Tutto cominciò col bacino di Elvis Presley che si agitava

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LA RIVOLUZIONE DEL ROCK’N’ROLL
LA MUSICA DEL GRANDE RISVEGLIO
Tutto cominciò col bacino di Elvis Presley che si agitava
selvaggiamente su un ritmo indiavolato, scuotendo il torpore
dell’America degli anni Cinquanta e della guerra fredda. Egli,
insieme ad altri eroi del rock’n’roll, fu la miccia, il primo
segno forte dell’avvento di quella musica, ancora oggi visto da
tutti come l’inizio, il grande risveglio.
In quegli anni l’America ribolliva di vari fenomeni musicali,
ancora però separati tra loro. Il blues rurale delle origini si era
ormai stabilmente insediato nelle grandi città, diventando
qualcosa di completamente originale, grazie anche al sempre
più frequente uso della chitarra elettrica. Il country si stava
evolvendo verso forme più moderne, elettriche ed originali. Il
gospel, la musica delle chiese protestanti frequentate dalla
popolazione di colore, stava uscendo dall’ambito strettamente
liturgico, contagiando col suo eccitante effetto di trance la
musica profana.
Ma si sentiva il bisogno di una sintesi. L’idea venne ad un
certo Bill Haley che, raccogliendo qua e là da tutte queste
forme musicali, creò “Rock Around The Clock”. Era il 1955.
Ma il suo successo, anche se irrefrenabile, fu subito oscurato
dalla profonda voce di “un giovane bianco che cantava nero”,
che aveva intuito perfettamente un’altra novità sostanziale del
nuovo corso. Quella musica, per esprimere pienamente le sue
potenzialità, doveva essere “vista” oltre che ascoltata. Il gesto
equivaleva al suono, l’abbigliamento, il taglio dei capelli, le
pose oltraggiose e beffarde, corrispondevano alla potenza del
ritmo e della melodia. Nacquero così, pezzi come
“Heartbreak Hotel”, “Love Me Tender”, “Hound Dog” e
“Jailhouse Rock” che portarono il mondo giovanile ad una
propria ideologia. Per la prima volta il conformismo e
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l’adeguamento veniva contestato. Una generazione cresceva
con l’idea della ricerca del piacere. Nelle loro tasche c’erano
più soldi e nelle loro teste molti più sogni. Ma c’era anche
molta più violenza e desiderio di libertà individuale di quanto
gli adulti dell’epoca potessero sospettare.
Stanchi delle consuetudini nell’abbigliamento, nei
comportamenti, nelle relazioni sociali, i giovani cominciarono
a stabilirne di nuove ed inedite: nasce, insomma, lo stile come
elemento essenziale della comunicazione. Ogni soggetto ha
quindi un suo valore, ogni oggetto comunica qualche
informazione, sia esso un taglio di capelli, una motocicletta,
una giacca o una spilla. L’abbigliamento ed il comportamento
servono ai ragazzi per riconoscersi e per ribadire una diversità,
sono strumento di comunicazione che marcia di pari passo con
la musica, che fa da catalizzatore e da strumento, musica che
viene vissuta, insomma, ancor prima che ascoltata o ballata.
Invece di accettare passivamente la musica proposta dagli
adulti per loro, i giovani iniziarono a scegliere una musica che
fosse in grado di contenere ed esprimere i loro desideri ed i
loro sogni, una musica che in gran parte già esisteva, la musica
dei neri americani. Ma quello che il rock’n’roll fece fu di
caricare ed ampliare quel suono di significati nuovi.
Ma ovviamente, anche se il rock’n’roll, attraverso il
rhythm’n’blues si era largamente ispirato alla musica dei neri,
l’America fu pronta a riconoscere lo scettro della regalità al
suo ennesimo eroe bianco, Elvis, tenendo in secondo piano gli
altri, come Chuck Berry e Fats Domino che musicalmente
potevano anche rivelarsi superiori o, come nel caso di Little
Richard, erano di gran lunga meno addomesticabili. Ma
rispetto al passato era già un enorme passo avanti…
Elvis fu solo la punta di diamante di questo fenomeno.
Incarnava più e meglio di altri la nuova mitologia giovanile.
Ma sulla scia del suo successo si formò tutta una generazione
di scatenati rocker. C’era soprattutto Jerry Lee Lewis, più un
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altro drappello formato da Gene Vincent, Carl Perkins,
Buddy Holly, Eddie Cochran ed altri. Strana generazione,
formata da eroi ribelli, ma tutto sommato fragili, disperati, e in
qualche modo afflitti da una sorta di maledizione che anticipa
di molto le parti più cocenti di una certa dissoluzione che avrà
grande parte nella storia del rock; in altre parole sono gli anni
in cui si forma per la prima volta l’idea della famigerata triade
“droga sesso e rock’n’roll”.
La sfera musicale degli anni Cinquanta non è solo Elvis. Al
suo fianco si esibiscono in ritmi fracassanti molti altri artisti:
Perry Como, Pat Boone, Chubby Checker ed il suo “Let’s
Twist Again”, Johnny Cash, Bobby Darin, Neil Sedaka,
Paul Anka, Roy Orbison, The Everly Brothers, The
Platters e molti altri.
Con questi nomi in testa e con lo stesso stile di Elvis nelle
gambe, i giovani americani passano l’ultima parte degli anni
Cinquanta. Il ballo sfrenato smonta regole fisse e la radio e la
televisione permettono che si formi un Gap generazionale che
col passare del tempo divenne tragicamente spaventoso.
Con quei ritmi si arriva dunque al decennio degli anni
Sessanta e, anche se il rock’n’roll continua ad influenzare i
nuovi artisti, nascono forme musicali ancora più innovative.
La Surf Music dei Beach Boys dà l’avvio ad un nuovo
modo di fare musica, portando accanto agli ideali innovativi,
ma ancora frenati dei giovani del ’55, nuove forme di
ribellione. Dunque con la famigerata “Barbara-Ann” di
Brian Wilson il rock’n’roll sembra essere finito come una
moda passeggera, ma in realtà lancia dovunque i semi della
nuova rivoluzione.
Facendo, però, un passo indietro, si capisce come la nascita
del rock’n’roll sia già stata pronosticata anni prima,
dall’avvento nelle sale d’incisione della musica dei ghetti.
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Gran parte della musica popolare americana nasce
dall’incontro tra la cultura degli afroamericani e quella dei
bianchi d’origine europea. Difatti, è raro trovare un musicista
americano che non sia stato influenzato in qualche modo dalla
musica degli afroamericani, né ovviamente poteva fare
eccezione il rock, che anzi nasce proprio su questo
presupposto, fin dai primi vagiti del rock’n’roll.
Il mondo conobbe il nuovo verbo musicale attraverso il volto
ambiguo di Elvis Presley, ma quella musica la suonavano già
Ike Turner, Fats Domino, Ray Charles, solo per fare
qualche esempio. Dunque la cosiddetta “Musica del Diavolo”
non è altro che una miscela di generi preesistenti: dal gospel
sacro di Ray Charles e poi dei gruppi vocali Doo Wop, al
blues profano, la musica laica dei neroamericani. Con la
fusione di questi due generi nacque dunque il rhythm’n’blues,
includendo anche lo swing, il bop ed il jazz, il cui elemento
principale era la ballabilità.
Molti dei campioni del rhythm’n’blues tra gli anni Quaranta
e Cinquanta possono, dunque, essere considerati come dei
personaggi che hanno fortemente influenzato la nascita del
rock’n’roll per il loro stile, come Joe Turner, B.B.King,
Muddy Waters, John Lee Hooker, Howlin’ Wolf e Bo
Diddley, affiancati dalla venuta dei gruppi Doo Wop, un
nuovo genere vocale che si conquistò questo nome per i
frequenti nonsense fonetici che i cantanti usavano nei loro
brani; esempi tipici sono The Platters, Ink Spot, The Cadets,
The Drifters, Ben E. King, The Moonglows e The Chords.
Relegare il rock’n’roll e quello che ne seguì con l’etichetta
di “fenomeno musicale” è l’errore più grande che gli ignari
potrebbero fare. Quelle musiche influenzarono non solo
l’orecchio degli ascoltatori ma, allo stesso tempo, imponevano
uno stile di vita innovativo, in cui gli unici due cardini erano la
ribellione e la libertà. Essi dunque prepararono i giovani degli
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anni Cinquanta all’avvento dei Sessanta, anni caratterizzati da
proteste e violenze ma, anche da grandi conquiste.
Se proviamo a riepilogare gli anni a cavallo fra questi due
decenni, i nomi che risaltano, ovviamente al fianco dei
cantanti, sono di persone semplici che hanno però segnato il
mondo politico, come per esempio John Kennedy, Malcom X
e Martin LutherKing, il mondo sportivo, come Cassius
Klay, ed il mondo in generale, come il Vietnam.
Io non vorrei però fare un documento politico su quegli anni
ma soltanto un riepilogo musicale. Uno scritto del genere lo
lascio fare ai vocalist dell’anticonformismo, che affiancavano
alle note parole di rabbia e disperazione, rivolte a quel mondo
sempre più in balia del denaro. In quegli anni, infatti,
spuntarono nomi di idoli musicali nuovi: Bob Dylan, Joan
Baez, Woody Guthrie, Pete Seeger, James Brown, The
Birds, Jimy Hendrix, Simon & Garfunkel e la loro “Sound
of Silence”, ed infine i mitici Janis Joplin e Jim Morrison.
Intere legioni di masse giovanili sono dunque pronte ad
entrare da protagoniste nella storia di questi anni, unificate da
un’espressione che le fece sentire parte di un movimento di
rinnovamento.
Il rock’n’roll del resto aveva esaurito da qualche tempo la
sua funzione, dopo aver stuzzicato con fantasie ribellistiche
l’immaginario degli adolescenti. Aveva dato il via ad un
cambiamento che era necessario anche nella musica.
A portarla fu un giovanissimo e scontroso folksinger che
aveva cambiato il suo nome, Robert Zimmerman, nel più
attraente Bob Dylan, in omaggio al grande poeta Dylan
Thomas. Armato solo della sua chitarra e di una voce scarna e
penetrante, riuscì a trovare il nuovo verbo, che di lì a poco
avrebbe totalmente trasformato la consapevolezza che la
musica pop aveva in se stessa. Ma all’inizio era solo uno dei
tanti giovani cantanti folk arrivati dalla provincia americana
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nel cuore della grande mela newyorkese, al Greenwich
Village.
In quello strano quartiere, agli inizi degli anni Sessanta, si
stava verificando una curiosa saldatura tra diversi tasselli della
nuova cultura.
Era il rifugio di artisti, disadattati di ogni risma, esponenti
della “New Left”, ma anche di musicisti, jazz e folk, e degli
scrittori beat, una sorta di comunità alternativa nella quale
cominciavano a ritrovarsi tutti coloro che non si riconoscevano
nei valori ufficiali del Paese.
L’esigenza di rinnovamento permise a Dylan di dare una
risposta a questi nuovi bisogni. Le sue canzoni chiedevano con
forza di essere ascoltate, non danzate, apparivano
incredibilmente sincere, per nulla commerciali, e per di più
avevano il merito di cogliere perfettamente quel brivido di
cambiamento che si stava diffondendo tra i giovani: “Masters
Of War” e “Blowing In The Wind” sono alcune delle pietre
miliari di questa rivoluzione, la cui enorme popolarità ebbe
l’effetto di spingere l’intero corpo della musica pop a parlare
un’altra lingua.
In tre anni, tra il ’60 ed il ’63, l’America fu attraversata da
tensioni, sogni, speranze e dolori inarrestabili, ed il primo a
cantare tutto questo fu, dunque, Bob Dylan. C’era stato chi
prima di lui, al Village, aveva cominciato a riscrivere il folk
secondo canoni nuovi, come Dave Van Ronk e Rambling
Jack Elliott, ma Dylan si accostava alla musica tradizionale,
all’eredità di Woody Guthrie ed al lavoro di Pete Seeger, con
una disposizione completamente nuova, figlia del rock’n’roll
ma armata di una volontà di comunicare, di usare la parola, di
mettere in campo contenuti importanti ed arte, che il
rock’n’roll degli anni ’50 non conosceva assolutamente.
Se il rock’n’roll era musica di movimento in senso
sociologico, per fatti in qualche modo indipendenti dalla
volontà degli artisti, il folk revival si presenta come progetto
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culturale consapevole, come riforma possibile ed immediata
del comunicare e del far musica.
Il rock, come oggi lo intendiamo, la protesta politica di
massa, il “Free Speech Movement”, le occupazioni delle
università, la sperimentazione delle droghe, i figli dei fiori,
arriveranno dopo, ma saranno tutti figli, in qualche modo, di
quegli anni e di quella comunità newyorkese, dove, al di là
della protesta, dei contenuti evidenti delle canzoni, il folk
impone un modello di rapporto tra pubblico ed artista, tra
canzone e realtà, che per l’epoca era davvero dirompente ed
esplosivo.
C’erano altri personaggi importanti nella scena musicale del
folk revival, ognuno a suo modo leggendario, ognuno
importante, proprio perché rappresentava una parte di un
sentimento, di una realtà in movimento. C’era Joan Baez, che
già prima di Dylan aveva iniziato a proporre un approccio più
libero alla canzone tradizionale folk, e che al fianco del
cantautore percorrerà le strade del successo. Poi da sola
combatterà per anni in favore dei diritti civili e della pace.
C’era Phil Ochs, il vero e proprio cronista della protesta degli
anni Sessanta, outsider totale, poeta del talking blues più
urbano e tagliente; ed ancora Tom Rush, Richie Havens,
Barry McGuire, Hoyt Axton, Tim Hardin, Buffy St.Marie,
Tom Paxton, pronti a diventare, ognuno a suo modo, i
portavoce di una nuova generazione, di nuovi sentimenti, di
una nuova canzone folk. Una canzone che se all’inizio
manteneva saldi i legami con la tradizione, in breve propose il
cambiamento, nuovi suoni e nuovi atteggiamenti, facendo
nascere, con l’apporto indispensabile di Dylan, quello che
comunemente oggi chiamiamo il “Cantautore”.
Il teatro di questo potente rilancio della canzone folk fu il
Festival di Newport, dove nel 1963 ci fu la consacrazione
ufficiale di Bob Dylan e Joan Baez. Manca ancora qualche
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anno all’era dei grandi raduni pop, e le prime adunate giovanili
si sviluppano proprio intorno a questi festival folk.
Dylan, insomma, è il padre del folk rock, ma il genere, in
realtà, nelle sue caratteristiche più celebri, viene definito
altrove, per la precisione in California: l’invasione dei gruppi
britannici beat, provoca alla metà degli anni Sessanta la nascita
di innumerevoli formazioni che, negli Usa, cercano di mettersi
al passo con i Beatles ed i Rolling Stones, con capelli a
caschetto, chitarre elettriche e divise ben tagliate (la risposta
americana ai Beatles furono i Byrds di David Crosby e
Roger McGunn).
Al fianco del revival folk dylaniano, in California stava
nascendo un’altra stella: Brian Wilson e la Surf Music.
Anche se precedente alle manifestazioni di protesta, lo stile dei
Beach Boys alimentava il sogno californiano, fantasticando
con canzoni Doo Wop e residui di rock’n’roll sull’idea del
benessere. Era solo musica commerciale ma, allo stesso tempo
piaceva e divertiva. Forse era gradito proprio perché sognatore
ed irreale e proponeva al pubblico mondiale il sogno della
ricchezza. In California i giovani erano pieni di soldi e di
tempo libero e questi erano un po’ i sogni di tutti i giovani del
mondo. Il surf offuscava le ribellioni e faceva credere di vivere
in un mondo felice. Come vedremo però tutto questo accadde
prima che la California fosse la culla della tragica triade
“droga, sesso e rock’n’roll” e, purtroppo anche questa nuova
musica venne risucchiata. Allo stesso tempo però permetteva
di non pensare a quegli anni, fischiettando o intonando canzoni
come “Barbara-Ann” o “I Get Around”, “California
Dreamin’” dei Mamas and Papas e “Have You Ever Seen
The Rain” dei Creedence Clearwater Revival, che ancora
oggi certi giovani cantano e ballano.
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Erano gli anni dei Kennedy e del sogno americano, ma
come vedremo erano destinati a durare poco e a spegnersi
nella musica di protesta di Woodstock.
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“HEY! HEY! LBJ – HOW MANY KIDS –
- DID YOU KILL – TODAY?”
“PRESIDENTE QUANTI NE HAI UCCISI OGGI?”
In principio fu il Numero. Nel 1955, negli Stati Uniti
d’America, c’erano 2 milioni e mezzo di studenti universitari.
Nel 1965 ce n’erano quasi 8 milioni. In 10 anni il numero degli
studenti universitari era più che triplicato. L’armata dei Baby
Boomers, dei figli nati nell’immediato dopoguerra, irrompe
come un’orda incontenibile sulla società, sulle aule, sulle
strade, sulla musica; un’orda viziata, sana, confusa, ricca, bella
e malcontenta come mai prima di essa una generazione di
giovani era stata. E quando nel calderone ribollente dei grandi
numeri demografici fu gettato l’esplosivo del Vietnam, il
detonatore del nascente movimento femminista, l’incertezza
sul futuro mercato del lavoro costretto ad assorbire tante nuove
braccia, il sangue dei Kennedy, il Mao Pensiero ed infine la
pillola anticoncezionale, il Big Bang della rivoluzione
giovanile divenne inevitabile.
Berkeley. Chicago. Woodstock. L’offensiva del Tet, la
strage di My Lai, gli studenti dimostranti uccisi dalla polizia
dalla Guardia Nazionale nel campus dell’università del South
Carolina e poi nel college di Kent State. I ragazzi di leva che
bruciavano le cartoline precetto, simbolo della loro
schiavizzazione militare. Le ragazze che bruciavano i
reggiseni, odiose briglie della loro condizione femminile
finalmente strappata alla condanna della procreazione da
”Enovid 10”, la pillola anticoncezionale messa ufficialmente
in vendita il 9 aprile 1960.
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Come un documentario che corre sempre più veloce e rischia
di bruciare la pellicola, gli anni ‘60 zoomano via in una serie
di immagini che formano la memoria del nostro tempo.
Le Comuni, i Love-In, amiamoci tutti insieme e guai a chi è
geloso, gli spinelli e i trip acidi, la voce di Bob Dylan che
cerca risposte impossibili “Blowin’ In The Wind” portate via
dal vento, l’amarezza desolante di speranze immense bruciate
alla velocità di 700 metri al secondo, la velocità di uscita
dalla canna dei proiettili che uccidono i Kennedy e poi
LutherKing. La galassia di una generazione intera è esplosa.
E poi i numeri, di nuovo implacabili. 10 mila ragazzi
muoiono ogni anno, nel ’67, nel ’68, nel ’69, nelle paludi
infette di Mekong. Una strage senza senso, senza futuro.
“Hey! Hey! LBJ – How Many Kids – Did You Kill –
Today?” scandiscono i cortei davanti alla Casa Bianca,
giorno e notte, sera e mattina. “Quanti ragazzi hai ucciso oggi,
presidente?”.
“Non fidatevi di nessuno che abbia più di 30 anni” invitava
Jerry Rubin, cervello del “Movimento” vagamente offuscato
dalla canapa indiana e dall’acido lisergico. “Do It!” fatelo,
urlava, qualunque cosa vi passi per la testa, “Do It!”, l’amore,
la canna, la rivoluzione, “Do It!”.
E milioni di genitori usciti dai “gentili” anni ‘50, la decade
della tranquillità e del godimento dei trionfi americani,
guardavano i loro figli con il cuore in gola e la testa in
tumulto: ingrati dopo tutto quello che abbiamo fatto per voi…
Lo battezzarono Generation Gap, il fosso fra le generazioni, e
pareva davvero immenso. Pareva un’americanata e stava per
sbarcare ovunque nel ’68 di Parigi, nelle università, negli anni
definiti formidabili.
Le studentesse si bevevano “The Femminine Mistyque”, la
mistica della femminilità di Betty Friedan, vangelo del
protofemminismo e le loro madri “scappavano” e riempivano
le sale dei cinema per volare via con Mary Poppins, grande
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successo del 1965, la governante perfetta e immaginaria di
famigliole perfette ed immaginarie. I ragazzi correvano in
Canada e Scandinavia per sfuggire alla chiamata di leva ed i
padri canticchiavano “In Spagna s’è bagnata la campagna” leit
motiv di “My Fary Lady”, favola di femminilità duttile e di
maschilismo benevolo.
Alla Columbia University, a New York, gli studenti
innalzavano le barricate contro la polizia: “Mai più porci nel
nostro campus” gridavano, e spesso i porci erano i loro padri
in divisa blu, che manganellavano e piangevano i figli nei
quali avevano tanto investito e sperato.
A Chicago, nel ’68, il sindaco Daly, in odore di mafia,
protegge il Congresso del Partito Democratico che sta per
produrre il disastroso candidato McGovern contro il
repubblicano Nixon, con le cariche della polizia ed i
dobermann di attacco. Tutta l’America vede in diretta, alla tv, i
propri figli azzannati dai cani dell’establishment politico e
piange: 7 anni prima, nel 1961, un uomo era andato alla Casa
Bianca promettendo di “portare la torcia” di una nuova
generazione di americani, Jack Kennedy, ma a Chicago, il
suo partito, il Democratico, deve difendersi dai nuovi
americani con i cani da presa.
Per forza che sullo schermo trionfa James Bond, l’uomo che
non ha dubbi, l’agente del bene contro il male.
In Vietnam il generale Westmoreland annuncia: “La
vittoria è a portata di mano”…
Andiamo al cinema che è più serio…
Hollywood. In un giorno dolce, sereno di mezza estate, il 9
agosto del 1969, un folle che si crede figlio di Satana, Charles
Manson, cantante sbattuto fuori dal gruppo dei Beach Boys
dai propri compagni perché considerato troppo “cattivo”,
invade la casa del regista Roman Polanski a Bel Air, il cuore
di Beverly Hills, e massacra a coltellate quattro persone. Fra
loro, la bellissima, delicata moglie del regista, Sharon Tate,
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incinta di 6 mesi. “Satana” Manson le apre il ventre con 16
colpi di pugnale e distrugge anche la sua creatura non nata,
ancora palpitante nel corpo della mamma.
“L’America è strappata dal dissenso e dall’odio” proclama il
New York Times, ma in una notte di luglio, nel 1969, il buio
dell’angoscia collettiva è illuminato da uno strano fantasma
bianco, col viso coperto da uno specchio che annuncia a 500
milioni di persone in tutto il pianeta, immobili davanti al
televisore “Houston: L’Aquila E’ Atterrata”. E alle 20.17
ora italiana, Neil Armstrong posa il suo piede nella polvere
della blue moon, della pallida Luna.
Mai l’America era arrivata tanto in alto. Mai era stata così in
basso. Armstrong tocca il viso della Luna, ma a
Chappaquiddick l’ultimo portabandiera della famiglia
Kennedy, il senatore Ted, precipita in un fosso con l’auto,
lascia annegare la segretaria Mary Jo Kopeckne che si stava
portando a letto e scappa via per non essere incriminato, come
un coniglio. Si salverà dalla galera grazie ai soldi e al nome,
ma le sue speranze di raccogliere la torcia caduta dalle mani
dei fratelli annegherà per sempre con quella donna.
A Woodstock, nel ’69, decine di migliaia di giovani si
chiamano fuori dalla società che li ha prodotti, immergendosi
come battezzandi in un Giordano rock, nel fiume della musica
e di controcultura, per lavarsi di dosso la società che li ha
prodotti, quell’America dei padri che ascolta sognando il tema
d’amore “Romeo e Giulietta”, composto da Henry Mancini,
mentre loro intonano l’inno di una generazione e di un anno:
“Aquarius”. Fermate il mondo, dicono, vogliamo scendere.
Ma il mondo non si fermò. E nessuno ne discese.
Sembrava davvero la fine, quel 1969, ed era soltanto l’inizio.
Il calderone bollente degli anni Sessanta era diventato un
pacifico “Acquario”. Un’America era morta e un’altra stava
nascendo. Non migliore, non peggiore. Solo un’altra,
un’ennesima America.
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Proprio a San Francisco, in California, si sviluppano le
tematiche rivoluzionarie del movimento giovanile, spinte da
un lato dalla contestazione studentesca esplosa nel campus di
Berkeley, dall’altro da una tendenza alla vita comunitaria che
sarà perfettamente riflessa dai gruppi musicali, che si
proporranno come metafora artistica di queste nuove tensioni
sociali. Anche quella che viene definita Musica Psichedelica,
trova in California un terreno particolarmente fertile, arrivando
a punte di estremismo difficilmente rintracciabili altrove. La
droga che in quegli anni era intesa soprattutto come un mezzo
di conoscenza e d’espansione dei normali confini psichici,
diventò un preciso tema culturale, spesso indissolubilmente
legato alla musica. Già negli anni ’50 alcool e anfetamine
erano entrati prepotentemente nel rock’n’roll, ma come fatto
personale, anzi nascosto, della vita degli artisti. Lo stesso era
avvenuto da sempre nel jazz.
Ma per la prima volta la droga, perfettamente integrata da
altre affascinanti culture, come quella per il misticismo
orientale, viene in qualche modo considerata positiva,
soprattutto per quanto riguarda gli allucinogeni, che
sembravano garantire realmente la percezione di un altro
mondo, rispetto a quello convenzionale e conformista imposto
dal sistema. E ci furono ovviamente anche eccessi. Lo stesso
Lsd, droga assai pericolosa per una personalità instabile e già
tendente alla psicosi, fece numerosissime vittime. In California
l’esaltazione della droga si mescola anche ad una più generale
mentalità underground, e in qualche caso entra direttamente
nel modo stesso di costruire la musica. Esempi tipici di questa
tendenza furono quei gruppi che costruirono sonorità
misteriose, che alludevano direttamente alla percezione della
musica attraverso lo specchio deformante degli allucinogeni, e
quelli che allargavano a dismisura il concetto di performance,
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fino a raggiungere una dilatazione spazio-temporale, anch’essa
vicina alle esperienze dell’alterazione lisergica.
Se pensiamo che perfino i “puliti” Beatles, scrissero alcune
delle loro splendide canzoni con chiari riferimenti alla droga,
si può capire come questa componente fosse assolutamente
integrata nella cultura giovanile di allora.
I generi proliferarono e si sviluppò anche un notevole
movimento blues, portato avanti sia dai musicisti locali sia da
forestieri trasferitisi in California. Ad animare questa
rivoluzione, bianca e rivolta al rock, del blues originario
furono parecchi cantanti, ma la più famosa è senz’altro Janis
Joplin, che proprio in California visse la sua fulminea e
tragica carriera. Ma ci furono anche molte strane
combinazioni, come quella dei Creedence Clearwater
Revival, che mescolarono rock, rhithm’n’blues e anche lo
stile bayou, ottenendo un ritmo essenziale ed eccitante che li
portò ad avere una lunga serie di successi discografici.
Ma queste mescolanze erano all’ordine del giorno. Il rock
alla metà degli anni Sessanta era come un gigantesco ed
effervescente laboratorio di sperimentazioni e di sfrenata
creatività. Sta di fatto che proprio in California nasce il culto
del concerto rock, con potenzialità quasi mistiche. E da qui,
non a caso, vengono fuori i primi “santi”, o martiri del rock.
La Joplin, in primo luogo, e poi il “Re-Lucertola”, Jim
Morrison, che fu il grande, insuperabile sciamano di una
ritualità perversa ed incontenibile.
Se ad un certo punto si diffuse nel mondo giovanile la
convinzione che un concerto potesse essere qualcosa di più
della musica, un’occasione d’allargamento delle proprie
percezioni psichiche e sensoriali, lo si deve soprattutto ai
Doors. Morrison portava nella musica rock elementi della
tradizione colta europea, con riferimenti perfino alla tragedia
greca, e di disinibita tribalità, in una sorta di trance collettiva
che ricordava i tratti delle musiche primitive. In uno spettacolo
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dal vivo poteva accadere di tutto, e da questo punto in poi,
parallelamente alla maturazione delle incisioni discografiche,
nasce il mito del concerto rock.
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LA CALIFORNIA: L’ULTIMO SOGNO BIANCO
Scoppiò come un frutto tropicale maturo, spargendo su tutta
l’America e sul mondo i semi di un sogno che sarebbe durato
per decenni.
Cresciuta sulla pianta di una guerra mondiale che aveva
saldato il suo clima secco, perfetto per coltivare arance e per
fabbricare aeroplani senza ruggine, con la sua collocazione
strategica sulla sponda del Pacifico, la California, soprattutto
fra Los Angeles, Las Vegas e San Diego, divenne tra la fine
degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 la terra promessa di una
nazione del mondo. La frontiera insieme biblica e dolcissima
del “latte e miele” sulla quale l’America intera sarebbe accorsa
al suono di “California Dreamin’”.
Dal 1849, quando i pionieri avevano attraversato, morendo
di sete e di fame, la Valle della Morte, l’America non aveva
mai visto una corsa all’Ovest come quella degli anni
Cinquanta e Sessanta verso le coste del Pacifico.
Nei vent’anni far il 1955 ed il 1975, venti milioni di persone,
quasi tutte giovani, quasi tutte bianche, quasi tutte abbagliate
dal sogno del “Promised Land” sarebbero rotolate verso
l’ultima sponda dell’America, ad Ovest.
Fuggivano dalle vecchie città ferruginose e affollate dell’Est,
Boston, New York, Philadelphia, Chicago, Detroit, in
un’evasione che prima li portò dal centro verso i sobborghi, e
poi dai sobborghi verso la California, nella caccia disperata e
continua della droga senza la quale ogni americano soffre: lo
spazio. Una sorta di “agorafobia” collettiva, d’odio per le folle
e l’affollamento, spinse milioni di persone a cercare spazi,
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sole, opportunità, grandi cieli fra le ultime pendici innevate
della Montagne Rocciose e le spiagge infinite del Pacifico.
“California, Here I Come”, “California aspettami, arrivo”,
cantavano i nuovi pionieri sbarcando dai lunghi treni e dai
primi aerei arrivati dopo giorni e giorni di viaggio dall’altra
sponda, la sponda Atlantica.
Non si capisce se, in quegli anni Sessanta di boom, il mito
alimentò la corsa, o la corsa alimentò il mito, forse la cosa fu
reciproca. Fatto sta che i giovani volevano strade lunghe e
diritte nelle quali abbandonarsi fino in fondo all’amore ormai
irrefrenabile per l’automobile, anche a costo della morte alla
James Dean.
E le spiagge, centinaia di chilometri di spiagge bagnate dal
“surf”, dalle onde lunghe del Pacifico, sembrarono brulicare
d’incanto di una gioventù stupenda e ingualcibile,
incurabilmente bionda: le “California Girls”.
Come tutto quello che accade nella storia della cultura
americana, anche la California trovò subito la sua colonna
sonora nei già nominati Beach Boys, i ragazzi da spiaggia che
diedero voce, accordi, parole all’Ultima Utopia sole-mare,
“Fun, Fun, Fun”, divertimento, divertimento, nient’altro che
divertimento. Mai la divaricazione fra le Americhe era
sembrata più grande. L’Est era visto come una sorta di gabbia
mentre, gli occhi dei ragazzi vedevano nella California del
surfin’ e dei bikini, il futuro luminoso e nitido, come i
tramonti interminabili, visti dalla spiaggia di Santa Monica.
Pochi, allora, vedevano in quella luce abbagliante le ombre
dei mali che stavano crescendo. Lo smog da auto e ciminiere
che cresceva, restando intrappolato nella conca tra le montagne
ed il mare. I rischi dei venti caldi non più imbrigliati nella
vegetazione. L’alluvione dei “freaks”, dei balordi rotolati da
tutta l’America fino a qui per cercare nirvana, lsd e comuni
dell’amore. Ma più di tutto, la macchia del sole era la sottile
delusione, il senso del vuoto che ben presto si sarebbero
16
insinuati sotto le pelli abbronzate dei giovani per bruciare nella
prima grande ribellione studentesca, nel 1967. E nell’ultimo,
forse il più simbolico, dei grandi omicidi politici, quello che
uccise Bob Kennedy, nel ’68.
La California è stata l’ultimo sogno bianco di “Get Away
From It All”, di mollare tutto, di buttarsi alle spalle la storia e
la cronaca, e di trovare finalmente il paradiso nel quale godere
i frutti della propria ricchezza. E se quel sogno anni Sessanta
oggi può sembrare ingenuo, si rammenti che occorreranno
venti e più anni perché si spezzi. Si dovrà arrivare all’incubo
dell’Aids per abbandonare l’illusione del sesso libero e
spensierato. Si dovrà attendere il crack immobiliare degli
anni ’80 perché si capisca che, anche in California, i prezzi
degli immobili possono salire. E si dovranno aspettare gli anni
’90 per assistere alla rivolta della Los Angeles nera, bruna e
gialla, e scoprire quanto odio fra razze si celasse sotto i bikini
delle California Girls e nei muscoli dei culturisti che
pompano i pesi a “Muscle Beach”, la spiaggia di Venice a
Santa Monica.
Ma se la corsa sta finendo, che corsa è stata! Tutte le mode
di una generazione, dal frisbee al surf, dalla disco music dei
Bee Gees al bikini, dalla beach volley alle ossessioni igenicoalimentari, sono partite da qui.
E nessuno che sia stato in California, che si sia affacciato per
la prima volta sul balcone dell’ultimo oceano, ha potuto
evitare di sentire nel petto il brivido di una “Good Vibration”.
Perché se il mondo non finisce mai, il nostro mondo di europei
finisce qui, in California. E poi comincia il tramonto.
Ma la spiaggia dell’anarchia, Venice, dura ancora. Dura
ancora nei cuori dei nostalgici, ma anche nelle menti delle
nuove generazioni eclissate dalla paura della droga, dalle
troppe libertà anticonformiste che altro non creano che
disordini quotidiani. E allora che si fa? Si sogna. Si sogna di
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dover riconquistare le proprie libertà, proprio come i figli dei
fiori, si sogna di essere ribelli ed anarchici come i
“freakkettoni”. E Venice è proprio il posto adatto per questo
genere di sogni e, perché no, per questo genere di persone, che
sogna di rifiutare di piegarsi alle regole dettate dalla società e
che sogna di tornare in quella spiaggia di Los Angeles.
È sempre stata necessaria una personalità particolare per
vivere a Venice, una personalità aperta agli imprevisti,
disposta ad accettare i suoni assordanti delle radio che
popolano ogni angolo delle strade, le grida rauche degli
ubriaconi a tutte le ore del giorno e della notte. Può sembrare
decadente a chi non la conosce bene e non è entrato nel suo
spirito: possono parere matti freakkettoni quelli che passano le
loro giornate sulle panchine a cantare, a suonare i bongos o a
ballare al suono degli enormi registratori appoggiati sull’erba.
Eppure Venice rimane un punto fermo per le generazioni di
giovani americani che l’hanno vista esplodere proprio nel
periodo del dominio rock’n’roll degli anni Sessanta, che
l’hanno vista patria di Jim Morrison, dei Mamas & Papas e
dei Beach Boys.
Negli anni Cinquanta arrivarono i beatniks, che videro nel
sottoproletariato di Venice la possibilità di una presa di
coscienza rivoluzionaria. Erano i poeti, gli artisti e gli
scrittori che Jack Kerouac chiamò la Beat Generation. Ai
beatniks seguì la generazione dei figli dei fiori, vagabondi
liberi di suonare, ballare, cantare e bere per le strade, senza
nessun ordine da rispettare, né musicale né sociale. Ma alla
fine del ’77 la polizia iniziò ad arrestarli perché suonavano
illegalmente su proprietà privata… e allora il sogno finì, o
perlomeno, il sogno reale di quegli anni finì, perché nella
mente dei più assidui sognatori, la possibilità di un ritorno al
passato è sempre viva.
Quello che fino al ’74 - ’78 fu uno dei posti meno cari di Los
Angeles in cui vivere, oggi è uno dei quartieri meno ospitali
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per gli artisti squattrinati. Venice è ormai quasi solo per pochi
privilegiati. Eppure intellettuali freak e nuove generazioni
beat e hippy continuano a viverci, incontrandosi al “Fig
Free”, un caffè che serve solo cibi naturali e mette su solo
della “buona, sana, vecchia musica”.
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Come gli hippy che ammiro tanto, noi, i nuovi beatniks de
“S’Antipilu” siamo un gruppo strano: semplice ma allo stesso
tempo ribelle ai dogmi ed ai pregiudizi che la piccola società
del paesino sulle rive del Cuga, ci vuole imporre.
Volevo tornare a quella vita contemplativa, e per questo ci
riuniamo spesso in quella lugubre, ma allo stesso tempo
gioiosa, casa degli inizi del ‘900.
Il mio gruppo è prettamente maschile ma, proprio per
contraddire il nome che gli abbiamo dato (“S’Antipilu” in
dialetto urese significa, infatti “vietato alle donne”), alle nostre
feste e ai nostri ammassamenti partecipano anche le ragazze.
Facciamo feste costantemente un paio di notti a settimana e,
a volte, anche ininterrottamente per giorni. Nel nostro mondo
inglobiamo ragazzi di ideali e pensieri diversi dai nostri,
accettiamo anche se a malincuore i loro stili di musica preferiti
e per questo, a volte, ci sorbiamo anche il punk, lo ska e la
maledettissima musica dance del duemila. Lo facciamo con
riluttanza non perché quel tipo di musica non ci piaccia, ma
solo ed esclusivamente perché preferiamo la “vecchia” musica.
Siamo, insomma, un gruppo di ragazzi fuori dal comune,
sfacciatamente atipici e convinti di essere nati in un’epoca che
non appartiene alle nostre prospettive: insomma, coglioni
anacronistici.
Quello che accadeva negli anni ’60, ad Uri non accade mai.
Non volevo accettare l’idea che la gente avesse dimenticato
quegli anni, caratterizzati da proteste, violenze e lotte, ma
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soprattutto da libertà ed uguaglianza. Uri è così soffocante che
pare risucchiarti ogni energia. Il paese è un deserto
intellettuale e culturale e, come ha scritto Max in una poesia
dedicata al club, certe zone sono delle vere e proprie gabbie.
Non c’è nessun posto dove andare, a parte il lago,
naturalmente. L’unica alternativa al restare chiusi in casa è
recarsi negli innumerevoli bar o circoli privati che ribolliscono
di vecchi alcolizzati.
In quelle bettole passavamo delle ore a trangugiare alcolici
di ogni tipo. Ma forse sbaglio a descriverli così…da un po’ di
tempo i locali si sono modernizzati: hanno installato decine e
decine di videopoker! Così oltre che agli avvinazzati, ora nei
bar ci sono anche i malridotti, gli spiantati ed anche quelli che
si sbronzano facendosi fregare da una macchinetta mangiasoldi.
Per nostra fortuna, in un sabato sera di settembre, mentre si
consumava l’ennesima sbronza di gruppo, a qualcuno venne in
mente di “aprire” un club. Così, il giorno seguente ci
mettemmo tutti d’accordo e creammo il celeberrimo
“S’Antipilu”. Era il settembre 2003 quando a Sarkasmo,
Cerbero e Barbatella venne in mente di fondare un club, ma
l’ingenuità e l’ignoranza, nel paese erano ancora molto diffusi.
I nuovi anni ’60 non erano ancora arrivati (e forse non
torneranno mai più) ma a loro piacque credere che potevano
riviverli in un piccolo mondo, quello che avrebbero creato.
Barbatella spiega: <<Abbiamo aperto il club perché eravamo
stufi dei casini controproducenti ed anche perché la piazzetta
non ci conteneva più. Avevamo bisogno di un posto tranquillo
dove poter annientare le preoccupazioni e dove poter essere
felici in tutta libertà, fra amici.>>
L’origine del nome è stata caratterizzata dalla padrona di
casa, che con le sue idee venerande, attempate e ormai canute
diede l’ordine di proibire l’ingresso a qualsiasi tipo di persona
di sesso femminile, sia essa bambina, ragazza o donna anziana.
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Naturalmente, questo dettame fu da subito infranto.
Dapprincipio le ragazze entravano di soppiatto, a tarda ora,
evitando così l’occhio indiscreto dei vicini, ma in seguito, col
passare delle feste e, soprattutto, delle sbronze, noi giovani
hippy di Uri trovammo il coraggio di sbattere al muro le
regole; e così, ora “S’Antipilu” pullula anche di ragazze.
Oltre al memorabile e compianto Dio del rock Elvis, a me,
Max e compagni piace molto anche il blues. Da mattina a sera,
e da notte a mattina, i muri tappezzati del nostro club
rimbombano dei ritmi nostalgici di Joplin, Mayall, Clapton e
Morrison, assordando con costanti cadenze anni ’60 le ormai
disperate orecchie dei vicini.
Ogni membro del club ha una propria idea. Ha anche un
proprio introito e, difficilmente, capita che si chieda l’aiuto di
un altro per essere in grado di affrontare una spesa. C’è chi si
sostenta con il solo aiuto dei parenti, che tra l’altro è parecchio
umiliante, perché a volte capita di non avere a disposizione
abbastanza quattrini quanti se ne desiderino e dunque si va
incontro ad inesorabili rinunce. C’è chi si sostenta con il
proprio lavoro, fisso o saltuario che sia, e ancora chi si
mantiene sia con l’aiuto dei parenti, sia con lavoretti
occasionali.
Ogni persona, dunque, ha una propria vita a parte, fuori dal
club, ed anche una storia diversa. Forse questa è una delle
tante diversità che ci separa dall’essere dei veri hippy: non
vivere costantemente assieme tra noi. Ma forse, oltre alla
ripulsa nei confronti della droga e all’inevitabile rispetto delle
regole, sono anche le uniche differenze.
Fra i tanti volti che animano le serate all’interno de
“S’Antipilu” ci sono modi di vita differenti ma che vengono
annientati ed equiparati una volta entrati nel magico portone
color noce della “nostra” casa. C’è il muratore che lavora fino
a tardi e torna a casa stanco e sporco di cemento, il contadino
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che dopo un’intera giornata passata a strappare le erbacce dalla
terra viene al club a godersi una birra ghiacciata, tra amici. Ci
sono gli studenti (in gran parte) che, assolti i loro obblighi, si
godono le ore di libertà in tutto rilassamento. Ed infine ci sono
i disoccupati, vittime di un sistema a loro inadeguato o, molto
più semplicemente, martiri della disoccupazione, che li deride
ed ignora, nonostante abbiano un titolo.
Dunque, la casa riesce ad unire gente di ogni sorta, con
ideali e gusti diversi. Un solo sogno ci affianca l’un l’altro e ci
rafforza sempre di più ogni giorno che trascorriamo assieme:
la libertà. Grazie all’apertura del club possiamo, infatti, gridare
di aver conquistato un piccolo tassello di libertà, e possiamo
farlo a squarciagola perché, in fondo, il nostro club raggruppa i
nostri sogni ed il nostro modo di essere; in altre parole,
“S’Antipilu” è il nostro mondo.
Come i ribelli delle altre generazioni, noi, i ragazzi del
circolo rifiutiamo le categorie rigide. Tutte quelle libertà, sia
fisiche sia emotive, ci danno un piacere selvaggio, ma ci sono
dei prezzi da pagare. Cerchiamo di proteggerci l’un l’altro
dalle reazioni negative suscitate dal nostro animo ribelle, ma
gli screzi ed i disprezzi che riceviamo, colpiscono comunque
nel segno.
<<Puoi fottertene la prima volta, le altre volte puoi
continuare a credere di fare la cosa giusta, ma col passare del
tempo cedi e non è possibile evitare di pensare che potrebbero
aver ragione…>> Con questa frase si esaudisce il pensiero e la
paura che, chiuso il club, senza l’aiuto degli amici, ogni
componente potrebbe perdersi di continuo.
Ricordo un sabato notte, quando, nel bel mezzo di una festa
psichedelica,
avvolta
dal
fumo
dell’incenso
e
dall’allucinazione dovuta alla birra, arrivò una telefonata. Era
uno dei vicini… Aveva protestato duramente, opponendosi
all’assordante pianola di “Light My Fire”. Così, dopo uno
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sfogo durato alcuni minuti, le mie urla di rabbia e sconforto
cessarono. Quella notte non sarà mai dimenticata. È stata la
nostra prima sconfitta. Per non rischiare di perdere il club,
infatti, fummo costretti a moderare il volume
dell’amplificatore e cedere alle pretese di un esterno. Ricordo
che non sopportavo quel silenzio. Mi dava un senso di
depressione. Ci eravamo arresi. Così, lasciai gli altri a godersi
un pazzo filmato, girato alcuni giorni prima, e, dopo aver
recuperato le mie cose, scappai. Vagai per tutta la notte, senza
una meta, senza una regola. Piansi anche, parecchio. Quella
telefonata mi aveva profondamente deluso e cambiato. Deluso
perché non credevo che i miei compagni si arrendessero così
facilmente (ma cosa potevano fare?), e mi aveva cambiato
perché l’idea di libertà che avevo in mente di creare, era una
pura e chiara utopia. Quello che non sopportavo era il concetto
di adeguamento che volevano impormi. Per questo mollai tutto
e camminai per tutta la notte. Da solo, da libero. Senza
nessuno che m’imponesse degli obblighi. Camminai sotto la
pioggia, piansi e le mie lacrime si mescolarono alle gocce
d’acqua. E vi giuro che non c’è modo migliore per sentirsi
realmente liberi. Capii anche che purtroppo il nostro club non
era quello che sognavo. Era solo un nuovo bar, mascherato dai
tanti poster e assordato dalla musica. Ma in fin dei conti era
solo un altro bar. Per questo, ora, quando ci vado, non provo
più le vibrazioni che provavo prima e, soprattutto, guardo i
miei amici con occhi diversi. Anche se, nel nostro piccolo,
possiamo essere liberi, abbiamo sempre delle fottutissime
regole da rispettare, e per andare avanti dobbiamo piegarci a
loro.
L’unico caffè che ci attirava e ci faceva sentire liberi, senza
aver bisogno di un luogo di ritrovo, l’hanno chiuso dopo sei
mesi, ma là dentro, passammo la nostra migliore estate.
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Siamo giovani creativi, ribelli e non lo facciamo solo per il
gusto di farlo. Crediamo in quello che facciamo e questo ci
rende unici ed imparagonabili a qualsiasi altro tipo di giovani.
Un’altra convinzione che abbiamo è quella di essere noi stessi.
Non ci piace essere accettati per quello che possiamo
sembrare, bensì per quello che siamo realmente. Per questo
vestiamo strano e ci comportiamo in modo strano; in altre
parole, siamo fuori da ogni regola.
Beviamo un sacco… litri di birra. La nostra particolarità è
che, da sbronzi, non maltrattiamo cose o persone ma ci
“limitiamo” a far casino cantando. Fumiamo anche
moltissimo. Sigarette di tutte le marche. A volte anche il
trinciato. Fumiamo, beviamo, cantiamo e balliamo. Sono
queste le insegne delle nostre feste. Ci sbronziamo in
continuazione e in continuazione cantiamo e balliamo. Come
si dice in dialetto urese: siamo “a cazzu”.
Non possiamo neanche essere paragonati agli hippy perché i
ragazzi de “S’Antipilu” disprezzano ogni tipo di droga ed
evitano di affiancare chi ne fa uso, mentre quelli degli anni ’60
si sballavano in continuazione
A “S’Antipilu” si sogna in grande, anche se non si è ancora
arrivati totalmente alla stravaganza, e forse non ci si arriverà
mai. Alcuni di noi, con capelli e barbe alla Gesù Cristo, si
appropriano di abiti di altre epoche e culture; cappelli,
bracciali, mantelli, camicie e jeans, a “zampa” o a “tubo”,
stivali da cow-boy, occhiali da sole, fasce alla Jimi Hendrix.
Siamo “meravigliosi” non perché siamo belli o stupendi, ma
semplicemente perché destiamo meraviglia in chi ci scorge.
Con questi atteggiamenti, Io, Max, Braghetta, Barbatella,
Sarkasmo e Celisi speriamo di coinvolgere anche gli altri e,
come per il rock’n’roll, crediamo di potercela fare. Non lo
facciamo perché sappiamo di essere meravigliosi, ma
semplicemente perché vogliamo che anche gli altri viaggino
sulla nostra stessa linea d’onda e che provino e sentano le
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nostre stesse vibrazioni tribali ed allo stesso tempo
individualiste.
Il casino dell’amplificatore rimbombava tra le pareti,
creando un’atmosfera allegra e pazzamente psichedelica, il ché
paragonato ad un acido lo minimizzava ad una cazzata. I
compact disc appesi al lampadario riflettono la luce del sole,
espandendola alle pareti sotto una forma iridea, e, come per
magia, specchiano nell’intonaco bianco i ritmi assordanti del
rock’n’roll, facendo attraversare così i confini psichici
dell’immaginazione umana.
Anche le distanze vengono annientate. Fare due chilometri a
piedi per arrivare alla casa è una sciocchezza.
Ubicata nella zona antica del paese, nel centro storico, a due
passi dalla piazza centrale, il club “S’Antipilu” è una vera e
propria casa.
La facciata esterna, tipica di una casa dei primi anni del
Novecento, appare, al primo impatto con i bulbi oculari, molto
rovinata. Il continuo battere delle gocce d’acqua ha formato
qua e là delle chiazze, con gradazioni di nero e verde.
Il minuscolo e stretto balcone è formato da una lastra di
marmo ed il parapetto è talmente arrugginito che una semplice
spinta può farlo cedere. La casa è, infatti, divisa in due piani,
ma a noi è consentito l’accesso solo al pian terreno (un’altra
fottutissima regola!).
L’ingresso è pressoché fatiscente; il robusto portone è
pesantissimo, modellato da intarsi in castagno su di un’unica
lastra in noce. Il battente, montato sull’anta destra, è avvolto
da un paio di strati di nastro adesivo trasparente, relegando
così il rumore sordo della picchiata ad un docile tocco (tutto
perché i vicini si lamentavano del continuo battere alla porta –
un’altra maledettissima regola -). Al di sopra delle due ante,
un’inferriata foggiata secondo antichi stili architettonici,
sovrasta, come una corona, l’immenso portale della
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perdizione. In altri sensi, può sembrare come la porta
dell’inferno dantesco, dove invece che le frasi “Lasciate ogni
speranza voi che entrate […], per me si va tra la perduta gente
[…], e innanzi a me non vi furon cose create se non eterne, ed
io eterna duro […]”, ci sono incise le iniziali del vecchio
proprietario. Può, però, sembrare anche la colonna del paradiso
perché, una volta superata la soglia, si arriva in un mondo a
parte, quasi irreale, formato solo da amore, uguaglianza, birra
e rock’n’roll.
Gli sportelli della persiana danno l’ultimo tocco di vetustà
alla casa e la panchina in pietra, a lato del portone, un non so
che d’antico.
Valicato l’ingresso principale, lo spettacolo che si presenta
davanti è originalmente stupendo: l’esatto contrario del parere
che chiunque poteva farsi, guardando il club dall’esterno.
Un tavolo da sei posti è sistemato al centro della stanza,
circondato da quattro sedie, con il sedile in vimini. A destra
dell’entrata c’è una vecchia lavatrice, ancora funzionante,
affiancata da una poltroncina, rivestita di velluto. Dalla parte
opposta, il caminetto da alla casa alcune comodità, evitando il
freddo invernale. Viene utilizzato spessissimo anche per la
cottura della carne arrosto e di conseguenza è annerito dalla
fuliggine. Spostando l’occhio più avanti, si vedono anche un
vecchio frigorifero, eternamente carico di birra, una credenza
color panna, che custodisce le provviste e le pentole della casa,
ed una cassa in cartone, adagiata in un angolo e stracolma di
legna.
Due porte bianche, forse in legno di noce, con vetri non
trasparenti, nascondono, ad un primo sguardo, due camere.
L’angolo cottura, piuttosto piccolo, dove trovano posto un
vecchio cucinino ed un lavabo in ceramica, graffiato; ed il
bagno, occupato da un water difettoso, un lavandino
eternamente sgocciolante ed una vasca da bagno inutilizzabile,
piena di secchi e stracci.
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Le scale che portano ai piani superiori sono strette a tal
punto che due persone affiancate fanno fatica a starci. Una
ringhiera ed un pianerottolo completano la struttura, creata in
vecchio stile italico.
Anche le pareti hanno una loro tendenza: tappezzate di
poster e fogli di giornale d’ogni tipo, fanno riferimento a delle
vere e proprie epoche musicali. C’è l’angolo Nomadi, dove le
foto della band di Augusto Daolio coprono l’intonaco. Foto di
concerti e di cantanti mitici, tipo Francesco Guccini, Lou
Reed, Jimi Hendrix e Keith Richards, affiancano fotografie dei
componenti del club, nelle più svariate pose immaginabili.
Due corone di volantini, che sensibilizzano i ragazzi al
pericolo del virus dell’HIV, completano l’intelaiatura
scheletrica della porta (senza ante) che da alla sala principale
de “S’Antipilu”.
A mo’ di sipario, i nastri di delimitazione stradale scendono
come stalattiti dall’antro di una caverna e preparano ad uno
spettacolo indescrivibilmente impareggiabile.
Foto di tanti ricordi occupano i muri, e l’intonaco che
nonostante gli anni rimane intatto, è come la musica che
ascoltiamo: infinita.
Entrando, il primo sguardo è rivolto allo scaffale che
contiene i bicchieri in vetro e cristallo. Ai suoi fianchi
prendono posto un piccolo stereo collegato ad un amplificatore
ed una piastra antica per l’ascolto dei vecchi dischi in vinile,
acquistata in un mercatino delle pulci della limitrofa provincia;
ed un divano in velluto, sistemato ad angolo, utilizzato nelle
pazze notti interminabili.
Ancora poster e vecchie foto tappezzano i muri, tagliati in
due dalla carta da parati, fino a renderli totalmente ricoperti.
Un vecchio tavolo con sei sedie in legno è sistemato al centro
della stanza e riempie lo spazio altrimenti vuoto. Altri due
divani in stoffa ed una poltrona sono posizionati agli angoli
della stanza magica e coprono posti a sedere per sette persone.
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C’è anche una vecchia televisione in bianco e nero che
trasmette immagini, allo stesso tempo nuove ma antiche, che
sembra voglia fermare il tempo agli anni ’60, portando con se
chi la guarda; ed una radio del periodo hippy, utilizzata per
l’ascolto delle partite di calcio.
Lo sguardo fisso di Jim Morrison si staglia dal poster in tela,
come a voler punire o biasimare con nostalgia i ragazzi de
“S’Antipilu” e, con autorità sembra voglia che si ascolti la sua
musica… Ed a volte lo accontentiamo.
Non mancava neanche Gilles Villeneuve che, con la sua
occhiata persa nel vuoto, sembra mettere al corrente dei
pericoli dell’automobile, e Piero Pelù, che con la sua posa
oltraggiosamente morrisiana, sembra chiedere che si smetta
con le guerre ed il gioco del Risiko, dove si sa, vince chi è più
forte e più ricco.
Ci sono anche le pose comiche che, affiancate a quelle serie
e composte degli attori e dei musicisti sembra che quasi
parlino, dicendo ai ragazzi di non cambiare mai.
Una foto di gruppo ricorda anche un vecchio amico del club
(anche se ancora “S’Antipilu” non esisteva): Alex. Cinese e
molto simpatico, negli anni della sua presenza aveva arricchito
la psicologia dei giovani, introducendo nel loro mondo il “Mao
Pensiero” e il misticismo orientale. Ricordo che era molto
simpatico con i suoi occhi a mandorla. Era diverso da noi, ma
in fondo era uguale a noi; per questo è riuscito a diventare uno
dei miei migliori amici, ed ora mi manca molto.
Gli Abba, Zucchero, Vasco Rossi, i Village People e
soprattutto i Queen di Freddie Mercury sono gli idoli dei
“s’antipiliani”, sottintendendo naturalmente gli eroi degli anni
d’oro. Mercury piace, soprattutto a me, non solo perché aveva
un’ottima voce, ma anche perché il suo atteggiamento
bisessuale è gradito anche da me. Non che io sia omosessuale;
ma soltanto amante del bello, senza inibizioni, maschile o
femminile che sia.
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La volta, arcuata a mo’ di cappella ecclesiastica, dove ogni
curva pare un altare, da l’impressione di stare all’interno di
una tenda circense, e le scale che portano al piano di sopra, in
quanto “invalicabili”, sembrano portare ad un luogo stregato, e
ad alcuni incute una sorta di misteriosa paura.
Poi c’era il pupazzo, il santone del club. Da una fredda ed
umida stanza di un magazzino abbandonato si ritrovò a
“S’Antipilu. Gli attribuimmo il nome di “Babbu Caddia”. È
passata tanta acqua sotto i ponti da quel febbraio del 1990,
quando l’ex “Giozzi”, vestito da mascotte dei mondiali di
calcio “Italia ‘90”, faceva gioire centinaia di bambini e
ragazzi, per le vie del paese. Non si sarebbe mai immaginato
che a distanza di tanto tempo un’allegra e pazza comitiva
l’avrebbe usato, come figura, come testa, come simbolo di un
qualcosa. “Babbu Caddia” è diventato lo “starter” delle loro
feste. Lo si guarda e gli si grida “l’anziano”: quasi gli si dà da
bere.
L’idea del nome non è proprio del gruppo ma di un amico
esterno che ogni tanto fa la sua apparizione nel club: Zio
Nanni, che durante una semplice festa glielo impose e da
allora, come per incanto, sembra che quel nomignolo fosse il
migliore mai pronunciato prima.
Ma “S’Antipilu” non è solo festa e baldoria… È soprattutto
una miscela d’idee di tanti ragazzi semplici, incasinati, partiti,
fuori di testa, svitati ed ottimisti. Siamo gli hippies del 2000:
“Birra, Amici e Rock’n’Roll”, piuttosto che “Droga, Sesso e
Rock’n’Roll”.
Se un esterno dovesse descrivermi nelle mie pazze serate al
club, direbbe: <<Ce n’è uno in particolare che a prima vista
può sembrare uno sbandato: scarpe strane, graffiate, quasi
distrutte; jeans di qualsiasi tipo, marca o colore; felpa semplice
e larga, come a voler nascondere la pancia da bevitore; alto,
con la barba a volte incolta e con peli differenti di qualsiasi
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colore; capelli spettinati ed arruffati, quasi a sembrare sporchi.
A completare il tutto, a volte indossa un giubbotto anni ’70 in
velluto, ed una coppola anch’essa vellutata>>.
Una delle colonne portanti dell’arredamento del club è la
frase: “Non tutto ciò che è vecchio è da buttare”.
È nel vero senso della parola una casa in vecchio stile, con
vecchi mobili, e in fondo anche noi siamo in vecchio stile; ci
siamo adattati alla casa e la casa si è adattata a noi. Una
televisione vecchia ed un vecchio frigorifero sono gli
elettrodomestici più usati. Abbiamo rispetto però se le cose
non funzionano come dovrebbero: nessuno protesta se si
fulmina una “vecchia” lampadina, se il “vecchio” lavabo
perde, se il “vecchio” cucinino bruciacchia le pentole o è
difettoso all’accensione (<<Hai presente i geyser di un
vulcano? Quando si scola la pasta in quella cucina si ha lo
stesso effetto!>>, ricorda Braghetta), se il “vecchio” frigo non
raffredda abbastanza le bottiglie di birra o, quando lo fa, quasi
le congela. Ma soprattutto, nessuno protesta se lo sciacquone
del “vecchio” cesso funziona male: l’importante è che
funzioni, anche perché l’ha riparato Max, con una mezza
bottiglia di plastica.
A “S’Antipilu” c’è bisogno di foto sempre più spettacolari
ed originali, perché ogni festa è diversa dalle altre ed è sempre
migliore.
Alcuni pensano che la musica dance possa darti la possibilità
di poter “restaurare” una vecchia canzone ed è per questo che a
loro piace anche il rock’n’roll. Altri ancora preferiscono il
punk, lo ska o altre musiche perché possono farti superare le
percezioni spazio-temporali, ma non hanno ancora captato
totalmente la cultura della “vecchia” musica. La differenza fra
la dance e la “nostra” musica è che la nostra non è solo un
rumore di fondo: è una dichiarazione di diversità; folk, jazz,
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blues, country e rock’n’roll sono musiche per “vecchi” e non
hanno la benché minima traccia di commerciabilità, eppure a
noi piace e, soprattutto, ci fa sognare…
Qualcuno, addirittura basa la sua idea di esistenza
sull’amicizia ed il sogno da realizzare è quello di vivere
assieme, come una vecchia comunità hippy.
Non vogliamo diventare come i nostri genitori. Guardandoli
ci accorgiamo che si sono arresi, hanno fatto compromessi e si
sono ritrovati con poco in mano. Per questo i ragazzi di oggi
vogliono tutto e subito, invece che quasi niente nel giro di
settant’anni. Non voglio passare la vita a lavorare, con il solo
scopo di arrivare alla pensione! Se il lavoro c’è, ben venga!
Ma non permetterò che mi offuschi la mente e mi privi della
mia felicità e dei miei amici! Se devo rinunciare a queste cose,
non voglio né un dannato lavoro, né una fottutissima
famigliola felice!
Come è impossibile trovare un ago in un pagliaio, era
impossibile trovare tristezza nei nostri volti. Addirittura, il
piacere dell’amplesso non ci attraeva più di tanto. Preferivamo
una bevuta o una sana ballata di rock’n’roll ad una scopata.
In altre parole, in un mondo fatto di ombre, “S’Antipilu” era
lo spiraglio di luce.
Queste piccole frasi però sono offuscate dalle vicende
causate dai vicini.
Per quanto mi riguarda, ho perso le speranze. Non sogno più
un mondo tutto mio all’interno della casa. È impossibile
crearlo. È irreale. Anch’io sono costretto a piegarmi alle
regole. Devo convincermi che “S’Antipilu” è solo un semplice
luogo di ritrovo. Per me ora, dopo quello che è successo in tre
giorni, sostituisce il bar di Alberto. È solo un posto nuovo
dove sbronzarci, ridere e scherzare. Non credo che canterò più
come prima o che ballerò come ballavo prima. Non ha più la
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stessa intensità della settimana scorsa. Non mi divertirò più
come prima.
Ma richiamiamo alla mente anche altre frasi: <<Se non credi
che questo dolce paradiso abbia un prezzo, ricordami di
mostrarti le cicatrici>>. Il ché sta a significare che la gente
esterna al club non apprezza le nostre feste ed i nostri casini,
personali o no, e se non è la scritta “Caution: weird load”,
“Attenzione: carico folle”, liberamente copiata dal retro dei
pulmini Wolswagen degli hippy, ad attirare l’attenzione, basta
la musica per farci notare.
E se qualche giorno fa avevo la forza e la grinta per
combattere quella gente, ora dopo quello che è successo, non
posso e non voglio più farlo.
È bastata una piccola sconfitta per farmi cambiare opinione
sul nostro club. Certo, continuerò ad andarci ma non sarà mai
più la stessa cosa. Gli spuntini non saranno più quelli di una
volta. Le bevute non saranno più le stesse.
Hanno vinto loro. I maledetti vicini, gelosi o esausti. Ormai
sono imprigionato all’interno di una regola, come
l’amplificatore. Ho una scritta appesa al petto. “Sono sotto
sequestro per usi inconsueti e per distruzione della quiete
pubblica. Censured!”. Ci hanno zittito!
Mi paragono a lui, povero e innocente complice dei nostri
casini. A “S’Antipilu”, senza di lui, non ci sarà più la stessa
atmosfera… Prima ne parlavo come una casa magica, ora ne
parlo come una casa normale, semplice e obbligata a rispettare
le regole.
Mi viene in mente una cosa: può essere che il blues mi sia
entrato dentro? La parola blues significa tristezza, depressione,
malinconia. Può essere che il blues abbia catturato me e
“S’Antipilu”? Oppure è la “musica del diavolo” che ha causato
tutto questo? Non so… Non voglio saperlo… Mi basta
ricordare come eravamo. Felici, liberi, strani… Ora saremo
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solo strani, prigionieri e quasi normali… Mi spiace per questo
ma penso che fosse inevitabile…
Magari, un domani, i posteri ricorderanno “S’Antipilu”
come il luogo più scoppiato di Uri, forse come la casa dei
pazzi o forse come la casa degli hippy, dei giovani liberi di
Uri, dove se ti andava di fare qualcosa potevi farlo.
Ora che ci penso forse anche il fatto di non voler accettare la
droga, era una regola nascosta. Forse siamo pieni di regole, di
consuetudini che neanche vediamo perché siamo stati abituati
da sempre a non vederle e a ritenerle normali. “S’Antipilu”
però poteva scovarle, pian piano, ed abbatterle. Poteva farlo…
ma non abbiamo trovato il coraggio di affrontarle e
sconfiggerle. Ci siamo arresi al primo ostacolo.
Abbiamo una casa tutta nostra, abbiamo la possibilità di
sbronzarci in tutta solitudine, ma in fondo, io penso che, noi, i
giovani hippy del 2000, i beatniks di Uri, o come ci vogliano
chiamare, ci siamo piegati ed, in un certo senso, abbiamo
perso…
Ma visto che questo breve libro lo sto scrivendo io, non è
detto che debba seguire le regole della realtà. Io sono contro le
regole imposte dagli altri. Ed io, nel mio piccolo libro le
abbatto.
Vincerò io e dirò che i ragazzi de “S’Antipilu”, invece che
spegnere la radio, quella notte, e sedersi nei divani e stare
incantati a guardare un filmino pazzo, hanno reagito. Hanno
chiuso il telefono, sono usciti in strada, hanno urlato al mondo
la loro rabbia. Poi sono rientrati, hanno riattaccato
l’amplificatore ed hanno spaccato i timpani dei vicini. A fine
nottata, poi, esausti delle loro performance, hanno spento la
radio, hanno acceso la tivù e hanno scolato tutta la birra.
Sono riusciti ad oltrepassare i confini della realtà. Hanno
chiuso gli occhi ed hanno ballato assieme al Re-Lucertola,
assieme a Janis; hanno cantato in coro con i Beach Boys
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“Barbara-Ann”, poi sono volati a Woodstock, hanno suonato
la chitarra con i denti, assieme a Jimi Hendrix; hanno ballato i
ritmi di “California Dreamin’” e di “Everybody Needs
Somebody To Love”, ed hanno mosso il culo al fianco di
Elvis.
Poi, stufi della pazza America sono fuggiti in Inghilterra,
hanno ricevuto l’onorificenza di baronetti assieme ai Beatles,
hanno nuotato con George tra le onde del Pacifico e poi hanno
fatto le orge assieme a Keith Richards.
Ma loro erano italiani. Son tornati in patria per questo.
Hanno incontrato Lucio, Fabrizio e Francesco, hanno cantato
con loro “Emozioni”, “La Guerra Di Piero” e “Il Vecchio E Il
Bambino”. Dopo aver fatto tutto questo mancava loro solo una
cosa.
Allora sono andati al cimitero di Novellara, e passando
attraverso la sua folta barba, si sono seduti sul trono al fianco
di Augusto. Hanno capito di essere “vagabondi” come lui e,
come lui hanno vinto.
Ma questa non è la realtà. È solo il finale di uno stupidissimo
libercolo. La vera realtà è “S’Antipilu”. E quella non cambierà
mai. Non la si potrà modificare. Rimarrà indelebilmente scritta
nei cuori di chi l’ha vissuta, e non potrà mai essere cancellata o
distrutta, come stanno cercando di fare ora i nostri vicini.
Potrebbero anche aver ragione, o forse l’hanno proprio. Ma
in fin dei conti cosa è la ragione? È un modo come un altro per
auto-gratificarsi, per non aver torto. Ma nella vita, quella che
intendo io, la ragione o il torto non esistono. Esiste solo ciò
che fai. E se ci credi, quella diventa, secondo me, la cosa
giusta, a discapito della ragione o del torto che gli altri possano
darti.
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4
Come avrete notato, queste pagine non seguono una loro
logica. Le ho create appositamente così perché non voglio che
i miei scritti siano relegati con un’etichetta. Non voglio che ci
sia un prologo, una parte centrale o le note dell’autore.
Se notate bene, il mio stile non si basa su schemi prescritti.
Ho inserito i miei sentimenti e le mie idee all’interno di ogni
frase. Le note dell’autore cominciano dal primo paragrafo, le
informazioni sono presenti in ogni periodo grammaticale e i
miei pareri riempiono i vuoti lasciati dalle altre parole.
Ho voluto iniziare questo libro con la storia della musica
vera. Dal rock’n’roll di Elvis al blues di Jim Morrison,
trascurando volutamente gli altri generi. Rischiavo così di fare
una biografia degli anni Sessanta. Allora cosa ho fatto? Ho
preso un block notes e sono andato a “S’Antipilu”. Ho
catturato le emozioni dei miei amici, le ho immobilizzate come
in una fotografia, e poi, una volta tornato a casa, le ho
trascritte.
Magari così facendo sto inventando un nuovo stile di
scrittura, magari no. Non mi fotte.
Ok, ho finito. Non credo di avervi annoiato ma anche se
fosse, me ne sbatto. L’estate che sta per iniziare sarà molto
scoppiata, credo. E ricordatevi che dopo l’estate arriverà il
primo anniversario de “S’Antipilu”. Chi potrà impedirci di non
spaccare tutto quella notte?
L’indomani però sarà Autunno e torneranno i casini…
Speriamo di resistere e poter festeggiare assieme anche il
secondo anniversario del nostro club.
Insomma, come disse Augusto, festeggeremo assieme i
dieci, i venti, i trenta ed i quaranta anni di nascita de
“S’Antipilu”. Dopo potrà anche morire… ma mi raccomando:
non prima!
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La foto di copertina è della straordinaria Janis Joplin. Ho
voluto scegliere proprio quella foto perché, visto che si parla di
anni ’60, lei è la più indicata. Il cerchio nel quale è
“imprigionata” la sua foto rappresenta il tunnel che l’ha
risucchiata il 3 ottobre del 1970, mentre l’imperfezione che si
può notare proprio sopra al titolo, l’ho voluta personalmente
(infatti, nella foto reale il cerchio è perfetto), a dimostrazione
che nei cuori di qualcuno, la mitica Janis vive ancora.
Il titolo invece, è la “targa” che gli stessi hippy avevano nei
loro pulmini Wolswagen. A me rappresenta qualcosa che
potrebbe ripetersi…speriamo.
Vi ringrazio e vi saluto con l’augurio di potervi mostrare il
mio terzo scritto…
Alla Proxima…
Giampietro Delogu
Abbozzato ad Uri nel giugno 2004
Terminato ad Uri nell’agosto 2004
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