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Discorsi sull’importanza dell’attore nel Playback e non
solo…
Datemi una barca, disse l'uomo.
E voi, a che scopo volete una barca, si può
sapere, domandò il re.
Per andare alla ricerca dell'isola
sconosciuta, rispose l'uomo.
Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne
sono più. Sono tutte sulle carte.
Sulle carte geografiche ci sono soltanto le
isole conosciute.
E qual è quest'isola sconosciuta di cui
volete andare in cerca.
Se ve lo potessi dire allora non sarebbe
sconosciuta.
(José Saramago
Il racconto dell'isola sconosciuta )
«Potrei dimostrare, non come gli uomini pensano nei miti, ma come i miti operano nelle menti degli
uomini senza che loro siano informati di questo fatto.»
Claude Lévi-Strauss
Senza l’attore non si ha Playback e più in generale Teatro.
Ci può essere un teatro senza regista, senza scenografia elaborata, senza teatro come luogo fisico
istituzionalizzato, senza tante altri componenti, ma non può esserci teatro senza attore.
Una delle dimensioni fondamentali del PlayBack Theatre è proprio in questa figura.
In “storie di Vita in scena” di Luigi Dotti, si dice che l’attore è un medium indispensabile affinché la
spontaneità si traduca in un atto creativo in grado di condurre all’insight:
“alla comprensione e alla ri-contestualizzazione del racconto nel qui e ora, in modo che la scena e la
rappresentazione diventino una nuova interpretazione della realtà, sia nel significato teatrale del termine
(interpretazione mettendo in scena dei ruoli) che nell’accezione di dotazione di nuovo senso (fornire una
interpretazione della realtà)”.
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L’attore diventa un catalizzatore degli elementi costitutivi del PlayBack e cioè l’elemento Arte, l’elemento
Interazione Sociale, l’elemento Rituale e ha una fondamentale responsabilità per un “buon playback”.
Prendendo spunto da questo, mi propongo di veleggiare attraverso gli stimoli che questa dimensione
rimanda, per poter intravedere alcuni dei possibili legami con le radici del teatro e con quello che ad oggi si
considera teatro.
Mi propongo in particolare di “evidenziare” la figura dell’attore come fondamentale per ogni forma di
teatro e anche per il playback, in un periodo in cui l’attore è usato come una macchina senza coscienza o
come” illustratore” di emozioni o come soldato senza spirito critico al comando di un regista e mai, o quasi
mai, come un artista.
Ne nasce quindi l’idea di una macchina da rendere iper-specializzata per aderire alle richieste di un altro o
all’opposto un qualcuno che non necessita ne di particolare preparazione o studio ma anzi da essere
preservato dalla preparazione e dallo studio per impedire una ipotetica innata spontaneità primigenia.
L’attore invece è in primis una persona che si fa delle domande e che cerca nel play del “palcoscenico”,
inteso in senso lato, la risposta a quelle domande.
Questo a mio avviso vale anche per l’attore di playback appunto, che in primis essendo attore è attore e in
secundis, grazie alle storie che gli vengono consegnate e al servizio che offre al narratore di quella storia e
alla comunità del qui e ora, non fa altro che cercare risposte alle domande che non sono solo le sue ma
quelle di qualunque essere umano.
Premesse…
Parto, per chiarezza, dall’ipotesi che il Playback è teatro innanzi tutto; teatro a cui poi si danno varie
declinazioni a seconda dei contesti, delle idee di chi lo muove, dei periodi storici, delle condizioni sociali
ecc, ma che ha una sua identità trasversale che è sopra tutte le possibili distinzioni, spesse volte utili più a
chi parla di teatro che a chi fa teatro.
In questo, metto le mani avanti, si evidenzia senza ombra di dubbio il mio essere attore e il mio non essere
studioso cattedratico della materia.
Sono della opinione peraltro , che è quella di Levy-Strauss, che una risposta apre almeno dieci domande per
cui la trattazione non potrà che essere in-esauriente .
Partiamo dalle RADICI dell’essere attore
Cosa è il teatro considerandolo come entità T ?
Entità, Mimesi , Rappresentazione, Rito,Spettacolo, Comunicazione, Letteratura, Arte, Dramma…sono
alcune parole, scelte all’impronta da me ma possiamo individuarne molte altre per definire il T del teatro.
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Dovrebbero valere ad interrogarsi del perché, un fenomeno che preso di per se, nel suo senso stretto, è un
fenomeno micro-micro culturale, si sia diffuso.
E’ un fenomeno nano-culturale, il Teatro, perché è qualcosa che è nato in una comunità ristrettissima cioè
in alcune polis greche e poi per vari motivi imperialistici, con Alessandro prima e il mondo romano poi, si è
esteso ad una fetta rilevante di mondo che per noi è l’occidente( e quindi a ¼ dei nostri simili, mentre gli
altri non hanno conosciuto lo stesso processo).
Una prima premessa: non trattiamo tutte le questioni ma solo la rappresentazione e il rito chiusi in una
fenomenologia che è la rappresentazione rituale.
Rappresentazione e rito sono fatti antropologici perché caratterizzano tutte le comunità umane anche
quelle che ormai estinte ci hanno lasciato “soli” (nel nostro continente si risale a circa 28.000 anni fa
quando sembra che la nostra specie abbia sterminato quella dell’uomo di Neanderthal).
Sono allora facoltà antropologiche che in una trattazione “borden-line” sembrerebbe sia una facoltà estesa
anche a specie animali come alcuni primati.
Rappresentazione rituale.
Si relega ad una fase molto peculiare delle comunità della nostra specie, fase che non tutte le comunità
hanno attraversato e ciò è condiviso da tutte le scuole antropologiche, il fatto che un certo tipo di
rappresentazione rituale si possa collegare a quell’ evento che è il teatro.
Questa fase è il passaggio dalla fase nomadistica a quella stanziale.
Nella stragrande maggioranza dei casi, si hanno comunità che continuano a riconoscere la propria
provenienza di nomadismo nelle generazioni successive.
L’attraversamento di questa soglia da nomadismo a stanzialità, ha caratterizzato la grande maggioranza
delle culture sul nostro globo ed esse mantengono memoria della fase nomade, in forma mitologica o
storica.
Dove si ha questo processo, (per gli aborigeni australiani ad esempio, questo passaggio è un evento
contemporaneo) si individuano caratteristiche precise.
La comunità che percorre questo passaggio lo percepisce come una rivoluzione culturale.
Lo Spazio
Nasce la concezione, che per noi è ora ovvia fin dalla più tenera età, di SPAZIO.
Questa rivoluzione, in chi effettua il passaggio, genera una identificazione del numero degli individui nella
comunità e la percezione non di uno spazio generico, ma uno spazio delimitato da far coincidere con la
propria sopravvivenza.
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Nella visione pre-stanziale non esiste un problema dello spazio perché le comunità si muovono rispetto
all’aspettativa di vantaggio sociale, economico, alimentare ecc.. che si ha nel cambiare direzione di marcia e
luogo di passaggio; sostanzialmente si va dove si trova più cibo ed è più facile vivere.
Non si disturba mai lo spazio in modo sensibile, ci si sposta presto, non si disturbano mai gli spiriti ( che i
romani chiamavano genius loci) perché non si sta, ma ci si sposta.
La mentalità di queste popolazioni cominciava ad essere questa: se ci fermiamo in un luogo rubiamo quel
luogo a quelle entità che pre-abitavano quel luogo stesso.
In questa fase intermedia la stanzialità è ancora un dramma culturale.
Non si è ancora realizzata appieno la stanzialità e non si è ancora strutturata la divisione da parte degli
individui della gestione del nuovo territorio; divisione che comporta il fatto che un gruppo di persone si
occupi di una cosa e altre di fare altre cose, ma in cui è la comunità in modo sostanzialmente paritario ad
interagire col territorio.
Il Tempo
In questa fase traumatica il tempo si organizza secondo nuove traiettorie.
Prima il tempo era considerato un continuo, come quello spazio rispetto al quale ci si spostava.
Con la nascita dell’agricoltura, all’inizio minoritaria e affiancata alla caccia,alla pesca e all’attività di raccolta,
il tempo acquista una struttura discontinua.
Ora non si insegue, spostandosi, la stessa stagione ma stando in un posto si vive tutta la variazione delle
stagioni. A stanzialità compiuta si arriverà a percepire un tempo circolare e dopo, tale tempo, sarà definito
anno.
Tra le due fasi di concezione temporale si apre una fase intermedia che nella nostra percezione è la fase più
importante: si apre il tempo rituale, tempo in cui tutte le attività del tempo normale, produttive e non
devono cessare ( è la nascita del sabato ebraico ad esempio, della festa).
Questo tempo rituale è vissuto come il tempo principale ( per gli aborigeni, ad esempio, il tempo principale
è quello del sogno e non quello reale), quello di primo grado, perché è solo il modo con cui noi viviamo
questo tempo che ci da qualche chance in più di passare da un primo pezzo di un “tempo normale” a un
secondo pezzo di “tempo normale”.
Perché questo?
Lo scopo di questo tempo rituale è entrare in comunicazione, in contatto con quelle entità a cui abbiamo
rubato lo spazio.
Aperta parentesi.
Si può parlare di teatro anche come relazione di corpo- spazio- tempo: è allora evidente che legame ha il
teatro con quanto detto in precedenza; mutando le condizioni di tempo e spazio nascono considerazioni
interessanti.
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Chiusa parentesi.
Dobbiamo entrare come comunità in contatto con questa entità che potrebbe in qualche modo ostacolare
o impedire il nostro perdurare su quel territorio così da scacciarci e costringerci a regredire alla fase
nomade, il che vuol dire perdere tutti quei vantaggi che sono stati conquistati.
A tale scopo viene messo in piedi qualcosa che gli antropologi definiscono rito.
Rito e rappresentazione rituale
In questa fase si concentra un nucleo forte di eventi che può essere definita rappresentazione rituale.
All’interno di questa complessa e variegata entità che possiamo definire rito, si concretizza un qualcosa che
riguarda la trasformazione di corpi, la trasformazione di spazi, la trasformazione di tempi: cioè corpi
trasformati agiscono su spazi trasformati durante tempi trasformati.
Corpi trasformati nell’aspetto con quelle che poi chiameremo in tempi successivi maschere, comprese le
pitture sui corpi, comprese maschere come strutture che coprono tutto il corpo.
Se pensiamo alla costumistica dell’attore greco il concetto è quello: copricapo che in realtà è un casco che
si collega ad una struttura che nasconde tutto il corpo e che altera la nostra apparenza estetica.
Corpi trasformati rispetto a spazi trasformati perché lo spazio è lo spazio stanziale che si cerca di rendere
altro, al fine sempre di entrare in comunicazione con queste entità abitatrici dello spazio che va ad essere
abitato con continuità.
Trasformazione del corpo,dello spazio e del tempo e magari modificazione anche dell’illuminazione così da
trasformare la notte in giorno e il giorno in notte,in modo che allontanandoci dalla normalità sia più facile
imbatterci in quella entità con cui dobbiamo comunicare.
Non per adorarla, ma per ingannarla.
L’obbiettivo è quello di entrare a contatto con questa entità per ottener un vantaggio:ne consegue che
tutti i mezzi finalizzati alla scopo sono leciti.
Non è una questione morale o religiosa, è una questione di comunicazione: un noi che comunica con un
altro da noi, un noi che si sposta dalle coordinate quotidiane per entrare in comunicazione con un altro da
noi che si ritiene altrimenti non raggiungibile.
Da notare che ciò che spinge al contatto con l’abitante alieno del nuovo territorio non è un senso di colpa.
Il senso di colpa riguarda l’individuo e l’ingresso della colpa per il singolo individuo si avrà in una fase
avanzata nella quale la stanzialità sarà diventata ormai assodata.
A quel punto si avrà la specializzazione dei ruoli e si avrà il nascere della casta sacerdotale che avrà il
compito di gestire la comunicazione con questa entità aliena.
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A quel punto comincerà ad avere un senso parlare di divinità e non si parlerà più di antropologia di rito ma
di culto, di rappresentazione cultuale che esula da quello di cui stiamo parlando.
L’obbiettivo è entrare in contatto con questo altro da noi.
Per chiarezza, c’è una differenza radicale col teatro.
Non è concepito l’avere osservatori esterni in un rito, non è possibile. Noi oggi possiamo parlarne perché in
qualche modo nei tempi moderni gli antropologi si sono intrufolati come delle spie là dove si compiva un
rito, nella popolazioni in cui questa osservazione era ancora possibile.
A certe condizioni gli antropologi sono riusciti a far parte della comunità e hanno potuto riferire cosa
succedeva.
Questa trasformazione di corpi, spazi e tempi, un osservatore esterno,infatti, la potrebbe definire nel
migliore dei casi come una successione di ritmi, usando il termine ritmo nel senso letterale della parola cioè
nel significato di scansione regolare di eventi nel tempo (sia acustici, che visivi, che plastici).
Questa trasformazione, si concretizza, raggiunge il suo culmine, il suo scopo, nel momento in cui uno o più
individui, non predestinati, senza sapere in anticipo quali o a quale individuo della comunità capiterà, cessa
di essere riconosciuto come se stesso e viene riconosciuto come il portavoce dell’entità oppure
direttamente come l’entità, con cui volevamo comunicare.
Il rito ha successo in questo momento.
Ovviamente questa “roba” è identica a quello che fa l’attore: cessare di essere se stessi e essere
qualcos’altro.
Se per attore intendiamo uno che cessa di essere se stesso per diventare qualcun’altro allora questa figura
di attore la osserviamo lì per la prima volta.
E’ la prima volta che ci è dato di osservare, all’interno della evoluzione di una civiltà come la nostra ( che
questa fase iniziale di passaggio alla stanzialità l’ha superata da millenni) questo comportamento.
Che poi qualcuno la definisca possessione o altro, poi di fatto è questo.
Parallelismi e differenze
Se quanto affermato è un qualcosa in qualche modo similare a ciò che noi conosciamo del teatro resta
anche da evidenziare le cose che sono opposte.
Sono sostanzialmente due.
Mentre nella rappresentazione rituale è il noi che si sposta per entrare in contatto con l’altro da noi, l’erede
di questo noi, che sarebbe l’insieme di io, che non è più noi ma la cui collettività, pluralità è la somma degli
individui che pagano il biglietto per accedere ad uno spazio trasformato che è il teatro, questo ex-noi che
diventa un io+io+io+io sta fermo, assiste, è opposto all’altra roba, al cospetto,in presenza fisica, con un
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insieme di altri io, un po’ pochi io che sono io anche loro e che quando entra la dinamica dell’arte saranno
riconosciuti come io autore, io attore, io regista, io scenografo, io direttore di teatro….
Allora non più noi e altro da noi, ma pluralità di io e di altri io, in ciò che si definisce teatro.
Altra differenza è quella che riguarda una delle fenomenologie abbastanza acclarate e acclamate del teatro
russo novecentesco ..e anche mitologie del sedicente o meglio altrui dicente sistema stanislavskij e cioè la
fenomenologia banalmente nota come immedesimazione.
La dinamica del cambiamento di identità nell’individuo che è al centro della rappresentazione rituale è
diventare altro da se, perciò la cosa avviene come riflessa in una sorta di specchio temporale nel teatro,
cioè nella rappresentazione teatrale.
L’individuo non è un individuo a caso, ma quello più scosso dalla trasformazione dello spazio e del tempo.
Questo individuo cessava istantaneamente di essere se stesso, e per farlo tornare ad essere il se stesso di
prima ci voleva un bel pò e non sempre vi si riusciva.
La fase di uscita dal personaggio è incerta e dolorosa tanto che spesso e volentieri si osserva la presenza di
una locazione esterna e marginale rispetto alla zona rituale, gestita dalle donne anziane della comunità, che
sono esperte di nascita e per esperienza sanno come far nascere qualcuno. Per cui viene loro affidato
questo disgraziato che al termine della trans, viene curato per farlo rinascere a se stesso.
Se noi facciamo l’analogia tra l’individuo che cessa di essere se stesso per entrare in comunicazione con
l’entità e nel teatro l’attore che diventa personaggio, nella rappresentazione rituale abbiamo una persona
che istantaneamente cessa di essere se stesso e il cui processo di ritorno è lungo faticoso e incerto, accade
invece l’opposto nel teatro e in particolare nel teatro dopo Stanislavskij.
Inoltre un insieme di attori comincia a lavorare parallelamente su più parti e poi solo dopo si decide alla
fine quale sarà la parte che verrà assegnata ad ognuno di loro e questo meccanismo è anche nella
improvvisazione dove il lavoro è fatto in sala prove per riuscire a cogliere il ruolo al “volo” grazie tecnica
attoriale e nel Playback dove i ruoli principali della storia sono indicati dal narratore.
Si rovesciano esattamente i termini :per l’attore (anche prima di Stanislaskij ma soprattutto dopo
Stanislavskij) il processo di ingresso nel personaggio è incerto perché non si sa come passare da io al tu e
allora bisogna studiare come immedesimarsi, organizzare un processo per entrare nel personaggio o non
entrare ecc… mentre per uscire basta chiudere il sipario e via o passare ad altro o oltre grazie alla cornice e
alla struttura del Playback stesso ad esempio.
Se ne conclude così che il teatro inverte radicalmente questioni inerenti alla rappresentazione rituale per
quanto riguarda lo scambio di identità.
Questo vale sottolineo nuovamente ancheper il Playback Theater in cui ad esempio i ruoli “principali”
vengono su invito assegnati dal narratore; gli attori cambiano ruoli durante la rappresentazione per
percorrere artisticamente la storia narrata e così via.
Identiche invece sono altre cose:
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- siamo nella rappresentazione
- il centro è nel creduto per davvero o creduto per finta: chi partecipa all’evento è in presenza di alcune
persone che hanno relazioni con lui che non è quella che avrebbe se fosse quella persona
- Entrambe le fenomenologie hanno cambiamenti totali di identità e per ottenere cambiamenti di identità
si attuano strategie di trasformazione di corpo di spazio di tempo.
Alcune considerazioni
1) La figura dello sciamano e dello stregone appartengono già a una fase di non problematicità, una
fase successiva.
Sono prototipi della costruzione della casta sacerdotale, mentre la rappresentazione rituale di cui abbiamo
parlato riconosce un unico soggetto che è la comunità.
Lo sciamano ha la funzione di medico, per cui agisce in qualsiasi momento, non è che può scegliere lui
quando è il momento adatto per il rituale, ma quando si ammala qualcuno deve intervenire per entrare nel
corpo del malato, per entrare in contatto con l’altro dal malato che ne ha posseduto il corpo, cioè con la
malattia per tirarla fuori.
Tali figure ppartengono al discorso cultuale e non sono necessariamente legate alla rappresentazione e
quando sono legati a fenomeni di rappresentazione non sono legati a fenomeni di rappresentazione
comunitaria.
Hanno la caratteristica di singoli personaggi, di un insieme di individui selezionati come stregoni e sciamani,
i quali hanno esperienze non estensibili alla comunità, di carattere esoterico e quindi con differenziazione
tra esoterico e essoterico e cioè tra iniziati e non iniziati.
Non è la comunità come soggetto unico che opera le trasformazioni prima indicate.
2) Con rappresentazione rituale e teatro si è scelto di rappresentare due fatti ben circostanziati dal
punto di vista storico.
Il rito è allora quello che compare nel passaggio dalla fase nomadistica a quella stanziale e che comporta
una rivoluzione nella percezione dello spazio e del tempo.
Quel passaggio è l’ultima grande trasformazione che abbiamo nella nostra memoria genetica,una grande
rivoluzione, non c’è stato nessun altro grande cambiamento di tale portata, tanto è vero che dopo quello si
deve parlare di evoluzione cultuale e non di rituale.
Abbiamo considerato il fatto rituale essenzialmente di carattere antropologico e quindi riguardante tutte le
comunità umane di sempre almeno dell’ Homo sapiens sapiens.
Per teatro invece abbiamo considerato qualcosa non di antropologico, ma micro-culturale, quello che noi
occidentali riteniamo essere nato in alcune piccole polis greche e che tramite fenomeni storici,
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essenzialmente per i primi grandi imperialismi (ellenistico, alessandrino e romano) si sono estesi non a
tutto il mondo, ma a ¼ della popolazione mondiale.
Quindi continuità dal teatro greco a quello classico, oblio durante il medioevo con persistenza nelle forme
del teatro classico.
Nel medioevo si ha la fine delle città, fine delle strade come grandi vie di comunicazione, della relazione
con gli spazi che erano stati costruiti per millenni durante la civiltà classica e gli attori se esistono, passano
da casta privilegiata (c’erano sedi lussuose e edifici in tutte le città dell’impero), a personaggi
sostanzialmente colpiti dall’anatema che la nuova cultura dominante ha imposto.
Si ha un millennio del medioevo in cui il teatro si eclissa e poi rinasce, in modo somigliante a quello della
Grecia, nelle varie città e corti d’Europa tardo medioevale- rinascimentale, sotto forma di sperimentazione
e per quasi tutto il cinquecento permane come modello sperimentale.
Si affermerà nei secoli successivi come teatro, nel senso di attività che si svolge nei teatri e nel ‘600 questi
cominceranno di nuovo a caratterizzare le città europee.
Con ciò provocando l’altro fenomeno per cui gli “altri teatri” e cioè il teatro Elisabettiano e il teatro del
“El Ciclo de Oro” in Spagna, fenomenologie non sperimentali ma popolari di massa, saranno strozzati sul
nascere dal modello del teatro rinascimentale delle corti.
Il teatro rinascimentale si popolarizza a spese di queste fenomenologie cinquecentesche e ci porta al teatro
che conosciamo oggi che si svolge in quell’edificio dalla forma somigliante alla sede della Borsa o a un
Tribunale ecc… e quegli ulteriori sviluppi che hanno portato fuori da quegli edifici.
Quindi un nano fenomeno e non un fenomeno antropologico per cui riassumendo:
per rappresentazione rituale riteniamo quindi una fenomenologia precisa e cioè il passaggio dalla fase
nomadistica alla fase stanziale, la fase in cui la nostra comunità di homini sapienti sapientes percepisce
questo passaggio come non risolto, come problematico.
In questa fase di problematicità si colloca il rito
Quando si percepisce come stabilizzato questa fenomenologia cessa di esistere o si trasforma in
qualcos’altro come il culto sciamanico o ”religione di stato”.
3)
Altre forme di teatro nate in Giappone,India,Indonesia, sono forme di teatro diverse.
Si sta parlando di quello che è nel nostro DNA di attori e nel nostro DNA non c’è la storia del
Giappone e i motivi per cui è nato il teatro giapponese.
4) L’ ”antropologia teatrale” ( non antropologia che studia il teatro ma una particolare forma di
indagine che si rifà ai lavori di Eugenio Barba e dell’ISTA) si fonda invece sul fatto che tutto il teatro
è un fatto antropologico.
Questo si può fare solo alla condizione di chiamare teatro qualsiasi cosa, modalità che non si è
scelta.
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Che il teatro sia esso stesso latore di una qualche peculiarità antropologica, secondo studi teatrali
ad esempio di Massimo Lenzi che condivido, è una posizione logica che porta a problemi
metodologici e di analisi, perché non si riconosce più cosa è identificabile da una comunità sociale
come teatro e ciò che non lo è.
Basta che ogni persona che dica faccio teatro si certifichi dicendolo e da quel momento è teatro
anche quello e il problema nasce perché per l’Antropologia Teatrale il teatro è un fatto
antropologico.
Nelle scuole antropologiche non si trova nessuno che sostiene una cosa del genere, si trova invece
trattata un’altra cosa che è la rappresentazione e il rito.
Mettendo insieme queste due cose, rappresentazione e rito, possiamo fare un modello di
rappresentazione teatrale che ha delle analogie col rito e delle opposizioni col rito.
Un esempio: il teatro in Russia
Se per rappresentazione teatrale intendiamo questa fase di passaggio, in cui la neo stanzializzazione va
gestita come fatto problematico, allora nella complessa cartina delle migrazione dei popoli indoeuropei
identificabili più come fatto linguistico che altro, gli slavi orientali, che poi sarebbero i russi che tutt’ora si
sono stanzializzati nella parte orientale dell’Europa, sono la popolazione, tra quelle delle famiglie
indoeuropee , che si sono stanzializzate più tardi, a distanza di alcuni millenni dalle altre e anche con più
problemi rispetto alle altre.
Se si riflette sul fatto che, anche solo nell’ultimo mezzo millennio, la percezione che il russo ha del suo
spazio statuale è oscillata tra quello di un principato grande grosso modo come due regioni italiane
(Moscovia ) e una sesta parte delle terre emerse (ciò che era l’impero russo e l’ unione sovietica poi), si
capisce come questo territorio russo viene percepito come qualcosa di problematico.
Ad esempio valgano alcuni studi fatti in ambito de economia domestica delle popolazioni russe per cui la
disposizione delle case moscovite, sono simili a una ”iurta”, tenda del deserto,la quale ha uno sfruttamento
razionale degli spazi in base alla possibilità di spostare le cose (per cose si intendono anche i mobili ecc).
Praticamente nelle case russe non ci sono i letti, sono quasi tutti letti che diventano qualcos’altro di giorno,
praticamente non c’è la distinzione tra reparto giorno e reparto notte, è una concezione che non si ha.
Anche in questi fattori microesistenziali si riflette questa vicinanza ad una fase nomadistica non così
lontana.
Dal punto di vista storico basta pensare che il primo stato che si chiama Russia, mille anni fa, comprendeva
un territorio che non aveva neanche un francobollo di terra della Russia ma era l’Ucraina attuale.
In virtù del fatto che essendo gli slavi orientali appartenenti al fenomeno delle migrazioni dette barbariche,
che erano tutte, grosso modo, di popoli germanici, nessun popolo slavo arrivò a rivendicare per
stanzializzarsi territori dell’Europa Occidentale.
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Le popolazioni slave agirono da retroguardia delle popolazioni germaniche che colonizzarono l’Europa
grossomodo nei territori che attualmente conosciamo ,all’incirca nel settimo / ottavo secolo d.c..
Questo punto ci può spiegare perché in Russia ci sia un’idea di teatro diversa da quella occidentale.
Il tardo e non ancora compiuto processo di acquisizione della stanzialità da parte delle popolazioni russe è
un primo indizio della maggiore affinità tra la concezione Russa del teatro in epoca relativamente moderna
e le attività antropologiche legate alla rappresentazione rituale.
Ad esempio quando il teatro arriva alla popolazione russa, tale popolazione ha difficoltà a riconoscere dove
finisce l’attore e inizia il personaggio tanto da avere bisogno di individuare una sola parola per descrivere
questa fenomenologia e cioè obratz.
Non si parla nelle cronache critiche di fine ottocento di, ad esempio, Amleto interpretato da Salvini, ma di
Amleto-Salvini. Non esiste Amleto e poi l’attore che dovrebbe avvicinarsi più o meno all’Amleto del testo,
ma esiste un Salvini-Amleto che è altro da Stanislavskji-Amleto, AlessandroBianchi – Amleto e così via.
Queste caratteristiche contribuirono, insieme a altre ( che esulano da questo piccolo saggio) alla nascita del
teatro moderno che da Stanislavskij in poi ha avuto tanti sviluppi fecondi e in cui si colloca anche il
Playback.
Autonomia del teatro dal rito ( in soldoni)
Malgrado e proprio grazie a queste differenze, c’è una stretta relazione tra il teatro e il rito e l’idea che il
teatro nasca da una conquista progressiva, in cui dopo una sostanziale confusione tra la figura del
sacerdote e quella dell’attore, quest’ultimo si “specializza”, si “profanizza” è in se corretta ma non ne
esprime tutta la complessità.
Il teatro come evento micro-culturale assume una prospettiva connessa con le radici della grande
rivoluzione dal nomadismo alla stanzialità di cui percepiamo ancora il grande rumore di fondo, per rifarci
all’idea del Big Bang della cosmologia e che è strettamente connesso al nostro DNA di attori.
Progressivamente, trattando la cosa un po’ in soldoni, ma spero senza eccessiva approssimazione, si avrà
questa “diversione” dal rito, verso la “cultura” legata al sacerdote e allo sciamano (già in fase in cui la
stanzialità è avanzata e si hanno le divisioni dei ruoli) e poi verso la rappresentazione che farà si che la
maschera sacra che inizialmente è la rappresentazione del dio, diventi poi lo strumento di un gioco
narrativo.
Il teatro è il luogo dove la verità del mito si rende visibile e comprensibile passando attraverso la corporeità
del celebrante. Ci avviciniamo così a una componente essenziale del rito, quella che non si perde in un
pensiero astratto e discorsivo, ma si articola in un sistema concreto e coerente di immagini.
E', in poche parole, come se la leggenda del mito si facesse verità e acquistasse senso nel rito. La potenza di
questo momento è data proprio dal fatto che sulla scena c'è il vero corpo del sacerdote che agisce il rito e
che diventa, quindi, attore, mimando l'azione del Dio e mediando quindi tra il trascendente e l'orizzonte
mondano. Diventa, quindi, un sacerdote-attore.
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Durante le rappresentazioni dionisiache ad esempio,in cui «gli uomini passano dalla parte degli dei»
(Karoly karényi, filologo ungherese), accanto alle forme rituali si sviluppano forme teatrali e parateatrali,
che assumono il carattere nuovo di affermazione dell'identità di gruppo e di condivisione di valori comuni.
Il teatro esplora la condizione umana, diventando coscienza critica sulle condizioni del mondo, dando forma
alla tensione verso il futuro, alle speranze e progettualità sociali del gruppo.
In epoche successive il confine tra teatro e rito si ridefinisce.
Nelle corti rinascimentali le rappresentazioni (sacre e profane) esprimono l'essenza dello stato Assoluto e le
ragioni spirituali e politiche del potere. Nascono cerimoniali laici, esemplari del rapporto tra il Principe e la
società, mentre il teatro celebra nuovi eroi, ricollegandosi ai miti classici. L'ultimo grande cambiamento nel
rapporto tra rito e teatro si ha nella Rivoluzione Francese , che smantella il senso religioso come legame
della collettività.
Il teatro assume la sua forma mondana e commerciale, espressione della nascente borghesia.
Il teatro si auto interroga e abbiamo tutti gli sviluppi che trovano terreno fertile proprio in Russia a inizio
novecento e proprio li trovano soluzione alle domande che in occidente si erano formulate ma che non
avevano trovato che fallimenti attuativi.
La peculiarità della condizione in Russia (che non stiamo qui ad analizzare) e che sono strettamente
commesse con quanto espresso in precedenza sulle radici della professione dell’Attore hanno permesso
questo successo e il la a tutti i successivi sviluppi che da Stanislavskji in poi troveranno sviluppo in molte
“proposte” di teatro nei periodi successivi, tra cui il PlayBack Theater.
“Quale è il ‘mio’ teatro ? “ domanda fondamentale dell’attore.
« Non gl'immobili fantocci del Presepio; e nemmeno ombre in movimento. Non sono teatro le pellicole
fotografiche che, elaborate una volta per sempre fuor dalla vista del pubblico, e definitivamente affidate
a una macchina come quella del Cinema, potranno esser proiettate sopra uno schermo, tutte le volte che
si vorrà, sempre identiche, inalterabili e insensibili alla presenza di chi le vedrà. Il Teatro vuole l'attore
vivo, e che parla e che agisce scaldandosi al fiato del pubblico; vuole lo spettacolo senza la quarta
parete, che ogni volta rinasce, rivive o rimuore fortificato dal consenso, o combattuto dalla ostilità, degli
uditori partecipi, e in qualche modo collaboratori. »
(Silvio D'Amico, Storia del teatro.)
Il rito non si muove per pensieri astratti, ma per immagini e queste vengono riportate dentro la scena.
Qui le immagini possono muoversi attraverso tutto il corpo dell'attore (sacerdote), o degli attori
(sacerdoti), o solo attraverso la sua voce.
L'oralità, infatti, è il primo modo di porsi in maniera teatrale perché la narrazione si svolge attraverso i
ritmi, la voce, i gesti, la corporeità di chi racconta.
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Questo è un altro punto fondamentale: nel teatro come nel rito(viste le precedenti puntualizzazioni) viene
investito l'attore totalmente, sia col corpo che con la voce, l'attore nella sua interezza.
E' forse questo il fatto che rende "magico", nel senso di carico di zolfo, come direbbe Artaud, il momento
del rito e, a questo punto, del teatro, il momento in cui l'uomo si presenta all'uomo nella sua verità, ma
trovando anche qualcosa che lo trascende.
Ci sono diverse metodologie, training e tecniche di formazione dell’attore, ma tutte queste sono utili se si
fa proprio un presupposto fondamentale: l’attore è un mestiere di autore; la creazione scenica non è un
semplice esercizio professionale, ma una missione che ogni vero Artista è portato a compiere. Questa
consapevolezza di essere Autore, la mentalità e la sensibilità consone ad un autore.
Precisazione: si da come presupposto che fare l’attore ha in se la componente del mestiere, della
professione (esercizio di un’arte nobile), con tutto il valore che a questo termine dava mio nonno “Gigi” ,
quando faceva l’impianto elettrico di una casa o il vino nomato con “come dico io (lui)”, per cui le categorie
proprie della società dei consumi non gli erano ne congeniali, ne conosciute.
Ma torniamo a noi e entriamo in una terminologia che spero non perda il suo carattere paradossale di
“esattezza sfumata”.
L’attore –narratore si limita alla voce e all’udito; l’attore-esecutore riesce a raggiungere il cuore, la mente e
l’anima (forse); l’azione dell’attore-autore è un’azione che si svolge a un livello”cosmico”: lui stesso è
responsabile delle decisioni che prende, delle proprie azioni, e infine del proprio ruolo.
Essere un attore-autore significa saper vedere l’invisibile e conferirgli corpo con la propria arte.
Sono due condizioni fondamentali.
Allora il lavoro di preparazione dell’attore, più che una questione di formazione, rappresenta una questione
di mentalità artistica.
Proviamo ad analizzare la vita di una persona come una sorta di movimento lungo la linea degli avvenimenti
importanti della sua esistenza: nascita,la scuola, il primo amore, la formazione, la famiglia, il lavoro,i
bambini,eccetera.
Comunque siano questi avvenimenti e qualsiasi sia la loro successione, essi portano inevitabilmente ad un
finale noto: la morte.
Quando noi osserviamo e esaminiamo la vita umana sotto questo aspetto, dall’inizio alla fine, ne
conosciamo in realtà solo la parte visibile, ma esiste anche quella invisibile. La vita dello spirito umano è
soggetta ad altre leggi, vive di altri avvenimenti. Questi non si notano facilmente, e seguono una strada che
non ha una fine in quanto tale, ma che si perde nell’infinito.
La vita visibile può essere splendida e quella invisibile mostruosa e viceversa.
Per vedere il visibile non è necessaria molta fatica né grande talento, è più facile entravi in contatto
rispetto a qualcosa di immateriale, che non possiamo ne toccare, né annusare, né mordere.
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Se l’analisi della dimensione orizzontale della vita ci fa conoscere la storia quotidiana dell’uomo, lo studio
dimensione verticale invisibile,ci svela il suo percorso verso la conoscenza della “suprema verità” (non
stiamo qui a connotare questa suprema verità che può trovare declinazioni diverse senza inficiare il
ragionamento sull’attore e il suo essere tale).
Sia l’attore in quanto essere umano che il personaggio presente nel ruolo all’interno di un testo e nel nostro
caso in una rappresentazione della storia narrata, sia che il ruolo si indentifichi con un personaggio in carne
e ossa sia che si concretizzi in un albero, o una pietra o il colore giallo.., sono entrambi alla ricerca di quella
vetta suprema del sapere da cui si apre la visione degli autentici valori dell’esistenza.
Perché un attore, soprattutto a mio avviso di PlayBack, va in scena? Le motivazioni possono essere molte,
forse infinite data la diversità propria di ognuno di noi e in una visione dilatata nel tempo, ma in definitiva
penso siano tutte spinte da questo movimento verticale dettato dalla nostra naturale aspirazione alla
felicità, alla “suprema verità”.
Questa tensione della vita verso l’alto, verso la luce, è infinita ed è proprio l’infinito a conferirle tanta
potenza.
Allora il lavoro dell’attore è proprio individuare tale energia.
Nel playback l’elemento rituale, quello artistico-estetico, quello di interazione sociale che trovano
espressione grazie al narratore con la sua storia, al conduttore che ascolta, allo spettatore che testimonia,
all’attore che “avoca” la storia ( qui attore non da “agire” ma da “agere”= perorare,avocare come la vergine
Maria in relazione con il divino) sono gli elementi da cui l’attore stesso trae l’energia. Tutti questi elementi
concorrono affinchè l’attore possa “dimenticarsi” nella storia, farsi carne per la storia narrata, donare
gratuitamente se stesso per la narrazione.
Confrontiamola con l’esperienza.
Vediamo che, molte volte, la preoccupazione dell’attore riguarda innanzi tutto l’aspetto testuale della sua
parte (teatro di interpretazione), la vita fisica e psicologica del suo personaggio o del ruolo che va ad
improvvisare, il giusto spostamento di un cubo, l’utilizzo corretto di una tecnica, una statua fatta con cura,il
seguire la sequenza della storia narrata, la forma come forma ecc…. il lato visivo.
Il lato visivo e emotivo sono per lui il campo centrale della ricerca e della sua analisi di quanto effettuato o
può in futuro fare, e questo perché il visibile sembra anche più familiare e comprensibile.
Il lato spirituale è spesso celato e l’attore si accontenta spesso di impressioni superficiali, dimenticando che
innanzitutto il talento dell’arte è la capacità di rendere l’invisibile, l’autentica bellezza.
Detto in altre parole si tratta della capacità di scoprire ciò che è celato, di essere veicolo per questa
dimensione, anche ignaro di quanto ha dis-velato ma consapevole di questo suo ruolo e di questa sua
possibilità.
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Il lavoro “verticale” è strettamente legato al senso stretto della professione dell’attore e andare in scena
significa una strada per la felicità, nel senso della parola ebraica “ asyr”, letteralmente significa “ colpo di
fortuna”.
Andare in scena dovrebbe avere per l’attore, facendo un parallelo con le sue origini, lo stesso significato
che ha per un sacerdote andare verso l’altare.
Quale è il significato di quest’atto? Ogni volta si reca all’incontro con il “sapere supremo”, con la luce di
“Dio” (valgano qui le considerazioni fatte in precedenza sul significato da dare a queste parole così dense).
Il sacerdote(l’attore) potrebbe rimanere interiormente vuoto pur osservando tutte le formalità: farsi il segni
della croce, baciare l’icona, mettersi in ginocchio, portare la candela, pronunciare la preghiera…, insomma
compiere l’intero rito (nel PlayBack rispettare la posizione del setting, seguire le tecniche da manuale ecc..)
e il rito si compirebbe in un modo.
Ma egli potrebbe compiere le stesse azioni in modo da gioire nell’anima, riempirla di felicità, di bellezza, di
armonia interiore, di supremo contenuto.
L’attore deve, secondo me , vedere allo stesso modo il suo andare in scena e non dimenticare mai che la
sua arte trae le sue origini dalla liturgia e dalla preghiera, che le radici della sua arte sono intimamente
connesse al DNA della nostra civiltà.
Tutto questo possibilmente con la gioia e la leggerezza del giullare.
Cerco di tracciare consapevolmente un parallelo tra teatro e tempio.
Compiere in scena determinate azioni, pronunciare certe parole o frasi, deve condurre alla rivelazione della
luce del ruolo, del cuore della storia narrata,del suo senso più alto, della sua verità… e ciò per se stessi e per
tutta la comunità del qui e ora della performance di Playback.
L’attore,usando foulard colorati e cubi, compiendo una sequenza di azioni, pronunciando le parole,
manipolando suoni e rumori ecc.. attinge, come un sacerdote, alla luce superiore, trattenendola agli
spettatori/testimoni, al narratore ,emergente socio drammatico del gruppo ( da Storie di Vita in scena di
Luigi Dotti), al conduttore.
Che senso avrebbe sprecare a vuoto l’energia dell’attore, del ruolo, del testo, del gioco scenico, della storia
narrata, del qui e ora dell’incontro, della bellezza di una comunità riunita? Esso deve mirare a rivelare il
vero volto, a esplorare la gioia del non conosciuto a farsi martire (testimone) e medium.
Come si può spiegare altrimenti il senso della professione (secondo le specificazioni di cui sopra)
dell’attore? Consiste forse nel rappresentare varie tipologie umane? Nel mostrare come un individuo,
simile allo spettatore seduto in sala o sulla sedia del narratore, potrebbe comportarsi in diverse situazioni?
O dare al pubblico un insegnamento morale?
A mio avviso è una idea bassa e utilitaria di una delle professioni più importanti della nostra società?
L’arte dell’attore,come quella dell’artista, ricopre un ruolo molto importante, quello di essere un veicolo tra
la “suprema verità” e il mondo della vita quotidiana. L’arte dell’attore aiuta a conoscere l’essenza spirituale
del mondo, gettando un ponte verso l’eterna verità.
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Non a caso nell’antica grecia, il teatro veniva costruito tra il tempio della città, collocato in alto, e il
mercato, collocato in basso. Un’unica strada conduceva verso queste aree così diverse.
E ancora… considerazioni…il Playback…
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L’improvvisazione
Il narratore narra una storia che non riesce mai ad essere un testo drammaturgico e l’attore improvvisa.
Il suo improvvisare però non è orfano del rituale, della “gabbia” di riferimento che permette quello che
Shakespeare ha ben sintetizzato nell’espressione di Polonio nell’Amleto: “ il metodo nella pazzia”.
E’ grazie al rispetto dei “limiti” del rituale che si ha la possibilità di raggiungere la verticale e l’infinito e di
essere veramente attori in offerta per il narratore e gli spettatori/testimoni.
Ma improvvisazione non è equivalente di impreparazione, di approssimazione, di spontaneismo, ma è
paradossalmente “sinonimo” di responsabilità e necessità un lavoro consistente e antecedente di analisi, di
elaborazione della tecnica, di esplorazione dell’ignoto in prova, di collaborazione di gruppo.
Quando si parla di tecnica non ci si riferisce solo al lavoro sulla struttura del playback, sulle varie forme
espressive con le loro modalità di messa in scena ecc.., ma anche a come l’attore può creare quelle gabbie e
lacciuoli, con il materiale che trova nel qui e ora della serata, perché quel suo essere medium possa
concretizzarsi.
Ma mai , io credo, da solo e per se stesso.
A scanso di equivoci, quando si parla di attore valgano le considerazioni che si possono trarre da questo
brano tratto da "Cristo si è fermato a Eboli".
E’ stato scritto da Carlo Levi sulla sua esperienza in Lucania, dove, nel 1935 era stato confinato:
"In paese ci aspettava una straordinaria novità: era arrivata allora, su un carro trainato da un cavallo
magro, una compagnia di attori… Non esistevano sale o saloni che potessero servire di teatro: si era scelto
una specie di cantina o di grotta semi-interrata, e ci avevano portato delle panche, dalla scuola, sul
pavimento di terra battuta… Si recitava La fiaccola sotto il moggio di Gabriele d'Annunzio. Naturalmente mi
aspettavo una gran noia da questo dramma retorico, recitato da attori inesperti, e aspettavo il piacere della
serata soltanto dal suo carattere di distrazione e novità. Ma le cose andarono diversamente. Quelle donne
divine, dai grandi occhi vuoti e dai gesti pieni di una passione fissata e immobile, come le statue, recitavano
superbamente; e, su quel palco largo quattro passi, sembravano gigantesche… Mi accorsi subito che
questa sorta di purificazione, più ancora che alle attrici, era dovuta al pubblico. I contadini partecipavano
alla vicenda con interesse vivissimo… Gli spiriti e i demoni che passano nella tragedia… erano gli stessi spiriti
e demoni che abitano queste grotte e queste argille… e sotto quell'onda di inutili parole riappariva, per i
contadini, la Morte vera e il Destino".
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Leggendo questo passo si può pensare di avere la prova di come possano essere speciali questi momenti,
momenti in cui ci si sente davvero dentro ad un flusso e tanto sono universali che ritroviamo in Levi,
mentre parla dei contadini lucani, le stesse parole che potremmo trovare in Artaud mentre parla del teatro
della crudeltà: Morte vera e destino.
Attore quindi non connotato da un particolare diploma istituzionale di professionista dello spettacolo o
persona inserito in una particolare categoria economica, ma prima di tutto uomo, una donna che hanno
rispetto e coscienza di quello che fanno e proprio per questo in dialogo con tutte le possibili fonti di
crescita.
Nella mia esperienza mi sono incontrato ( e neanche tanto poco spesso) con la paura degli attori di perdere
quella che definiscono spontaneità o talento,ogni volta che gli viene proposto di migliorare la propria
tecnica, dialogare con varie forme e metodologie di teatro ( che non sono altro che modalità con cui altri
attori hanno cercato di rispondere ai problemi comuni), approfondire le proprie conoscenze non solo
teatrali e di analisi.
Questa paura nasconde una idea di attore e di teatro, dal mio punto di vista poco congeniale al playback (
e al tutto il teatro terraqueo in realtà…) e cioè il teatro in cui gli attori sono esseri che “hanno” , in cui tutto
è dato in anticipo, in cui l’investitura è oltre l’umano. Un teatro marchiato dai luoghi comuni del “ho hai
talento o non lo hai qualsiasi cosa tu faccia” oppure “ lo studio può affinirare ma ho hai o non hai” senza
mai chiarire cosa vuol dire questo talento e cosa uno dovrebbe avere per grazia infusa. Un teatro di attori
che recitano a fare gli attori e non di persone che utilizzano il teatro come un mezzo.
E’ molto del teatro di merchandising di tanti dei nostri teatri o di trasmissioni alla “Amici”.
E’ una paura che si incontra spesso anche in chi si avvicina al teatro da poco ed è condizionato dal teatro in
cui si è imbattuto, fatto di cose morte e purtroppo è ricco di questi clichè, così da non riuscire a vedere che
la tecnica e l’analisi, l’approfondimento è elemento di libertà e non di schiavitù, che l’attore è tanto più
libero quanto più crea dei limiti e ostacoli da superare e quante più domande ha da portarsi sul palco(in
senso lato) luogo privilegiato per rispondervi.
Anzi solo luogo in grado di dare risposte e quindi capace di far formulare nuove domande.
Il rituale aiuta in questo, ma perché le storie narrate risuonino nell’attore e in ciò che questo è e per
“simpatia” ritornino inevitabilmente trasformate al narratore e ai testimoni del qui e ora, l’attore stesso
deve aver lavorato prima e con responsabilità per essere reale canale, per essere quello spazio vuoto
quantico delle infinite possibilità e del contatto col celato.
L’attore quando meno mette del suo e più si fa suonare dalla storia tanto più adempie al suo compito;
questo è proprio la parte più difficile e che richiede maggior lavoro, umiltà e la leggerezza della gioia.
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L’ensamble.
Come elementi necessari per il PlayBack si danno, come si indica in “Storie di vita in scena” di Luigi Dotti, il
narratore, un conduttore, un performer, un testimone.
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Sono un minimo perché ci possa essere una performance di PlayBack e magari una di quelle veramente
ottime, ma un teatro con una esperienza di gruppo molto intensa a formare un vero e proprio ensamble
credo che si un valore inestimabile.
L’esperienza di questi anni negli Empatheater – Compagnia dei salva storie di Lucca è stata ed è veramente
importante e il compartecipare le esperienze permette ogni volta una crescita personale e di insieme di
profondo valore umano.
Se questo non avvenisse allora si che come attori saremo dei mestieranti.
Questo trova riscontro ( ma come quantificare una esperienza teatrale) nelle performance di PlayBack e
nella empatia con quello che vi accade nel qui e ora.
La dimensione dell’ensamble ha in se tanti elementi che meriterebbero molte parole, voglio però indicarne
uno che per me credo fondamentale e cioè il valore etico che riveste.
Non credo ci possa essere PlayBack senza l’etica dell’ensamble, della creazione comune, del servizio per
l’altro in cui l’altro non è solo il narratore e lo spettatore ma anche i propri compagni.
Credo che più attori che formano un ensamble non siano la somma dei singoli ma la premessa per qualcosa
che è nel campo dell’inesplorato e che nelle performance non può che emergere.
Il servizio per la comunità che è proprio del PlayBack è servizio anche per la comunità che crea una
compagnia di PlayBack.
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Una performance è una goccia capace di far traboccare il mare
L’attore di Playback ( ma per me è molto difficile dividere e incasellare l’attore nei termini di questo o quel
teatro e quindi estendo queste considerazioni al essere attore) deve avere una forte motivazione verso
quel verticale che è in tutti i livelli che da una performance vengono toccati : il livello personale, quello
interpersonale, quello sociale e quello transpersonale ( da “Storie di vita in scena” di L. Dotti).
E’ veramente un martire nel senso etimologico di testimone, perché nel suo piccolo e umile cantuccio di
palco si fa medium per una storia e sono rinfrancato quando si sentono parole come quelle di J. Fox nella
intervista in calce al libro “Storie di vita in scena” di L. Dotti : “ raccontare la storia è un passo decisivo, per
prendere coscienza e cambiare il nostro mondo”.
Intervistatrice: “solo raccontando?”
J.Fox:” Solo venendo alla sedia del narratore”
Viva la leggerezza.
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E’ un teatro che fa bene prima di tutto a chi lo fa
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Un attore va in scena per stare bene e per trovare qualcosa che non conosceva. La struttura del PlayBack
tutela questo aspetto e la dimensione di “buon teatro per l’attore” indicata da J. Fox nelle interviste trova
ampia dimostrazione nella pratica della scena e nella esperienza degli Empatheater di questi anni.
E’ un elemento che da attore voglio sottolineare, perché un attore, come detto in precedenza, è
soprattutto un artista e non un esecutore, è una persona che cerca la propria e quindi l’altrui felicità, non
perché dal proprio utile nasce quello degli altri (Adam Smith), ma perché, come il Playback testimonia, o ci
salviamo tutti senza nessuno escluso o non si salva nessuno.
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La circolarità dell’offerta
E’ uno degli elementi più interessanti del Playback.
“Il narratore fa un dono alla comunità, quello di portare la sua storia sul palcoscenico, e gli attori
restituiscono un dono alla comunità: la storia interpretata e rappresentata in forma artistica. C’è una
circolarità in questa forma di offerta.
La dinamica dell’offerta si realizza quindi in un processo circolare attraverso i seguenti passaggi:
1. Il conduttore offre lo stimolo per far partire il processo attraverso formule quali: “Chi vuole narrare una
storia?”
2. Emerge un narratore che sale sul palcoscenico e, accompagnato dal conduttore narra la sua storia
offrendola al pubblico e alla compagnia.
3. Gli attori e il musicista offrono la storia al narratore e al pubblico attraverso un’interpretazione teatrale
mirata a:
- dare una restituzione al narratore e al pubblico che deve essere fedele alla narrazione.
- rispettare il “cuore” della storia.
- interpretare artisticamente e re-inventare nel rispetto del “cuore” della storia.
- cogliere elementi di universalità della storia.
Il momento che esprime in modo emblematico l’offerta degli attori al narratore avviene quando a
conclusione della rappresentazione tutti gli attori in scena volgono lo sguardo al narratore.
1. Il pubblico restituisce con un applauso.
2. Il conduttore chiede un riscontro emotivo al narratore e ringrazia.
3. Il conduttore stimola il pubblico per par emergere un nuovo narratore….” (N. Lotti).
Questa circolarità, tra le altre ottime cose che si possono e sono state dette, ha una ricaduta immediata
nell’acting degli attori in scena, nella propensione a “recitare fuori”, a essere in ascolto del narratore, del
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conduttore, degli spettatori/testimoni, nel avere nell’immediato misura della propria presenza nel qui e
ora, a vincere il narcisismo e l’egocentrismo della propri esperienza sul palco, nel sentirsi importante in una
copresenza di egualmente importanti.
E’ una buona medicina per qualsiasi attore o qualsiasi persona che intraprende il ruolo di attore e che
contribuisce a mettere in secondo piano tutti gli egocentrismi e i narcisismi.
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Il legame con l’oralità
“Il Playback fa parte delle forme di teatro non scritto e quindi molto affine ad antiche forme di performance
rituali che erano alla base della vita sociale della comunità, riprendendo Turner che attribuisce al teatro
moderno, in particolare alla sperimentazione teatrale, una fondamentale valenza rituale per la funzione
che assume nella vita quotidiana di dare forma a cambiamenti e trasformazioni, il Playback può configurarsi
come una nuova modalità particolarmente indicata per realizzare l’incontro fra attori e pubblico, per
connettere le esperienze di una persona con quelle delle altre,per coinvolgere individuo e comunità, per
creare un profondo senso comunitario e per promuovere lo sviluppo e il cambiamento all’interno della
stessa.” (N.Lotti)
Questo elemento dell’oralità, inoltre, connette, dal punto di vista della recitazione dell’attore,anche se
inconsapevole di questo, a uno delle grandi conquiste del teatro contemporaneo, la cosiddetta scrittura di
scena che è scrittura in scena, creazione in scena, un teatro del dire e non del detto.
“ Fare ‘teatro del già detto’ sarebbe un ripetere a memoria le parole di altri (sentite o lette) senza
creatività, quello cheArtaud definiva un "teatro di invertiti, droghieri, imbecilli, finocchi: in una parola di
Occidentali". È l'attore, con la scrittura di scena, a fare teatro hic et nunc” (Carmel Bene).
Quando una storia è narrata dal narratore, la storia ha avuto la sua vita ed è “morta”, ma grazie alla
scrittura in scena compiuta dagli attori questa si trasforma e svela un celato non immaginato in anticipo e
imprevisto dalla premesse.
E’ una nuova storia che ha in se quella originaria, ma non solo, ha in se anche le storie che prima sono state
raccontate e le loro scritture in scena.
Lo stesso acting degli attori risente di questa circolarità e ogni scrittura che compiono ha in se gli echi delle
altre storie e delle altre scritture precedenti.
L’acting dell’attore è infine influenzato, proprio per l’oralità della comunicazione del qui e ora, non solo
dalla densità delle parole, ma dalla presenza fisica di chi racconta, con tutte le sue caratteristiche, dal suono
del racconto in tutte le sue componenti sia ritmiche che di colore.
Questa presenza è un elemento che entra prepotentemente nell’acting e effettua una trasformazione negli
attori che restituiscono con la storia loro stessi trasformati. Pensiamo a cosa sarebbe il Playback se non
avessimo il narratore, ma un lettore che legge la storia scritta su carta. Sarebbe tutto un altro teatro.
Conclusioni
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Termino qui questo che è un “racconto” del dialogo di un attore, non solo di PlayBack ( come è brutta
questa necessità di dover aggettivare o sostantivare il termine …), con i temi propri dell’essere attore e
attore di Playback.
Si sono conformate soprattutto come riflessioni che non hanno la sistematicità di una trattazione ma che
spero valgano a testimoniare quello che è l’impegno che viene speso in una professione ( nel senso
etimologico di” Esercizio di un’arte nobile” ) che ritengo indispensabile per la nostra comunità.
Una comunità che ha i confini di una palla tonda, un po’ schiacciata ai poli ma tonda, che viaggia in un
universo immenso e che ha dentro di se un universo ancora più immenso e ancora più interessante in cui
un individuo non può mai dirsi indipendente e a se.
Alessandro Bianchi
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