La crisi della conoscenza

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La crisi della conoscenza
Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento entrano in crisi il modello positivistico di
scientificità e il tema ideologico del progresso necessario della ragione che era stato alla base delle
grandi sintesi ottocentesche. Il tema della «crisi» percorre in varie declinazioni il pensiero del
Novecento
I grandi temi ideologici che circolavano nella cultura filosofica e scientifica dei decenni centrali
dell'Ottocento, e che trovarono infine una sintesi nella fiducia positivistica nella storia come realizzazione di
un progressivo controllo sulla natura e sulla società attraverso l'estensione della razionalità scientifica,
subirono, soprattutto in Francia e in Germania, un processo di erosione tra la fine dell'Ottocento e la prima
guerra mondiale. Le ragioni di questa situazione - che vide da un lato il fiorire di posizioni antiscientifiche di
carattere spiritualistico, neoidealistico e variamente«irrazionalistico» dall'altro la trasformazione interna del
positivismo nel senso di una maggiore consapevolezza critica circa le possibilità, i limiti e i metodi del sapere
scientifico - sono di varia natura. In parte sono da mettere in rapporto con le difficoltà incontrate nel
processo di modernizzazione intrapreso dalle borghesie liberali, e i mutamenti culturali intervenuti con
l'affermazione degli imperialismi; in parte sono da individuare in ragioni «interne» allo sviluppo delle
scienze e della cultura filosofica.
- L'estensione della cultura positivistica negli ultimi decenni dell'Ottocento (l'egemonia in ampi
settori della ricerca universitaria; la produzione di lavori anche di grandissimo rilievo, come i saggi
sociologici di E. Durkheim ed etnologici di Levy-Bruhl in Francia; la diffusione in ampi strati non
intellettuali, presso i quali diventò una specie di religione popolare della scienza) si accompagnò a una
progressiva banalizzazione, alla perdita di mordente, alla ricerca di compromessi e di soluzioni eclettiche; ciò
facilitò la reazione antipositivistica del primo Novecento e la dissoluzione della ideologia tardo-ottocentesca
della «scienza», del «progresso» e della «ragione» con percorsi ed esiti molto vari.
- Non bisogna confondere la crisi dei vecchi paradigmi scientifici che apre, con gli inizi del secolo, un
periodo di innovazioni radicali nelle scienze e di rimescolamenti nelle epistemologie, con la «critica della
scienza» (come forma inferiore o inautentica di sapere) che è presente in molte filosofie contemporanee. È
vero piuttosto che entrò in crisi l'immagine poco problematica e ingenuamente ottimistica del sapere
scientifico che si era diffusa nella cultura della seconda metà dell'Ottocento. L'ideale di scientificità come
formulazione di Leggi descrittive di una realtà «assoluta», indipendente dagli strumenti e dalle procedure di
ricerca, non resse di fronte agli sviluppi della nuova fisica della relatività e dei quanti. Persino le
matematiche, che avevano rappresentato per secoli un modello di scientificità intesa come edificio
sistematico costruito sul rigore formale e sull'evidenza apodittica delle dimostrazioni, proprio nello sforzo di
assumere un assetto più organico e rigoroso, andarono incontro a quella che si chiamo «crisi dei
fondamenti». Si diffusero le geometrie non euclidee; nacque l'insiemistica dal tentativo di formulare una
nuova fondazione unitaria della matematica; vennero identificate procedure alternative (il «logicismo» di
Frege e di Russell, l'«intuizionismo» di Brouwer, il «formalismo» di Hilbert) per giustificare le basi logiche e
i principi dell'aritmetica e della geometria.
- Nello stesso tempo veniva messa in discussione l'applicabilità del modello positivistico di scienza,
largamente improntato al meccanicismo della fisica classica, a tutti i campi del sapere. Negli ultimi decenni
dell'Ottocento si riaccese in biologia la polemica tra «meccanicisti» e «vitalisti». Ma soprattutto nelle scienze
umane e sociali si tentò in Germania di svincolare le cosiddette «scienze dello spirito» dalle scienze della
natura: quali metodi sono adatti a saperi che hanno per oggetto l'uomo, e nei quali la «comprensione» che
rivive dall'interno i fatti storici e individuali sembra garantire un accesso migliore della «spiegazione »
oggettivistica delle scienze naturali? Il problema, che così impostato era già aperto a soluzioni idealistiche e
spiritualistiche, doveva successivamente riproporsi in altre forme nelle discussioni che accompagnarono le
trasformazioni novecentesche delle « scienze umane ».
- Ciò .che sembra tramontare nel Novecento è la possibilità di costruire quell'edificio unitario che la
scienza ottocentesca aveva ancora perseguito pur nello specialismo delle ricerche. Entrano in gioco una
pluralità di metodologie, di oggetti, di procedure di fondazione. All'unicità di una ragione fondante che la
cultura scientifica e filosofica del secolo passato aveva cercato in vario modo di individuare (con i suoi
correlati ontologici: lo Spirito, la Materia, l'Evoluzione, l'Umanità) sembrano sostituirsi nel Novecento una
molteplicità di saperi e di campi specifici di razionalità parziali, irriducibili a un fondamento unico. Questa
situazione, che pure è di crescita senza precedenti degli strumenti e dei risultati conoscitivi, è stata spesso
vissuta con disagio: la cultura filosofica del Novecento parla frequentemente di «crisi delle scienze», di «crisi
della ragione», di «crisi dei valori» in senso negativo, soprattutto nel clima di angoscia e di incertezza
determinato dall'esperienza traumatica della guerra mondiale e dalla crisi del mondo liberale. Altre volte la
molteplicità dei saperi e la problematizzazione dei fondamenti sono valutate per le possibilità positive che
aprono sul piano conoscitivo e su quello delle strategie di trasformazione della realtà.
In termini molto generali, gran parte del pensiero del Novecento è comunque caratterizzata da una duplice
convinzione:
- che non esistano verità, valori o realtà di carattere assoluto ma piuttosto una molteplicità di
prospettive, punti di vista (individuali e sociali), situazioni storiche, condizionamenti di fatto; si hanno così
varie forme di «relativismo » (gnoseologico, morale, antropologico, storico);
- che l'«oggetto», il «dato», la «realtà», siano in ampia misura dipendenti dagli strumenti logici e
concettuali, dai dispositivi di accertamento e di verifica, dalle assunzioni di valore e dagli orientamenti pratici
che stanno a monte di ogni «produzione di verità » e di ogni «conferimento di senso»; di qui il rilievo delle
problematiche riguardanti i metodi, i linguaggi, e, in generale, gli strumenti del conoscere e dell'agire.
La fisica si allontana dall'ideale descrittivo della realtà: prevalgono gli aspetti costruttivi e operativi
Diventa problematica un'immagine unitaria della natura
Vi sono due letture possibili della storia della fisica nel XIX secolo: come estensione e consolidamento
dell'immagine meccanicistica della natura fino alla crisi scientifico-filosofica di questo modello alla fine del
secolo; oppure come processo complesso di trasformazione di quell'immagine della natura e di
sedimentazione di materiali osservativi e teorici destinati a confluire in nuove sintesi, profondamente
innovative, in nuovi «paradigmi» nel senso dell’epistemologo T. S. Kuhn con la fisica della relatività e dei
quanti all'inizio del Novecento.
Attendibili ricostruzioni storiografiche hanno sottolineato la gradualità e la complessità delle trasformazioni
avvenute, contro l'immagine più tradizionale di una brusca rottura e di una crisi improvvisa che avrebbe
coinvolto la razionalità e l'oggettività della scienza.
Bisogna però ora sottolineare gli elementi di radicale novità implicati nelle sintesi scientifiche novecentesche,
e chiedersi se all'immagine dell'universo-macchina e del cosmo-orologio predominante nel Settecento e
profondamente in crisi nell'Ottocento, si sia sostituita, attraverso le elaborazioni dei fisici del Novecento, una
nuova immagine unitaria del mondo, o se, piuttosto, i fisici siano pervenuti a una pluralità postnewtoniana di
modelli, di vocabolari e di strumentazioni, efficaci a indagare nuovi settori e aspetti del mondo fisico, ma
difficilmente componibili in una nuova immagine con pretese onniesplicative come era negli intenti della
fisica classica.
Vediamo alcuni dei risultati piu generali della teoria della relatività di Einstein (1879-1955).
- II tempo e lo spazio non sono entità assolute come nella fisica newtoniana, ma dimensioni relative
ai sistemi di riferimento e agli strumenti di misura degli osservatori: si giunge cioè a una «definizione
operativa» dello spazio e del tempo. Nei saggi del 1905 (che fondano la relatività speciale 0 ristretta) Einstein
partì dal problema delle procedure per definire la simultaneità di due eventi nel tempo e stabilì che tale
definizione è relativa alla velocità dei segnali impiegati dagli osservatori; la relatività si estende anche alle
misure di lunghezza (quindi allo spazio) in quanto si debbono considerare simultaneamente i punti estremi
dell'oggetto che si vuole misurare. Ne deriva l'affermazione, paradossale per la nostra esperienza percettiva e
per il senso comune che su di essa si basa, della «dilatazione del tempo» e della «contrazione delle
lunghezze» in rapporto agli osservatori. Lo studioso della relatività S. Bergia precisa: «Nessuno nega che,
ogniqualvolta un dato fenomeno venga osservato in quiete, esso abbia una durata caratteristica, o propria,
determinata dalle caratteristiche fisiche del sistema di osservazione; ma la teoria della relatività prevede che
lo stesso fenomeno, osservato da un osservatore rispetto al quale esso si svolge in movimento, dia una durata
diversa, come fatto oggettivo verificato dagli apparecchi. Questo effetto è stato sperimentalmente verificato
molto più tardi rispetto alla formulazione teorica einsteiniana
- Tempo e spazio non sono coordinate indipendenti ma una struttura unica: le misure di spazio e di
tempo sono intese come componenti di un sistema spazio-temporale a quattro dimensioni entro cui si
definisce ogni evento fisico (Einstein riprese e rielaborò la teoria del continuo tetradimensionale formulata
negli anni 1907-8 dal matematico di Zurigo H. Minkowski).
- Nella teoria della relatività generale, definita a partire dal 1916, e nei successivi sviluppi della teoria
unificata del campo (del secondo dopoguerra), la materia diventa un particolare modo in cui si presenta il
continuum spazio-temporale. La spazio-tempo einsteiniano non contiene i corpi materiali come un medium
inerte, ma interagisce con le masse in esso presenti, che determinano la « curvatura» dello spazio secondo le
regole della geometria non-euclidea di Riemann. Ne deriva il risultato sorprendente che le forze
gravitazionali sono solo il modo in cui appare a un osservatore la curvatura dello spazio-tempo e dunque
viene rivoluzionato il punto di vista newtoniano sui moti planetari. Alla fine della vita Einstein «voleva
trovare un'interpretazione geometrica di tutti i campi di forze, elettriche, nucleari, magnetiche, gravitazionali
noti ai fisici e voleva mostrare come geometria e fisica fossero solo due linguaggi diversi con i quali descrivere
la stessa realtà »
- In questo contesto si colloca il noto principio dell'equivalenza di massa ed energia (secondo la
formula E = mc2) che ebbe diverse conferme sperimentali e infine l'applicazione pratica decisiva con lo
scoppio della prima bomba atomica nel. 1945.
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La fisica einsteiniana conduce dunque sia all'abbandono dei concetti di spazio e di tempo della fisica
«classica» di Galilei e di Newton, sia alla problematizzazione della concezione tradizionale della materia e
alla definizione della materia all'interno di una teoria geometrica dei campi e dell'equivalenza di massa ed
energia.
I concetti della fisica perdono ogni residuo «sostanzialistico» e sono ricondotti a operazioni, a misure, e alla
teoria matematica delle trasformazioni reciproche dei diversi sistemi di operazioni e misure.
È bene ricordare tuttavia che la fisica relativistica, se è stata spesso usata dalla cultura extrascientifica come
supporto di un generico relativismo filosofico, nell'opera di Einstein intende essere invece una comprensione
più oggettiva, più completa e più profonda della realtà. «La fisica -egli afferma- è un tentativo di afferrare
concettualmente la realtà, quale la si concepisce indipendentemente dal fatto di essere osservata. In questo
senso si parla di " realtà fisica "»
Uno sconvolgimento ancor più profondo nel concetto di «realtà fisica » fu introdotto dal parallelo sviluppo
della microfisica 0 fisica delle particelle elementari (o subatomiche), che condusse alla elaborazione della
teoria dei quanti. Einstein, che diede importanti contributi alla fase iniziale della fisica quantistica, prese poi
in modo sempre più netto le distanze dall'indeterminismo dei fenomeni e dal carattere statistico delle
regolarità formulabili in base alla fisica dei quanti.
In termini molto generali, la fisica quantistica
- pone in questione i tentativi di ridurre a un principio unico l'intelligibilità dei fenomeni della natura
e introduce, con il principio di complementarità di Bohr (1885-1962), l'obbligo per il fisico di servirsi
alternativamente, e secondo regole definite, del modello corpuscolare e di quello ondulatorio nella
spiegazione degli eventi microfisici;
- stabilisce, con il principio di indeterminazione di W. Heisenberg (1901-76), i confini della possibilità di
determinare una realtà obiettiva, cioè indipendente dall'osservatore e dall'apparato strumentale che usa;
questo non significa che ciò che succede nell'universo dipenda dalle nostre osservazioni, ma che, nel campo
della fisica atomica, gli strumenti di osservazione entrano in parte a costituire i fatti osservati;
- introduce una radicale riformulazione del carattere statistico delle leggi che regolano il
comportamento delle particelle elementari. Apparati interpretativi di tipo probabilistico erano già
largamente usati nella fisica ottocentesca, per esempio nello studio della cinetica dei gas, ma sempre sulla
base della impossibilità «soggettiva» degli osservatori di descrivere il rigoroso determinismo dei fenomeni,
che pure era presupposto, secondo l'ideale della meccanica di Laplace esposto agli inizi del secolo. La fisica
dei quanti introduce invece l'idea, che Einstein rifiutò recisamente, di un reale indeterminismo dei processi
«ultimi» 0 «costitutivi» della materia.
Gli sviluppi della fisica del Novecento comportano così la difficoltà a ricomporre un'immagine unitaria del
mondo: concetti e strumenti della fisica classica che valgono per piccole velocità rispetto a quella della luce
non possono essere applicati ai fenomeni in cui intervengono velocità vicine a quelle della luce (nei quali
subentrano a pieno titolo concetti relativistici); ma alla scala di grandezze proprie dei fenomeni atomici
valgono altri tipi di leggi e altri modelli concettuali.
Questa pluralità di modelli e di strumenti logici si complica poi nel rapporto tra la fisica e le altre scienze
della natura. Tra i vari settori intervengono peraltro vantaggiosi trasferimenti di problemi e di metodi.
L'accumulazione di conoscenze (anche con l'effetto moltiplicatore derivante dalla simbiosi tra scienze e
tecnologie) non avviene però generalmente secondo un piano preordinato, come nei vecchi ideali di
costruzione scientifica, che si rifacevano al progetto di un unitario «edificio del sapere». Si hanno numerose
interazioni tra i diversi settori, nascono discipline di frontiera che raggiungono risultati eccezionali (basti
ricordare i recenti successi della biologia molecolare all'incrocio di ricerche biochimiche e biofisiche, che
hanno permesso di individuare nel secondo dopoguerra la struttura del «codice genetico» che sta alla base
della trasmissione dei caratteri ereditari e dei processi evolutivi).
Da questa situazione derivano problemi epistemologici molto complessi, e anche la necessità per le scienze
della natura di incorporare nei propri procedimenti una consapevolezza metodologica e «critica» molto piu
raffinata di quanto fosse necessaria agli scienziati dei secoli precedenti.
Dovendosi confrontare con l0 straordinario sviluppo dei saperi scientifici (sia delle scienze naturali ed esatte,
sia delle scienze umane e sociali) la filosofia del Novecento si trova davanti a un'alternativa che si era già
presentata nel corso dell'Ottocento:
- ricondurre l'indagine filosofica entro i limiti di un'attività ausiliaria nei confronti delle scienze, sulla
base dell'idea che esse soltanto producano effettivamente conoscenza e che compiti della filosofia siano
quelli importanti ma subordinati di chiarificazione logica e metodologica, di analisi dei linguaggi
scientifici, di difesa del territorio della scienza dalle intrusioni della metafisica, di unificazione delle
discipline scientifiche - rispetto ai metodi e/o ai risultati - in una nuova «enciclopedia delle scienze», di
«terapia» e di «igiene mentale» rispetto alle tendenze ricorrenti del pensiero ad avventurarsi verso
costruzioni speculative al di fuori dell'ambito di ciò che e empiricamente «verificabile» 0 «confutabile»;
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- attribuire alla filosofia un tipo di sapere autonomo, primario e fondativo rispetto alla molteplicità
dispersiva e parziale dei saperi scientifici, i quali avrebbero bisogno di una giustificazione e di una
delimitazione di carattere antropologico, ontologico 0 metafisico.
Naturalmente si tratta di una distinzione grossolana che solo in un certo numero di casi si presenta in modo
netto e radicale: quando per esempio, il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, esponente della filosofia
analitica, afferma nel Tractatatus logico-philos0phicus (1921) che ciò che propriamente può essere detto
sono solo «proposizioni della scienza naturale - dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha da fare», si
pone agli antipodi del filosofo italiano di scuola neoidealista Benedetto Croce, il quale negli stessi anni
sosteneva che i saperi scientifici in quanta «naturalistici» producono solo «pseudo-concetti», mentre la
filosofia, in quanto disciplina che ha per oggetto la storia dello spirito, sarebbe autenticamente «scienza».
Le scelte che si situano nell’area della filosofia intesa come attività ausiliaria dei saperi scientifici continuano
in forme nuove le correnti positivistiche ed empiristiche del XIX secolo - nella critica antimetafisica, nella
riduzione della filosofia a logica, metodologia, epistemologia, nella preoccupazione per la riunificazione delle
scienze - e genericamente si riconducono al clima culturale del «neopositivismo» e delle sue derivazioni. Si
distinguono dal positivismo ottocentesco per tutta una serie di tratti nuovi, fra cui soprattutto la rinuncia alle
costruzioni globali, la concentrazione sui problemi della logica e su quelli del linguaggio.
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