Saperi storia 2 p

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Meccanizzazione e produttività nell’agricoltura
Cinque operazioni fondamentali governano l’attività agricola: aratura, semina, mietitura dei grani,
fienagione, trebbiatura. Ciascuna di esse aveva proprie esigenze in termini di forza-lavoro richiesta
e pose problemi specifici agli agronomi e agli inventori di macchine.
Aratura e semina erano le lavorazioni che richiedevano relativamente meno lavoro; data la loro
importanza ai fini di una buona riuscita del raccolto, nel XVIII secolo furono oggetto delle maggiori
attenzioni da parte degli agronomi, che raccomandavano in particolare la semina in fila direttamente
nei solchi, al posto di quella più dispersiva effettuata dal contadino spargendo a mano il seme. Le
macchine per seminare, mosse da cavalli, si imposero in Inghilterra nella prima metà del XIX
secolo, mentre assai più lenta fu la diffusione degli aratri a vapore.
Le macchine agricole
Le altre tre operazioni, e in particolare l’ultima, erano quelle che richiedevano la quota più elevata
di tempo di lavoro. Il taglio dei grani, effettuato con strumenti manuali come il falcetto e la falce,
impegnava molto lavoro perché doveva essere compiuto in fretta, prima che le spighe fossero
rovinate dal crescere dell’umidità autunnale. La trebbiatura, che consiste nel separare i chicchi di
grano dai loro involucri e dalla paglia, era un’operazione del tardo autunno e del principio
dell’inverno; all’interno dell’economia contadina familiare essa poteva effettuarsi con comodo,
perché si svolgeva in un periodo in cui non esistevano altri lavori da compiersi urgentemente.
Diversamente andavano le cose nelle aziende a gestione capitalistica, dove veniva affidata a dei
salariati. Per i suoi costi e poiché si trattava di un’attività che non richiedeva particolare perizia, la
trebbiatura era la prima candidata a venir trasferita al funzionamento automatico di una macchina.
Dove le tradizioni giuridiche spezzettavano la terra in piccole unità di proprietà o affitto, la
trebbiatura con costosi attrezzi meccanici ebbe più difficoltà a imporsi; lo stesso valeva per
l’Europa orientale e la Russia, dove i grandi proprietari avevano piena disponibilità di manodopera
servile.
I paesi più adatti per l’affermazione delle macchine agricole furono, per ragioni diverse,
l’Inghilterra e, con maggiore velocità, gli Stati Uniti. In Inghilterra, dominata dalle grandi aziende
agrarie a lavoro salariato, la motivazione era data dalla necessità di risparmiare sui salari. Negli
Stati Uniti, come ha scritto David Grigg (nel suo profilo di Storia dell’agricoltura in Occidente,
1992), «la combinazione di abbondanza di terra e scarsità di popolazione favorì l’invenzione e
l’adozione di macchine risparmiatrici di lavoro». Per le estese proprietà qui istituite con la conquista
delle terre vergini dell’Ovest le macchine ideali erano la mietitrice e la trebbiatrice e, meglio
ancora, una combinazione delle due. Fra il 1830 e il 1860 la mietitrice meccanica giunse a
conquistare negli Stati Uniti circa la metà dei raccolti. In Inghilterra la trebbiatrice meccanica,
introdotta dal 1780-90, era destinata a produrre disoccupazione stagionale fra quei contadini che
erano già passati totalmente o parzialmente nel settore dei lavoratori salariati. A differenza di
quanto accadde negli Stati Uniti, perciò, le macchine agricole si affermarono qui in un contesto di
accese lotte sociali, che occupò l’intero periodo 1815-45, culminando nei violenti tumulti del 1830,
estesi a tutte le contee del sud e dell’est dell’Inghilterra.
La crescita della produttività del lavoro
Nonostante l’aumento della popolazione, per tutto il XVIII secolo l’agricoltura inglese fu in grado
di soddisfare i bisogni nazionali e anche di consentire, fino al 1770, un buon margine di
esportazioni granarie. Ciò dipese dal fatto che le innovazioni agronomiche consentirono di far
crescere adeguatamente i rendimenti della terra. D’altra parte nel corso degli ultimi anni del secolo
l’industria e la città attrassero una quantità considerevole della popolazione rurale; senza un
parallelo aumento della produttività del lavoro (cioè della produzione media per singolo addetto
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all’agricoltura) dovuto alla diffusione di attrezzi più efficienti, la produzione agricola totale non
sarebbe riuscita a star dietro alla popolazione.
Secondo i calcoli dello storico inglese Anthony E. Wrigley (La rivoluzione industriale in
Inghilterra, 1988), nell’Inghilterra e Galles del 1700 il lavoro dei circa 900 000 maschi adulti
occupati nell’agricoltura manteneva una popolazione totale di 5,4 milioni di persone. Verso il 1790,
quando la produzione interna era ancora sufficiente per i bisogni del paese, queste due cifre erano
salite rispettivamente a 1 e 8,2 milioni. Verso il 1830, quando la dipendenza inglese dalle
importazioni era già significativa (un po’ meno del 5% dei consumi totali) ma ancora lontana
dall’essere decisiva (come sarebbe avvenuto dopo il 1850), esse erano diventate 1,1 e 14 milioni.
Un contadino inglese manteneva dunque 6 persone nel 1700, 8,2 nel 1790 e 12 (tenendo conto delle
importazioni) nel 1830; la produttività del suo lavoro era cresciuta del 37% nel 1700-1790, del 45%
nel 1790-1830 e del 100% nell’intero periodo 1700-1830.
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