Tesina "Giuseppe Verdi nella Milano del

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“Sono belli i teatri d’opera. Hanno un loro fascino. Ci sono gli ori, le luci, gli stucchi, i velluti, i tappeti, gli
specchi; spesso anche i soffitti affrescati, come in certe chiese. Fanno spettacolo a sé, a sipario chiuso: ti danno
un senso di opulenza, di protezione, di calore, di complicità. Pensi a che cosa poteva succedere nei palchi
quando socchiudevano le tendine, discrete perfino nei colori: azzurro, avorio, un verde che si spegne nel
giallo, oppure un rosso che non è più rosso. C’era una regia in questo molto rigorosa: le tendine dovevano
essere armonizzate con i parapetti dei palchi, il sipario, la volta dipinta. Le stampe della Scala tramandano
l’immagine di un teatro in cui tutto è ordine, simmetria, compostezza, conforto: il conforto del lusso. Ma che
cosa succedeva dentro quei palchi? Sonnecchiavano, mangiavano, cospiravano, facevano l’amore,
intrecciavano pettegolezzi? E quei poveri diavoli che stavano sotto a cantare, ballare, suonare? Per molto
tempo, all’inizio di una vita che ha oltrepassato i due secoli, la Scala è stata tutto questo: teatro e luogo di
ritrovo assolutamente necessari, più il secondo del primo, alla nobiltà milanese”.
(G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano, 2010)
Giuseppe Verdi
nella Milano del Risorgimento
Il patriottismo italiano
sul palcoscenico del Teatro alla Scala
Tesi di Gianmarco Torrigiani
Liceo Scientifico “Amedeo di Savoia Duca d’Aosta” – Pistoia
Classe V Sezione D
INDICE
1. Premessa.
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2. Contesto ideologico del Risorgimento.
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3. Forza di attrazione culturale, storica e politica di Milano.
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4. Arti diverse, contributo comune alla causa risorgimentale.
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5. Il Teatro alla Scala: il grande orologio che regola la vita di Milano.
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6. Il giovane Verdi nei salotti e negli ambienti culturali milanesi.
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7. Influsso del pensiero di Mazzini nella vita artistica di Verdi.
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8. Il Nabucco: Verdi involontario portavoce di istanze patriottiche.
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9. Rilievo politico e sociale del Teatro alla Scala al tempo del Nabucco.
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10. Dal trionfo del Nabucco, un Verdi finalmente consapevole.
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11. Dall’Ernani all’Attila: Verdi più vicino al popolo, più lontano dalla Scala.
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12. Avvento dei moti del ’48 ed impegno politico del compositore.
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13. Nuovi scenari politici: “Viva V.E.R.D.I.!”.
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14. Non il fucile, ma le sue note: il contributo di Verdi alla causa nazionale.
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Bibliografia
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Sitografia
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1. Premessa.
Molteplici sono le ragioni che mi hanno portato a scegliere questo tema per la mia tesi,
prima fra tutte la mia grande passione per l’opera lirica, nata, quasi per caso, all’età di 13
anni, dall’ascolto di un brano dell’indimenticabile tenore Luciano Pavarotti.
Da quel momento il mio interesse per il melodramma si sviluppò giorno dopo giorno con
sempre maggiore intensità, trasformandosi in vero entusiasmo dopo avere assistito per la
prima volta, poco tempo dopo, alla rappresentazione del Don Giovanni di Mozart.
Non ho più potuto farne a meno: fu così che decisi di sottoscrivere l’abbonamento annuale
per la stagione operistica del Maggio Musicale fiorentino.
E’ stata per me un’esperienza indimenticabile, che mi ha emozionato ed arricchito, tanto
da volerla ripetere anche gli anni seguenti e da spingermi a desiderare di approfondire, in
particolare, le opere dei principali compositori italiani, nonchè di visitare i più importanti
teatri del nostro Paese.
L’occasione è finalmente arrivata quest’anno: il 14 febbraio ho varcato le soglie di quello
che, senza dubbio, può essere considerato uno dei teatri più famosi al mondo, la Scala di
Milano, che da sempre mi aveva affascinato (anche grazie al contributo dei racconti di mia
nonna, di origini milanesi), per assistere al Nabucco di Giuseppe Verdi.
Questa rappresentazione mi ha conquistato particolarmente per la sua forza espressiva, al
punto tale da decidere di conoscere meglio la vita e le opere del grande compositore,
tenuto conto anche della straordinaria ricorrenza, proprio nel 2013, del bicentenario della
sua nascita.
La visita, il giorno successivo, alla biblioteca del teatro, ha dato il via definitivo a questo
progetto, al quale mi sono dedicato con dedizione ed entusiasmo.
La mia tesi analizza la produzione verdiana nell’arco temporale tra il 1839, data della
prima rappresentazione del Nabucco alla Scala, ed il 1855: in questi sedici anni si
concentrano tutte le opere del compositore bussetano aventi tenore patriottico.
2. Contesto ideologico del Risorgimento.
In un’interessante intervista, il professor Francesco Bussi, già docente di Storia ed Estetica
della musica presso i Conservatori di Piacenza e di Parma, invitato a ripercorrere il
repertorio delle opere verdiane, ha dichiarato: “l’opera è anche un modo per andare dentro la
storia, è come leggere un libro”.
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Questo è profondamente vero: chi, ad esempio, come me, ha avuto l’occasione di
ripercorrere il percorso personale ed artistico di Giuseppe Verdi (1813-1901), si accorge
subito che approfondire la storia del compositore significa, di fatto, ampliare l’orizzonte di
ricerca ed arrivare a cogliere, nel suo complesso, il ben più articolato contesto del
Risorgimento, la cui esperienza si è basata su una serie assai complessa di fattori
ideologico-culturali.
La costruzione dello stato unitario, come è noto, è avvenuta attraverso moti popolari,
guerre, sacrifici di singoli patrioti, lungo un arco di tempo durato più di sessanta anni,
durante il quale, con tenacia straordinaria, sono stati trasmessi ideali profondi, che hanno
reso, di fatto, il patriottismo ottocentesco italiano un fenomeno di grandissimo rilievo
politico e storiografico.
I più generali fattori ideologici che hanno influito sul processo risorgimentale riguardano
l'elaborazione, specialmente da parte della cultura romantica, di nuovi concetti storicoculturali, filosofici, giuridici e politici come quelli di popolo, nazione, sovranità popolare.
Tra il XVIII ed il XIX secolo, intellettuali e filosofi iniziarono a riflettere sull’influenza che il
clima, la geografia e i costumi avevano sulle popolazioni, determinandone caratteristiche
specifiche.
Storici e letterati iniziarono così a studiare le lingue e le tradizioni popolari europee, e le
loro ricerche giunsero ad individuare etnie distinguibili chiaramente le une dalle altre e ad
alimentare la convinzione che ogni popolo avesse un diritto naturale a decidere il proprio
destino, ad organizzare la propria vita politica nel territorio da esso abitato, diventando
una nazione.
In un’Europa ridisegnata dal Congresso di Vienna senza alcuna considerazione dei diritti
delle nazioni, e governata di nuovo da sovrani assoluti, la lotta per l’indipendenza dagli
stranieri, per l’unificazione di territori divisi e per l’ottenimento di costituzioni liberali si
fusero assieme, in un generale programma di radicale rinnovamento.
Queste idee iniziarono a diffondersi anche negli stati pre-unitari italiani, e diversi letterati,
musicisti, intellettuali, filosofi e artisti, cominciarono a riconoscere una precisa identità
etnica italiana, basata sulla memoria del glorioso passato latino, sulle specificità
geografiche, sulla larga condivisione delle credenze religiose della sua popolazione, sulla
straordinaria tradizione letteraria ed artistica.
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3. Forza di attrazione culturale, storica e politica di Milano.
Alla fine del 1838 Verdi si trasferisce con la propria famiglia da Busseto, luogo natio, alla
capitale lombarda, passata nel 1814, dopo l’esperienza napoleonica, sotto il dominio
dell’impero austriaco.
Milano, luogo tradizionalmente identificato quale importante snodo nel campo dei
commerci e della produzione, sin dalle sue origini è stata anche una città caratterizzata
dalla propensione ad accogliere le istanze di sviluppo e modernità.
Ancora, nei primi anni dell’Ottocento, in piena epoca risorgimentale, Milano si era
distinta, rispetto alle altre capitali italiane, per essere quella che, prima fra tutte, aveva
spinto maggiormente verso l’unificazione e l’autodeterminazione dell’Italia, divenendo
ben presto, per tali ragioni, vera e propria capitale morale e culturale dell’Italia unita in
costruzione, e, al tempo stesso, “porta” naturale sull’Europa, centro ricettivo ed attrice
protagonista delle grandi elaborazioni concettuali della letteratura, dell’arte e del pensiero.
Il Palazzo di Brera (con la Pinacoteca e l’Accademia di Belle Arti) e il Teatro alla Scala sono
i luoghi istituzionali in cui prende forma l’ideale unitario, che lì si trasforma in simbolo
riconoscibile.
La forza di attrazione culturale di Milano, all’epoca della venuta di Verdi, era da ascriversi
sia all’effervescente attività dell’ambiente intellettuale, sia alle concrete opportunità
professionali che tale ambiente sapeva offrire, rappresentando in quel momento il più
vivace centro culturale della penisola, nonché centro operistico internazionale con una
solida tradizione, tali da esercitare, specie sui giovani, un’eccezionale forza di richiamo.
Fermamente decisa, dopo la svolta della Restaurazione, a non abdicare alla sua vocazione
di capitale europea, Milano stava sperimentando, come sopra accennato, una veloce
espansione in tutti i campi, che aveva il suo fulcro in una straordinaria e concorde
mobilitazione delle forze culturali, convinte che il recupero dei valori nazionali e liberali
potesse concretizzarsi in una decisa politica di sviluppo, di modernità economica e sociale.
4. Arti diverse, contributo comune alla causa risorgimentale.
Non può perciò stupire che nella città fossero convogliati i maggiori rappresentanti della
vita intellettuale italiana, i quali, elaborando originalmente i motivi illuministici
d’Oltralpe, continuarono con le loro opere il processo iniziato durante il rinnovamento
settecentesco, spesso partecipando attivamente anche alla vita politica ed occupando vari
posti di responsabilità civile e militare, per una più rapida rinascita della patria italiana.
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Come pure, che nella capitale lombarda fossero confluiti compositori provenienti da tutta
la penisola, allettati da un ambiente musicale oltre modo stimolante; oppure esponenti
dell’arte figurativa, fiduciosi di poter risultare tra i prescelti degli annuali concorsi di
Brera, o comunque certi di trovare committenze grazie alla passione collezionistica di tanti
aristocratici e ricchi borghesi.
Ancor più considerevole era poi l’affluenza di letterati, dal momento che la città
continuava ad essere non soltanto l’asse portante del dibattito letterario, ma anche la sede
della pubblicistica più agguerrita e il principale mercato del commercio librario.
In questa città, e nei suoi salotti, artisti di vari ambienti e di vari settori culturali
cominciavano a sviluppare nelle loro opere tematiche ispirate agli emergenti valori
patriottici, ed ivi, come detto, iniziavano ad ispirarsi, in un gioco scambievole di stimoli e
suggestioni, politica, letteratura, arti figurative, teatro, melodramma e filosofia.
A Milano, insomma, l’Italia non si costruiva solo con le armi, ma con l’arte la musica, la
letteratura.
L’idea nazionale, di cui discutevano intellettuali e politici, ispirò artisti, scrittori, musicisti,
ancora prima della nascita dello Stato unitario, rendendo il Risorgimento, oltre che
politico, culturale ed artistico.
Come ben descritto, infatti, da un noto cronista dell’epoca, Massimo Mila, “questa nostra
strana e meravigliosa patria, assai prima di essere una realtà nelle carte geografiche e nei trattati
diplomatici, e persino nella coscienza stessa dei cittadini, viveva nell’arte di musicisti e poeti, nei
colori e nelle forme della pittura”.
Musica e letteratura, nello specifico, gareggiavano ad armi pari: ad autori del calibro di
Foscolo, Manzoni e Leopardi, la prima ribatteva alla seconda colpo su colpo, opponendole,
inizialmente, i nomi di Rossini, Bellini e Donizzetti (la grande triade del primo Ottocento),
ed in seguito, quando la letteratura, rimasta a corto di risorse, sembrava ristagnare
esaurita, stabiliva il proprio primato con Giuseppe Verdi.
E, nella Milano risorgimentale, alla quale il compositore pervenne alla fine del 1838, le arti
andavano appunto avanti parallelamente; insieme alla musica e alla letteratura un ruolo
altrettanto determinante veniva rivestito dalla pittura, ed artisti quali Hayez (quest’ultimo
considerato da Giuseppe Mazzini come il maggior artista del nostro Risorgimento) o
Manzoni rappresentarono infatti, nei loro rispettivi ambiti culturali, il corrispettivo del
maestro bussetano.
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Hayez, pittore veneziano, approdato a Milano nel 1820 per insegnare a Brera, in breve
conquistò la capitale lombarda con i suoi ritratti e con le sue tele a soggetto storico, in cui,
servendosi di temi apparentemente innocui e di episodi di storia lontani nel passato,
propagandò istanze ed aspirazioni risorgimentali, aggirando la censura austriaca: non a
caso è considerato come principale rappresentante della corrente artistica denominata
“Romanticismo Storico”.
Manzoni, al tempo stesso, è, a buon diritto, considerato un simbolo dell’Italia, avendo
inaugurato il romanzo moderno italiano e rappresentato un punto di riferimento, un vero
faro, nella letteratura ottocentesca.
Formidabile fu il sodalizio umano ed artistico tra i tre intellettuali (è infatti nota alle
cronache la reciproca stima, la lunga amicizia e l’assidua frequentazione tra il pittore, il
letterato ed il compositore), animatori di un vivace e fecondo laboratorio di idee, nonché
promotori dell’idea di un’Italia da unificare sotto un medesimo progetto culturale.
Essi furono patrioti non sui campi di battaglia, ma nella capacità di esprimere il senso
patrio che sempre ebbero nell’animo e nella mente; interpreti della passione patriottica dei
loro contemporanei, operando in favore di una lingua comprensibile a tutti e rispondente,
in modo efficace e diretto, alla sensibilità comune; celebri per il loro genio e la tenacia e
capaci, come nessun altro, di rappresentare con profonda umanità gli umili, con i loro
sentimenti e le loro vicissitudini, con la loro ingenua bontà oppure con la loro aspirazione
al riscatto e alla giustizia.
Verdi, Manzoni e Hayez fornirono alla nazione in formazione i modelli culturali in cui
riconoscersi, rispettivamente, con la tragedia e la poesia (Carmagnola, Adelchi e Marzo
1821), con il romanzo moderno (I Promessi Sposi), con la grande pittura storica, con il
melodramma.
Di ispirazione manzoniana fu l’esordio milanese di Hayez, il quale, giunto nella capitale
lombarda nel 1820, proprio in quegli anni dedicò alcuni dipinti storici (ora distrutti) alla
tragedia del Carmagnola, la storia del capitano di ventura al servizio della Repubblica
Veneta che diede il via al Romanticismo in letteratura.
Tali opere, esposte a Brera nel 1821, valsero al pittore i complimenti del Manzoni, il quale
gli donò una copia dell’Adelchi con dedica in versi.
Il rapporto tra scrittore e pittore proseguì negli anni successivi dando luogo a lavori
memorabili quali il celeberrimo Ritratto di Alessandro Manzoni (1841) e il bellissimo Ritratto
dell’Innominato (1845), ispirato dalle pagine dei suoi Promessi Sposi.
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Quanto al rapporto tra Hayez e Verdi, quest’ultimo, più giovane del pittore, lo definì: “Il
grande artista, il perfetto onest’homo, che resterà nella memoria di tutti per le insigni opere d’arte, e
per le sue virtù”.
Il compositore, ancora, si avvalse sistematicamente della consulenza del pittore, docente a
Brera dal 1823 al 1880, per la messinscena dei suoi melodrammi, in particolare per gli
allestimenti scaligeri.
Si instaurò, tra i due, un circolo virtuoso sugli stessi temi di ispirazione patriottica.
Testimone dell’affinità tra i due è la straordinaria coincidenza tra il melodramma verdiano
e la pittura di Hayez, individuata, in pittura come in musica, delle rispettive opere,
ispirate dalle medesime fonti letterarie: I Lombardi alla prima crociata, I due Foscari (Hayez fu
scelto dal Verdi quale “revisore dei figurini” per l’allestimento di quest’opera) e I Vespri
siciliani.
5. Il Teatro alla Scala: il grande orologio che regola la vita di Milano.
Dopo che un incendio, divampato nel 1776, aveva distrutto il teatro di corte, l’imperatrice
Maria Teresa d’Austria, regnante tra il 1740 ed il 1780, decise di far costruire un nuovo
teatro, aderendo alla proposta dell’architetto Giuseppe Piermarini di realizzarlo sull’area
della chiesa di Santa Maria della Scala.
Il nuovo edificio, che prese il nome di Teatro alla Scala, divenne ben presto per Milano uno
dei punti focali d’attrazione intorno a cui si intrecciavano mondanità e dinamismo
culturale.
Sin dalla sua inaugurazione, avvenuta il 3 agosto 1778, il teatro aveva svolto nella città un
ruolo sociale non indifferente, rappresentando non soltanto un luogo di spettacolo.
La platea era spesso destinata al ballo, i palchi venivano usati dai proprietari per ricevervi
degli invitati, mangiare e gestire la propria vita sociale; nel ridotto, ed in un altro spazio in
corrispondenza del quinto ordine di palchi, si giocava d’azzardo.
Durante gli anni di dominazione austriaca e francese, la Scala era finanziata, oltre che
dagli introiti provenienti dal gioco, dalle stesse famiglie che avevano contribuito alla
costruzione del teatro e ne conservavano la proprietà attraverso le quote dei palchi.
La titolarità della gestione, in particolare, rimase a lungo principalmente in mano ad
esponenti della nobiltà milanese.
Intorno al 1800, la Scala rappresentava il grande orologio che regolava la vita
dell’aristocrazia milanese: nelle case si riceveva soltanto il venerdì, quando il teatro era
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chiuso; erano anni in cui il governo austriaco, per mezzo di esso, amministrava
disciplinatamente l’intera Lombardia.
All’arrivo di Verdi, nel 1838, la Scala continuava ad essere il vero centro di gravità della
società milanese.
“A Milano”, scriveva il compositore Franz Liszt, “si è riconosciuti come stranieri solo per
questa domanda: “andate alla Scala questa sera?”. E’ una domanda superflua, oziosa, inutile, che i
milanesi non si rivolgono mai. Per essi, non c’è dubbio, sarebbe come chiedersi se si è ancora vivi”.
Ma, rispetto agli anni precedenti, c’era stato un salto di qualità nel pubblico: non più solo
l’aristocrazia, bensì tutte le classi della società si interessavano a quanto succedeva alla
Scala: “dal gran signore che va a sbadigliare magnificamente in un palco di prim’ordine, fino
all’ultimo commesso della drogheria, che con 75 centesimi riesce a trovare il suo posto in loggione”.
Nello specifico, mentre i primi tre ordini di palchi rimasero per molti anni di proprietà
dell’aristocrazia, il quarto ed il quinto vennero per lo più occupati dall’alta borghesia, che
aveva fatto il proprio preponderante ingresso in teatro; la platea, ed ancora di più il
loggione, infine, furono destinati ad un pubblico misto di militari, giovani aristocratici,
borghesi, artigiani.
6. Il giovane Verdi nei salotti e negli ambienti culturali milanesi.
Verdi, come detto, arrivò a Milano con la famiglia nel 1838, e cominciò sin da subito a
prendere contatto con i luoghi attorno al teatro, dove si davano convegno tutti i
protagonisti, diretti o indiretti, del mondo del melodramma.
Sulla piazza della Scala, più piccola dell’attuale, si intrattenevano maestri, cantanti e
impresari, ed aprivano i battenti le sedi dei due più importanti editori musicali, Ricordi e
Lucca.
Rituali punti di incontro e di intrattenimento erano pure i numerosi caffè del centro.
Nei loro ambienti eleganti non ci si limitava a discutere di novità musicali e a commentare
la rivalità tra le prime donne della scena lirica, come la Pasta e la Malibran; si parlava
anche degli ultimi eventi culturali, economici e sociali e – magari a bassa voce - di politica.
Fu grazie alla frequentazione assidua dei luoghi in cui si ritrovavano riunite tutte le “voci”
che contavano, che il giovane Verdi riuscì a entrare in contatto con i personaggi che gli
avrebbero permesso di uscire dall’anonimato.
Poco distante dal Teatro alla Scala, sulla Corsia del Giardino, c’era anche il più modesto
negozio musicale di Giovanni Canti, presso il quale il Verdi avrebbe pubblicato, già nel
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1838, il suo primo album di romanze, propiziandosi l’accesso a quei privati ed esclusivi
luoghi di aggregazione naturale che erano i salotti, ambienti liberali frequentati da patrioti,
politici e, soprattutto, uomini illustri della cultura.
Verdi, divenuto ben presto il nuovo genio da onorare, entrò come tale nei salotti che allora
contavano a Milano, tra cui quello, il più ambito di tutti, della contessa Clara Maffei (al
quale il compositore fu introdotto nell’estate del ’42), alla quale fu legato per tutta la vita
da profonda amicizia, nota per aver fatto della sua casa un luogo di incontro di poeti,
artisti e letterati e, più in generale, di personalità della cultura italiana e forestiera, tra cui
molti musicisti illustri.
Ivi, tra gli altri, furono ospitate le forze migliori degli intellettuali italiani dell’epoca:
Massimo D’Azeglio, Giulio Carcano e Tommaso Grossi (autore, quest’ultimo, del poema I
Lombardi alla prima crociata), come pure personalità quali Listz, Rossini e Balzac, tanto per
citare.
In particolare, dal 1846, dopo la separazione dal marito (il celebre poeta Andrea Maffei,
traduttore di Shiller e Byron, e molto legato alla cultura tedesca), il salotto della contessa
divenne anche centro di elaborazione di idee politiche, ispirandosi a principi
marcatamente anti-austriaci ed indipendentisti.
In tale salotto, in particolare, giunsero a confluire le idee e le opere di uomini, come il
patriota genovese Giuseppe Mazzini, i quali si richiamavano ai valori di indipendenza, di
unione, di libertà, in una parola di nazione, da far valere in nome della tanto agognata
Costituzione.
Secondo quest’ultimo, in particolare, la vita doveva essere concepita come missione e
come attuazione della legge di Dio attraverso la Patria, da intendersi come una fede, come
un ideale senza il quale nessun popolo poteva concepirsi né adempiere alla missione che
Dio gli aveva assegnato.
Il farsi nazione del popolo italiano, dunque, secondo Mazzini, si inseriva proprio in un
processo in cui a rivelarsi era la Provvidenza divina: una redenzione nazionale che poteva
avvenire per opera di tutto il popolo italiano, perché in esso tutto Dio si rivelava ed
esprimeva.
7. Influsso del pensiero di Mazzini nella vita artistica di Verdi.
Il contatto di Verdi, specie nel periodo tra il 1842 ed il 1848, con ambienti così
ideologicamente impegnati nella causa nazionale e la frequentazione indiretta degli
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aderenti alla Giovine Italia, aveva consentito al giovane compositore, in modo forse
inizialmente inconsapevole, di recepire via via, fino a renderli inevitabilmente propri e a
tradurli nella propria produzione artistica, gli ideali ed i valori patriottici conosciuti nelle
parole e nelle opere degli uomini di politica e di cultura confluiti in quegli ambienti
culturali.
Pur non essendo milanese, egli aveva respirato infatti nella capitale meneghina, come tutti
gli Italiani liberi, l’aria del rinnovamento e dell’assoluta libertà, giungendo, come ci
apprestiamo a vedere, a testimoniare questa sua volontà tramite quello che aveva di più
caro e di sicuro effetto: la musica.
La sincera ammirazione nutrita nei confronti di Giuseppe Mazzini e del suo pensiero,
facilitò ulteriormente la penetrazione dell’apparato ideologico del Risorgimento nelle
trame delle principali creazioni del compositore, destinate ai palcoscenici italiani: non è un
caso che, proprio in quegli anni, il maestro compose soggetti dalle forti allusioni
patriottiche.
E’ documentato che il compositore subì, per buona parte della propria vita artistica, il
fascino e l’influsso del Mazzini: non sappiamo, infatti, se Verdi avesse letto la sua Filosofia
della musica, apparsa nel 1836, ma possiamo affermare, con grado di sufficiente certezza,
che fosse nel carattere del giovane bussetano l’impulso a raggiungere la meta indicata
dallo scritto, ossia, rendere il melodramma italiano opera nazionale.
Sulla scena alla quale Verdi si affacciava, campeggiavano infatti personalità di una
italianità luminosa, che tuttavia, come esplicitamente denunciato dal Mazzini, non la
rappresentavano fino in fondo.
Il sostenitore dell’idea repubblicana sollecitava, in particolare, nel suo saggio, un profondo
rinnovamento della musica e del melodramma italiano, ovvero dell’opera teatrale,
giungendo ad asserire che “se il melodramma deve diventare nazionale, urge emanciparsi da
Rossini”.
Quando Verdi aveva appena 23 anni, infatti, Rossini giungeva all’apice della propria
parabola artistica con l’opera Guglielmo Tell, che già preannunciava temi cari al
Risorgimento (l’idea di un popolo oppresso in lotta per la libertà, di una salvezza che si
conciliava con il sogno di una pace universale): non rappresentava però, l’ideale di
compositore che Mazzini andava cercando in quegli anni, ritenendolo più un innovatore
della forma che dei contenuti.
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Rossini era troppo poco rivoluzionario, privo di quei gesti di rivolta che il patriota invece
attendeva.
Neanche Bellini incarnava il suo ideale, mancando la sua musica di potenza e varietà,
come pure il Donizzetti, il quale non era giudicato all’altezza di un così incisivo
cambiamento.
Nelle opere di questi ultimi si trovavano l’entusiasmo, la passione, la generosità, ma tali
qualità venivano espresse soprattutto a livello amoroso, non estendendosi (come invece
avverrà in Verdi) alla coscienza della situazione politica dell’Italia.
Come riportato, ancora, dal cronista Massimo Mila, “occorreva un linguaggio comune che non
fosse quello troppo maestoso del Rossini spirituale, né quello celestialmente dilatato di Bellini, e
neanche quello così ben misto di Donizzetti. Verdi lo inventò o scoprì: e questa fu opera d’arte”.
Mazzini voleva, infatti, che la voce ed il pensiero patriottico arrivassero fino al popolo
risvegliandolo all’azione rivoluzionaria, e per questo gli sarebbe stato prezioso, in tale
opera di propaganda, l’ausilio di un’arte che, con la sua potenza, giungesse a trascinare le
folle ed a infiammarle di quell’amore di Patria che sentiva bruciare nel proprio cuore.
Solo la musica, ed il melodramma in particolare, avrebbe potuto conseguire un tale scopo:
ma una musica nuova, trascinante, che acquistasse una funzione pratica e non fungesse
più soltanto da occasione di divertimento, contribuendo piuttosto all’affermazione degli
ideali politici e civili, che erano in cima a tutti i suoi pensieri.
L’enunciazione di tali principi era accompagnata da suggerimenti pratici: perché, si
chiedeva, non dare sviluppo al coro, inteso come massima espressione e rappresentazione
dell’elemento naturale, per innalzarlo “dalla sfera e secondaria e passiva che gli è oggi
assegnata, alla rappresentanza solenne ed intera dell’elemento popolare?”.
Era la voce del popolo quella che doveva innalzarsi nei cori, erano le grida di coloro ai
quali Mazzini si appellava perché prendessero parte attiva nel processo di indipendenza
dell’Italia.
Il patriota riteneva che il luogo su cui meglio poteva esprimersi quell’urgenza di
rappresentazione diretta dei sentimenti e delle passioni era la scena teatrale, ma era
altrettanto consapevole che, nonostante l’importanza del teatro come veicolo di diffusione
culturale e di propaganda patriottica, ben raramente i letterati erano riusciti ad imporre la
loro presenza sulle ribalte teatrali.
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Fortunatamente, oltre al teatro di prosa c’era quello musicale: quale altra manifestazione
artistica era infatti in grado di raggiungere, per di più con tanta immediatezza, così vasti
strati di pubblico, oltre tutto non necessariamente alfabetizzato?
Ebbene, l’uomo che il Mazzini invocava e che avrebbe “restituito alla Scala la magnificenza
dei giorni più belli” era dietro l’angolo: Verdi sembrò immediatamente capace di rispondere
alle sue sollecitazioni, come riconosciutogli, ad esempio, da Giuseppe Giusti, il quale, in
una lettera inviata al compositore, affermava: “la musica è favella intesa da tutti e non v’è
effetto grande che essa non valga a produrre”.
Nella musica verdiana, per la prima volta, si sarebbe riconosciuto un popolo nella sua
abbozzata etnia di sentimenti naturali, semplici, inostacolabili perché dilatabili in una
nuova espressione più di quanto potessero mai fare la letteratura, il romanzo, il teatro di
prosa.
8. Il Nabucco: Verdi involontario portavoce di istanze patriottiche.
Fu il Nabucco a rappresentare, nel senso anzi detto, la vera svolta nella carriera di artista e
di patriota di Giuseppe Verdi.
Nell’inverno del 1840-41, l’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, imbattendosi per
strada nel compositore che andava a teatro, propose a quest’ultimo di rappresentare un
libretto di Temistocle Solera, il Nabucodonosor, consegnandogli, seduta stante, il relativo
manoscritto.
Rincasato, il giovane bussetano gettò il libretto sul tavolo della cucina, e questo si aprì su
una pagina che riportava il verso: “Va’, pensiero, sull’ali dorate”, che destò in lui grande
impressione, al punto da indurlo a leggere d’un fiato l’intero manoscritto e a convincerlo a
mettere in scena l’opera nella imminente nuova stagione della Scala, con debutto il 9
marzo 1842.
Tale rappresentazione segna il filo rosso che legherà i suoi melodrammi all’avventura
patriottica nazionale: nell’opera – paradossalmente dedicata all’Arciduchessa austriaca
Maria Adelaide d’Asburgo, figlia del vicerè del Regno Lombardo-Veneto, Arciduca
Ranieri – Verdi fa istintivamente propri i suggerimenti del Mazzini quanto all’uso del
coro, attraverso il quale giunge ad esprimere quei sentimenti patriottici ed anti-austriaci
maturati grazie alla continua frequentazione dei salotti della Milano risorgimentale.
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Il “Va’, pensiero”, famosissima sezione corale affidata al popolo ebraico raccolto sulle rive
dell’Eufrate, contiene i tratti di una accorata elegia, ricca di rimembranza di una età felice
oramai tramontata.
Il potenziale patriottico del Nabucco, con le sue musiche capaci di coinvolgere
profondamente l’animo degli ascoltatori e di instillare nei cuori un nuovo calore di
fraternità nazionale, di solidarietà, di unità e di indipendenza, si rivelò al primo ascolto in
maniera clamorosa.
Tutta l’Italia era una polveriera, e parole come esule, patria, libertà, possedevano in quel
frangente capacità esplosive inimmaginabili.
Le allusioni spiccatamente patriottiche, l’analogia tra la situazione di infelicità del popolo
ebraico e la sottomissione italiana, furono colte al volo.
“Và, pensiero, sull’ali dorate”, segnò infatti il primo di quegli incontri incendiari tra il genio
melodico di Verdi e le speranze nazionali d’Italia, che dovevano fare di lui il maestro del
Risorgimento italiano.
Anche perché quel coro, rispetto ad altri, aveva una particolarità non da poco: era
cantabilissimo, era costruito in maniera estremamente semplice, basato su voci che
cantano all’unisono.
Subito il pubblico lo percepì come qualcosa di suo, come un respiro della propria anima,
accorgendosi di potersene appropriare con insolita facilità.
La Gazzetta Musicale di Milano scrisse, a proposito del coro: “ben poco ha la critica da osservare
in biasimo al compositore. Siamo sulle sponde dell’Eufrate. Gli ebrei incatenati e costretti al lavoro
sciolgono un canto patetico, una preghiera, un addio alle rive del Giordano, alla patria sì bella
e perduta. La melodia con cui staccasi all’unisono e a mezza voce questo coro non può essere più
toccante. Non esageriamo che ci commosse quasi alle lacrime. Crediamo di non aver bisogno di
tesserne ulteriori elogi”.
Ancora, quel coro, che ricoprirà un ruolo di rilevanza sempre maggiore nelle opere
“risorgimentali” di Verdi, ne sancì la sua elezione a portavoce delle istanze patriottiche del
popolo, della generazione del Risorgimento italiano, rappresentando non un personaggio
all’interno dei melodrammi, bensì un vero e proprio sentimento presente nella coscienza
del pubblico.
Eppure, quasi certamente, il caso del Nabucco fu estraneo a qualsivoglia premeditazione da
parte del compositore, che in quegli anni, impegnato com’era alla ricerca di sé stesso e del
conseguimento del successo in campo musicale, non aveva una vera e propria coscienza
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politica: né lui, né il librettista Solera, avevano probabilmente considerato la possibilità di
riferimento alla condizione politica italiana.
Pur non sapendo con certezza, dunque, se Solera e Verdi ebbero in mente ben chiara fin
dal principio, l’analogia tra la situazione politica italiana e quella degli ebrei in schiavitù, o
se si trattò, piuttosto, di un accostamento inconscio ed istintivo, certamente, come
riportato dal Folchetto, noto cronista dell’epoca, “quella sera del 9 marzo del 1842 il pubblico
capì al volo l’antifona: gli eleganti ufficialetti austriaci in divisa bianca che frequentavano le
“prime” della Scala, dovettero sentire, forse per la prima volta, l’odio del popolo oppresso come
qualcosa di solido, spesso, concreto, da toccare con mano”.
9. Rilievo politico e sociale del Teatro alla Scala al tempo del Nabucco.
Ciò premesso, non può non risultare quanto meno singolare la circostanza che Verdi abbia
rappresentato il Nabucco proprio alla Scala di Milano, teatro costruito per volontà di
un’imperatrice austriaca, nonché sovvenzionato dallo stesso governo austriaco, che
contribuì alla spesa per la sua costruzione con 240.000 lire milanesi, tenendo per sé il palco
reale, un palco di proscenio ed altri quattro palchi.
Ebbene, proprio quel palco vedeva la rappresentazione di un’opera, il Nabucco appunto,
evocatrice, come detto, di forti istanze patriottiche, trasformandosi così, da docile
strumento a disposizione dei governanti che lo avevano progettato, a strumento di
persuasione occulta e luogo atto a innescare le prime, convinte, dimostrazioni antiaustriache.
Trasformazione, questa, talmente imprevista ed inattesa, che la censura, già operante in
quegli anni, fu di fronte al Nabucco decisamente moderata, se non pressoché nulla.
Il Teatro alla Scala, del resto, non faceva eccezione: in piena epoca risorgimentale, tanto
più quanto ci si avvicinava ai moti rivoluzionari del 1848, in tutti i teatri italiani
dell’Ottocento, a maggior ragione in quelli situati nei territori ancora sotto il dominio
dell’Impero Asburgico, era norma che la rappresentazione di un’opera lirica divenisse il
pretesto per scatenare accese manifestazioni di carattere patriottico, e che la musica,
insieme al testo cantato a pieni polmoni, costruisse le fondamenta di una identità
nazionale ancora incerta.
Basta guardare Senso, film girato nel 1954 dal celebre regista Luchino Visconti, per
documentare e far prendere coscienza della funzione politica e sociale dei nostri teatri
all’epoca dell’Italia oppressa.
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10. Dal trionfo del Nabucco, un Verdi finalmente consapevole.
Vista la trionfale accoglienza tributata dai milanesi al Nabucco, in Verdi si fece avanti la
consapevolezza delle enormi potenzialità comunicative del melodramma.
Seppe, in particolare, giocare con le aspettative del pubblico, creando un’arte attenta alle
esigenze del destinatario, capace di accostarsi alla sensibilità comune, e si inserì
perfettamente, con la sua musica, nell’ambito del processo di creazione di una coscienza
nazionale.
Verdi, infatti, operò una vera e propria trasformazione del melodramma italiano, non solo
quanto alla forma musicale, ma, soprattutto, quanto al senso nuovo da dare all’opera
d’arte: quello di svolgere una funzione formativa delle coscienze.
Seguì perciò la scelta deliberata di seguire sempre più da vicino le allusioni alle impazienti
aspirazioni della nazione, sfidando con sottigliezza simbolica e metaforica le diffidenti
maglie della censura politica.
La genialità del compositore sta, infatti, nell’aver reso la propria arte un vettore
privilegiato per la diffusione di istanze patriottiche ed indipendentiste, attraverso le quali,
come vedremo, seppe guadagnarsi il favore sempre crescente del pubblico, che lo venerò
come icona ideologica della riscossa nazionale, come maestro della rivoluzione italiana, e
lo rese presto l’autore italiano per eccellenza nella fase decisiva della lotta risorgimentale.
Attraverso le sue successive opere, in particolare, Verdi fu in grado di leggere i segni dei
tempi e di parlare con i suoi connazionali ed in loro nome come nessun altro seppe fare.
Si muovessero verso destra o verso sinistra, le sue convinzioni furono sempre all’unisono
con il sentimento popolare; egli reagì in maniera profonda e personale ad ogni svolta e
frangente della lotta italiana per l’unità e la libertà.
Temi portanti del repertorio verdiano divennero, da questo momento in poi: l’eroismo,
l’amor di patria, la provvidenza divina, l’onore, la lotta contro il potere in nome della
libertà e della pace.
A dimostrazione di ciò, e della maturata consapevolezza raggiunta dal compositore, la
successiva opera I Lombardi alla prima crociata (tratta ancora da un libretto di Temistocle
Solera e rappresentata alla Scala l’11 febbraio 1843) è tutta una esaltazione del valore
italiano, tanto da venire concepita, sin dall’inizio, come una vera e propria replica del
Nabucco, un tentativo, riuscito, di ripeterne il successo.
Anche in quest’occasione, l’italianità trovò evidenza in un coro, il celebre “O Signor che dal
tetto natio” - dal testo più popolare dell’aulico “Va’, pensiero” – ricco di elementi rivelatori
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di un sincero amor di patria (la terra natia, le amate sponde), e pittura vivida di una massa
che, in terra straniera, implora l’aiuto divino e rivolge un pensiero accorato di amore e
nostalgia verso la patria lontana.
L’opera, poi divenuta la bandiera emozionale del Risorgimento, si presentava infatti con
un motivo molto caro allo spirito nazionale, e si prestava efficacemente ad alludere alla
situazione politica del tempo, cogliendo, nella vicenda dei Lombardi, una volontà di
riscatto che ben si addiceva allo stato d’animo degli italiani, che immediatamente
compresero il messaggio verdiano quale invito a preparare una “crociata” contro lo
straniero oppressore.
Non si può peraltro non cogliere una differenza di fondo che rende, in realtà, molto
diverse tra loro le due opere del Maestro, rappresentata dall’approccio psicologico del
popolo, protagonista in entrambi i componimenti.
Ne I Lombardi, esso si presenta con un ruolo diverso, opposto, rispetto a quello che
contraddistingue lo sfortunato popolo ebraico di Nabucco.
Una prova di tale diversità ce la offre il coro “O Signor che dal tetto natio”, simile al “Va’,
pensiero” nel ruolo emotivo, ma antitetico nella psicologia di fondo.
Nel “Va’, pensiero” gli ebrei sognano la loro terra natia; nel coro de I Lombardi,i milanesi
sognano le loro belle colline nebbiose, fresche e attraversate dai fiumi.
Ma, mentre nel “Va’, pensiero” gli ebrei sono conquistati ed oppressi dai cattivi assiri, nel
coro “O Signor che dal tetto natio” i lombardi sono ad Antiochia, durante una Crociata, a
giocare il ruolo di invasori, di conquistatori.
Piccola differenza, che comunque mostra quanta diversa intenzione ci sia fra le due opere:
Verdi comincia, infatti, ne I Lombardi, a porre i buoni fra gli attivi, i belligeranti; i buoni
non sono più gli Ebrei rassegnati, ora sono i lombardi battaglieri.
11. Dall’Ernani all’Attila: Verdi più vicino al popolo, più lontano dalla Scala.
Al trionfale successo dei Lombardi alla prima crociata seguì un periodo di brusco declino
delle relazioni tra il compositore e il teatro milanese, determinato da attriti insorti tra lui e
l’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, e motivati, in particolare, dal convincimento
del musicista di un evidente peggioramento del livello artistico del teatro: famose erano le
sue critiche per gli “allestimenti assai trascurati o addirittura ignobili”.
Allo stesso tempo, quali che fossero gli standards del teatro, le rappresentazioni di Verdi
venivano accolte con accresciuto entusiasmo da un pubblico che lo venerava.
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Del resto, le opere rappresentate tra il 1844, data della “prima” dell’Ernani, ed il 1846, data
della messa in scena dell’Attila, incarnavano sempre più le istanze ed i sentimenti
patriottici del popolo italiano (tutte le opere verdiane sino al 1855, come già rammentato,
saranno di stampo patriottico) e le melodie ed i cori verdiani, sempre più acclamati,
rappresentavano, in modo ormai indiscusso, la voce della coscienza nazionale.
Su invito del Teatro La Fenice, Verdi scrisse Ernani, ispirato all’omonimo dramma di
Victor Hugo che, apparso nel 1830, aveva costituito il manifesto del Romanticismo
francese.
Accolta entusiasticamente alla prima del marzo 1844 a Venezia, e successivamente
rappresentata in molte città italiane (alla Scala il 3 settembre dello stesso anno), l’opera è
ambientata in Spagna al tempo di Carlo d’Aragona.
Nella fattispecie, il coro “si ridesti il Leon di Castiglia”, è quello dei ribelli contro il re, poi
divenuto imperatore col nome di Carlo V, e nei suoi versi è evidente il richiamo
all’esigenza di indipendenza e di unità, che andava riferito alla situazione italiana.
In questa occasione le allusioni patriottiche erano talmente evidenti, precise e
circostanziate da assumere l’aspetto di una vera e propria istigazione insurrezionale.
Anche nella successiva tragedia lirica I due Foscari, tratta da un romanzo di Byron, e
rappresentata per la prima volta sul palco del Teatro Argentina di Roma nel novembre
1844, è presente, come in ogni opera del periodo, un tocco di patriottismo, neppure troppo
velato, tipico della produzione giovanile verdiana, e rappresentato, in tale componimento,
da temi quali l’esilio straziante e la giustizia infame.
Il patriottismo è ancor meglio incarnato in Giovanna d’Arco, tratta ancora da un libretto di
Solera, allestita alla Scala di Milano nel febbraio del 1845, anno in cui la fama del giovane
Verdi come operista rampante si spargeva ormai a macchia d’olio.
Per comprendere l’efficacia e l’impatto di quest’opera sul popolo italiano, nell’ambito della
lotta comune per l’unità e l’indipendenza della nazione, appare significativo riportare il
passo di una lettera scritta da Emanuele Muzio, allievo e collaboratore del compositore, ad
Antonio Barezzi, suocero di quest’ultimo: “Sono alcuni dì che è sortito un organo ambulante di
gran dimensione, il più grande che si sia fatto quì a Milano, ove c’è quasi per intero la Giovanna
d’Arco... la polizia non permette che lo facciano girare di sera, perchè fa riunire troppa gente e le
carrozze non possono andare, ma solamente di giorno. Ma già è lo stesso: quello che succedeva di
sera succede anche di giorno: tutti vi corrono ed ingombrano la strada ove si trova l’organo”.
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In apertura del prologo, il coro del popolo nella Giovanna d’Arco commenta la presenza
dell’oppressore e, ispirato ai cori patriottici delle opere precedenti, anticipa l’angoscia e la
forza del “Patria oppressa” che si ascolterà di lì a breve nel Macbeth: l’invettiva contro gli
stranieri è clamorosa, ma altrettanto sentito è il pianto delle donne.
Pochi mesi più tardi, nell’agosto del 1845, Verdi mette in scena al Teatro San Carlo di
Napoli, senza peraltro ottenere enormi consensi, l’Alzira, tragedia lirica ambientata
nell’antico Perù all’epoca dei “conquistadores”.
Splendido, nella parte iniziale, il coro “O fratelli caduti pugnando”, che ben avrebbe potuto
stare nella Giovanna d’Arco o nel terzo atto dell’Ernani, innestandosi tra i grandi temi del
Risorgimento musicale italiano; purtroppo, rappresenta solo una nuvola di passaggio che
non produce il temporale.
Il successo ritornò con Attila, certamente l’opera più risorgimentale di tutte per la sua
potente irruenza, rappresentata nel marzo 1846 alla Fenice di Venezia ed ispirata alle
vicende dell’Unno che aveva invaso il Veneto e saccheggiato Aquileia.
Per la critica, che l’ha recentemente rivalutata, l’opera, dalla musica veemente ed aspra,
riveste l’archetipo di melodramma risorgimentale.
Il tema patriottico si fa più evidente nell’intreccio complessivo, e se ne profilano tutti i
motivi più classici: la patria come madre, ora in preda alla sofferenza e alla decadenza,
eppure destinata alla riscossa; l’italianità guerresca e mobilitata alla causa nazionale; la
guerra contro l’invasore; l’eroe che, cadendo da forte, lega per sempre il suo nome alla
storia dell’adorata patria.
Anche in quest’occasione il pubblico non mancò di trovare pretesti per manifestazioni
patriottiche: alla famosa frase di Ezio, il protagonista: “Avrai tu l’Universo/ resti l’Italia a
me!”, il pubblico reagì infatti gridando: “Resti l’Italia a noi!”.
12. Avvento dei moti del ’48 ed impegno politico del compositore.
Il conflitto con l’impresario Merelli si protasse e giunse al suo apice all’inizio della
stagione di carnevale 1846-1847: lo stato di guerra aperta tra i due contendenti poneva in
gioco sia l’aspetto economico sia quello artistico, col Verdi che continuava a lamentarsi, in
particolare, della qualità della messinscena.
La faccenda si concluse alla metà di marzo del 1847, quando il compositore, dopo aver più
volte minacciato “che fino a che ci sarà Merelli, egli non metterà più piede sul palcoscenico della
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Scala”, abbandonò Milano e si recò a Firenze per sovrintendere alla “prima” di Macbeth;
subito dopo partì per un lungo soggiorno a Parigi.
Sarebbero passati davvero molti anni prima che egli rimettesse piede nel maggior teatro di
Milano.
Si rileva, peraltro, che a partire dalla fine del 1846, fra le notizie di carattere teatrale si
inseriscono nella vita dell’artista, sempre più intensamente, le questioni politiche.
Più ci si avvicinava ai moti rivoluzionari del 1848, più le rappresentazioni operistiche
diventavano un momento centrale dei disordini civili.
Vale la pena citare un episodio, riportato dalle cronache ed occorso nella primavera del
1847, allorchè il giovane direttore Angelo Mariani fu rimproverato dal commissario di
polizia di Milano per le sue esecuzioni di Nabucco al Teatro Carcano, “per aver dato alla
musica di Verdi un espressione troppo evidentemente rivoltosa ed ostile all’imperial governo”.
In questo periodo, la contessa Maffei e il Verdi (ormai pienamente colto da contagio
rivoluzionario) si scambiarono spesso opinioni convergenti sull’evoluzione storico-politica
italiana.
Il 19 marzo 1847, il poeta Giusti inviò al suo omonimo Giuseppe una testimonianza
affettuosa che toccava, con la “corda del dolore”, anche il discorso politico-patriottico: “il tuo
lavoro più sarà riprodotto, più sarà inteso e gustato, perché il buono di certe cose non s’afferra alle
prime. Prosegui, che non ti può fallire un bel nome; ma, se credi ad uno che vuol bene all’arte e a te,
non ti togliere l’occasione d’esprimere quella dolce mestizia nella quale hai dimostrato di poter
tanto. Tu sai che la corda del dolore è quella che trova maggior consonanza nell’animo nostro, ma il
dolore assume carattere diverso a seconda del tempo o a seconda dell’indole e dello stato di questa
nazione o di quella. La specie di dolore che occupa ora l’animo di noi italiani, è il dolore di una gente
che si sente bisognosa di destini migliori; è il dolore di chi è caduto e desidera rialzarsi; è il dolore di
chi si pente e aspetta e vuole la sua rigenerazione. Accompagna, Verdi mio, colle tue nobili armonie,
questo dolore alto e solenne; fa di nutrirlo di fortificarlo, di indirizzarlo al suo scopo”.
Ebbene, Verdi accolse incondizionatamente questo appello, proponendo ancora, fino al
1855 compreso (con l’opera i Vespri siciliani), melodrammi contenenti espliciti riferimenti
di stampo patriottico.
Ed ecco, proprio nel marzo del 1847, al Teatro della Pergola di Firenze, andava in scena
Macbeth, tratto da un’opera di Shakespeare, ricevendo gli elogi proprio del Giusti, grato al
musicista per la sua sincerità nell’interpretare il “dolore alto e solenne” degli italiani servi,
che in scena erano del tutto riconoscibili anche se in abbigliamenti scozzesi, attraverso il
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coro “Patria oppressa”, che costituì indubbiamente una forte incitazione alla mobilitazione
collettiva per la causa nazionale.
In questo frangente, Verdi dovette iniziare a confrontarsi con una censura divenuta
sempre più propriamente politica ed attenta, in quanto tale, a prendere provvedimenti nei
confronti di tutte le manifestazioni atte ad assumere una posizione contraria al regime
costituito.
A conferma di come il teatro d’opera venisse considerato dal censore un luogo sempre più
pericoloso, la Gazzetta Privilegiata di Milano, l’unico giornale autorizzato a riferire eventi
politici, riportava spesso comunicati del governatore della capitale lombarda che
minacciava severi provvedimenti nei confronti di eventuali dimostrazioni, menzionando,
in particolare, “il portare certi colori, o il metterli in vista, il portare certi distintivi o segnali, il
cantare o declamare certe canzoni o poesie, l’applaudire o il fischiare certi passi di un azione
drammatica o mimica”.
Il compositore, frattanto, diventava sempre più noto e conteso in tutta Europa: nel luglio
del 1847 fu a Londra per l’allestimento de: “I Masnadieri”; poi si trasferì a Parigi, dove già
da due anni viveva insieme alla nuova compagna, Giuseppina Strepponi.
Qui Verdi visse con animo contraddittorio: lavorava con intensità e soddisfazione, ma
rimpiangeva l’Italia; poi, proprio a Parigi, lo colsero gli avvenimenti decisivi della storia
d’Europa: ivi assistette alla caduta di Luigi Filippo mentre, sul teatro politico italiano,
stava per andare in scena il famigerato Quarantotto.
Dal 18 al 22 marzo, Milano venne liberata dagli austriaci da parte dei patrioti italiani, in
occasione delle note Cinque giornate: Verdi alla notizia si entusiasmò e, partecipando con
animo appassionato alle sorti alterne della riscossa nazionale, partì per Milano,
arrivandovi peraltro il 5 aprile, a cose già finite, a quanto pare anche per le difficoltà di
attraversamento delle frontiere.
Significativa, al riguardo, una lettera-manifesto inviata al librettista Francesco Maria Piave,
nel frattempo a difendere la liberata Venezia, il 21 aprile: “Caro amico, figurati s’io voleva
restare a Parigi sentendo una rivoluzione a Milano. Sono di là partito immediatamente sentita la
notizia, ma io non ho potuto vedere che queste stupende barricate. Onore a questi prodi! Onore a
tutta l’Italia che in questo momento è veramente grande! L’ora è suonata, siine pure persuaso, della
sua liberazione. E’ il popolo che la vuole, e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le
possa resistere. Potranno fare, potranno brigare finchè vorranno, ma non riusciranno a defraudare i
diritti del popolo. Sì, sì; ancora pochi anni, forse pochi mesi, e l’Italia sarà libera, una e
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repubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu mi parli di musica! Cosa ti passa in corpo? Tu credi che io
voglia ora occuparmi di note, di suoni? Non c’è, né ci deve essere che una musica grata alle orecchie
delli italiani del 1848, la musica del cannone!”.
Una indubbia dichiarazione di fede patriottica, per quanto Verdi non avesse mai
considerata l’ipotesi di una sua personale mobilitazione attiva, nella consapevolezza di
contribuire maggiormente alla causa patriottica con le proprie opere, piuttosto che sul
campo di battaglia.
Così, sollecitato da Mazzini, conosciuto personalmente durante il soggiorno londinese,
giunse a comporre l’inno patriottico Suona la tromba.
C’era tutto l’entusiasmo del momento: ma, tra la costernazione dei milanesi, ed in
particolare dei repubblicani che mai avrebbero affidato i loro destini al re di Sardegna
Carlo Alberto, ora promotore della capitolazione di Milano, la rivolta anti-austriaca fu
soffocata ben presto nel sangue, ed il 6 agosto segnò l’estinzione della fiammata
rivoluzionaria con il ritorno, nella capitale lombarda, degli austriaci.
13. Nuovi scenari politici: “Viva V.E.R.D.I.!”
Tornato a Parigi, l’esperienza vissuta in una città di Milano in piena tempesta
rivoluzionaria, lo incoraggiò a mettersi alla ricerca di un soggetto “altissimo e grandioso”,
trovandolo nel progetto patriottico prospettatogli dal librettista Salvatore Cammarano,
componendo, a tal fine, La battaglia di Legnano, l’unica opera di Verdi con un deliberato
intento di propaganda risorgimentale, incentrata su un argomento di attualità, ossia “su un
momento dell’epoca più gloriosa della storia italiana”.
Il compositore la scrisse ad una velocità pazzesca, perché desiderava rappresentarla a
Roma nel gennaio del 1849: ed è facile sottolineare i motivi della scelta di tale città,
soprattutto rammentando che ormai a Milano erano tornati gli austriaci, e che gli amici di
Verdi, tra cui la Maffei e Muzio, stavano ormai in esilio.
L’opera è ambientata a Milano nel 1176, ove i Comuni lombardi, riuniti nell’omonima
Lega, difendono la città dalla minaccia rappresentata dalle truppe di Federico Barbarossa,
e a Como, dove i cittadini gli dichiarano guerra.
L’argomento del melodramma in questione non fu scelto a caso: il Maestro si augurava,
infatti, che il popolo italiano riportasse sull’Austria la stessa clamorosa vittoria ottenuta
nel 1176 dall’esercito della Lega sul Barbarossa.
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Per la prima volta, il tema della sacralità della patria veniva indissolubilmente connesso,
senza mezzi termini, alla compagine italiana, attraverso un coro iniziale maestoso,
trionfale, coinvolgente; un canto che si leva al grido: “Viva l’Italia!”.
L’opera si rivela una vera e propria innodia patriottica, in cui sono prevalenti le scene
politiche, e nella quale si riscontrano tutti gli ideali risorgimentali del repertorio verdiano:
eroismo, amore, amor di patria, provvidenza divina, onore.
Rappresentata al Teatro Argentina di Roma per la prima volta il 27 gennaio 1849, qualche
giorno avanti la proclamazione dell’effimera Repubblica Romana, fu accolta trionfalmente
dal pubblico, la cui partecipazione fu tutt’altro che passiva: una verace esplosione di
entusiasmo popolare, colorato da un apparato coreografico formato da uomini che
portavano la coccarda tricolore sul petto e da donne che avevano adornato i palchi di
sciarpe e di nastri tricolori.
Il pubblico, applaudendo calorosamente i diversi brani, acclamava l’autore al grido di
“Viva Verdi! Viva l’Italia!”; il coro iniziale venne entusiasticamente ripetuto a piena voce
dalla platea e dai sei ordini di palchi, ed il quarto atto fu bissato.
Non fu semplice, successivamente, poter mettere in scena l‘opera in altre parti d’Italia
senza correre il rischio di subire tagli o rimaneggiamenti: ciò, in conseguenza di una
possibile azione della censura, pronta ad intervenire di fronte a qualunque riferimento
diretto alla situazione politica del momento.
Non a caso, per aggirare l’ostacolo, essa venne riproposta con il titolo di La battaglia di
Arlem, l’azione trasferita nelle Fiandre e Federico Barbarossa trasformato nel Duca d’Alba.
Gli anni tra il 1848 ed 1849 rappresentarono, peraltro, nella storia politica di Verdi, un
periodo di importanti cambiamenti: l’esito negativo dei moti del ’48, e la delusione
connessa al soffocamento nel sangue della rivolta anti-austriaca, spinsero il musicista a
modificare la propria linea politica, trasformandosi da mazziniano convinto (qual’era
prima e durante il Quarantotto) ad acceso sostenitore della linea politica di Camillo Benso
Conte di Cavour.
Il musicista, come pure gran parte degli italiani, iniziava infatti a vedere nel Piemonte di
Vittorio Emanuele II e nella sua tenace e lungimirante classe politica, guidata dal
medesimo Cavour, una risposta concreta alle speranze della nazione.
Fu così che anche la drammaturgia verdiana fu segnata da un’ulteriore svolta, ed in specie,
da un ampliamento dei propri obiettivi: dal giugno del 1855, infatti, data in cui a Parigi
vennero messi in scena I Vespri Siciliani, Verdi intese sviluppare, all’interno dei propri
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melodrammi, il tema centrale della passione politica e della Ragione di Stato, che acquisirà
una importanza via via sempre maggiore.
I Vespri rappresentano forse l‘ultimo, importante, melodramma di specifico argomento
patriottico: l’azione si svolge nel 1282 a Palermo, dove sta per scoppiare la rivoluzione del
popolo siciliano contro l’occupante dominatore francese.
Nella bellissima sinfonia si rappresentano ancora tematiche patriottiche care al
compositore, quali l’immagine di una rivoluzione vittoriosa, e si esprimono sentimenti di
libertà e di giustizia; per ragioni di censura, nel successivo dicembre 1855, l’opera, alla sua
prima apparizione in Italia, venne rappresentata con il titolo Giovanna di Guzman,
ottenendo l’ennesimo, grande, successo di pubblico.
Verdi, infatti, intrecciò sempre e profondamente la propria vita con quella del proprio
Paese: pertanto, si muovessero verso destra o verso sinistra, verso Mazzini o verso
Cavour, verso i democratici rivoluzionari o verso la monarchia, le sue convinzioni furono
sempre all’unisono con il sentimento del popolo italiano, che continuò ad inneggiare a lui,
rendendolo simbolo delle manifestazioni patriottiche ed una delle guide morali più
significative nel panorama risorgimentale.
Sintetizza in modo emblematico il forte legame tra il compositore ed il suo popolo, la
citazione di Gabriele D’Annunzio, riportata sulla cripta del Maestro a Busseto: “ Pianse ed
amò per tutti”.
Il suo nome diventò, in qualche modo, il simbolo stesso del Risorgimento: non è un caso,
dunque, che nel 1859, agli albori della proclamazione dell’unità d’Italia, il suo nome,
tradotto in sigla, fosse stato utilizzato dai partigiani della monarchia sabauda per tracciare
sui muri delle città occupate dagli austriaci, un acronimo inneggiante alla persona di
Vittorio Emanuele come futuro re d’Italia.
L’espressione: “Viva V.E.R.D.I.!” stava per “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”, ed eludeva
così i sospetti della polizia, peraltro ben consapevole che, già di per sé, il nome del
musicista rappresentava un vessillo provocatorio.
14. Non il fucile, ma le sue note: il contributo di Verdi alla causa nazionale.
Il percorso artistico, civile e politico del musicista proseguì anche nei decenni successivi a
quelli sin qui descritti, anche se è indubbio che, nell’immaginario comune, Verdi
rappresenti un vero e proprio emblema nel panorama risorgimentale italiano soprattutto
per il contributo offerto al nostro Paese negli anni giovanili oggetto della mia indagine.
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Resta da valutare, a completamento del presente lavoro, quale ritratto di Giuseppe Verdi
si può definitivamente delineare sulla base di quanto emerso nelle pagine della presente
tesi: ebbene, l’immagine che se ne può ricavare è quella di un uomo che ha rappresentato
un vero e proprio simbolo nella storia dell’Italia, un punto di riferimento per la musica, la
cultura e la politica del XIX secolo.
Il compositore, ancora, appare come un’artista assolutamente non chiuso nel proprio
universo musicale, bensì perfettamente calato nella viva realtà del suo tempo, e pronto a
condividerne le attese ideali e gli orientamenti.
Proprio perché attento alla realtà, Verdi è stato vivamente partecipe delle ansie e dei
problemi connessi alla situazione storica in cui viveva, caratterizzata in quel tempo dal
movimento politico risorgimentale, di cui il grande musicista fu, a ragione, considerato
una delle guide morali più significative, contribuendo grandemente con la sua musica ad
accendere nel popolo lo spirito patriottico, esponendosi in prima persona in più occasioni,
e sfidando apertamente la censura politica, particolarmente persecutoria nei suoi
confronti.
Di lui è stato detto: “parlare di Verdi, per noi italiani, è come parlare del padre”, ossia di un
uomo che, “lungo i sessant’anni della sua carriera artistica, accompagnò la nascita della nazione e
vi si inserì come autentica spina dorsale”.
Verdi, perfettamente cosciente dell’importanza sociale del melodramma, seppe giocare
con le aspettative del pubblico, creando un’arte attenta alle esigenze del destinatario.
La sua genialità sta nell’aver reso la propria arte un vettore privilegiato per la diffusione di
istanze patriottiche ed indipendentiste, attraverso le quali seppe guadagnarsi il favore
sempre crescente del popolo, che lo venerò come profeta, come icona ideologica della
riscossa nazionale, definendolo “Maestro della rivoluzione italiana”, e, ancora, “vate” o “bardo
del Risorgimento”.
Con la sua musica, ed in particolare con i suoi cori, fu capace, infatti, di rappresentare il
dolore di un popolo desideroso di un profondo rinnovamento, di una rigenerazione, di un
destino migliore.
Ai critici che hanno riconosciuto in lui un artista poco attivo nei confronti della causa
risorgimentale, non essendosi egli arruolato come tanti suoi coetanei e non avendo
rappresentato un patriota militante in congiure, né sopra i campi di battaglia, si può
facilmente opporre che, ciò nonostante, ebbe la patria nell’animo e nella mente più di molti
altri, esprimendo e divulgando il proprio senso patrio tramite le proprie opere.
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Del tutto condivisibile, dunque, appare, in proposito, il pensiero del musicologo Francesco
Bussi: ”forse, per compiere al meglio la missione a cui ognuno è chiamato, è bene che si mettano a
frutto i talenti, le facoltà ricevute in dote, e Verdi era un grande compositore. Pertanto, è possibile
che lui stesso ritenesse di poter servire meglio la causa nazionale, non tanto con il fucile, quanto
piuttosto con le opere. E’ la musica che parla anche per l’uomo Giuseppe Verdi, per il politico
Giuseppe Verdi, per il patriota Giuseppe Verdi. Questi esplica il suo patriottismo con le note
anziché con l’azione carbonara. Questa è la sua concretezza alla causa risorgimentale: il grande
messaggio che riceviamo oggi da Verdi sono appunto le sue opere, una testimonianza
straordinaria”.
In conclusione, il mito di Giuseppe Verdi continua tuttora, perché, come affermò l’allora
Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione del centenario della morte
del Maestro, “se l’Italia divenne una sola nazione lo si deve anche a lui e alla forza del suo
linguaggio musicale”.
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