CANTO XXVIII° PARADISO Con il canto XXVIII ci troviamo al confine

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CANTO XXVIII° PARADISO
Con il canto XXVIII ci troviamo al confine del mondo, in quel cielo cristallino che avvolge tutte le
sfere celesti. Già dal canto precedente sapevamo che questo cielo (o primo mobile), non è contenuto
se non dalla mente di Dio “luce e amor d’un cerchio lui comprende” e il suo movimento non è
determinato da un altro, ma scandisce la misura degli altri movimenti. Il canto si chiudeva con lo
sguardo di Beatrice rivolto all’umanità deviante, la sua rampogna e il presagio del suo recupero (la
misericordia di Dio).
Abbiamo visto il trionfo di Cristo, il trionfo di Maria e dell’umanità, non poteva mancare il trionfo
degli angeli che occupano lo spazio di ben due canti: il XXVIII e XXIX. Ciò che Dante presenta nel
XXVIII del Paradiso “è una vera e propria spiegazione dottrinale in merito alla disposizione delle
gerarchie degli angeli che il poeta aveva collocato nei cieli assieme alle anime dei beati”
(D.Sbacchi). E’ per questo che una disciplina come l’angelologia studia un canto come il XXVIII
del Paradiso.
L’apertura del canto, di un sublime paradisiaco, si lega al canto precedente.
Vv. 1-12
Poscia che 'ncontro a la vita presente
d'i miseri mortali aperse 'l vero
quella che 'mparadisa la mia mente,
come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n'alluma retro,
prima che l'abbia in vista o in pensiero,
e sé rivolge per veder se 'l vetro
li dice il vero, e vede ch'el s'accorda
con esso come nota con suo metro;
così la mia memoria si ricorda
ch'io feci riguardando ne' belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.
V. 1: contra = in antitesi
V. 2: miseri mortali = espressione virgiliana
vero = parola tematica al centro della terzina (Contini)
V. 3: perifrasi con “imparadisa” parola parasintetica di conio dantesco; Beatrice come teologia o
come donna che esalta a gioie paradisiache
V. 4: inizio di similitudine
“doppiero” = omaggio al Guinizzelli
V. 6: c’è un’allitterazione non casuale tra la soggettività (vedere) e l’oggettività (vero) di cui lo
specchio costituisce la mediazione
Vv. 7-8: in questi versi abbiamo tre volte la ripetizione delle consonanti v r e tre volte con il verso 4
la ripetizione del verbo vedere. Dante danteggia come dice Sermonti. Tutto concorda ad
accentrare la nostra attenzione sulla visione del vero che costituisce, come dice Contini, il
primo movimento del canto
Ci sono 4 parasintetici di cui “inverare” è usato 6 volte, “vedere” 14 volte
V. 12: “fare la corda” = espressione tipica della poesia erotico-cortese
“corda” = laccio, rete, ritorta del prigioniero, quasi fossimo in presenza dell’agudeza
trobadorica del catturato con l’etimologia di amore da amo, ma qui Amore non è la banale
ipostasi cortese ma è l’amore infinito di cui Dante è oggetto.
Dunque tutto il canto è improntato alla “drammatica ricerca del vero” ma il vero non è solo il vero
teologico (e qui Dante corregge se stesso rispetto al Convivio) e il vero storico, ma il vero è Dio (la
via, la verità, la vita) e solo così si può spiegare la missione escatologica e profetico-educativa che
ancora una volta lo avvicina a Paolo. Già da Inf. II 28-30 Dante cita Paolo e poi in Pd XV 28-30
dove Cacciaguida si chiede a chi oltre che a lui sia stato concesso di visitare due volte il Paradiso
“O sanguis meus …… cui bis umquam coeli ianua reclusa?” e poi nel cielo delle stelle fisse dove
Dante perde temporaneamente la vista per aver fissato troppo intensamente la luce di San Giovanni
e Beatrice gliela ridarà col suo sguardo come Anania guarì San Paolo folgorato sulla via di
Damasco. Alla base di questo parallelismo c’è non solo l’importanza di Paolo nella teologia
cristiana ma anche la considerazione che la rivelazione della verità nella conoscenza delle cose
celesti è fondamentale in quanto la sola ragione (speculazione filosofica come nel Cv) è
insufficiente. Per questo vedremo che Beatrice illustrerà l’ordine delle gerarchie celesti basandosi
su Dionigi che si sarebbe rifatto al suo maestro San Paolo che nella sua esperienza mistica le aveva
viste. Non dimentichiamoci che la Commedia è un libro ispirato “il poema sacro / al quale ha posto
mano e cielo e terra”.
Vv. 13-21
E com' io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s'adocchi,
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.
V. 13: Dante prima vede la luce attraverso la mediazione di Beatrice, poi direttamente
“volume”: ciò che avvolge, è il cielo che cinge tutti gli altri
Si passa dal “per specolum” al “facies ad faciem” (lettera ai Corinzi): Dante è titolare della
nuova “visio Paoli”.
V.15: “quandunque” si presenta il problema se la visione sia reale o solo immaginata, ma tutto
concorda per la prima ipotesi. Il giro è certamente il cristallino da cui, secondo alcuni, Dante
può vedere l’Empireo, sede di Dio e degli angeli. Non si può certo pensare che Dio sia nel
cristallino e il “quandunque” resta un problema irrisolto come altri nella Commedia.
Sermonti lo riferisce a “l’itinerario della mente a Dio”
V. 16: “un punto” Dio; il pellegrino non lo sa, forse lo intuisce, ma lo sa il poeta. La massima realtà
(Dio) è figurata da un punto, mentre nel mondo sensibile si misura in grandezza. E’ questa
una grande invenzione dantesca. Il punto è incommensurabile eppure tutto misura. Dante
sceglie una figura geometrica e la geometria tornerà in Pd. XXXIII 133-135 per significare il
massimo dei misteri ma è ritrovabile nella tradizione filosofica da Tommaso a Boezio. E’ il
primo incontro di Dante con Dio
Vv. 15-17: insistenza sull’azione del vedere “adocchi” che fa rima e richiama “occhi”, “vidi” e poi
“viso” che significa sguardo, occhi
Vv. 17-18: l’insistenza di “acuto” e “acume” in posizione chiastica indica l’intensità fisica e
spirituale della luce che brucia. “Il punto punge” dice Sermonti con un efficace bisticcio
Vv. 20-21: “luna locata” e “come … con …. colloca” all’itterazioni
Il punto dunque è infinitamente piccolo, non ha dimensione né spaziale né temporale: in aritmetica
gli corrisponde l’uno, usato nella filosofia neo platonica per designare Dio. Contini dice che il punto
in Dante è adoperato in senso spaziale, temporale e tematico es. “un punto solo fu quel che ci vinse”
nel canto di Francesca.
Bisogna ora spendere qualche parola sulla trattazione angelica svolta da Dante nel Paradiso che
risulta essere la sistemazione ultima dell’argomento avviato nel Cv. Dante sceglie di seguire la
classificazione di Dionigi l’Aeropagita o pseudo Dionigi e non Gregorio Magno perché
l’angeologia del primo è apparsa a Dante fedele e concordante con le Sacre Scritture, in sintonia
con ciò che dice Ravasi in “Gli angeli nella Bibbia nella letteratura e nella teologia” il quale afferma
che “dalla prima pagina delle Scritture Sacre coi cherubini dalla fiamma della spada folgorante,
posti a guardia del giardino dell’Eden (Gen. 3,24) fino alla folla angelica che popola il cielo
dell’Apocalisse, tutti i libri della Bibbia sono animati dalla presenza di figure angeliche
sovrumane”.
Il nome di angelo è la traduzione greca di anghelos dal termine ebraico mal’akt il cui significato è
messaggero. Nella Genesi 28,12 con la scala di Giacobbe si rappresenta il raccordo tra cielo e terra.
Nei Salmi (34,8; 91,11-12) si sperimenta l’idea dell’angelo che non abbandona l’umanità. Gabriele
è lo spartiacque tra il Nuovo e l’Antico Testamento. Gli angeli, dice Ravasi, circondano l’intera vita
di Cristo.
Dionigi prende i nomi dalla Bibbia ma, per la divisione in triadi, seguita da Dante, prende come
modello la visione neoplatonica. Gli scritti di Dionigi si diffondono in Europa nel IX° secolo d.c..
Dopo un declino dell’angelologia nel XX° secolo il catechismo della chiesa cattolica del 1992
dichiara l’esistenza delle figure angeliche come verità di fede.
Vv. 22-30
Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che 'l dipigne
quando 'l vapor che 'l porta più è spesso,
distante intorno al punto un cerchio d'igne
si girava sì ratto, ch'avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;
e questo era d'un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.
V. 23: “alo” forma nominale dal latino halo-onis
V. 25: “igne” latinismo; la raffigurazione circolare delle gerarchie angeliche era suggerita a Dante
da frasi bibliche e da una certa suggestione derivata da Boezio, Dionigi e Tommaso
V. 26: Sermonti parla di rotazioni paradossi. L’uso abbondante di latinismi, di neologismi, la
ripetizione assillante di “vero” sono giustificati dal fatto che siamo agli ultimi canti e Dante
ha poco spazio per colpire, quindi c’è quasi un’ostentazione degli strumenti (grammatica
delle metamorfosi)
Vv. 27-30: terzina dal ritmo incalzante seguita da una dal ritmo che rallenta come rallenta il
movimento delle gerarchie angeliche
Vv. 31-39
Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che 'l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.
Così l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch'era
in numero distante più da l'uno;
e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s'invera.
W. Blake, Gerarchie angeliche
G. Doré, I cori angelici
V. 31: bella allitterazione
V. 32: Iside, messaggera di Giunone, quando scendeva sulla terra a portare un messaggio lasciava
una scia colorata (echi ovidiani)
V. 33: “arto” latinismo
V. 36 e V. 39: l’uno, la favilla pura sono Dio e al v. 38 neologismo dantesco parasintetico con
valore mediale = si identifica con la verità che è Dio. Così, dice Giacalone, finisce
la rappresentazione delle potenze motrici che digradano di moto e di luce intorno ad
un punto immobile di incommensurabile potenza luminosa
V. 39: “credo” asserzione o dubbio di Dante
“Poesia è già nell’immaginazione stessa di un universo ordinato in un sistema geometrico che
unisce alla perfezione del cerchio l’infinità ideale del punto matematico. Quei circoli concentrici,
dilatantisi in quell’incalzante successione di numeri suscitano l’impressione di un propagarsi di
visioni dentro il quale il riguardante è assorbito e sperduto. Così la musica dei versi (28-30) dà un
ritmo mistico ad un’immagine matematica” (Momigliano).
Vv. 40-57
La donna mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura.
Mira quel cerchio che più li è congiunto;
e sappi che 'l suo muovere è sì tosto
per l'affocato amore ond' elli è punto».
E io a lei: «Se 'l mondo fosse posto
con l'ordine ch'io veggio in quelle rote,
sazio m'avrebbe ciò che m'è proposto;
ma nel mondo sensibile si puote
veder le volte tanto più divine,
quant' elle son dal centro più remote.
Onde, se 'l mio disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
che solo amore e luce ha per confine,
udir convienmi ancor come l'essemplo
e l'essemplare non vanno d'un modo,
ché io per me indarno a ciò contemplo».
Siamo in quello che Contini chiama secondo tempo in cui si trova il contenuto della visione e la
definizione del punto fatta da Beatrice.
V. 40: “cura” latinismo
V. 41: “forte” avverbio. “punto” Dante traduce Aristotele ma sostituisce a “principio” “punto”
rivestendo così di luce poetica la definizione.
In questo canto le spiegazioni di Beatrice hanno un’aura poetica particolare. Sembra che il
pellegrino Dante ancora qui non sappia che il “punto” è Dio.
V. 44: “punto” rima equivoca, qui verbo, sopra sostantivo. Si noti che il primo cerchio è quello dei
Serafini il cui significato è ardenti. Ma li vedremo poi.
V. 46: siamo entrati in quello che Contini definisce terzo tempo: dubbio di Dante e sua risoluzione
V. 48: metafora del cibo
Vv. 52-54: “templo” è termine biblico per indicare cielo, da temno greco = spazio limitato. Nei due
endecasillabi finali che danno il senso di una infinita chiarissima vastità si compendia la
lunga meditazione di Dante sul divino. Dante denota una grande capacità di sintesi. Si
muove tra finito e infinito con i termini “fine” “templo” “confine” e “amore e luce”,
variazione chiastica di Pd. XXVII, limite che è un non limite
Vv. 55-56: si possono spiegare copia modello o modello copia
Vv. 58-78
«Se li tuoi diti non sono a tal nodo
sufficïenti, non è maraviglia:
tanto, per non tentare, è fatto sodo!».
Così la donna mia; poi disse: «Piglia
quel ch'io ti dicerò, se vuo' saziarti;
e intorno da esso t'assottiglia.
Li cerchi corporai sono ampi e arti
secondo il più e 'l men de la virtute
che si distende per tutte lor parti.
Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s'elli ha le parti igualmente compiute.
Dunque costui che tutto quanto rape
l'altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape:
per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t'appaion tonde,
tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza».
V. 58 “nodo” = metafora
V. 60: infinito causale passivo
V. 62: continua la metafora del cibo
V. 64-65: i latinismi rendono più solenne la parte asseverativa (arti, virtute, salute, cape, rape,
sape)
V. 64 e sgg.: l’estensione fisica = alla concentrazione metafisica
Vv. 67-72: sillogismo di cui il v. 67 costituisce la premessa maggiore e la terzina 70-72 la
conclusione. Le espressioni a catena producono un potenziamento dell’idea e
l’elemento musicale soverchia quello sintattico. “maggior salute” è complemento
oggetto anticipato rispetto al soggetto perché con la ripresa uguale alla chiusa del
verso precedente si sottolinea la salute ossia l’influenza di bene
V. 74: “misura” striscia di carta che usava il sarto per prendere le misure addosso alle persone
V. 78: “intelligenza” eco del Guinizzelli
Vv. 79-87
Come rimane splendido e sereno
l'emisperio de l'aere, quando soffia
Borea da quella guancia ond' è più leno,
per che si purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che 'l ciel ne ride
con le bellezze d'ogne sua paroffia;
così fec'ïo, poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro,
e come stella in cielo il ver si vide.
Sermonti definisce questi versi lo snuvolamento di Dante.
V. 79: potente coppia di aggettivi. La dinamicità è data dal progresso della subordinazione
V. 81: Borea soffiava in tre direzioni, qui è la guancia destra. Così appare Zefiro nella Primavera di
Botticelli. Si tratta del maestrale; i latini lo chiamavano ventus serenarius. Ricordiamoci che
Dante quando scrive è in Romagna
La scena vale per metafora: allegoria dello svelamento della verità che culmina in “ride” del
V. 83; in Paradiso il riso è sempre metafora di luce e bellezza.
V. 82: “si purga e risolve” coppia che corrisponde alla precedente di aggettivi. “roffia” e “paroffia”
sono degli hapax. Il primo deriva dal francese roife e il secondo è forma antica di parochia
V. 86: rimanda a Pd. XXIV 147, l’esame sulla fede condotto da San Pietro. Questo verso conclude
quello che Contini chiama il terzo tempo e “illumina tutta la similitudine” (Momigliano)
Vv. 88-96
E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro.
Vv. 88-89: replicatio in cui la presenza della doppia liquida che troviamo anche in scintilla dà l’idea
dell’animarsi dei cori angelici forse per la gioia delle spiegazioni di Beatrice a Dante
(atto di carità). Troviamo una espressione simile in Pd. I 60 “come ferro bolliente esce
dal fuoco”
V. 91: “scintilla” uno dei modi per designare gli angeli, altrove sono designati “facelle” (Pd.
XXXIII 34), “fuochi” (Pd. IX 77) “splendori” (Pd. XXIX 138), “la famiglia del cielo” (Purg.
XV 29). Qui si pone il problema se solo una parte degli angeli esce dal cerchio e gli altri
rimangono a formare il cerchio oppure tutti guizzano e il cerchio non perde la sua forma.
Questo come altri è un problema che riguarda l’angeologia
Vv. 91-93: “il senso della singolarità ogne scintilla è come travolto da quello della molteplicità”
sostiene Giacalone e sul numero degli angeli Dante si era già soffermato in Pd. XIII 97-
98 dove aveva affermato che è impresa impossibile determinare il numero degli angeli;
del resto anche in Cv e in Pd. XXIX ripete la stessa cosa; la Bibbia ci conferma che il
loro numero è talmente alto che la mente umana non può nemmeno pensarlo (nella
Bibbia si parla di mille migliaia). Dante al v. 93 con un nuovo scintillante parasintetico
usa “s’immilla”, con riferimento alla Bibbia e ad una leggenda orientale che circolava ai
suoi tempi. L’inventore degli scacchi aveva proposto il gioco al re di Persia che,
oltremodo divertito, volle ricompensarlo con qualsiasi cosa gli avesse chiesto. Egli
chiese di mettere un chicco di grano raddoppiando la quantità per ogni casella. Qui
notiamo come Dante si serve della matematica ma realisticamente si rifà al gioco degli
scacchi e alle sue 64 caselle. La cifra che si ottiene raddoppiando per ogni casella è di
venti numeri: 18 trilioni 446 biliardi 774 bilioni 073 miliardi 709 milioni 551 mila 615
(18.446.774.073.709.551.615). Basterebbe a stento il raccolto mondiale di un millennio
e mezzo. Ovviamente il re non potè mantenere la promessa. La favola si era diffusa
nella lirica provenzale “per intimare alle belle signore computi iperbolici di lacrime e di
baci” (Sermonti)
V. 95: “ubi” latino usato qui come sostantivo
Vv. 95-96: le iterazioni “tiene” “terrà” “sempre” “sempre” sottolineano la perennità della
condizione degli angeli gravitanti intorno al punto
Potente presentazione dei cerchi angelici; il tono è incisivo come spesso nell’Inferno.
Dice Momigliano che nel Paradiso l’amore e il senso dell’eterno hanno la stessa pienezza che
nell’Inferno hanno l’odio e il disprezzo perché sono i regni dell’eternità mentre il Purgatorio, legato
al tempo, è regno di transizione.
Vv. 97-114
E quella che vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t'hanno mostrato Serafi e Cherubi.
Serafini (ms. del XIV sec.)
Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi.
Quelli altri amori che 'ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che 'l primo ternaro terminonno;
e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l'esser beato ne l'atto che vede,
non in quel ch'ama, che poscia seconda;
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
Siamo arrivati a quello che Contini chiama quarto tempo: l’elenco delle gerarchie angeliche.
Abbiamo detto che Dante, correggendo se stesso che nel Cv. Aveva avviato l’argomento, segue
Dionigi perché più attinente alle scritture e forse proprio perché vuole chiudere la prima terna con i
Troni, cioè i seggi in cui Dio emette i suoi giudizi (sappiamo quanto il tema della giustizia stesse a
cuore a Dante). Ciò comporta gli altri spostamenti per cui la sistemazione definitiva risulta la
seguente: Serafini Cherubini Troni / Dominazioni Virtù Potestà / Principati Arcangeli Angeli.
V. 99: “Serafi” plurale di Serafo dall’ebraico Saraf di cui parla Isaia come creatore di fuoco che
hanno sei ali; “Cherubi” plurale di Cherubo dal babilonese Karibu (colui che benedice,
intercede, prega): sono figure tetramorfe con sembianze umane davanti e di leone, toro,
uomo e aquila sugli altri lati (Ez. 1, 1-23)
V. 100: “Vimi” dal latino vimen = legame. Ci sono due spiegazioni legami d’amore con Dio o il
moto circolare a cui sono legati
V. 101: finale o causale, ma finale implicherebbe una variazione impossibile. Insistenza sul
“punto”. “Ponno”, “Vonno”, “Terminonno”: forme dialettali
V. 105: E’ inammissibile che si chiamino Troni per Trini e che si chiamino così perché chiudono la
terna. Si può spiegare forse con seggi della giustizia divina che Dante aveva a cuore.
“Terminonno”: il passato, mentre gli altri son presenti, si spiega con il fatto che dal
momento della creazione chiudevano la terna
Vv. 108 e sgg.: Dante segue la concezione tomistica che si oppone alla corrente mistica; viene
prima il vedere e poi l’amare
V. 113: si riconosce l’importanza del libero arbitrio
V. 114: ci sono due interpretazioni: 1 questa proporzione tra visione e merito procede così man man
che si scende nella scala diventa minore, 2 dalla grazia alla buona volontà, da questa al
merito, dal merito alla visione, dalla visione all’amore
Vv. 115-129
L'altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalemente 'Osanna' sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s'interna.
In essa gerarcia son l'altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l'ordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne' due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l'ultimo è tutto d'Angelici ludi.
Questi ordini di sù tutti s'ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
Le prime due terzine sono definite da Contini “campione di sublimità”. L’inizio “ternaro” allittera
con la fine “s’interna” altro parasintetico. La Leonardi Chiavacci sostiene che questa è una delle più
grandi aperture liriche del Paradiso che sorge all’improvviso nella descrizione delle gerarchie
angeliche quasi “germogliando anch’essa” dai versi.
V. 115: “germoglia” denota stupore
V. 116: ampio distendersi del verso seguito dall’inventiva del v. 117. Al sorgere della primavera
Ariete è in congiunzione con il sole, dal 21 settembre in autunno sorge di notte, ma non dà
luogo al cadere delle foglie come sulla terra. Dante vuol qui significare che siamo fuori dal
tempo, le stagioni non si alternano e “il giardino di Dio” (Paradiso) germoglia sempre nella
sua grazia
V. 118: “perpetualemente” lungo avverbio che riprende “sempiterna”, eptasillabo in sede iniziale di
un verso di sole tre parole; “sberna” dal latino hexiberno = esco dall’inverno; alla fine
dell’inverno gli uccelli cantano di gioia quindi vale “canta gioiosamente”
V. 119: “tree” = epitesi della e che si ripete al v. 122 in “ee”; si noti l’insistenza del “tre” in questo
verso ripresa al v. 120 dal parasintetico “s’interna”
V. 121: “dee” è femminile perché le tre gerarchie sono femminili
V. 124: “tripudio” è parola biblica per danza
V. 127: festosità della rima sdrucciola;
“sù” per alcuni è Dio, per altri sono gli ordini superiori
V. 128: “vincon” per il Torraca viene da “vincire” = legare. Con “di sù” e “di giù” dice bene il
Chimens “si descrive la catena delle influenze”
Vv. 130-139
E Dïonisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com' io.
Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch'ammiri:
ché chi 'l vide qua sù gliel discoperse
con altro assai del ver di questi giri».
A. da Messina, Gregorio Magno
Dionigi Aeropagita nel “De coelesti Hierarchia” dà questo ordine condiviso da Dante mentre
Gregorio Magno, già nominato in Pd. X per aver salvato l’anima di Traiano, nei “Moralia” mette
Potestà al posto di Troni come aveva fatto Dante nel Cv. Seguendo forse Brunetto.
In questa chiusa Beatrice è perentoria nel mettere fine alle discussioni perché Dionigi, convertito da
San Paolo (Atti degli Apostoli), lo ha appreso da lui che era stato rapito nel terzo cielo.
Si noti come la parola tematica “ver” si protrae per tutto il canto fino all’ultimo verso.
Il canto si inserisce opportunamente nell’unità narrativa del Paradiso se si riflette che questo si era
aperto con la celebrazione dell’ordine forma dell’universo.
Dante, come dice E. Malato, riesce “a conciliare senza gravi forzature le ragioni del vero cristiano e
della teologia con le ragioni della fantasia poetica, che si espande verso mete mai pensate e mai
raggiunte in qualsiasi altra opera di ogni tempo e ogni luogo”.
Vorrei concludere con la frase di Zanini (Gli angeli nella Divina Commedia in relazione ad alcune
fonti sacre): “Il più bel posto, dopo Dio e la Vergine Maria, è quello degli Angeli ……. Ebbene se
così è, nulla di meglio che immaginarsi lo spirito di Dante riposare nella quiete di un mondo
migliore, protetto dalle ali di due angeli: l’angelo sublime del genio che crea, l’angelo dell’operosità
per cui, vincendo ogni ostacolo, l’artista traduce in atto ciò che prima aveva contemplato nel suo
pensiero”.
A. Vanni, S. Paolo (1390)
Bibliografia
Paradiso con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi ed. Zanichelli
Paradiso a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio ed. Le Monnier
Paradiso commento di Vittorio Sermonti ed. scolastiche Bruno Mondadori
Paradiso commento di Giuseppe Giacalone ed. Angelo Signorelli
Dante il romanzo della sua vita di Marco Santagata ed. Oscar Mondadori
Guida alla Divina Commedia Paradiso a cura di Angelo Marchese ed. SEI
Letture Dantesche di Aldo Busatti ed. Copisteria Farini
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