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L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo
In «Denaro e Paradiso» il banchiere Ettore Gotti Tedeschi contesta il primato protestante
teorizzato da Max Weber
Assomiglia a un viaggio. Dentro la coscienza e le proprie contraddizioni, lontano dai luoghi comuni
sui quali capitalismo e cattolicesimo rimangono spesso imbrigliati. Economia e morale. Povertà e
ricchezza. Profitto ed equità. Libertà e Stato. Corre sul filo di questi binomi il percorso di Ettore
Gotti Tedeschi, il banchiere che nel libro-intervista con Rino Camilleri ( Denaro e Paradiso , editore
Piemme), non esita a ribaltare una delle chiavi d’interpretazione più diffuse: che sia stata l’etica
protestante il primo motore del capitalismo. «Io credo, - scrive - contrariamente a Weber che i
principi originali del capitalismo siano proprio cattolici, mentre ciò che nasce protestante è piuttosto
l’adattamento della valutazione morale dei suoi comportamenti alle esigenze dei tempi». Così
l’antica regola «ora et labora» diventa il fondamento che nei secoli bui fa sì che i «monasteri
benedettini diventino «quasi delle Silicon Valley orientate a Dio a beneficio degli uomini. Là si
posero le premesse indispensabili allo stesso capitalismo, si svilupparono tecniche in siderurgia,
energia, idraulica». Se la morale cattolica, per la sua esaltazione della centralità dell’uomo può
essere considerata l’atto di nascita del sistema capitalistico, il complicato cammino delle coerenze
individuali, ne ha fatto progressivamente calare le quotazioni: è da tempo, scrive Gotti Tedeschi, che
«la morale cattolica non influenza più l’economia». Una spiegazione possibile? Perché può
rivelarsi l’etica più rigida nella valutazione di «ciò che è bene e ciò che è male». Un confine netto
che un sistema a globalizzazione spinta mal sopporta. Ricchezza e povertà sono un terreno che Gotti
Tedeschi esplora da vicino. Senza compatimenti, quasi con asprezza. «Il povero evangelico non è
colui che non ha soldi, ma chi li ha e ne è distaccato, cioè non li idolatra, non ne fa un fine da
perseguire in sè». E si spinge più in là: «La povertà subita e non voluta, non dimentichiamo, non è
un merito, come la ricchezza non è un demerito». Ma è sempre intorno alla difficoltà per un ricco di
entrare nelle cruna di un ago che si misura la distanza tra il denaro e il Paradiso. Così l'egualitarismo
fine a se stesso, che dimentica i talenti, può diventare sciocco, ma anche l’abuso di libertà dei
manager, onnipotenti gestori di ricchezze sempre più impersonali, rappresentate da fondi comuni o
gestori distanti migliaia di chilometri dalle società delle quali sono azionisti. Un mercato denso di
paradossi, colti dal banchiere-scrittore: come i lavoratori di un’azienda che investono i loro
risparmi, alla ricerca di un profitto, attraverso le istituzioni finanziarie, in un’azienda che compete
con quella per cui lavorano. Così si torna al cuore del problema: «L’uomo è il vero capitale da
valorizzare». La lezione, richiamata più volte, è quella di Michael Novak. Ma se la legge della
domanda e dell’offerta appare universale, le scelte morali restano individuali per definizione anche
se le loro conseguenze sono collettive. Forse è anche per questo che il libro si chiude con una
preghiera. (Corriere della Sera, 27/10/04)
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