Sulla formazione della musica strumentale nel Rinascimento

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Sulla formazione della musica strumentale nel Rinascimento
Nel Museo Civico di Bologna è possibile ammirare una tra le più
famose pale d’altare eseguite da Raffaello a Roma. Il dipinto, che fu
commissionato all’Urbinate nel 1514 per la Chiesa di S. Giovanni in Monte di
Bologna, è conosciuto come “Estasi di Santa Ceciclia”, ma più propriamente
viene designato “Sacra conversazione intorno a Santa Cecilia”.
Perché questo riferimento pittorico mentre ci accingiamo a trattare un
argomento di natura musicale? La risposta possiamo ricavarla osservando il
dipinto stesso che raffigura (da sinistra a destra) quattro santi: San Paolo, San
Giovanni Evangelista, Sant’Agostino e Santa Maria Maddalena che fanno
corona a Santa Cecilia, còlta nel rapimento estatico dell’ascolto di una musica
celestiale che scende sugli astanti da uno squarcio di cielo attraverso cui sono
visibili sei angeli intenti a cantare melodie su vistosi spartiti.
La Santa patrona dei musicisti si abbandona completamente all’evento
melodico che la sovrasta al punto tale che le sta scivolando dalle mani l’organo
portativo. Tutt’intorno, ai suoi piedi, giacciono alla rinfusa vari strumenti
musicali.
Lo storico dell’arte sottolinea doviziosamente la straordinaria novità
concettuale e iconografica della pala d’altare: “la divinità non è più visibile ma è
presente nel sentimento dei personaggi”, come pure pone l’accento sul
particolare tappeto di strumenti che, isolato dal contesto delle figure dei
personaggi, può essere considerato come un interessante momento di “natura
morta con strumenti”, quasi a preconizzare quanto, più avanti nel tempo,
proporrà l’arte raffinata del bergamasco Evaristo Baschenis che dedicò gran
parte del suo lavoro alla rappresentazione di strumenti musicali, giungendo a
codificare un nuovo genere nel variegato mondo della “natura morta”.
Ma all’occhio indagatore del musicista non sfugge certo un particolare
significativo: gli strumenti ai piedi di Santa Cecilia non sono funzionanti e ciò
per il semplice fatto che essi sono rotti (si notino la pelle squarciata del
naccara, le corde spezzate della viola da gamba ed ancora l’evidente fenditura
sulla tavola armonica della medesima viola).
Allora, se un significato recondito può ricavarsi dal dipinto raffaellesco,
questo potrebbe essere il seguente: nella pala sono riconoscibili i segnali di
una tendenza culturale del momento che vedeva affermarsi la polifonia vocale
(rappresentata dal coro degli angeli) sulla musica strumentale la cui eredità,
dal recente passato medievale, è costituita appunto dal fatiscente
strumentario di flauti a becco, naccara, triangolo, cimbali, ecc. Infatti, il
cammino della musica vocale, attraverso il germogliare di voci alternative
all’originario tenor (discantus e vox superior, contratenor, altus e bassus), dalla
monodìa del Medioevo approda, nel sec. XVI, a traguardi di ardita architettura
vocale di grande fascino.
Ma il dipinto, secondo noi, assume anche una valenza di altro genere e
che riguarda da vicino il nostro tema. Come la mitica Araba Fenice, quegli
stessi strumenti musicali, dalle ceneri della loro fatiscente condizione, proprio
attraverso l’impiego delle conquiste della polifonia vocale, ben presto
risorgeranno a nuova vita e provocheranno il fiorire della grande stagione della
musica strumentale. In tal modo potremmo affermare che il Rinascimento, in
campo musicale, ha rappresentato non soltanto la maturità della polifonia
vocale, ma è stato anche la culla della musica strumentale.
Due eventi erano stati determinanti - nel corso del secolo XV - a
favorire la diffusione della musica strumentale nel Rinascimento: l’abolizione
della scomunica ai giullari e l’invenzione della stampa musicale.
È ben noto e variamente documentato il difficile e spesso
contraddittorio rapporto tra il potere (civile e religioso) ed i giullari, sovente
privati dei diritti civili, perseguitati per il loro vagabondare e per la loro
instabilità sociale, onde essi non potevano che essere collocati in fondo alla
scala sociale per due motivi: perché ritenuti di condurre vita disonesta e
perché inducevano il prossimo a fare altrettanto.
Nel 1480 però, dopo secoli di accanimento contro questa categoria di
artisti girovaghi, contro i loro spettacoli e, in generale, contro la pratica della
musica profana che essi esercitavano, il papa Sisto IV revocò definitivamente
la scomunica per i giullari i quali, da un ruolo socialmente emarginato, si
videro elevati a dignità di artigiani e di artisti e poterono quindi dar vita ad
appositi sodalizi corporativi.
Dall’altro lato, con l’avvento della stampa, e in specie quella musicale
ad opera di Ottaviano Petrucci, viene offerta, per la prima volta, l’opportunità
di ripetere in più esemplari un’opera e ciò a tutto vantaggio della sua stessa
diffusione verso un numero sempre crescente di persone. Ciò consentì anche
all’arte della musica di produrre i primi trattati, le prime raccolte
monografiche e antologiche, nonché i metodi didattici, redatti nelle varie
lingue volgari europee.
Nel 1511 compare a Basilea il Musica getusch und angezogen. L’opera,
del monaco Sebastian Virdung, è scritta in forma di dialogo tra il maestro
Sebastianus e l’allievo Andreas Silvanus. Essa illustra essenzialmente tutti gli
strumenti dell’epoca, classificandoli in base al modo con cui viene prodotto il
suono.
Del 1529 è l’altro importante trattato, anch’esso tedesco, Musica
instrumentalis deudsch di Martin Agricola, pubblicato a Wittenberg con
riedizioni successive fino al 1545.
Potrebbero sembrare i tedeschi i dominatori della scena della
trattatistica strumentale ma, in realtà, sono gli italiani che detengono il
primato sul mondo musicale e tale primato lo materranno fino al barocco
compreso.
Ricorderemo perciò trattati quali Scintille di musica di Giovanni Maria
Lanfranco del 1533; Fontegara di Silvestro Ganassi (1535) “sonator della
illustrissima Signoria di Venetia”. Ganassi, a differenza dei trattatisti tedeschi,
che si rivolgono a considerare tutti gli strumenti, inaugura un genere diverso,
quello cioè del compendio di tipo pratico dedicato esclusivamente ad uno
strumento.
A Fontegara, riservato alla pratica del flauto diritto, Ganassi farà
seguire un’altra opera dedicata alla viola da gamba, divisa in due parti: Regola
Rubertina e Lettione seconda rispettivamente del 1542 e 1543. Sempre alla
viola si rivolge lo spagnolo (naturalizzato napoletano) Diego Ortiz con il suo
Tratado de glosas del 1553.
Questo sommario giro d’orizzonte viene completato da il Fronimo, che
Vincenzo Galilei pubblicherà nel 1568 per lo studio teorico-pratico del liuto, e
da altre due opere rivolte alla conoscenza degli strumenti musicali in generale,
che si riallacciano quindi alla trattatistica dell’inizio secolo: Prattica di musica
del pesarese Lodovico Zacconi, del 1596, e Sintagma musicum, del 1619, di
Michael Praetorius, nome latinizzato del tedesco Michael Schulze.
Il Sintagma Musicum, in tre volumi, non è opera per semplici amatori o
per principianti, essa si rivolge ai musicisti e, fatto innovativo, ai costruttori di
strumenti musicali. Altro pregio di questo lavoro sta nel fatto che il secondo
volume è corredato da un supplemento, intitolato Theatrum instrumentorum
seu Sciagraphia, che riporta una serie di accuratissime xilografie raffiguranti
tutte le famiglie strumentali. Ciò rende l’opera del Praetorius unica nel suo
genere e la fa classificare come il più prezioso documento sull’antica
organologia che ci consente oggi di conoscere con quali e quanti strumenti
veniva eseguita la musica fino a tutto il Rinascimento.
I positivi riflessi di questa doviziosa trattatistica non tardarono a
giungere tant’è che l’arricchimento della varietà strumentale dette luogo,
soprattutto nell’Italia settentrionale, alla fioritura di botteghe artigiane per la
produzione di strumenti musicali e, in più parti d’Europa, favorì la
pubblicazione di raccolte di musiche “da cantar e da sonar con ogni sorta di
strumenti”, come spesso indicavano gli stessi editori in apertura dell’opera.
A questo punto del cammino della storia musicale, voci e strumenti
sono posti sullo stesso piano. Le musiche, intavolate generalmente a quattro
parti (una per ogni voce della polifonia: soprano, alto, tenore, basso), possono
essere eseguite indifferentemente da complessi vocali (con o senza
accompagnamento) oppure da omologhi complessi dotati di strumenti, a fiato
o ad arco, costruiti per “famiglia”, intendendo (nel caso di strumenti a fiato)
flauto soprano, flauto contralto, flauto tenore, flauto basso; oppure (nel caso
di strumenti ad arco) viola soprano, viola contralto, viola tenore e viola basso.
L’impiego di una particolare famiglia strumentale era lasciata alla
libertà, al gusto, alla sensibilità degli esecutori, alcune volte al carattere stesso
del brano, oppure ai luoghi dove le musiche dovevano essere eseguite talché,
per citare degli esempi, i flauti, i cromorni e le viole erano indicati per
esecuzioni al chiuso, mentre le bombarde, le dulciane, le trombe a tiro e i
tromboni erano da prediligere all’aperto e fromavano il complesso cosiddetto di
Alta Cappella.
La nascente musica strumentale mutua quindi la struttura delle parti
dalla polifonia vocale; i suoi strumenti sono cioè “tagliati” secondo le quattro
voci della polifonia vocale, ma la materia musicale l’attinge dalla danza.
Così, dopo l’abolizione della scomunica e l’invenzione della stampa
musicale che abbiamo considerate poc’anzi, ecco intervenire nella formazione
della pratica della musica strumentale un terzo elemento, quello della danza.
Nel Rinascimento, dopo secoli di generale decadimento, rifiorisce la
danza, con tutta la bellezza delle sue movenze e dei suoi ritmi, anche se,
impoverita rispetto ad un passato più remoto nei suoi valori artristicoespressivi, essa è ridotta ormai ad un mèro passatempo che tuttavia non deve
essere inteso in senso riduttivo perché sarà proprio questo aspetto che,
indirettamente, consentirà alla musica strumentale di acquisire i necessari
elementi ritmici e dinamici per il suo successivo sviluppo.
Infatti, l’abbinamento di una danza “strisciata” o “passeggiata”,
dall’andamento calmo e lento (ovvero “bassa danza”) e di una danza “vivace” e
“saltellata”, dall’andamento brioso (ovvero “alta danza”), spontaneo nell’uso dei
danzatori i quali non avrebbero potuto eseguire, non senza una qualche fatica,
una sequenza di danze agitate e vertiginose, costituì una sòrta di molecola
ritmico-dinamica originaria della musica strumentale: l’associazione cioè di un
movimento lento e solenne con un movimento allegro e vivace .
Quest’alternanza dinamica starà alla base delle forme musicali ormai
note e che noi conosciamo con i nomi di Suite, Partita e Sonata dove appunto i
vari movimenti che le compongono sono caratterizzati da ritmi lenti ai quali
fanno seguito ritmi veloci.
In Italia l’abbinamento delle due danze “lenta-veloce” è rappresentato
dal binomio pavana-gagliarda, in Francia sarà dato dal binomio bassedancetourdion.
Queste nostre riflessioni sulla nascita e sullo sviluppo della musica
strumentale nel Rinascimento europeo non possono non tenere conto della
vasta produzione editoriale, apparsa nel corso del sec. XVI e agli inizi del sec.
XVII, ad opera di editori, di musicisti e di stampatori-musicisti.
I primi, come è noto, hanno avuto il merito di pubblicare raccolte di
danze, i secondi hanno prodotto musica da ballo, i terzi hanno
opportunamente utilizzato il materiale musicale, già noto dalla tradizione
coreutica, e ne hanno fatto appropriati arrangiamenti. Il loro lavoro assume
una rilevante importanza perché ha salvato dall’oblio un patrimonio di danze,
per lo più anonime legate quindi alla tradizione, che erano assai in voga
nell’Europa del tempo e il cui grado di diffusione viene rivelato proprio dalla
presenza di una stessa danza in più di una raccolta.
In queste antologie, tra le danze tradizionali di matrice europea,
compaiono altre danze i cui nomi ci documentano i contributi culturali che
provengono dal “nuovo mondo”, recentemente scoperto. Così accanto alle
danze già note: pavana, gagliarda, branle, fanno la loro apparizione le
esotiche: sarabanda, canario, ciaccona.
Nella categoria degli editori citeremo, dapprima, Pierre Attaingnant,
vissuto tra il 1494 e il 1552. Dall’originario Douai, giunse a Parigi nel 1514
per commerciare libri; la sua prima edizione Chansons nouvelles en musique à
quatre partie risale al 1527, alla quale fece seguito un centinaio di raccolte
musicali che rappresentano la quasi totalità della produzione francese della
prima metà del XVI secolo.
Altro editore di rilievo è Pierre Phalèse (1510-1573?), attivo come
libraio a Lovanio, sua città di origine, sin dal 1542. Dal 1545 iniziò a
pubblicare raccolte di intavolature per liuto e nel 1570 si associò con Jean
Bellère di Anversa.
Tyelman Susato (circa 1515-1566) appartiene alla categoria dei
compositori-editori fiamminghi. Di origine tedesca, probabilmente della città di
Soest in Vestfalia, dal 1529 ad Anversa è attivo nel corpo dei musici della città
ed inoltre è suonatore di trompet durante le funzioni liturgiche nella chiesa di
Notre-Dame.
Come editore pubblicò oltre 50 volumi di musiche tra cui anche sue
composizioni; del 1551 è la famosa raccolta di danze Danseryes.
Claude Gervaise è invece compositore francese che, pur non facendone
parte in pianta stabile, visse a stretto contatto con i musicisti della Chambre
du Roi. Gran parte della sua produzione è rappresentata da arrangiamenti
strumentali di danze tramandate oralmente. La sua opera è preziosa fonte di
informazioni sulla pratica strumentale del momento: Troisième livre de
dancieres à 4 perties (Paris 1556).
Musicista è anche Pierre Certon (1510-1572). Nato a Melun, nel 1529
era già “clericus matutinorum” a Notre-Dame di Parigi. Nel 1532 è cappellano
cantore alla Sainte-Chapelle, dove rimase fino alla morte. Compositore tra i
più fecondi, operò nel cuore dell’attività musicale parigina con una produzione
copiosa pari a quella di Orlando di Lasso con il quale rivaleggiò per
raffinatezza.
La condizione di sacerdote, o comunque di uomo di chiesa,
accomunerà diversi musicisti che nel Rinascimento dedicheranno un interesse
allo studio, alla ricerca e alla pubblicazione di raccolte di danze.
In Francia, oltre al già citato Certon, ricorderemo Clement Jannequin e
soprattutto Thoinot Arbeau, anagramma del nome Jehan Tabourot (15201595). Nato a Digione, divenne canonico a Langres nel 1574. A lui si deve un
famosissimo trattato sulla danza intitolato Orchésographie scritto, come uso
nel tempo, sotto forma di dialogo fra l’autore e Capirol, un avvocato che
sostiene la necessità della danza quale complemento alla professione forense.
Chiude questa galleria di ritratti Giorgio Mainerio (1535-1582),
anch’egli sacerdote, nativo di Parma, che fu cappellano in Sant’Orsola ad
Aquileia dal 1560 e poi mansionario e maestro di cappella del Duomo della
stessa città dal 1576.
Giorgio Mainerio è un personaggio la cui vita ed il cui carattere si
presterebbero ad un romanzo di avventure: indovino, adepto della magia,
pubblicò a Venezia, per i tipi di Gardane, nel 1578, il Primo libro de’ balli,
opera che, sotto il pretesto di fornire ai musicisti dell’epoca un prontuario di
tutti i ritmi di danza disponibili, cercava di abbattere gli steccati tra la
tradizione colta e quella popolare.
Infine, uno spazio a parte va dato ai maestri di ballo, a coloro cioè che
praticavano e insegnavano l’arte cara a Tersicore.
Due i personaggi che dominano la scena nel secolo XVI (uno in area
laziale, l’altro a Milano):
Marco Fabrizio Caroso (1527-1605) originario di Sermoneta, antico
castello oggi in provincia di Latina, visse a Roma dove esercitò la professione
di ballerino, maestro di ballo, compositore e teorico della danza.
La sua opera Il Ballarino, del 1581, è divisa in due parti riccamente
ornate di figure che mostrano le movenze dei balli corrispondenti. Nel 1605 fu
ristampata con il titolo mutato in Nobiltà di dame.
Le musiche che compaiono in questo lavoro sono tutte composte
dall’Autore, esse “si presentano raffinate ed eleganti nella veste formale, mentre
nel tessuto conservano la semplicità propria delle musiche per danza”.
Pressoché in contemporanea, operò a Milano Cesare Negri, detto “il
Trombone”, al quale si deve l’altro importante trattato sulla danza intitolato Le
Gratie d’amore.
Del Negri, pur noto ballerino e maestro di danza, non si conoscono
esatte notizie biografiche. Riferimenti, ricavabili dal secondo capitolo della sua
opera, consentono di arguire che egli sia sempre stato al servizio di dignitari
spagnoli succedutisi al governo di Milano nella seconda metà del ‘500 e che i
suoi numerosi viaggi, accompagnati da esibizioni in varie città italiane, siano
sempre da ricollegare agli spostamenti del signore che serviva in quel
momento.
Le musiche che compaiono ne “Le Gratie d’Amore” sono tutte di sua
mano, alcune furono da lui trascritte per “una parte di suono e intavolatura di
liuto” da composizioni allora in voga di autori della seconda metà del ‘500
come, ad esempio, l’aria a quattro voci “So ben mi chi ha buon tempo” di Orazio
Vecchi.
Sin qui abbiamo avuto modo di intrattenerci sulla nascita e sulla
prima formazione della musica strumentale nel Rinascimento analizzando i
segnali rivelatori quali gli eventi storici (abolizione della scomunica ai giullari),
l’introduzione di nuove tecnologie (invenzione della stampa musicale) e
l’interesse manifestato dai musicisti alla danza che offre alla musica
strumentale alimento per la realizzazione di un’impalcatura ritmica in
un’epoca in cui, non esistendo ancora il “metronomo”, si misurava il “tactus”
dalla pulsazione cardiaca.
Aggiungeremo, in chiusura di queste nostre riflessioni, un accenno
all’iconografia musicale, già adombrata en passant con le tavole xilografiche
del Theatrum instrumentorum del Praetorius.
L’iconografia musicale è un veicolo importante per la documentazione
organologica antica perché ci trasmette immagini a sfondo musicale, a volte
soltanto esornative, ma spesso con valore di documento per una maniera di
fare musica.
Nel Rinascimento, accanto alle riproduzioni di strumenti, di concerti al
chiuso e all’aperto, compaiono nei dipinti pagine di musica stampata, musica
che viene riprodotta con tale precisione da poterne identificare addirittura il
testo di provenienza.
Nella pittura allegorica, ricorre ovviamente il soggetto di Santa Cecilia
(figura assolutamente leggendaria sulla quale sono sorte anche tradizioni di
martirio non documentato), nell’atto di suonare uno strumento (liuto,
spinetta, organo portativo), assistita da un angelo.
Il tranquillo mondo strumentale antico, che per secoli era vissuto su
cetra, lira, aulos, tibia, timpanon, sistro, cimbala, rivoluzionato - nel Medioevo
- dal contatto con il mondo islamico, dal quale l’occidente apprenderà l’uso del
liuto, della viella ad arco, del naccara, del salterio, ora - nel Rinascimento - si
appresta a vedere la nascita del cembalo (applicando una tastiera al “salterio”)
ed assiste al dominio incontrastato del liuto (derivato dall’arabo al-ud) e delle
sue ulteriori trasformazioni: arciliuto, tiorba o chitarrone.
Nel quadro “Concerto all’aperto”, di Toepret, viene colto
emblematicamente un incontro di famiglie strumentali: liuto, spinetta, viola da
braccio, flauto traverso. E’ l’embrione dell’orchestra che conosciamo con i
caratteri distintivi delle varie sezioni: archi, fiati, tastiera. Sta nascendo infatti
la “musica strumentale”, come la intendiamo al giorno d’oggi.
Augusto Mastrantoni
Fonti bibliografiche:
E. Carli, Raffaello, in Storia dell’Arte vol. VI, pag. 60. Istituto Geografico De Agostini,
1975
T. Saffiotti, I Giullari in Italia, Xenia Edizioni, Milano, 1990
Elucidarium, II, 18, in PL, CLXXII, col. 1148
A. Bornstein, Gli strumenti musicali del Rinascimento, Franco Muzzio Editore,
Padova, 1987
D. Kamper, La musica strumentale nel Rinascimento, ecc., pag. 27, ERI 1976
H. Engel, Musik und Gesellschaft, pagg. 206 e 221, Berlino/Wunsiedel, 1960
P. Verardo, in Prefazione a Danze da Nobiltà di Dame, Ricordi, Milano 1975
L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “EQUIPèCO-carte”, n.1-2, 2004
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