quotidiana e filosofica del percepire.
4.4.1.1. Descrizione percettiva metafisica: la cosa (o il procedimento di sintesi passiva di struttura
sostanziale metafisica). Per esigenza ed abitudini quotidiane tendiamo immediatamente a leggere
nelle sensazioni sostanze, cose, oggetti; soprattutto oggetti noti e tendiamo a riportare sensazioni
inconsuete a concetti comunque abituali; sentendo una voce individuiamo la presenza di una
persona, un rumore ci segnala lo sbattere di una porta… «Nell’apparire delle cose noi non
percepiamo mai, innanzitutto e propriamente, un flusso di sensazioni, per esempio suoni e rumori;
noi udiamo l’aereo trimotore, udiamo la Mercedes nella sua immediata differenza dalla Adler. Le
cose stesse ci sono molto più vicine di qualsiasi sensazione. Udiamo sbattere la porta di casa, e non
udiamo mai sensazioni acustiche o anche soltanto meri rumori. Per udire un rumore puro dobbiamo
non più udire le cose, distogliere da esse il nostro orecchio, cioè udire in modo astratto.»
(Heidegger, L’origine, 16) E si avvia qui la strada per una diversa descrizione dell’esperienza
percettiva: l’analisi fenomenologica empirica.
4.4.1.2. Descrizione percettiva fenomenologica (di carattere empirico): i sensibili. Astrarre dalla
cosa – sostanza, metafisicamente percepita come unità di sostegno delle qualità percepite e seguire
il corso della sensibilità nel continuum e nella varietà delle forme in cui si dà nell’esperienza. La
cosa stessa cessa di pretendere per sé una priorità di sostegno e di esistenza riducendo le cosiddette
qualità ad accidentalità. «Non si giunge mai ad una cosa finché le assegniamo come sua cosalità ciò
che viene percepito mediante le sensazioni» (Heidegger, L’origine, 16)
L’esperienza è formata da un continuum sensibile di successione e di legami; come accade nella
musica: una sensibilità staccata dalla cosa e segnata da una propria logica costituente così descritta
da Edmund Husserl: «Quando risuona una nuova nota, quella precedente non è che sia dileguata
senza lasciare traccia, altrimenti non saremmo neppure in grado di rilevare i rapporti delle note che
si susseguono, avremmo cioè una nota per ogni attimo, eventualmente una pausa vuota
nell’intervallo di battuta tra due note, ma mai e poi mai avremmo la rappresentazione di una
melodia. D’altra parte non è che ci si possa accontentare del persistere delle rappresentazioni delle
note nella coscienza. Se queste rimanessero immodificate, invece di una melodia avremmo un
accordo di note simultanee o, piuttosto, un’accozzaglia disarmonica di note, così come la
otterremmo se rintoccassero simultaneamente tutte le note che fossero già risuonate. La
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rappresentazione di una melodia può avvenire solo attraverso quella caratteristica modificazione per
cui ogni sensazione di nota, dopo che è dileguato lo stimolo corrispondente, risvegli una
rappresentazione simile e provvista di una determinazione di tempo, che a sua volta si modifica
progressivamente nel tempo mantenendo i singoli suoni nella loro posizione determinata e nella
loro determinata misura di tempo.» ( Husserl Edmund, La coscienza interiore del tempo, ed.
Filema, Napoli 2002) Il tempo della musica come esperienza percepita, e in generale il movimento
della specifica razionalità della percezione (non solo musicale quindi ma anche visiva, tattile… se
queste percezioni non vengono immediatamente consegnate alla natura metafisica di qualità delle
cose), è segnato dalla dialettica continua di percezione, rappresentazione, dileguarsi, abbandono e
ripresa che determina e si accompagna ad un suo modificarsi e prendere posizione e senso dentro
percorsi in definizione continua e aperta. La nota non dilegua, non persiste, si modifica nel tempo,
nel tempo della musica; persiste in un dileguamento di modifica. La sequenza abbandono e
“ripresa” (ripresa e non “ricordo”), propria del tempo delle percezioni, è la trama precategoriale
dell’esperienza a partire dal momento iniziale dello sguardo fino al momento considerato finale
quando quello sguardo precipita poi nella rigidità fissa dell’oggetto o della cosa data come oggetto
immediato del percepire stesso (non dico: sento un rumore… ma sento una macchina; non dico:
percepisco un verde cangiante… ma vedo una montagna; ecc.); una confluenza delle sensazioni
nell’unità dell’oggetto che attua però una uscita dell’oggetto dall’arte, in quanto esso, sottratto al
continuo del suo apparire, tende ad essere definito da un concetto e a porsi come statica e inerte
cosa, come ente posto prima del suo disvelarsi (della sua verità).
4.4.1.3. Descrizione percettiva e arte: l’arte è una materia formata. L’arte restituisce al sensibile i
caratteri dell’apparire dell’essere (dell’essere come apparire: to òn fàinetai) e, contestualmente,
all’essere il processo del suo disvelamento, della sua verità (alétheia, il togliersi dal
nascondimento). L’oggetto d’arte è materia formata ma sulla base di una perenne oscillazione tra
due poli tradizionali propri del concetto di cosa, sostanza, oggetto; cioè tra materia e forma. Si tratta
di una oscillazione cui l’arte deve la propria autonomia e la propria essenza.
4.4.2. Autonomia dell’arte nel binomio materia e forma. Nel binomio materia – forma si colloca
l’autonomia, e quindi l’autoreferenzialità dell’arte (come sul binomio materia – forma Aristotele
costruisce il concetto di sostanza, cioè l’autonomia prima dell’essere in quanto essere). «cosa sia
l’arte lo assumiamo in base all’opera; se l’opera è d’arte lo assumiamo in base all’arte» (Heidegger,
L’origine, 6); dunque una situazione di circolarità ben chiarita dall’ermeneutica e struttura logica
formale indispensabile per garantire l’autonomia dei diversi ambiti scientifici; così come nella
poesia, la parola «a partire da sé deve accoglierci nello spazio della sua verità»; «Ma la parola può
essere solo a partire da se stessa e può essere solo parola; quindi solo la parola può "avere la
parola"».
Il tema dell’autonomia dell’arte presentato come la caratteristica dell’arte di essere fonte dei propri
significati ricorre con frequenza nella riflessione storico filosofica, pur espresso con motivazioni
diversamente impostate; due richiami: Hegel, Heidegger.
4.4.2.1. Hegel supera le tesi di una dipendenza dell’arte da altri campi (come la sua dipendenza
mimetica dalla natura, o la sua dipendenza interpretativa fornita dalla ragione) presentandola come
espressione immediata e in forma sensibile dello Spirito Assoluto. In quanto tale l’arte esprime o
genera senso non attraverso rimandi a contenuti esterni a sé ma in forza dei contenuti della propria
forma; nell’arte la forma è contenuto, i significati dell’arte sono i significati della forma; essa è
infatti il manifestarsi dell’Assoluto in unicità sensibili formali che fissano l’Assoluto in istanti
eterni, unici e irripetibili.
4.4.2.2. Heidegger prende in considerazione l’arte nella sua concretezza produttiva; da questo punto
di vista anche l’arte è cosa, oggetto, ha una propria materialità e un propria forma, ma nell’arte la
materia è nella forma del puro comparire, del puro presentificarsi (parola, immagine, suono). Il
rapporto materia – forma è rovesciato nei confronti della tesi di Hegel: non è la forma (lo Spirito)
che si manifesta in forma sensibile, ma la materia che accade nella forma; è materia nella forma del
puro comparire, per se stessa.
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Questa definizione dell’arte acquista chiarezza attraverso un confronto tra oggetto d’arte e oggetto
quotidiano, nello specifico con un oggetto tecnico che ha in comune con l’arte la sua natura poietica
(si tratta per entrambi di un prodotto dall’uomo).
Anche l’arte è cosa (è merce… come sanno bene i mercanti d’arte privati o pubblici). Questo esser
cosa (perciò materia e forma) dell’arte, quindi la parentela che essa ha con le cose quotidiane e con
gli oggetti comuni della tecnica e dell’uso, colloca l’arte in vicinanza e similitudine con l’oggetto
d’uso, ma la colloca anche nella possibilità di “redimere” l’oggetto, ogni oggetto, nelle forme
artistiche. La tecnica gestisce la materia nella forma dello strumento destinandola all’utilità e così
non presenta l’oggetto-strumento per se stesso, ma lo nasconde in quanto il mezzo o lo strumento
cede la scena al fine, all’operazione che esso rende possibile, al risultato che produce. Heidegger
dedica un’attenzione particolare al quadro di Van Gogh che ritrae le scarpe di una contadina. «La
contadina porta le scarpe nel campo. Solo qui esse sono ciò che sono. Lo sono tanto più
schiettamente quanto meno la contadina, lavorando, pensi alle scarpe, le guardi oppure anche solo
le senta» (Heidegger, L’origine, 26) E si tratta fin qui di una analisi metafisico-fenomenologica che
mette in luce, delle scarpe, la strumentalità, l’utilità, l’affidabilità, l’operosità…ma si tratta di aspetti
le collocano anche “nell’ascosità”, nella non attenzione, nella non presa in considerazione. A
guidarci invece verso l’essenza di quell’oggetto, a far comparire quelle scarpe per se stesse e
rendere così la loro materialità una forma o espressione o un mostrarsi, presentificarsi e, come tale,
una manifestazione dell’essere o apparire dell’essere o verità (uscita dal nascondimento), è proprio
la loro presenza (il loro presentificarsi) in un’opera d’arte per la natura specifica dell’arte. «Il
quadro di Van Gogh è l’apertura inaugurale di ciò che lo strumento, il paio di scarpe contadine, è in
verità. Questo essente esce nell’inascosità [disvelamento] del suo essere. L’inascosità dell’essere i
Greci la chiamavano alétheia [verità]. […] giunge nell’inascosità l’essente, nella sua interezza: la
verità» (Heidegger, L’origine, 28, 52). Dunque, anche l’arte è cosa, perciò materia e forma, ma qui
la cosa è un apparire, un mostrarsi alla sensibilità (un aisthetòn), «è percepibile nei sensi della
sensibilità» ed è un apparire per se stessa.
Ripresentando la differente situazione della materia nello strumento e nell’opera d’arte, Heidegger
osserva: «Lo strumento, in quanto determinato dalla servibilità e utilità, prende al proprio servizio
ciò di cui esso consiste, la materia. La pietra viene usata e usurata nella fabbricazione dello
strumento, per esempio della scure. La pietra svanisce nella servibilità. La materia è tanto migliore e
adatta, quanto più si eclissa senza resistenza nella strumentalità dello strumento. L’opera [l’opera
d’arte, es. un tempio], al contrario, in quanto espone un mondo, non lascia svanire la materia, ma la
lascia venir fuori per la prima volta, e invero la fa pro-venire e ad-venire nell’aperto del mondo
dell’opera. La rupe viene a portare e a quiescere, e solo così diviene rupe, i metalli vengono a
luccicare e scintillare, i colori a rilucere, la nota a risuonare, la parola a dire […] e ciò perché
l’opera si ripone nella massa e pesantezza della pietra, nella durezza e nello splendore del metallo,
nella luce e nell’oscurità del colore, nel suono della nota, nella forza nominativa della parola.»
(Heidegger, L’origine, 40-41)
4.4.3. La dialettica dell’arte in un percorso segnato dalla diversa collocazione nella polarità materia
– forma. L’oscillazione tra forma e materia in cui l’arte è posta, segnata, nella sua logica, da una
continua variata e talora estrema posizione tra i due poli, dà vita ad uno specifico processo
ambivalente. Per un verso, la forma si impone quasi per se stessa occultando la materia come in suo
disprezzo (il barocco), ma non può prescindere dalla materia, presenta dunque una materia
sublimata; per un altro verso, la forma tende a farsi sempre più materia, tende a presentare la
materialità fisica prima nel suo costituirsi formale in oggetto che pur mostra sé (arte informale,
materica), non può prescindere dalla forma, per mostrarsi, ma qui la forma tende a presentificare la
materia quasi per se stessa.
Quella di avvicinare il più possibile materia e forma si presenta dunque come una sfida che
caratterizza, idealmente, l’intero percorso produttivo dell’arte. Le modalità attivate sono plurime: 1.
Nell’arte dar forma e vita, rappresentare il percepire (come: Monet, Cattedrale di Rouen; Cèzanne,
Mont Saint-Victoire; Duchamp, Nudo che scende le scale, Picasso, Dora; Mondrian, Albero); 2.
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rendere materia la forma, riportare la forma a una immediata e brutale materialità ancora priva di
forma definita (secondo i canoni più diffusi; come: il confronto Velasquez e Bacon, Innocenzo X;
David e Vik Muniz Tiao, uccisione di Marat); 3. Gestire le forme ponendone in discussione la
museale sacralità, dissacrandole (Duchamp e altri in ripresa della Gioconda, Magritte in ripresa
“macabra” di Monet e David), riutilizzandole nella dimensione dell’utile come a porle al servizio di
merci e del loro mercato (tecniche pubblicitarie: immagini in ripresa delle opere: la deposizione, di
Raffaello, l’ultima cena, di Leonardo, il bacio, di Hayez…).
4.4.4. L’arte come apparire dell’essere e il ritorno dell’incontro tra arte ed ontologia ma restando nel
campo dell’estetica. Un’estetica di carattere metafisico ontologico (come una ripresa
dell’affermazione di Sofocle «Pánta gar kairò kalá» (tutte le cose belle accadono al momento
giusto o “tutto ciò che è bello, è tale se accade nel momento opportuno”). L’essenza dell’arte è «il
mettersi-in-opera della verità dell’essente. […] finora l’arte ha avuto a che fare con il bello e la
bellezza, e non con la verità.» (Heidegger, L’origine, 29) Dunque l’opera d’arte è apertura
inaugurale, cioè disascondersi, verità dell’essente. Nell’arte vengono a legarsi e fondersi bellezza,
essere, verità, uniti nelle parole, indicative di processi, di inascosità, disvelamento, accadere.
(Heidegger, L’origine, La verità e l’arte, 55-80). Ancora con riferimento alla riflessione condotta
sulle scarpe contadine nell’opera di Van Gogh, Heidegger afferma: «Cosa sia lo strumento, lo
abbiamo lasciato dire a un’opera. Così è venuto alla luce – tra le mani, per così dire – ciò che
nell’opera è all’opera: l’apertura inaugurale dell’essente nel suo essere: l’accadimento della verità.»
(Heidegger, L’origine, 31)
4.4.4.1. Di riflesso, nell’arte, nell’esperienza artistico / estetica, torna il tema centrale dell’e-sistenza
come star fuori nella radura, nell’accadere dell’Essere. «Un’opera infatti è reale come opera solo
quando noi stessi ci deradichiamo dalla nostra abitudinarietà e ci irradichiamo in ciò che viene
inauguralmente aperto dall’opera, al fine di condurre la nostra stessa essenza a stanziare nella verità
dell’essente.» (Heidegger, L’origine, 76).
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