ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA. PER UNA VISIONE

annuncio pubblicitario
ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA.
PER UNA VISIONE CRISTIANA
ATTI DELLA NONA ASSEMBLEA
DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA
Città del Vaticano, 24-26 Febbraio 2003
A cura di :
JUAN DE DIOS VIAL CORREA
ELIO SGRECCIA
LIBRERIA EDITRICE VATICANA
2004
Presentazione (Prof. JUAN DE DIOS VIAL CORREA E ELIO SGRECCIA)
Discorso del Santo Padre GIOVANNI PAOLO II
RELAZIONI INTRODUTTIVE
S.E.R. Mons. JAVIER LOZANO BARRAGÁN, Nuovo paradigma: origini e proposte
Prof. VINCENZO CAPPELLETTI, Biomedicina del ventesimo secolo
INTERVENTI NELLA TAVOLA ROTONDA
"Le Attuali Frontiere della Ricerca Biomedica a Servizio dell’Uomo"
Prof. MÓNICA LÓPEZ BARAHONA, Recenti progressi in tema di biologia molecolare con un
impatto diretto sulla vita umana
Prof. ANGELO VESCOVI, Cellule staminali cerebrali: stabilità funzionale, plasticità e potenziale
terapeutico
Prof. IGNAZIO MARINO, Etica della ricerca biomedica: per una visione cristiana
Prof. ANTONIO BATTRO, Le nuove frontiere nella neuroeducazione
1
RELAZIONI TEMATICHE
Prof. ADRIANO BOMPIANI, La ricerca sperimentale in ambito biomedico. Ambiti, metodologie,
criteri di validità dei progetti di ricerca
Prof. GONZALO HERRANZ, Alcuni contributi cristiani all’etica della ricerca biomedica: una
prospettiva storica
Prof. ADRIANO PESSINA, La relazione tra la ricerca biomedica, l’antropologia e l’etica filosofica.
Appunti per una riflessione metodologica
Prof. ROBERT SPAEMANN, Ars longa, vita brevis
Prof. WILLIAM MAY, Dignità umana e ricerca biomedica: le rispettive posizioni del soggetto della
ricerca e del ricercatore
Prof. DANIEL SERRÃO, L’etica della ricerca sperimentale sull’uomo: principii e linee guida
Prof. EUGENE DIAMOND, Il conflitto di interessi nell’etica medica
Rev. Prof. ROBERTO COLOMBO, I soggetti vulnerabili della ricerca biomedica: il caso
dell’embrione umano
Prof. ANTONIO SPAGNOLO, Comitati di etica per la ricerca: procedure e qualità della revisione
etica
Prof. JUAN DE DIOS VIAL CORREA, L’etica della sperimentazione sugli animali
Prof. ADRIANA LORETI-BEGHE’, Normativa internazionale e ricerca biomedica: conquiste attuali
e prospettive future
Prof. PIERMARCO AROLDI, Il coinvolgimento del grande pubblico sullo sviluppo della ricerca
biomedica: il ruolo dei mass-media
S.E.R. Mons. ELIO SGRECCIA, La politica della ricerca biomedica: valori e priorità
APPENDICE: DOCUMENTI CONCLUSIVI
Comunicato Finale
Proposta di Impegno Etico per i Ricercatori in Ambito Biomedico
2
JUAN DE DIOS VIAL CORREA,
ELIO SGRECCIA
PRESENTAZIONE
Il tema affrontato in occasione dell'annuale Assemblea della Pontificia Accademia per la Vita:
"Etica della Ricerca Biomedica. Per una Visione Cristiana" (Città del Vaticano, 24-26 febbraio
2003) si caratterizza per la vastità del panorama delle questioni trattate e per l'attualità di molti
problemi che vengono necessariamente affrontati.
L'etica della ricerca riguarda anzitutto tutto il processo che l'investigazione programmata
richiede: il progetto nelle sue finalità e nei finanziamenti; l'etica della sperimentazione, che a sua
volta implica molte problematiche (il rischio, il consenso, il metodo di arruolamento dei pazienti,
la validità del programma investigativo, l'obiettività dei controlli, la divulgazione dei risultati); la
fase applicativa di ordine tecnologico o clinico; la questione dell'assegnazione delle risorse
economiche e la giustificazione degli eventuali brevetti; la messa a disposizione dei farmaci o dei
presidi terapeutici. La stessa sperimentazione animale non è scevra di problemi etici, oggi presi
in considerazione con maggiore sensibilità.
Alcune questioni delicate toccano non soltanto il processo della ricerca come tale ma l'oggettosoggetto della sperimentazione: l'embrione, il feto, la donna in età fertile, i problemi emergenti
dalla procreazione assistita, dalla clonazione, dall'uso delle cellule staminali: le popolazione
primitive, problemi questi che hanno già investito la sfera del diritto e mantengono un'acuta
attività e problematicità anche nei consessi internazionali.
Altra novità degli ultimi tempi è costituita dall'incidenza sempre più forte che i problemi
economici-finanziari esercitano sullo sviluppo della ricerca tutta, compresa quella biomedica.
Il livello di sviluppo economico di un Paese esige la ricerca scientifica innovativa, e la capacità di
esportarne i risultati e i prodotti. La ricerca biomedica non si sottrae a questo fatto: i Paesi più
sviluppati economicamente sono quelli che hanno una ricerca scientifica più avanzata ed un
livello di assistenza medica.
Lo svolgimento dell'importante incontro di studio, preceduto come al solito da una preparazione
condotta all'interno di una Task-Force di specialisti ha toccato la gran parte di questi temi, senza
trascurare il quadro culturale in cui si collocano, le linee di tendenza e le frontiere più avanzate in
cui oggi si colloca la ricerca stessa in ambito biologico, neurologico, medico-chirurgico. Temi
specifici come quelli della ricerca sull'embrione, della sperimentazione sull'animale, sulle cellule
staminali sono stati accompagnati e confrontati con i temi specificamente bioetici, filosofici,
socio-politici e normativi.
Ma c'è ancora un fatto peculiare che qualifica la portata del Convegno e la rilevanza del volume
che ne raccoglie gli Atti: al termine dei lavori, oltre alla pubblicazione delle Conclusioni che
ricalcano le tematiche dei lavori e le linee etiche orientative, è stato diramato un Appello ai
Ricercatori, per invitarli a sottoscrivere un impegno etico qualificato su cui svolgere in seguito un
confronto e perseguire un dialogo. Risulta che c'è già stata un'adesione significativa a questo
invito anche di interi Istituti.
Questo appello fa eco a quello del Santo Padre incluso nel Suo Discorso ai partecipanti: "Rinnovo
pertanto un sentito appello affinché la ricerca scientifica e biomedica, evitando ogni tentazione di
manipolazione dell'uomo, si dedichi con impegno ad esplorare vie e risorse per il sostegno della
vita umana, la cura delle malattie e la soluzione dei sempre nuovi problemi in ambito biomedico"
(L'Osservatore Romano, 24-25 febbraio 2003).
3
Questo volume, pertanto, segna un punto di specifica connotazione delle istanze cristiane
nell'ambito della ricerca, ma porta anche il segno di un cammino percorso dalla PAV, la quale,
come ha detto il Santo Padre nello stesso Discorso, "nel campo della ricerca biomedica può
costituire un punto di riferimento e d'illuminazione non solo per i ricercatori cattolici, ma anche
per quanti desiderano operare in questo settore della biomedicina per il bene vero di ogni uomo"
(Ibid.). È un invito che la PAV non può lasciar cadere, ma ha la responsabilità di raccogliere con
umiltà e spirito di servizio.
4
GIOVANNI PAOLO II
Discorso ai Partecipanti
alla IX Assemblea Generale della PAV
Carissimi membri della Pontificia Accademia per la Vita!
1. La celebrazione della vostra Assemblea mi offre l’occasione di rivolgervi con gioia il mio saluto,
esprimendovi apprezzamento per l’intenso impegno con cui l’Accademia per la Vita si dedica allo
studio dei nuovi problemi nel campo soprattutto della bioetica.
Un particolare ringraziamento rivolgo al Presidente, Prof. Juan de Dios Vial Correa, per le amabili
parole di saluto indirizzatemi, come pure al Vice Presidente, Mons. Elio Sgreccia, solerte e valido
nella sua dedizione al compito affidatogli. Saluto anche con affetto i membri del Consiglio
Direttivo e i Relatori di questa importante riunione.
2. Nei lavori della vostra Assemblea avete voluto affrontare, in un programma articolato e denso
di riflessioni fra loro complementari, il tema della ricerca biomedica, ponendovi dal punto di vista
della ragione illuminata dalla fede. È una prospettiva che non restringe il campo di osservazione,
ma piuttosto lo amplia, perché la luce della Rivelazione viene in aiuto della ragione per una più
piena comprensione di ciò che è proprio della dignità dell’uomo. Non è forse l’uomo che, come
scienziato, promuove la ricerca? Spesso è ancora l’uomo il soggetto su cui si compie la
sperimentazione. In ogni caso, è sempre lui il destinatario dei risultati della ricerca biomedica.
È un fatto da tutti riconosciuto che i miglioramenti della medicina nella cura delle malattie
dipendono prioritariamente dai progressi della ricerca. In particolare, è soprattutto in questo
modo che la medicina ha potuto contribuire in maniera decisiva a sconfiggere epidemie letali e ad
affrontare con esiti positivi gravi malattie, migliorando notevolmente, in grandi aree del mondo
sviluppato, la durata e la qualità della vita.
Tutti, credenti e non credenti, dobbiamo rendere omaggio ed esprimere sincero appoggio a
questo sforzo della scienza biomedica, rivolto non soltanto a farci meglio conoscere le meraviglie
del corpo umano, ma anche a favorire un degno livello di salute e di vita per le popolazioni del
pianeta.
3. La chiesa cattolica intende esprimere anche un ulteriore motivo di gratitudine a tanti scienziati
dediti alla ricerca nell’ambito della biomedicina: molte volte, infatti, il Magistero ha richiesto il
loro aiuto per la soluzione di delicati problemi morali e sociali, ricevendone una convinta ed
efficace collaborazione.
Qui vorrei ricordare in particolare l’invito che il Papa Paolo VI, nell’Enciclica Humanae Vitae,
rivolse a ricercatori e scienziati, affinché offrissero il loro contributo "al bene della famiglia e del
matrimonio", cercando di "chiarire più a fondo le diverse condizioni che favoriscono un’onesta
regolazione della procreazione umana" (n.24). È invito che faccio mio sottolineandone la
permanente attualità, resa anche più acuta dalla crescente urgenza di trovare soluzioni "naturali"
ai problemi di infertilità coniugale.
Io stesso, nell’Enciclica Evangelium Vitae, ho fatto appello agli intellettuali cattolici perché si
rendessero presenti negli ambienti privilegiati dell’elaborazione culturale e della ricerca
scientifica per rendere operante nella società una nuova cultura della vita (cfr n. 98). Proprio in
questa prospettiva ho istituito la vostra Accademia per la Vita con il compito di "studiare,
formare e informare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla
promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la morale
5
cristiana e le direttive del magistero della Chiesa" (Motu Proprio Vitae Mysterium, 4)
Nel terreno della ricerca biomedica l’Accademia per la Vita può quindi costituire un punto di
riferimento e di illuminazione non solo per i ricercatori cattolici, ma anche per quanti desiderano
operare in questo settore della biomedicina per il bene vero di ogni uomo.
4. Rinnovo, pertanto, un sentito appello affinché la ricerca scientifica e biomedica, evitando ogni
tentazione di manipolazione dell’uomo, si dedichi con impegno ad esplorare vie e risorse per il
sostegno della vita umana, la cura delle malattie e la soluzione dei sempre nuovi problemi in
ambito biomedico. La Chiesa rispetta ed appoggia la ricerca scientifica, quando essa persegue un
orientamento autenticamente umanistico, rifuggendo da ogni forma di strumentalizzazione o
distruzione dell’essere umano e mantenendosi libera dalla schiavitù degli interessi politici ed
economici. Proponendo gli orientamenti morali indicati dalla ragione naturale, la Chiesa è
convinta di offrire un servizio prezioso alla ricerca scientifica, protesa verso il perseguimento del
bene vero dell’uomo. In questa prospettiva essa ricorda che non solo gli scopi, ma anche i metodi
e i mezzi della ricerca devono essere sempre rispettosi della dignità di ogni essere umano in
qualsiasi stadio del suo sviluppo e in ogni fase della sperimentazione.
Oggi, forse più che in altri tempi dato l’enorme sviluppo delle biotecnologie anche sperimentali
sull’uomo, è necessario che gli scienziati siano consapevoli dei limiti invalicabili che la tutela della
vita, dell’integrità e dignità di ogni essere umano impone alla loro attività di ricerca. Sono tornato
più volte su questo argomento, perché sono convinto che tacere di fronte a certi esiti o pretese
della sperimentazione sull’uomo non è permesso a nessuno e tanto meno alla chiesa, cui quel
eventuale silenzio sarebbe domani imputato da parte della storia e forse degli stessi cultori della
scienza.
5. Una speciale parola di incoraggiamento desidero rivolgere agli scienziati cattolici perché, con
competenza e professionalità offrano il loro contributo nei settori ove più e urgente un aiuto per
la soluzione dei problemi che toccano la vita e la salute degli uomini.
Il mio appello è rivolto in particolare alle Istituzioni ed alle Università, che si fregiano della
qualifica di "cattoliche" perché si impegnino ad essere sempre all’altezza dei valori ideali che ne
hanno propiziato l’origine. Occorre un vero e proprio movimento di pensiero e una nuova cultura
di alto profilo etico e di ineccepibile valore scientifico, per promuovere un progresso
autenticamente umano ed effettivamente libera nella stessa ricerca.
6. Un’ultima osservazione è necessaria; cresce l’urgenza di colmare il gravissimo e inaccettabile
fossato che separa il mondo in via di sviluppo dal mondo sviluppato, quanto alla capacità di
portare avanti la ricerca biomedica, a beneficio dell’assistenza sanitaria e a sostegno delle
popolazioni afflitte dalla miseria e da disastrose epidemie. Penso, in special modo, al dramma
dell’AIDS, particolarmente grave in molti Paesi dell’Africa.
Occorre rendersi conto che lasciare queste popolazioni senza le risorse della scienza e della
cultura significa non soltanto condannarle alla povertà, allo sfruttamento economico e alla
mancanza di organizzazione sanitaria, ma anche commettere un’ingiustizia e alimentare una
minaccia a lungo termine per il mondo globalizzato. Valorizzare le risorse umane endogene, vuol
dire garantire l’equilibrio sanitario e, in definitiva contribuire alla pace del mondo intero.
L’istanza morale relativa alla ricerca scientifica biomedica si apre così necessariamente ad un
discorso di giustizia e di solidarietà internazionale.
7. Auguro alla Pontificia Accademia per la Vita, che si accinge a iniziare il suo decimo anno di vita,
di prendere a cuore questo messaggio e di farlo giungere a tutti i ricercatori, credenti e non
6
credenti, contribuendo anche in questo modo alla missione della Chiesa nel nuovo Millennio.
A sostegno di questo speciale servizio, caro al mio cuore e necessario per l’umanità di oggi e di
domani, invoco su di voi e sul vostro lavoro il costante aiuto di Dio e la protezione di Maria, Sede
della Sapienza. Come pegno dei lumi celesti, imparto volentieri a voi e ai vostri familiari e colleghi
di lavoro l’Apostolica Benedizione.
(pubblicato in "L’Osservatore Romano", Lunedì-Martedì 24/25 Febbraio 2003, p. 5)
7
JAVIER LOZANO BARRAGÁN
Nuovo paradigma: origini e proposte
Attending to United Nations meetings, and seeing the different positions of the Governments in
the World about the principles and values according to which one must build the Bioethics, I
tried to find a ethical system from which one can logically understand those official issues.
Between several settlements I find finally the right material to construct the synthesis. This
system is called the New Paradigm, that now I will expose synthetically in the first part of my
talk. Once individualizing the system, I thought it was necessary to go to his roots. Some of them I
will present in the second part, and in the third part I will make some evaluation and positive
proposals.
THE NEW PARADIGM
It is strange that in the matter of Ethics the norms will have a compilation into a Paradigm that in
its own concept for many is only a hypothesis and properly not required to be truth. And it is still
more strange that one can configure norms not according to the truth; but the fact is that we have
now this Paradigm and it is taken as supreme law for many Departments of Health in the World,
and guides the behaviour of many Bioethics Committees. I synthesize it in 12 points.
The authors
Within the United Nations, the World Health Organisation and UNESCO, were requested to accept
this Paradigm in particular by three NGOs: "The Women's Environment and Development
Organisation", "The Earth Council Green peace"and "The International Planned Parenthood
Federation". They have adopted a series of principles within the context of what is called "new
ethics" or "global ethics". Some of their significant points are as follows.
The global development
Today's world, as it is, cannot go on; after the Cold War we are faced with unsustainable
ecological situations, we are going towards a total degradation of the planet because of pollution
caused by toxic refuse of every kind, as well as radioactive waste. All of this brings us a constant
malaise that continue cannot go on. We need to work for the everyone's well-being and
prosperity. We need to achieve global prosperity and well-being.
The sustainable development
Such global prosperity and well-being is possible only with global development and not with that
kind of development which has been achieved so far. This is because such development can no
longer be sustained. We should achieve sustainable development, that is to say development that
will no longer damage the planet, where, indeed, through harmonious development, there will be
prosperity and well-being for everyone, a prosperity and well-being that centres around the
person.
8
The quality of life
Global prosperity and well-being with sustainable development is the aim of the new global
ethics. It is that convergence towards which the new paradigm is directed. This global prosperity
and well-being is what constitutes that goal known asquality of life, which is defined "as the
perception of the individual of his position in life, in the context of the culture and the system of
values in which he finds himself, in relation to his goals, expectations, standards and interest".
This is a concept of life of vast range that embraces in a complex way the physical health of the
person, his psychological state, his personal beliefs, his social relations and his ability to relate to
the relevant data of his environment (WHOQOL).
The fields of quality of life
Quality of life covers six fields: 1. physical health; 2. psychological health; 3. industrialisation and
environmental degradation, the ineptitude of institutions, environmental pollution, the
fabrication of food, 4. social injustice, 5. forms of religious extremism and other kinds of
extremism, intolerance and social exclusion have to be fought, 6. the new spirituality that
transcends all other spiritualities and religions; it fights them and replaces them because they are
seen as bastions of resistance against some of the values and goals of the new paradigm.
The values
The values of free enterprise, national sovereignty, religions, dogmas, natural law and traditional
values must be rejected because they are irrelevant and because they have created an ethical
void. Now, new values have to be created, the only ones that will allow people to live in peace.
The values of the new paradigm are those that inspire a culture of peace: love, sharing, care,
comradeship, a process that leads decisions to be taken after consultation participatory
democracy, decentralisation, negotiation, processes of arbitration and positive adjudication, no
war, respect for life, freedom, justice and fairness, mutual respect, and integrity.
The pillars
These ethics are based upon five pillars: human rights and responsibility, democracy and the
components of civil society, the protection of minorities, commitment to the peaceful solution of
conflicts and open negotiations, inter-generational equity.
The spirituality
Given that the various religions of the world are not able to generate these global ethics, it is
necessary to supplement them with a new spirituality whose goal is global prosperity and wellbeing with sustainable development. Nature, the earth (called "Gaia"), is divine and inviolable.
Man is one of various elements, and is to be understood only in harmony with the earth. This is
said not to be a new religion but a new spirituality. The religions that have existed hitherto have
been concerned with the other life - this spirituality is concerned with this earthly life. It is a
spirituality without God, to be located at a temporal level, whose final goal is the liveability of the
actual world and in it the prosperity and well-being of man.
However, in this new spirituality valid elements present in different creeds are not rejected. They
are brought together to form global ethics. In this way, and in particular from the religions of the
9
American native communities, are taken their respect for nature and necessary interaction
between man and nature. From Judaism is taken the concept of holiness; from Buddhism,
serenity and impassivity; from Hinduism, respect for animals; from Islam, the virtue of justice;
and from Christianity, charity and mercy.
Despite all this, it is asserted that no religion is competent to resolve the ecological problem; no
religion has valid answers for this epoch of globalisation. We need to fight against hegemonies
that are sought after and dogmatic hierarchies that want to impose their points of view. The
objective is to shape a shared framework of behaviour that points out the fundamental ethical
principles for emerging global society. Overpopulation, industrialisation, environmental
degradation, the ineptitude of institutions, environmental pollution, the fabrication of food, social
injustice, forms of religious extremism and other kinds of extremism, intolerance and social
exclusion have to be fought. The new spirituality transcends all other spiritualities and religions;
it fights them and replaces them because they are seen as bastions of resistance against some of
the values and goals of the new paradigm.
The problems
The problems to be solved are classified into four groups: the first concerns re-establishing the
correct relationship between man and nature; the second, the meaning of happiness, life and
fullness; the third examines the relationship between the individual and the community, and the
fourth is concerned with the balance between fairness and freedom.
The norms
Such new ethics are independent of dogma and natural law. They redefine the connection
between knowledge and ethical practice. This connection is not causal as is the case with the
sciences- it is situational. That is to say, there is no need for evident norms that govern behaviour.
It is, rather, the behaviour of today that will be translated into norms of behaviour for the future.
The problem is to generate agreement so that the peoples of the world accept these new global
ethics, and for this reason it is necessary to motivate everyone in the most effective way.
The foundations
The three foundations upon which these new ethics and this new spirituality are founded are
human rights, health for everyone, and education.
The human rights
Human rights are based upon total fairness amongst men. For this reason, the only acceptable
remedy required is, on the one hand, a stabilisation of population levels, and on the other, a
massive transfer of wealth from the rich to the poor. For some supporters of these ethics,
capitalism is the root of all evils, and for this reason a requirement of the new order is opposition
to economic globalisation. They argue that we need to create a new, shared standard of life for
everyone. The diversity of cultures is respected and at the same time the aim is the imposition of
a universal culture.
10
Health for all
Health for everyone requires the presence of eight elements: education in health, suitable food,
clean water, elementary forms of care, mother-child health, vaccination against the principal
infectious diseases, the prevention and control of local endemic diseases, the suitable treatment
of illnesses and management of common disasters, access to essential drugs and medicines, and
reproductive health. This right is inherent in social security, involves the eradication of poverty,
global social fairness, and is achieved through global governance. It requires concern for
education and democratic tendencies.
Education for all
Education must be education for all. The contents of the basic curriculum of the education of the
population is divided into four categories: social and economic development with emphasis on
social demography; the environment and the ecosystem, and management of the interrelationship between the population and the environment in particular; sexuality and the
achievement of personal complementariness; and the family and prosperity and well-being.
Emphasis is placed upon human rights, sustainable development, fairness within humanity;
health security, participation, governability, techniques for shaping support, global citizenship,
peace, the protection of the environment and reproductive health. This education must be
holistic. It is the key to obtaining agreement on acceptance of the new paradigm. And because it
must be interdisciplinary it has to generate a complex process. It must be both formal and
informal.
The principles of bioethics
All this helps to outline the principles of bioethics closed to the Transcendent. Within such
bioethics, which some people have called "subjective" or "autonomous", some general normative
principles have been formulated in order to be able to map out the study of human behaviour
within the life and health sciences. These principles are three in number and they are as follows:
the principle of autonomy; the principle of doing good (and on the negative side of not doing
harm); the principle of justice.
The principle of autonomy means the freedom of the moral agent, and this means that an action
is good if it respects the freedom of the moral agent and other people. The principle of doing good
means that good should always be done and doing wrong should always be avoided. The
principle of justice means that each person should be given what is due to him.
The origins of the these principles
Given that as a matter of fact this form of bioethics does not contain objective norms, the
justification of such principles is complicated. Some people have attacked these principles,
arguing that they have already gone beyond American principleism (a reference to the place
where they were drawn up). Others, on the other hand, provide a justification for these principles
and argue that their formulation was carried out along experimental lines on the basis of the
good and bad results of actions carried out in the field of bioethics accompanied by a synthesis of
their consequences.
Various explanations are given or none are given at all. The different positions are as follows:
11
the evolutionistic theory: the evolution of the species continued when man appeared and man
continues to evolve not only as regards his nature but also in terms of his culture, and thus for
each stage of his history there is a different culture and a different set of ethics. In the
contemporary stage of his history, those principles of bioethics are the valid one.
The subjectivist theory: it is not possible to know values: each person must proceed as he thinks
fit and as a general result of this procedure the principles that are adopted arise.
The contract theory: given the subjectivist theory leads us to full relativism, it is applied, however,
with the support of consent, that is to say agreeing with everyone and proceeding in line with the
opinion of the majority, a sort of social contract between the members of society. Everyone
agrees on these principles.
The clinical theory: however, given that it is not always possible to reach agreement, each case is
examined in turn and the action taken is that considered the best for that particular case.
The utilitarian theory: if one asks what the best is for that particular case, the answer provided
involves the utilitarian theory of cost/benefit, according to which what costs least and gives the
best results should be carried out.
The theory of new principles: some authors (for example Peter Singer) argue that one should not
dwell upon the old principles but rather invent new ones. Thus, for example, one should not
adhere simply to the principle "thou shalt not kill" but adhere, instead, to a new one, which
affirms: "kill only if you decide freely to do so and take responsibility for all the consequences".
The principles that are adopted can be adopted as ethical principles, as long as each person
decides freely and takes responsibility for all the consequences.
SOME ROOTS OF THIS PARADIGM
Without entering into complex Eastern thought but remaining within the Western cultural
sphere, we find two opposing ways of thinking, in varying conditions of contradiction with each
other, about the ethical point that logically arises from their mental worlds. These two
approaches have registered major successes but also great failures. Those two positions we find
in the line of to be and to become, and in the line of to be and to think. In this second part, we will
also proceed in a very schematic way.
To be and to become
In classical Greek antiquity we find two philosophers Parmenedas and Heraclitus with divergent
approaches: that of Parmenedas of one and all, immobility, and that of Heraclitus of everything
evolves, mobility. Classical Greek philosphers would, through Aristotle, join the two alternatives
in hylomorphism. Many centuries later, in the face of nominalism, St. Thomas Aquinas declared
"ens est id quod est" (being is what is), objective reality, whereas Duns Scoto stated "ens est id
quod potest esse" (being is what can be), mere possibility. This last way of thinking, opens the
door to the Empirisme of Bacon, Hobbes, Hume and Locke, with all its advantages and
disadvantages. The science will be separated from its transcendental goal, in the sense of St.
Agustin, and closed in the material experience as such.
By another point of view, Nominalism of William of Ockham is very important in the Middle Age
problem of the reality of Universals, according to whom the Universal is nothing else but a mere
vocal emission. Consequently there are no universal truths, and as a result, no norms of universal
mandatory application.
12
Thinking and being
The great change came with Descartes, or to put it more accurately, with his followers, because
Descartes probably remains in the platonic way of thinking belonging to the Oratory of LaBerule.
The alternative was: do I think it because it is being, or is it being because I think it? If one accepts
the first part of the alternative then an objective truth exists; if one accepts the second, the truth
is what I accept it as.
In the context of the second part of the alternative a large part of contemporary thought was
forged, and this had decisive consequences as regards ethics because it meant the absolute
autonomy of man: it is he who decides in the final analysis what is true and what is false, what is
good and what is bad. This full autonomy would also be deduced from other key points in the
thought of Descartes, that of "clear and distinct" ideas which belong only to substances: God, the
conscience, and extension. The basic condition for a thing to be seen as a substance is its full
independence. Descartes said that a substance "est id quod ita existit ut nulla alia re indigeat ad
existendum" (it is what exists so and does not need anything else to exist). This Cartesian concept
would lead later to the full independence and autonomy of man. Man in himself, was held to be,
absurdly, his own project.
His own present reality was his future project and in the best of cases, along the lines of Engels,
the "pious atheist", his project was the myth arising from the multiplication of his own wishes to
the point of mathematical infinity. We are here in the line of the positivistic way of thinking in the
Encyclopaedism, specially of August Comte.
In this line of not objectivity, denying the possibility of acceding to the noumenon, Kant advanced
in ethics to collective and formal subjectivity with his "categorical imperative"; so He formulate
the norm according the consensus of the majority.
For his part, Hegel gave political consistency to this subjectivity by locating the highest
realisation of the "spirit" in the State, in the prusian State, and so making the political power the
norm of morality.
Subsequently, following the path of Engels, Marx said that "Hegel would be made to walk with his
feet on the ground" in dialectical materialism, where the classless society was seen as the only
source of morality in the autonomy of consequent historical materialism.
Contemporary currents
In the logical development of this subjectivism, six currents of thought have today become
established. They are easily applied to this Paradigm, and they are: Eclecticism, which accepts any
type of behaviour, outside its system, context or evaluation; Historicism, according to which truth
changes according to adaptation to a specific epoch; Scientism, in which it is affirmed that the
only acceptable truth is experimental truth in the scientific field; Pragmatism, where ethical
decisions are made taking into account only the criteria of utility according to the cost/benefit
tandem guided by the opinion of the majority; Nihilism, in which there is the simple
abandonment of the idea of reaching objective truths; Post-modernity, in which nihilistic
positions are adopted.
It is obvious that in this whole way of thinking in the field of Ethics, the outcome was merely
subjective ethics opposed to the objectivity of nature, which was no longer seen as real, because
objectivity is conceived statically (here include also the Natural Law). As a result, it was declared
that "objective" ethics, based upon nature, is the outcome of ignorance or out of fashion,
belonging to the Ages of darkness of the mankind. The experimental sciences are based in the
mobility of things that is the only reality. Especially in the field of medicine: it was asserted that
13
whereas until a short time ago this belonged to the field of the observable, now, instead, all its
action develops within the field of "that which can be manipulated".
Passing from the scientific plane to the religious plane, the Christian Protestant approach has
strongly contested the very concept of "nature", at least of human nature, because it sees nature
as essentially vitiated. If nature is indeed like that, it is logical that human nature cannot be moral
norm.
SOME EVALUATION AND PROJECT
The values of the new paradigm
It is right to react against environmental degradation, and it is also right to be aware of the fact
that development has its limits and that development that does not take into account the
degradation that it causes to nature should not be supported. At the same time, it is right to
search for prosperity and well-being and that the greatest prosperity and well-being for the
greatest number of the inhabitants of the planet should be ensured.
It is equally right that quality of life should be procured, especially if by this is understood selfawareness of the position that a person occupies in his overall - both ecological and cultural in a
broad sense, situation, which includes the economic, social, religious, political and cultural
aspects, in the strict sense of the terms, of the field of education.
It is right to defend human rights, respect for social minorities, for democracy, for fairness
amongst all men, that is to say their fundamental equality, both as regards men and women, to
re-establish a correct relationship between man and the environment and between the individual
and the community. It is right to defend social justice, and the economic injustice present in
today's world is very evident.
To require health for everyone, at least as regards its basic elements, is an inescapable
requirement, and obtaining education for all is also a primary need.
The anti-values of the new paradigm
The most important anti-value lies in the fact that the new paradigm presents itself, as they say,
as a new spirituality, which takes the place of all religions because these are inadequate to the
task of preserving the ecosystem. In practical terms, this is a new secularist religion, a religion
without God, or to put it another way, with a new God, the earth itself, which they call Gaia. The
subordinate element of this divinity is man.
The series of values that the new paradigm upholds are values that are subordinated to this
divinity, which is translated into the supreme ecological value, known as sustainable
development. Within this sustainable development the supreme ethical goal is prosperity and
well-being.
It is certain that this paradigm totally denies Christianity and its founding historical fact, namely
the Word made flesh, the redemptive death of Christ and his glorious resurrection. If one accepts
this historical fact, the pre-supposition of the new paradigm collapses completely.
This does not means that the values espoused by the new paradigm also collapse. Indeed, these
are not extraneous to Christian thought but are to be placed within it. Ever since Genesis,
reference has been made to homo sapiens and homo faber. The two have to be reconciled: man is
not the despotic master of nature but a wise worker who dominates nature and respects its laws.
What makes the new paradigm unacceptable is its denial of God and the life beyond, and, in
concrete terms, the denial of Christ as the only saviour.
14
The use of terms in the New Paradigm often carries some confusion: they never speak of persons
but individuals, not equality, but equity, not government but new governance, not family but
peer, not procreation, but reproductive health, etc.
The equality of the sexes is to be accepted, not, however, in the sense of homosexuality and the
destruction of the family. Birth control is to be accepted, but not in a destructive sense such as
that planned through the culture of death, which is applied in a special way in the third world.
Prosperity and well-being is not the same as happiness. Christ does not promise us in an illusory
way total prosperity and well-being in this world, but he does promise us happiness. The point of
discernment for any religion, or as the new paradigm says, any spirituality, is the solution to the
problem of death. This is something that the new paradigm does not in the least possess because
it simply avoids it, and what death involves, and in a special way suffering, pain and illness. Christ
is the only person to give a satisfying answer to it: with his glorious cross in the resurrection.
One of the great problems of the new paradigm is when it becomes aware of the fact that
everything has to be based upon examples of agreement that do not arise from objective truths
but from subjective opinions. It thus tries to create artificial forms of agreement. Such forms of
agreement are absolutely variable and for this reason ethics or bioethics based upon the new
paradigm do not have consistency. An ethical law without authentic foundation cannot be a true
law. Saying that the actual behaviour must convert itself in norm for the future generations is
totally insane.
Regarding to the principles of bioethics
As we can see, in each of the given explanations to justify those principles one arrives at a form of
relativism, not only in observing the alleged origins of these principles but also in examining the
principles themselves. It is indeed the fact the principle of autonomy corresponds to acting with
freedom, but this means that for this moral action those who do not possess freedom are not
taken into consideration: people such as invalids, children, foetuses, and embryos.
Regarding to the principle to do good, but what is good? What really does good to a person? If we
do not know anything about what can be good for a person, we cannot do good to that person.
The same applies to the principle of justice: what is due to every person?
The very principles advanced, seen in themselves, doe not have an explanation. It is usually said
that these principles must be understood as actual principles, that is to say as merely principles
to be actually applied, and not as prima facie principles, that is to say as theoretical principles.
But the difficulty remains in the case of principles to be actually applied as well: why should I act
in this way if it is not reasonable?
In addition, when these principles come into conflict with each other which of them should
prevail? For example, if the principle of autonomy comes into conflict with the principle of doing
good and this, in its turn, comes into conflict with the principle of justice, which principle should
we follow? We need a further and prior principle, which gives them unity and which resolves a
possible conflict. The principle of autonomy, and thus the principle of freedom as well, has its
own limits when it has before it the good of a third party, and the good of a third party is also
limited when it has before it what is due to another person. In the final analysis, however, the
principles do not lay down what is due to that person. Thus some people make recourse to what
they call ethical narrative, in which they narrate, one after the other, only the cases that occur,
and action is taken following the example of what came before. Or refuge is taken in what they
call female perception, that is to say what the refined goodness adjudges advisable. In this way
one draws near to another criterion that they call the criterion "of virtue", by which the person
who decides what is good and what is bad is the person who has sufficient virtue, where by
15
virtue is understood acting according to recta ratio. In referring to upright reason, one draws
near to the classic conception of objective bioethics.
The principles must be accepted only by their objective foundation, withdrawing them from the
relativism of the mere subjectivity.
Being and thinking
The answer to the question we raised at the beginning according the Cartesian mentality must
be: the being is not because I think in it, but I can think in it because it exist. This is the objectivity
in which the Ethics must be founded.
As regards the current of thought that gives objectivity to ethics, we encounter the AristotelianThomistic position, which, in fundamental terms, was adopted by the Magisterium of the Catholic
Church, without neglecting the valid elements that are found in the subjectivist discourse already
discussed and in all the inputs from Catholicism that have enriched it.
In this current of thought therefore truth lies in the conformity of thought with the object. It is
not the thought of man that creates reality, but the existence that gives reality the possibility of
being thought. The criterion of morality by which we know if an action is good or bad is certainly
man, the subject, but this subject is objective, is the human nature, considered in his complexity
which implies his opening to the Transcendent.
Morality consists of the pathway by which to realise the "human project" but this pathway not
only does not exclude the transcendent model from man himself but necessarily includes it. A
person cannot at the same time be his own present and his own future. In this form man does not
create morality, morality transcends him, it is there and he meets it, is object "ob-jacet". It is not
the case that the subject is not implied, indeed it is the subject who follows the pathway and in a
certain way marks it out, even though not according to his absolute free will because there are
norms that transcend him. Man has his own autonomy in enjoying his freedom. However, this
autonomy, this norm of being himself, is not absolute. Man in his limited and constantly
constructed reality must necessarily be open to a model that transcends him.
THE PROJECT: SUBJECTIVITY, OBJECTIVITY AND MOBILITY OF THE HUMAN NATURE
Bioethics as a project
In speaking about the life sciences and in asking ourselves about correct human behaviour to be
followed in the experimental sciences that manipulate life, the question includes the following
factors: human life, lack of human life, increase in human life, improvement of human life, norms
to be followed to obtain this improvement, and deviations to be avoided. In other words, we find
ourselves face to face with the tandem "need-satisfaction". This means that there is a living
subject who aspires to improve himself, he has to tread his path; if he has to follow a path he
must mark it out, and if he marks it out, he must first know where it leads if he wants to mark it
out. In the field of life one has to know what life is, what the best life that one wishes for is, which
pathways should be followed to achieve it and which should be avoided, because these latter,
rather than giving life, could lead to its loss. Bioethics thus appears as a project for the
construction of man through the life and health sciences.
16
Technology and bioethics
To make the point more clearly, we could imagine neutral technology (since in fact there are no
neutral sciences because every science is analysis and synthesis, and synthesis can never be
neutral). If then we could speak about neutral technology, closed within itself, we would have to
say that according to the laws of the laboratory, hypothesis, experimentation, thesis, new
hypothesis, new thesis and new experimentation - the framework of technology in itself is mere
possibility, whereas the framework of ethics is the goal. For this reason, technology in itself can
build or destroy man, technology in itself is blind, however advanced and marvellous it may
appear to be. Biotechnology in itself is blind and ambivalent.
An intelligent project
For this reason, so that a real bioethics can exist that provides us with norms for behaviour in the
field of health and life, the first thing that we must ask ourselves concerns the project for man
that people have in mind in the manipulation of these fields of health and life. Curiously, having a
project denotes intelligence but at the same time also indicates weakness because a project
represents an intention to improve reality which appears deficient, because, if such were not the
case, the projects to improve it would not exist. Authentic bioethics must appear as a project to
improve human life itself which contains all the life and health sciences as its intelligence, as that
intus legere (read within) that in every analysis always has present the synthesis of arrival which
can be nothing else but the construction of human life.
The best self
For a project regarding life to function (like any other project), it has to understand as completely
as possible the life reality that it wishes to improve, and the "best self" to which it aspires. This
best self, which is a goal and a purpose at the same time, is the model whose reproduction is
sought. According to these two realities, a tendency, a pathway, an ethos from the self to the best
self, is marked out. This pathway is ethics and, in our case, bioethics. In it we find norms that
cannot be merely formulations or imperatives outside the self but real constructions of the same
"self" that gradually draw it near to this best self, increasing its vital density. Therefore a science
must always finally be conceived in the sense of St. Agustin, as a teleological knowledge; if not it
will be dehumanising and destroying man himself.
Freedom
It is ethical theory and practice as a whole that opens up to the true concept of freedom, which
does not consist simply in doing what one wishes but in that attribute of will that directs it
towards one's own construction. In this sense, the criterion of morality is man himself in his total
complexity and not in closing himself up in his own ability to construct himself and in his
enormous capacity to destroy himself. This complexity leads him to be aware of his own reality
which means being in a relationship, being open and beginning, therefore, to walk, or rather to
open himself freely to the Other, which in this case is the fullness of Strength, Truth and Love,
namely God. Man, through freedom, in his project of construction, always opens himself to forces
of the authentic progress of biotechnology in order to increasingly achieve his life fullness in
constant harmony with God, with the whole of mankind and with the total environmental
context.
17
Revelation
Many times one does not dare to speak in the scientific fields of Revelation, especially in
Bioethics, but I think that this is the proper dimension of an authentic objective Bioethics that
will be open to the whole project of man.
In Catholic thought such open, "objective", real, without frontiers, ethics open up to full
communication with Almighty God the Father who realises in us the Truth of the Son through his
Incarnation, Passion, Death and Resurrection. He fills up all our aspirations leading us along the
pathway that is Christ in the fullness of the love of His Spirit. Catholic ethics and bioethics are
Christ's walking within us to the Father through his death and resurrection through the love of
the Holy Spirit. Bioethics is in this way the walking of the Spirit in us through the pathways of the
life and health sciences. "Those who are led by the Spirit are the children of God'. The spirit
infuses in man the ability to walk towards the construction of total Christ, which is virtuous life,
and maps out the understanding of Christ himself as a pathway through the commandments and
the Sermon on the Mount. Catholic bioethics, therefore, is:
The systematic and deep study of the behaviour that constructs man through the life and health
sciences in walking with Christ towards the Father, fullness of life, through the strength of the
Holy Spirit. This theological vision expresses a deep and structural dialogue with all the relevant
sciences and forms of technology, with all the unifying forms of thought of analyses carried out by
the different philosophical and theological currents, entering into dialogue as well with other
religions taking into account the fact that it is a study of behaviour and thus, as a result, it cannot
remain within the trajectory of reflection but must take concrete form in light that guides in the
difficult solution of the problems raised by genetic engineering.
18
VINCENZO CAPPELLETTI
BIOMEDICINA DEL VENTESIMO SECOLO
LA FISIOPATOLOGIA COME PARADIGMA
Sullo scorcio del secolo decimonono – nell’ultimo venticinquennio dell’Ottocento, per maggiore
esattezza -, una rinnovata medicina, «scientifica», dà atto di sé come costruzione e applicazione
dell’unità di fisiologia e patologia: un paradigma teorico dovuto a due personalità di sommo
rilievo intellettuale, Rudolf Virchow (1821 – 1902) e Claude Bernard (1813 – 1878). Nel periodo
considerato, Virchow è attivo a Berlino tra l’Università, di cui diventa rettore nel ’93, e
l’Accademia delle Scienze: appartiene a lui, con una formula peculiare, «pathologische
Physiologie» [fisiologia patologica], l’espressione poc’anzi adoperata per indicare l’ancoraggio
concettuale del sapere medico alla fine dello scorso secolo. Nel primo numero dell’Archiv für
pathologische Anatomie und Physiologie und für klinische Medicin, uscito nel 1847 sotto la sua
direzione, Virchow aveva chiarito che «le malattie non sono entità a sé stanti, chiuse in sé stesse;
esse non sono sostanze intruse nel nostro corpo, e neppure parassiti che vivano alle spese del
corpo: le malattie rappresentano soltanto il decorso dei fenomeni vitali in condizioni abnormi.»
Così intesa, la fisiopatologia – riprendiamo il termine corrente – finisce con l’assumere
un’accezione tanto vasta, da identificarsi non soltanto con la medicina, ma con la biologia, «la
teoria della vita in generale e dell’uomo in particolare», come la definirà lo stesso Virchow, in un
articolo pubblicato sull’Archiv nel ’53.
Rischiose illazioni e coraggiosi passaggi al limite erano anche incoraggiati dal corso del sapere
filosofico negli anni ai quali ci riferiamo. Preparata da riflessioni e interventi propositivi – insigne
tra tutti, il documento elaborato dall’ambasciatore del re di Prussia presso il Papa, Wilhelm von
Humboldt -; voluta dallo Stato prussiano come simbolo di rinascita nazionale dopo la sconfitta
subita a Jena nel 1806 ad opera di Napoleone, era sorta nel 1810 l’Università di Berlino, al fine di
ripristinare l’unità del sapere umanistico e scientifico. Ma nei primi due decenni l’influenza
predominante sarà quella dei filosofi, attraverso Fichte, Hegel e Schelling, malgrado il prestigio e
l’attività del fisiologo Johannes Müller (1801 – 1858), «l’uomo che portava su di sé l’impronta
dello straordinario», come lo definirà un allievo, il neurofisiologo Emil du Bois-Reymond, nel
discorso commemorativo tenuto l’8 luglio 1858 all’Accademia delle Scienze di Berlino[1]. Sarà il
geografo Alexander Humboldt (1769 – 1859), fratello di Wilhelm, a determinare
l’avvicendamento del predominio umanistico con quello scientifico, attraverso un ciclo di
conferenze con ampie prospezioni naturalistiche, poi raccolte (1845 – ’58) nei cinque volumi del
Cosmo[2]. Ma nella cerchia di Müller, pur perdurando la subalternità delle scienze alla filosofia
nell’ambiente universitario berlinese, aveva preso forma conclusiva la teoria cellulare con le
Ricerche microscopiche sulla concordanza di animali e piante nella struttura e
nell’accrescimento, di Theodor Schwann[3]. Finiva permerito dello Schwann una lunga,
millenaria incertezza su due questioni fondamentali: dove abbia sede primaria la vita e quali
siano le sue proprietà costitutive. Ormai era possibile rispondere, invertendo i quesiti: caratteri
distintivi della vita sono l’accrescimento, la riproduzione e l’eccitabilità, mentre la più semplice
struttura che li possegga è la cellula, con la quale perciò s’identifica l’entità vivente elementare.
E’ difficile sopravvalutare l’importanza del cellularismo: teoria e sperimentazione si
preoccuparono di acquisire un rapporto stretto e in taluni casi fondamentale con la prospettiva
schwanniana, equiparata a un’assiomatica primaria delle discipline biologiche. Fissato il concetto
della patologia come fisiologia delle situazioni morbose, Virchow l’aveva correlata in modo
sostanziale con le nuove vedute di Schwann, intitolando nel ’58 l’opera che rimarrà stabilmente
legata al suo nome: Patologia cellulare fondatasull’istologia fisiologica e patologica[4].
19
Muovendosi nell’ambito della biologia generale, identificata e assimilata alla fisiopatologia,
Virchow aveva introdotto nel cellularismo una duplice innovazione: la prima, fondamentale,
consistente nella legge «omnis cellula e cellula», secondo cui le nuove entità cellulari si formano
attraverso la divisione di cellule preesistenti e non da sostanze interstiziali per «generatio
aequivoca», e l’altra, corollario della precedente e consistente nella distinzione
dell’accrescimento in assimilazione e riproduzione. Ma, nonostante la straordinaria portata
innovativa, la fisiopatologia cellulare mostrava i limiti di un’impostazione che oggi chiameremmo
riduzionistica, sacrificando i rapporti non descrittivi, ma interpretativi e esplicativi, con le
autonome e insopprimibili realtà degli organi e dell’organismo.
Una fisiologia d’organo non si fece attendere, e sorse per merito di Hermann Helmholtz (1821 –
1894) in quella stessa scuola di Müller, che sul versante scientifico era giunta a pareggiare la
fecondità teoretica della scuola di Hegel. Il Manuale di otticafisiologica[5], elaborato e pubblicato
in un cinquantennio, tra il 1856 e il ’95, e La teoria delle sensazioni sonore come fondamento
fisiologico della teoria musicale[6], uscita nel ’63 e più volte ristampata, non contraddicevano al
postulato cellularistico, ma vi aggiungevano l’esigenza di una complessità strutturale, sulla quale
appoggiare e dalla quale ricavare la specifica funzione, oggetto della ricerca fisiologica. Già con le
Ricerche schwanniane l’analisi, per così dire, fondamentale, definitoria della vita aveva superato
l’ambito morfologico: per aver associato proprietà e forma, Schwann era riuscito dove altri erano
falliti. Prima di essere altro, la vita è l’unità morfofunzionale che Galeno aveva avvertita nella
dimensione macroscopica, e i microscopisti dell’Ottocento avrebbero riscontrata in un ordine di
grandezza centinaia di volte inferiore alla normale osservabilità.
Ma parlare di funzione e funzionalità non bastava a rendere sicuro il passaggio dalla
morfofisiologia alla fisiopatologia, teorizzata dal Virchow e condivisa, esplicitamente o
implicitamente, da tutta la medicina di fine Ottocento: compresa la clinica, dotata di una
prerogativa consistente nel proprio diretto rapporto con le malattie e il malato. La prospettiva
funzionalistica dava accesso a due innovazioni sostanziali: il concetto di struttura e la categoria
della qualità. Non si dà funzione, se non ancorata a un aggregato di cellule o di fattori chimici,
come si dirà in seguito. Un aggregato ipercomplesso, chimico e morfologico, finirà con l’apparire
anche la cellula, considerata da Schwann l’entità vivente elementare. E neppure si dà funzione
senza una specificità qualitativa: la glicogenesi non è il trasporto ematico dell’ossigeno e neppure
la percezione del calore e del suono, a non fare che un solo, banale esempio tra i tanti possibili. La
fisiologia, o fisiopatologia a dirla ancora con Virchow, con l’abbandono dell’implicito presupposto
di una natura uniforme, priva di diversità sostanziali, finiva con il sospingere il geometrismo
galileiano e il meccanicismo cartesiano verso un tramonto irreversibile. Ne prenderà atto il
neurofisiologo Emil du Bois-Reymond (1818 – 1896), nel discorso su I sette enigmi del mondo[7],
tenuto l’8 luglio 1880 nella seduta leibniziana dell’Accademia delle scienze di Berlino. Su una
natura concepita come sistema di atomi materiali in movimento, affioravano sette entità
problematiche, e per alcune di esse si trattava di una problematicità insuperabile,
«trascendente»: l’essenza della materia e della forza, l’origine del moto, l’origine della vita, il
finalismo apparente della natura, l’origine della sensazione elementare, il pensiero razionale e il
linguaggio, la libertà del volere. In realtà gli «enigmi» erano non sette, ma innumerevoli: ovunque
affiorasse una peculiarità da un substrato quantitativo, chi non cercasse una radice del quale
accanto all’evidenza del quanto, si precludeva la possibilità di capire l’esperienza o, per dirla con
Platone, di «salvare i fenomeni». Consapevole del baratro che si era aperto innanzi alla scienza
meccanicistica, il du Bois onestamente concluse il suo discorso accademico con una lucida
ammissione di perplessità: «Dubitemus». Drasticamente rinunciataria - «Ignorabimus» - era stata
invece l’allocuzione sui Confini della conoscenza della natura[8] all’Assemblea dei naturalisti e
dei medici tedeschi, svoltasi a Lipsia nell’agosto ’72: materia e coscienza erano apparse fin da
20
allora inconcepibili, «unbegreifliche», movendo da premesse meccaniche. Ma tra i due termini
emblematici di una crisi radicale, quello usato per primo e poc’anzi citato avrebbe riassorbito
l’altro, quando il du Bois- Reymond lo avrebbe fatto assurgere a «immutabile e inesorabile
verdetto» nella premessa a un’edizione congiunta, 1884, delle due conferenze[9]. Negli stessi
anni il materialista e meccanicista Virchow passava sulle posizioni, più moderate, di un
«vitalismo meccanico», per cui esisterebbe una forza peculiare, orientatrice dei movimenti nei
processi delle singole cellule e dell’organismo.
Fisiologi, biologi e morfologi, nel loro affidarsi alle certezze dell’atomismo meccanico – salvo a
denunciarne, come faceva il du Bois, i limiti esplicativi per così dire superiori -, sembravano non
avvedersi della contestazione empiristica, che ne faceva in quegli anni il fisico Ernst Mach (18381916) a nome del dato sensoriale, seguito dal fisicochimico Wilhelm Ostwald (1853-1932) a
nome di una nuova grandezza osservabile, l’«energia». Creatrice della meccanica moderna, solo la
ragione poteva intervenire a sanarne le arbitrarie limitazioni e a trascenderne le scoraggianti
aporie. Ma la fisiologia era in mani francesi oltre che tedesche e, vista e valutata oggi da noi, la
statura intellettuale di Claude Bernard spicca su tutte le altre per la varietà dei programmi di
ricerca, per l’affiancamento alla microscopia di metodi autenticamente fisiologici, e infine per la
sorprendente ricchezza d’intuizioni epistemologiche e metafisiche. Il Bernard sperimentatore ha
un profilo di assoluta eccezione: processi nutritivi e digestivi, funzioni del succo pancreatico,
glicogenesi epatica, attività dei nervi vasomotori, meccanismo della paralisi curarica, rapporti fra
sistema nervoso vegetativo e termoregolazione sono le aree principali, dove egli potè acquisire
conoscenze sostanzialmente nuove e durature, adottando strategie originali come quella da lui
stesso chiamata «autopsia chimica». A un caposaldo della biologia e della medicina come la
Patologia cellulare del Virchow si possono affiancare, del Bernard, le Lezioni sulle proprietà dei
tessuti viventi, tenute allaSorbona nel 1864 e pubblicate nel ’66[10]: ma attorno ad esse c’è una
vasta serie di volumi analoghi, nati dall’insegnamento e distribuiti in un venticinquennio, dalle
Lezioni di fisiologia sperimentale del ’56[11], alle postume Lezioni di fisiologia operatoria del
’79[12]. Bernard è tiepido verso i tedeschi: alla nozione di cellula antepone quella di
protoplasma, e a Virchow ricorda che nell’ampia sintesi della patologia cellulare non bisogna
perdere «il sentimento di ciò che è speciale», per giungere fino all’individuo e alla «idiosincrasia»,
base di tutta la medicina.
Un Bernard ancora più grande è quello degli scritti che possono e devono essere considerati
filosofici: l’Introduzione allo studio della medicina sperimentale del 1865[13], i Principi di
medicina sperimentale, inediti e solo nel 1947 pubblicati nella forma di un corposo compendio da
L. Delhoume[14], il Cahier rouge, inedito ma integralmente pubblicato nel 1962 da M. D.
Grmek[15]. Un mosaico di intuizioni, di dubbi, di argomentazioni che talvolta sembrano andare in
direzioni divergenti e finanche opposte; una trama concettuale che mette in evidenza
l’inaccettabile semplificazione perpetrata dal materialismo – meccanicistico in Germania,
organicistico in Francia; la schietta perplessità preferita alla certezza fallace: messe in una sola
cornice, le riflessioni del Bernard filosofo presentano le caratteristiche accennate. Scienza e
filosofia devono procedere insieme, ma le pietre dell’edificio scientifico sono i fatti. La vita è
creazione, ma è anche morte. I processi vitali obbediscono al determinismo, ma l’individualità
s’impone ovunque. L’anatomia studia l’organizzazione, ma la funzione è indeducibile dalla forma.
La sola forma del ragionamento è quella deduttiva per sillogismi, ma lo scienziato deve
concedersi le «expériences pour voir». Alta e schietta testimonianza quella resa dal Bernard,
fisiologo e filosofo, alla vita in sé stessa e all’umano pensiero che l’investiga. La nascita della
medicina scientifica da quella prescientifica, osservativa, impersonata nel secolo di Galilei, Boyle
e Newton da Thomas Sydenham (1624 – 1689), ha avuto nel Maestro del Collège de France colui
che seppe prenderne atto e auspicarne gli sviluppi. Gli fu cara, l’istituzione creata da Francesco I
21
nel 1513, perché aveva il compito di scrutare l’avvenire della scienza e discuterne i metodi. «La
médicine scientifique, que je suis chargé d’enseigner, n’existe pas», dichiarò in una sua lezione.
Quasi tutto doveva esser fatto, ma era stata conquistata una certezza : il nucleo della futura
medicina scientifica non poteva non essere la fisiopatologia.
L’ANOMALIA PSICOPATOLOGICA
I dueiniziatori della fisiopatologia sono l’uno, Bernard, morto da un quindicennio, e l’altro,
Virchow, ancora attivo e assurto quello stesso anno al rettorato dell’Università di Berlino, quando
un giovane e promettente allievo della Facoltà medica viennese, Sigmund Freud (1856 – 1939),
pubblica nel’93 sulle Archives de neurologie un articolo: Alcune considerazioni per una studio
comparativo delle paralisi motorie organiche e isteriche[16], che crea una vistosa anomalia
rispetto al paradigma fisiopatologico della medicina scientifica. L’anomalia era destinata a
crescere, anzi a ingigantirsi, passando dalla psicoanalisi alla psicosomatica, fino a essere
riconosciuta e ricompresa nello spazio complessivo della medicina, non senza perduranti
incertezze. Qui è necessaria una parentesi. Abbiamo adottato una terminologia di derivazione
sociologica (R. Merton, Th. Kuhn) – paradigma, anomalia -, con il vantaggio di acquisire, per
determinati termini, significati condivisi. Rispetto al paradigma, insieme di asserzioni basilari per
una teoria o per una disciplina, si configura come anomalia ciò che, a differenza del puro e
semplice ampliamento, contraddice uno o più princìpi sostanziali dell’impianto teorico
originario, pur accettandone altre asserzioni normative. Nei riguardi della fisiopatologia assunta
come paradigma, risulta anomala la prospettiva psicoanalitica e psicosomatica, che rimanda a
fattori non inerenti a strutture anatomiche oppure a funzioni di organi determinati: coerente al
paradigma era, viceversa, lo sviluppo della microbiologia con Louis Pasteur (1822-1895) e
Robert Koch (1843-1910). Riprendiamo il nostro discorso. Nella memoria citata, Freud dava
notizia di una nuova tipologia di paralisi, non simulate e non accompagnate da lesioni cerebrali,
distribuite sui distretticorporei «come se l’anatomia del sistema nervoso non esistesse.»
Cominciava il lungo itinerario freudiano dalle neuropsicosi di difesa alle fobie, alle psiconevrosi
d’angoscia, al narcisismo, alle ossessioni: stati morbosi dove i vissuti psichici imprimono sul
soma il loro suggello, anzitutto disegnandovi il profilo soggettivo del sintomo, pur senza ripetere
da alterazioni somatiche la loro origine e il loro decorso. Questo la fisiopatologia non poteva
accettarlo – e lo aveva rifiutato all’aprirsi della nuova prospettiva con il capo della scuola
neurologica di Vienna, Theodor Meynert (1833-1892) -, pur avendo abbandonato, già con
Virchow, la pregiudiziale di un rigoroso materialismo, a favore di altra, più aperta e meglio
difendibile premessa ideologica. La priorità causale doveva attribuirsi al soma, la posteriorità agli
effetti e, tra essi, ai disturbi psichici.
Secondo Freud, il paziente affetto da paralisi isterica subiva l’effetto di ricordi sottratti alla
coscienza: era l’evento traumatico pregresso, non una lesione anatomica che provocava il deficit
motorio e ne disegnava il contorno. Come accedere a contenuti psichici dimenticati, sommersi?
Negli Studi sull’isteria, pubblicati nel ’95 con Joseph Breuer (1842-1925)[17], il caso clinico
dominante, quello di Anna O., pseudonimo di Berta Pappenheim, presentava una procedura
curativa che la stessa paziente aveva inventata. Dando libero corso ai propri pensieri, Anna O.
vedeva risolversi i deficit motorî e lo stato di agitazione in cui si trovava. A questo punto
occorreva trovare il coraggio, da parte del terapeuta, di rinunciare a ogni intervento esterno, in
particolare all’ipnosi, e adottare «un procedimento di svuotamento strato per strato, che ci
piaceva paragonare alla tecnica del dissotterrare una città sepolta.» Nel caso di Emmy von N.,
compreso negli Studi, Freud giungeva a una delle nozioni fondamentali dell’analisi, quella di
22
«conversione» [Konversion], per cui l’energia psichica, proveniente da una rappresentazione
rimossa, si traspone in sintomo somatico, conferendogli un contenuto espressivo che diventa un
significato da recuperare. Ma negli stessi anni Freud affrontava il problema del sintomo da un
altro punto di vista come «equivalente dell’attacco d’angoscia», mascherato, insospettabile. La
neuropatologia era giunta a un bivio, tra la psiche tradotta e talvolta regredita in corporeità, e la
corporeità come contenitore di processi non giunti a elaborarsi psichicamente.
Il secondo itinerario sarà quello percorso dalla medicina psicosomatica con i suoi più autorevoli
Autori e i testi che ne hanno fissato l’assetto teorico: Franz Alexander, Medicina psicosomatica:
princìpi e applicazioni[18], Michael Balint, La colpa basilare. Aspetti terapeutici della
regressione[19], Viktor von Weizsäcker, Natura e spirito[20], Günter Ammon, Psicoanalisi e
psicosomatica[21]. La psicosomatica si allontana dalla storia del soggetto, dell’Io, per tornare alla
genesi delle strutture egoiche, penetrando nel cuore della struttura relazionale produttrice della
malattia, che è ravvisata nella «famiglia psicosomatogena». Punto nodale dell’evento morboso nel
paziente con reazioni psicosomatiche, secondo Ammon, è il disturbo delle funzioni basilari dell’Io
corporeo: l’aggressività e il narcisismo. Il vertice della soggettività, tra coscienza e «potenze del
destino», per dirla con il Freud di Inibizione, sintomo e angoscia[22], si perde in un lontano
orizzonte per chi segua l’itinerario psicosomatico, e non quello psicoanalitico del Maestro di
Vienna e del suo geniale e infedele allievo, Carl Gustav Jung (1875-1961), analista
dell’espressione simbolica tra psicologia del profondo e scienze umane[23]. Si è intanto costituita
una psichiatria, totalmente rinnovata, attraverso Karl Jaspers (1883 – 1969) e la sua con la
Psicopatologia generale[24] , alla ricerca d’ipotesi interpretative e tentativi terapeutici
nell’universo sovvertito delle psicosi.
Quanto sopra accennato, in particolare la complementarità di psicoanalisi e psicosomatica,
dovrebbe favorire il riassorbimento dell’anomalia psicopatologica, in funzione interrogativa e
problematica, nella fisiopatologia, pur all’inizio circoscritta nella funzione di riferimento
paradigmatico. E tuttavia ciò tarda a verificarsi, perché la corporeità, come la fisiopatologia è
incline a concepirla, non offre un terreno ontologicamente idoneo all’innesto della mente o, più
modestamente, del mentale. Sono rimaste convinzioni isolate quelle del Bernard nel Quaderno
rosso, per cui la caratteristica di ogni cosa risiederebbe nel suo «insieme», che a sua volta non
avrebbe un «sostrato materiale determinato», ma sarebbe «per così dire, l’anima della cosa.»
Siamo al confine dell’osservabile, che troppo spesso la scienza ha considerato e considera come il
confine del pensabile, almeno in senso scientifico. Saranno la teoria dell’informazione e la
cibernetica a varcarlo, il presunto limite, meccanicistico ed empiristico, della pensabilità, tra gli
anni Quaranta e i Cinquanta: ilcibernetico Norbert Wiener riconoscerà che un materialismo non
aperto all’immaterialità dell’informazione si preclude il diritto di appartenere all’odierno
pensiero scientifico. Va riconosciuto al paradigma fisiopatologico il merito di un’evoluzione
sostanziale affrontata e proseguita nel Novecento, per rintracciare e descrivere l’unità
somatopsichica dell’organismo. Il sistema nervoso autonomo diventa il garante dell’omeostasi
interna. Sistema nervoso e ghiandole endocrine giungono a correlarsi in un nuovo programma di
ricerca, la già segnalata neuroendocrinologia, superando la netta cesura che il Bernard aveva
postulata tra funzioni di relazione e funzioni di nutrizione. Ma l’unità dell’individuo che da ciò
scaturisce, pur rappresentando una lusinghiera conquista, dev’essere avviata verso l’unità
psicosomatica della persona. Con l’ontologia virtuale che la sottende, tale unità rappresenta il
nuovo traguardo che il paradigma fisiopatologico, e con esso l’intera medicina, hanno avuto il
grande merito di delineare e dovranno nei prossimi decenni cercar di raggiungere, articolare,
definire.
23
LA DIMENSIONE CHIMICA
Alla fine del Settecento, l’analisi chimica della vita si affianca alle discipline morfologiche della
tradizione, e alla più recente fisiologia, con Antoine L. Lavoisier (1743 – 1794) e la sua
«révolution chimique». Un coraggioso innovatore, Lavoisier, rispetto alla conoscenza dei
costituenti elementari della natura, come Galilei e Newton erano stati rispetto alle leggi del
movimento. Le due rivoluzioni in corso, quella sociale e quella chimica, culminano entrambe
nello stesso luogo e anno: a Parigi nell’89 si riuniscono gli Stati generali e si pubblica il Trattato
elementare di chimica[25]. L’aria non è più un corpo semplice, ma mostra d’essere la miscela di
un elemento ossidante e di un altro, insufficiente a preservare la vita e perciò chiamato «azoto».
Si chiarisce in che cosa consista la respirazione: i polmoni trattengono l’ossigeno contenuto
nell’aria inspirata e restituiscono la parte residua. Nello stesso periodo i punti di vista dai quali
erano osservati e descritti gli organismi viventi, con il naturalista Georges L. Buffon (1707 –
1788) e il fisiologo Gottfried R. Treviranus (1776 – 1837), accennano a unificarsi nella «biologia»,
che il Virchow definirà «teoria della vita in genere e in particolare dell’uomo», indicandone la
compiuta realizzazione nella propria fisiopatologia. Tra questa prospettiva e la nuova chimica
Lavoisier aveva istituito un intrinseco rapporto: non a caso una delle sue innovative memorie era
apparsa nell’85 sulle Annales de la Société de médicine[26]. Mandato alla ghigliottina come
«fermier du Roi», esattore delle imposte al servizio della corona, Lavoisier muore precocemente,
ma la strada aperta da lui si prolungherà verso traguardi lontani.
La chimica fisiologica
Fra gli «elementi» elencati nel Trattato con ampiezza di particolari, c’era il carbonio, capace di
combinarsi con il principio ossidante dell’aria formando un composto acido allo stato gassoso. La
posizione privilegiata del carbonio nella scala elettrochimica degli elementi verrà in seguita
adeguatamente chiarita, e potrà nascere una «chimica organica», dapprima collegata con
l’organismo come presunto fattore di sintesi per i composti del carbonio, poi affrancata
dall’ipotesi di una «forza vitale». All’interno della chimica organica si sarebbe enucleata una
«chimica fisiologica» con Felix Hoppe-Seyler (1825 -1895), scopritore dell’emoglobina contenuta
nei globuli rossi come vettore dell’ossigeno ai tessuti: la struttura chimica e il dosaggio saranno
opera di Anders Angström (1814 – 1875). Siamo negli anni in cui nascono la fisiopatologia e la
medicina scientifica, con il Virchow e il Bernard: quest’ultimo, come dimostrano alcuni volumi
nell’imponente serie delle Leçons, assertore di un esteso e intrinseco rapporto tra chimica e vita.
Un allievo tedesco del Bernard, Wilhelm Kühne (1837-1900), coniava nel ’78 il termine «enzima»
e contribuiva a individuare i fattori enzimatici-gastrici, intestinali, pancreatici –, che agiscono nei
processi digestivi. Come le trasformazioni metaboliche, anche quelle enzimatiche possono
ottenersi fuori dall’organismo. Se Friedrich Wöhler (1800 – 1882) nel ’28 aveva ottenuto in
laboratorio l’urea che si produce nel metabolismo delle proteine, Edouard Büchner (1860 –
1917) nel ’97 trasformava il glucosio in etanolo e anidride carbonica utilizzando un estratto
cellulare di lievito. Al passaggio dall’Otto al Novecento, chimica fisiologica e fisiopatologia
avevano lavorato a un’estesa correlazione dei propri ambiti, mostrando la presenza praticamente
ubiquitaria di processi chimici in quelli vitali, tanto da simulare un rapporto di causa a effetto. La
«biochimica» subentra, quando il passaggio dalla natura inorganica alla natura vivente è stato
assunto a proprio carico dalla teoria dell’evoluzione, che ne attenua l’aspetto problematico a
vantaggio dell’inferenza osservativa, e valendosi di concetti che fungono da simulatori di
evidenza: quello stesso di evoluzione, poi la selezione, l’adattamento, l’autorganizzazione. Ma
problemi sostanziali della transizione dalla fisica e dalla chimica alla vita si riproporranno con il
successivo passaggio dalla biochimica alla «biologia molecolare».
24
La biochimica
Il ventesimo secolo riceve in eredità una chimica per così dire esterna all’organismo, dove va a
inserirsi, paradossalmente, una classe di sostanze che l’organismo stesso è incapace di
sintetizzare, pur essendo indispensabili a determinate funzioni: le «vitamine», così chiamate dal
biochimico polacco Casimir Funk (1884 – 1967), che dedica loro nel 1914 un’opera di esauriente
informazione[27],totalmente rielaborata nel ‘22, introducendo il concetto di «malattie da
deficienza». Ma l’apporto chimico esogeno, pur avvalorato dai citati «catalizzatori organici» - la
definizione è del Funk -, non arriva a pareggiare per varietà di produzione e significato l’apporto
endogeno, proveniente dai processi chimici che si svolgono nei tessuti del corpo umano e
animale. Agli enzimi si aggiungono gli «ormoni» - il termine è dovuto a William M. Bayliss (1860 –
1924) e Ernest H. Starling (1866 – 1927) – e i «mediatori chimici» tra nervo e muscolo,
individuati da Otto Loewi (1873 – 1961) e Henry H. Dale (1875 – 1968). Sono sostanze che
s’inseriscono in connessioni o nicchie funzionali, e sembrano attualizzare la metafora della
macchina umana, evocata nel Settecento dal materialista Julien de la Mettrie (1709 – 1751), ma
ancora idonea a recepire il problema delle simultaneità e sinergie di parti inserite in un tutto. La
chimica endogena è peraltro rappresentata nell’importanza prioritaria che le compete da due
fondamentali processi: il metabolismo e l’immunità.
Il metabolismo degli organismi viventi dev’essere considerato una delle massime conquiste
conoscitive del ventesimo secolo. I biochimici preferiscono parlare di «metabolismo intermedio»,
riconducendovi tutte le fasi della trasformazione di proteine, zuccheri e grassi, fino al bivio tra
utilizzo energetico e impiego nelle attività di sintesi. Con Hans A. Krebs (1900 – 1981), Albert
Szent-Györgyi (1893 – 1986) e Fritz A. Lipmann (1899 – 1986) – nomi che richiamano l’esodo
dall’Europa continentale di una larga parte della ricerca scientifica avanzata, negli anni Trenta –
si definiscono i concetti di via metabolica, ciclo di reazione, veicolo molecolare, legame chimico
ad elevata energia potenziale: nozioni che mettono ordine stretto, vincolante nei rapporti tra
natura inorganica e natura vivente. Dentro la cosiddetta area centrale del metabolismo, il «ciclo
di Krebs» unifica le vie metaboliche di protidi, glicidi e lipidi, con reazioni cataboliche e
anaboliche, accompagnate rispettivamente da liberazione e assorbimento di energia. Le ricerche
del Lipmann metteranno in particolare evidenza il ruolo di una sostanza, l’adenosintrifosfato
(ATP), che contiene nella sua molecola due legami fosforici ad alto potenziale energetico, e
pertanto può fungere da accumulatore ed erogatore di energia. In anni recenti Edwin G. Krebs e
E. Fisher dimostreranno la presenza dell’ATP nella catena di conversione del glicogeno in
glucosio, mediante fosforilazione dell’enzima glicogenofosforilasi, con un processo a sua volta
catalizzato nei due sensi dal doppio fattore enzimatico chinasi – fosfatasi. Si avvicinano gli anni
della «biologia molecolare», e la cellula dello Schwann e del Virchow, trasformatasi in laboratorio
ipercomplesso, dopo aver infrasceso con i suoi costituenti macromolecolari l’osservabilità della
microscopia ottica, si ricolloca al centro della biomedicina.
L’immunità decorre parallelamente al metabolismo. I suoi inizi datano dalle osservazioni e dagli
esperimenti compiuti da Charles Richet (1850 – 1935), mediante successive inoculazioni di
sostanze velenose estratte dalle anemoni di mare: invece di essere immunizzati, gli animali da
esperimento morivano per dosi che avrebbero provocato limitati effetti incondizioni normali. Nel
1902 Richet conia il termine «anafilassi», superdifesa, e le dedica un’organica opera nell’11[28].
L’anafilassi diventerà uno dei capitoli dell’immunopatologia, mentre l’immunità viene meglio
compresa in termini fisiologici avvicinandola, per i Vertebrati, a ciò che la fagocitosi rappresenta
per gli Invertebrati: un processo che serve a difendere la specificità biochimica ed è attivato
quando sostanze eterogenee abbiano oltrepassato la barriera della cute e delle mucose di un
vertebrato, penetrando nei tessuti. All’ingresso dell’antigene o dell’aptene – proteine e
25
carboidrati, ma anche lipidi, acidi e acidi nucleici -, segue negli organi linfatici la formazione di
anticorpi, costituiti da immunoglobuline capaci di coniugarsi chimicamente con l’antigene e
d’inattivarlo. In sinergia con i linfociti, elaboratori degli anticorpi, operano le cellule fagocitarie.
Due teorie, quella istruttiva e quella selettiva, si sono proposte di spiegare la formazione delle
sostanze anticorpali. Secondo la teoria istruttiva, prevalente negli anni Trenta, l’anticorpo si
formerebbe sotto l’azione diretta dell’antigene, all’interno delle cellule produttrici. Secondo la più
recente teoria selettiva, gli anticorpi sono invece formati partendo dalla matrice di
un’informazione che preesiste nell’organismo interessato: l’antigene seleziona le cellule atte a
riceverlo e indirettamente ne provoca la proliferazione. L’immunopatologo australiano Frank M.
Burnet (1899-1985) ha aggiunto alla teoria prima citata l’ipotesi della selezione clonale,
trasferendo l’indagine immunologica al livello molecolare delle immunoglobuline. Aderendo alla
superficie della globulina, l’antigene selezionerebbe il relativo clone anticorpale negli organi
linfatici, che a loro volta provvederebbero alla sua moltiplicazione selettiva. Lo stesso
meccanismo è invocato per spiegare l’«autoimmunità»: parti del corpo divenute eterogenee
rispetto all’organismo, diventano il bersaglio della reazione difensiva, alla quale l’immunità si
riconduce. E’ del Burnet l’opera di riferimento su tale problema di frontiera: Autoimmunità e
malattie autoimmuni[29]. Ma dagli anni Cinquanta si era aperto nella fisiopatologia, e in
particolare nell’immunopatologia, il nuovo capitolo dei trapianti d’organo: prima il rene,
trapiantato con successo nel ’55 fra gemelli monocoriali, poi il cuore ad opera del cardiochirurgo
sudafricano Christian N. Barnard, e ancora il fegato, i polmoni, il pancreas, l’intestino. La risposta
dell’ospite al trapianto, il rigetto dei tessuti trapiantati da parte dell’ospite – ma anche il caso
inverso, nel trapianto di midollo osseo: il rigetto che le cellule trapiantate attuano verso i tessuti
dell’ospite -, i trattamenti farmacologici capaci di sopprimere il rigetto provocando la cosiddetta
«immunosoppressione», sono i problemi che l’immunopatologia individua e risolve, valendosi di
competenze specialistiche, alle quali offre un terreno di convergenza e di unificazione. La
farmacologia fornisce una nuova sostanza attiva, la ciclosporina: un polipeptide ciclico a 11
amminoacidi, capace di interferire con l’interleuchina, sostanza attivatrice dei linfociti produttori
di anticorpi. Le conoscenze sull’immunità sono giunte a pareggiare, come già accennato, quelle
sul metabolismo: e anch’esse devono essere annoverate tra i massimi avanzamenti della scienza,
ottenuti nel Novecento.
La biologia molecolare
Il cellularismo aveva aggiunto alla dimensione macroscopica della vita l’osservabilità
microscopica, permettendo una definizione non meramente intuitiva dell’entità vivente. Chimica
fisiologica e biochimica avevano ottenuto un risultato di non minore importanza: il collegamento
di natura vivente e natura inorganica, con un rapporto di dipendenza della prima dalla seconda,
almeno implicitamente suggerito. E’ questo rapporto che s’inverte con il passaggio dalla
biochimica alla biologia molecolare, dopo aver accantonato il paradigma infecondo, fisicochimico,
della «biocolloidologia» (M. Florkin), sostituendolo con la strutturistica: quest’ultima ancorata
alla Natura del legamechimico di Linus Pauling (1901-1994)[30], cardine di una nuova
correlazione assiomatica di tutte le scienze della natura. Le molecole della vita hanno struttura di
alta complessità; sono qualitativamente diverse; si mostrano collegate da sinergie o finalità,
attuali o virtuali; molte di esse possono ottenersi allo stato cristallino, a differenza dei colloidi. La
complessità è il termine che emerge su tutti gli altri: una complessità organizzata e codificata. Chi
per primo oppone l’ordine trasmissibile di un «codice», «code-script», alla media statistica, e
considera quest’ultima insufficiente a spiegare la trasmissione ereditaria dei caratteri negli
organismi viventi, è il fisico Erwin Schrödinger (1887 – 1962), creatore della meccanica
ondulatoria. In Che cos’è la vita?[31], nato dalle lezioni tenute nel ’43 al Trinity College di Dublino
26
e pubblicate l’anno successivo, si dà corso a una rettifica sostanziale della filosofia meccanica
della natura. A riprendere il giudizio di Bergson sul Bernard, si potrebbe dire che il saggio dello
Schrödinger è un discorso sul metodo per la scienza del ventesimo secolo. Discorso, ma anche
profezia: tra il ’44 e il ’53 gli acidi nucleici conferiscono un’identità precisa al codice prima citato.
La breve memoria di James D. Watson e Francis H. Crick, intitolata Struttura molecolare degli
acidi nucleici[32], esce sul periodico Nature nell’aprile 1953: ma è preceduta da un decennio di
elaborazione concettuale. Di primaria importanza era stato il contributo dell’immunopatologia al
nuovo ordine d’idee. Ma, come osserva il biochimico Erwin Chargaff, era necessario che chimici e
biologi fossero pronti ad accettare l’esistenza in natura di molecole gigantesche: il lungimirante
Schrödingeraveva parlato del gene come di una macromolecola che consuma entropia negativa.
Si apre un intero orizzonte di nuove conoscenze, parte delle quali vanno a integrare la biochimica
del metabolismo, parte invece coinvolgono la regolazione funzionale dell’intero organismo,
compresa la trasmissione dei caratteri ereditari. L’unità strutturale dei due acidi nucleici –
ribonucleico (RNA) e desossiribonucleico (DNA) – è il «nucleotide», che allinea un idrato di
carbonio e una base azotata, purinica o pirimidinica: adenina, citosina, guanina, timida, uracile.
Nel DNA del nucleo cellulare umano, i nucleotidi ammontano a tre miliardi e agiscono in triplette,
i «codoni». Sebbene una larga parte sia presente nei cromosomi ma estranea all’attività dei geni,
dunque non organizzata in triplette, la possibilità dell’accennato controllo sulle funzioni
organiche è oltremodo vasta e articolata. Invece diventa problematica l’unità – della cellula,
dell’organo, dell’organismo – nel mare della molteplicità che la biomedicina si trova a solcare. Le
cellule dell’organismo umano sono stimate nell’ordine di dieci alla diciassette, la sola corteccia
cerebrale ne avrebbe cento miliardi, ciascuna cellula capace di cento miliardi di collegamenti
sinaptici. L’ottenimento dell’unità richiederebbe un salto analogo a quello dalla quantità inerziale
della materia alla qualità non inerziale dell’«informazione», che la cibernetica non ha esitato a
compiere. Ma il passo dai molti all’uno non viene compiuto, e si delinea una complessità non
unificata, paradossale, stupefacente, che rimane tale ancor oggi.
Il nuovo ordine d’idee, riprendiamo una precedente espressione, non implica forse la messa in
liquidazione dell’originaria fisiopatologia di matrice cellulare? No, anzi ce n’è una conferma dopo
la trasformazione della cellula in un laboratorio, che contiene il «codice genetico» al centrodelle
proprie sinergie funzionali. Peraltro il riduzionismo non è disposto a dare partita vinta allo
strutturalismo, solo perché dal du Bois-Reymond allo Schrödinger si sia dimostrata insostenibile
l’autosufficienza della meccanica: eppure la struttura avrebbe un numero crescente di fatti da
addurre a proprio favore, rispetto al corpo materiale mobile e alla «teoria dell’urto», che
dovrebbe valorizzarlo. Le nuove parole d’ordine sono macromolecole, doppia elica – quella degli
acidi nucleici, nucleotidi, triplette, ribosomi, amminoacidi, mitocondri – citati questi ultimi
sempre meno spesso, perché disturbano lo schematismo riduzionistico che si è costituito. Invece
s’insinua nel discorso scientifico un termine ambiguo di antica origine, il caso. Il biochimico
cellulare Jacques Monod in un volume del 1970 che non mantiene la promessa contenuta nel
titolo: Il caso e la necessità: saggio sulla filosofia naturale dellabiologia moderna[33], presume di
spiegare l’ordine della vita, e dunque l’intera anatomia comparata, con mutazioni casuali della
sequenza nucleotidica, che vengono accettate e incorporate stabilmente nel genoma attraverso la
selezione evolutiva. Non lo segue il genetista François Jacob, che insieme al Monod aveva
individuato l’azione dell’acido ribonucleico (RNA) nella sintesi delle proteine, in La logica del
vivente[34]: un organismo risulta da una serie di piani organizzativi, incastrati l’uno nell’altro.
Con diversa responsabilità intellettuale un altro biologo molecolare, Renato Dulbecco, ha
rappresentato il Progetto della vita[35], collocandovi la «macchina cellulare» accanto al DNA. Nel
Sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza[36], il genetista Richard Lewontin
dell’università di Harward, spinge oltre la critica con sottile ironia: «Il DNA è una molecola morta,
27
una delle molecole meno attive e chimicamente più inerti del mondo vivente… Il DNA non ha il
potere di riprodurre sé stesso…Nessuna molecola vivente si autoriproduce. Solo le cellule intere
possono contenere tutto il meccanismo necessario per la auto-riproduzione e anch’esse, nel corso
dello sviluppo, perdono tale capacità…La sequenza lineare di nucleotidi nel DNA è usata dal
meccanismo della cellula per determinare quale sequenza di aminoacidi dev’essere inscritta in
una proteina, e per determinare quando e dove la proteina dev’essere prodotta.» (pp.112 s.)
Si può obiettare al Lewontin che il DNA rimane la macromolecola biologica con la massima
quantità d’informazione per unità di volume o, detto altrimenti, con la densità massima di
contenuto informativo. Ma sarebbe un’argomentazione non sostanziale: anche un vocabolario
contiene la più elevata quantità d’informazione linguistica, e tuttavia la finalità sta altrove, nel
linguaggio con la sua universalità espressiva e il suo uso colloquiale. Analogamente, gli acidi
nucleici appartengono al ciclo di produzione delle proteine, ne rappresentano il momento
codificato dell’invarianza strutturale: il recente riaffacciarsi di una «proteomica» nella
biomedicina potrebb’essere il segnale di un’inversione di tendenza nel percorso teorico e
sperimentale della biologia molecolare. Intanto il Progetto Genoma, un’impresa internazionale
per il sequenziamento degli accennati tre miliardi circa di nucleotidi presenti nei ventitre
cromosomi delle cellule umane, si sarebbe conclusa in maniera spettacolare, a fine secolo e
millennio: il 26 giugno 2000 lo hanno annunciato il Presidente degli Stati Uniti e il Premier
britannico, dando l’impressione di voler suggellare politicamente il secolo e il millennio in via di
conclusione, con un annuncio peraltro prematuro. Spazi vuoti, come dicono i genetisti, sequenze
imprecisate sull’uno o sull’altro cromosoma sono state chiarite in seguito: è dei giorni scorsi
l’annuncio, sulla rivista Nature, di un’analisi sequenziale approfondita del cromosoma 11, che
ospita uno dei «loci» dell’Alzheimer e nel 5 percento dei casi si aggiunge nella sindrome Down
alla trisomia del cromosoma 21 – l’anomalia genetica scoperta nel mongolismo da Jérôme
Lejeune (1926-1994), nel 1958. Il rapporto tra «loci» genici e funzioni non è quello tra tasto e
lettera della macchina per scrivere, se non in casi eccezionali: alla singola funzione corrisponde
una struttura di più località geniche e spesso cromosomiche. La vita è struttura a tutti i livelli.
Come accennato, solo il tre-cinque percento della sequenza nucleotidica costituisce i «geni», il
resto ha provenienza e funzione sconosciute. L’accennato rapporto costituisce un dato
sorprendente. Si è ipotizzatoche il cosiddetto «DNA spazzatura», quello non genico, derivi da
virus insinuatisi nelle cellule umane durante la lunga storia della vita. Se l’ipotesi verrà provata,
potrà derivarne la conferma dell’esistenza di correlazioni strutturali forti, all’interno delle classi
in cui sono ripartiti gli organismi viventi: tipi, classi, ordini, generi, specie, fino alla classe che ha
un solo membro, quella dell’individuo. Basandosi sulle accennate correlazioni, una minoranza
molecolare potrebbe coesistere con una maggioranza soverchiante e esercitare il proprio
controllo sullo sviluppo: in modo analogo, il lungo nastro del DNA viene «impacchettato» nella
cromatina, obbedendo una singola invarianza topologica.
LA MEDICINA CLINICA
Clinica e patologia
La conferma della cellula come laboratorio chimico della vita rappresenta un primario fattore di
continuità nello sviluppo della biomedicina. Nell’ultimo dopoguerra si è reso disponibile il
microscopio elettronico, che ha permesso di osservare e descrivere strutture nano-dimensionali,
là dove si ammetteva l’esistenza di materiali omogenei, denotati da termini generici, come quello
di «protoplasma». Ha trovato dettagliate conferme il ruolo della forma come momento necessario
delle funzioni cellulari. Si è precisato come avvenga la comunicazione intercellulare per mezzo di
28
neurotrasmettitori e ormoni. Un programma di morte cellulare, l’«apoptosi», riscuote crescente
attenzione per spiegare, attraverso i suoi insuccessi, la sopravvivenza e il percorso degenerativo
delle cellule tumorali. Virus, retrovirus, prioni dipendono dalla cellula come compiuta
espressione della vitalità. Fisiopatologia e cellularismo erano intrinsecamente legati: la teoria
scientifica della vita aveva trovato nella cellula il fondamento della propria concretezza, del
proprio realismo. La fisiopatologia aveva anche offerto un saldo ancoraggio alla clinica: essendo
la clinica quel momento della medicina che parte non dalla classificazione delle malattie, ma dalla
presa d’atto, dall’analisi e dalla descrizione di un singolo fatto morboso, in vista della sua
riconduzione alle categorie fisiopatologiche attraverso la diagnosi. In attesa del conclusivo atto
diagnostico, la fisiopatologia s’innesta sulla clinica attraverso ciò che potrebbe chiamarsi il
ragionamento fisiopatologico: un percorso inferenziale che parte dall’individuazione della
funzionalità alterata, si sofferma in un secondo momento a cercare la causa dell’alterazione,
imposta quindi il giudizio diagnostico, e verifica infine la correttezza dell’interpretazione con gli
effetti del rimedio che si è deciso di somministrare. Sullo sfondo resta qualcosa che rimane un
possesso prezioso e geloso della clinica, e non della patologia: la singola persona, con il suo stile
di vita e la sua individualità psicofisica, irriducibili entrambi a singole categorie di qualsiasi
schema classificatorio.
Le malattie rare
Ma la cellula, ripristinata nel suo valore di fondamento concreto della fisiopatologia, e dunque
della biologia intesa al modo del Virchow, è diventata un laboratorio chimico ipercomplesso,
dove l’alterazione o l’assenza di un singolo fattore della funzionalità può provocare un evento
morboso o una situazione patologica. E’ il caso delle «malattie rare», «orphan deseases» nella
terminologia inglese, per la cui conoscenza disponiamo del rapporto redatto nell’89 dalla
National Commission on Orphan deseases, istituita dal Governo degli Stati Uniti: ne è emersa la
difficoltà di formulare tempestivamente una diagnosi, che talvolta si ottiene soltanto dopo mesi o
anni di attesa. Delle circa cinquemila malattie rare, quattromila sono genetiche. In sede
economica le malattie rare hanno posto, per il limitato smercio, il problema della produzione dei
farmaci atti a curarle, alcuni dei quali hanno peraltro trovato applicazione anche nella cura di
malattie diffuse, con ricavi che arrivano a coprire i costi industriali. I contatti con la fisiopatologia
cellulare, o almeno con la fisiopatologia d’organo, sono mantenuti dalla clinica attraverso branche
specifiche di ciò che si è ormai soliti chiamare il Sistema sanitario, presente e operante nelle
odierne società avanzate: il laboratorio di analisi e la tecnologia applicata alla medicina. E
tuttavia la medicina clinica, pur nelle circostanze indicate, che ne configurano un arricchimento,
ma anche una limitazione dell’autonomia intuitiva, conserva un duplice privilegio: il rapporto con
la totalità dell’individuo e la partecipazione all’esercizio non meramente applicativo della
razionalità scientifica. In natura non esistono repliche: anche i gemelli omozigoti hanno impronte
digitali diverse. La conquista ippocratica dello «hekaston» - di ciò che è lontano, «hekas», da altro,
e dunque del ciascuno, del questo e del quello- conserva tutta la propria validità diagnostica,
accanto alla doverosa ricerca di ciò che riconduce il caso singolo a un’entità definita, e dunque
virtualmente universale, malgrado la bassa frequenza statistica.
Le sindromi
Accanto alla malattia e alla situazione morbosa, è venuta acquistando crescente importanza, nella
patologia e nella clinica, la sindrome: che può considerarsi appartenente a entrambe, alla
patologia per il riconoscimento della sua configurazione anatomo-fisiologica, e alla clinica per la
variabilità individuale delle sue manifestazioni. Negli anni Trenta, l’austriaco emigrato in Canada
Hans H.B. Selye (1907 – 1982) individuava una «sindrome generale di adattamento», che avrebbe
29
poi ricondotto alla nozione di «stress» con Lo stress della vita[37], distinguendovi una reazione
di allarme, una fase di resistenza e uno stadio di esaurimento: l’organismo è coinvolto nella
sindrome con il sistema nervoso, l’apparato endocrino e le strutture immunitarie. Secondo lo
schema delineato dal Selye, l’ipotalamo libera il fattore di rilascio della corticotropina CRF, che a
sua volta provoca la liberazione di ormone adrenocorticotropo da parte dell’ipofisi anteriore:
questo raggiunge le ghiandole surrenali, che riversano nel sangue ormoni steroidi, attivi su
numerosi organi-bersaglio. I due volumi su Ormoni e resistenza[38] hanno concluso una ricerca
di alta originalità, che ha riplasmato il concetto generico di sindrome in quello di sinergia
reattiva, mettendo in luce una delle molteplici dimensioni unitarie dell’organismo. La recente
«sindrome da immunodeficienza acquisita», nota con l’acronimo AIDS, è dovuta ai retrovirus HIV,
portatori dell’enzima transcriptasi inversa, che permette di trasferire l’informazione genetica con
un percorso inverso dallo RNA al DNA. Alla trisomia del cromosoma 21 è stata ricondotta la
«sindrome di Down», o mongolismo, di Jérôme Lejeune, già ricordata. Con Georges Devereux,
l’etnopsichiatria ha ritenuto negli anni Settanta di aver individuato alcune specifiche «sindromi
etniche», su base culturale. La sindrome è, in tutti i casi segnalati, l’unità di una molteplicità
morfofunzionale, e rappresenta il sigillo della complessità, che si manifesta, come molteplicità
unificata, anche nella patologia della vita.
LE MEDICINE ALTERNATIVE
Provenienti, con l’eccezione dell’omeopatia, da aree culturali periferiche, rispetto all’Europa e
agli Stati Uniti, le cosiddette medicine alternative rivelano caratteristiche comuni. Il momento
clinico prevale su quello patologico, e finisce con il simulare un latente ippocratismo, a
condizione di sostituirne la formula «observatio et ratio» con un’altra, nettamente diversa, che
potrebbe suonare «observatio et sanatio». Ippocrate di Cos – il fondatore della medicina
scientifica al quale vengono fondatamente attribuiti taluni scritti, di alta originalità e di scoperto
impegno teorico, compresi nel Corpus hippocraticum – aveva combattuto la «medicina dei
postulati» e le sue arbitrarie teorizzazioni, opponendole una feconda sintesi di empirismo e
razionalismo. Ciò che il medico trova davanti a sé, consiste sempre in un «questo», in un
«ciascuno». Ma Ippocrate, secondo la testimonianza che ce ne ha lasciato Platone nel Fedro,
sosteneva che né l’anima né il corpo si possono conoscere «a prescindere dalla natura del tutto»:
con un deciso passaggio dal pragmatismo terapeutico a quella cultura biomedica della totalità,
che si costituisce storicamente attraverso processi complementari di accumulazione e
d’innovazione, e si traduce in sintesi conoscitive sempre più vaste e coerenti. Uno dei più
importanti lavori di Ippocrate è Antica medicina [Archaie ietrikè]: e il titolo echeggia il lungo
processo di crescita e di sedimentazione, che permetteva allora l’esistenza di categorie del
pensiero medico, capaci d’inquadrare e valutare l’esperienza. Clinica senza patologia non c’è, se
non nella forma delle baconiane «tavole di assenza e di presenza». Non sono possibili la
ponderazione e la valutazione critica di quanto osservato: il dato osservativo e la premessa
teorica non entrano in un rapporto dialettico. Valutare l’esperienza diventa un compito
azzardato.
Consideriamo l’«agopuntura». Tra il 1948 e il ’49 entra nell’ordinamento sanitario della
Repubblica popolare cinese come rimedio per il trattamento del dolore, nelle affezioni funzionali
e in numerose circostanze morbose attinenti all’ostetricia e alla ginecologia. Si riferisce a una
teoria generale dell’universo, che ammette l’esistenza di due principi opposti, lo Yin e lo Yang, e
di cinque elementi, rappresentanti l’energia vitale che scorre in tutto il corpo attraverso un
sistema di «canali» o «meridiani», dove aghisottili si prefiggono di raggiungerla, in punti
30
determinati, per ristabilire l’equilibrio turbato dalla malattia. Una pratica collaterale, la
moxibustione, invece di aghi usa esche di Artemisia (moxa) a diretto contatto con la pelle.
Scrivono Lu Gwei-Djen e Joseph Needham – il fondatore della biochimica inglese, passato alla
sinologia - in Aghi celesti. Storia e fondamenti razionali dell’agopuntura e della moxibustione[39]:
«E’ indubbio che l’agopuntura abbia rappresentato un sistema di cardinale importanza nella
storia della medicina cinese, ma la valutazione obiettiva della sua reale portata è stata fino a
tempi recenti, ed è in una certa misura ancor oggi, al centro di grandi dispute. In Asia orientale si
possono incontrare medici di formazione moderna, sia cinesi sia occidentali, assolutamente
scettici circa la sua validità…Presumibilmente nessuno sarà in grado di valutare appieno
l’efficacia reale dell’agopuntura…fino a quando non verranno applicati i metodi d’indagine della
statistica medica moderna, con l’analisi di un’adeguata casistica; purtroppo la realizzazione di un
programma simile può richiedere un tempo anche superiore al mezzo secolo…» (pp.7 s.). La
secrezione di endorfine è l’ipotesi spesso invocata per spiegare l’effetto antidolorifico della
terapia.
Senza una trama ordinata di definizioni e osservazioni trascritte in linguaggio appropriato, il
materiale osservativo perde la possibilità di costituirsi in terreno di conferma, di smentita o
d’inferenza verso presupposti altrimenti determinati – è la terza, feconda via del ragionamento
scientifico, l’abduzione, accanto alla deduzione e all’induzione. Se l’agopuntura riconduce alla
Cina, la «pranoterapia» porta all’India: ma nell’induismo, com’è stato detto, tutto tende a
divinizzarsi, e ogni manifestazione divina risulta priva di ciò che il pensiero occidentale chiama,
da Aristotele in poi, il «per sé», l’«assolutezza». Il termine sanscrito «prāna» rimanda alle cinque
forme dell’energia che pervade tessuti e organi, ed è presente nel corpo fino a che risulta animato
dalla vita. Assorbitacon il respiro, l’energia vitale sarebbe convertita in sette appositi centri, e
distribuita attraverso specifici canali a tutte le parti del corpo. La mano destra è usata dal
pranoterapeuta come mano radiante, la sinistra come mano assorbente. La «medicina manuale»
si pone come l’equivalente, parziale, di pranoterapia e chiroterapia nelle categorie e nella prassi
della tradizione scientifica occidentale, in particolare americana. All’India appartiene anche la
medicina che si richiama all’Ayurveda o «conoscenza della longevità», con un esteso sistema
ospedaliero. Almeno un cenno va fatto alla medicina tibetana o lamaica, dove gli studi del
benedettino Cyrill von Korvin-Krasinski, in particolare La filosofia medica tibetana. L’uomo come
microcosmo[40] rappresentano uno dei pochi, riusciti tentativi di ricostruire un organico sistema
di conoscenze mediche, alternative a quelle occidentali, con le loro profonde radici filosofiche e
cosmologiche. Verso il Giappone conduce la macrobiotica, un conio maldestro dal greco del
giapponese Nyoiti Sakurazawa (1893 – 1966) per indicare la disciplina che dovrebbe condurre a
una lunga vita, attraverso un’alimentazione che bandisca l’uso di additivi sintetici nell’agricoltura
e nell’industria.
All’interno della tradizione occidentale, l’«omeopatia» iniziata da Samuel F.C. Hahnemann (1755
– 1843), radicata peraltro nella tradizione ippocratica e orientata verso un’«arte razionale della
guarigione», è la dottrina alternativa più diffusa e autorevole, ma nei limiti della terapia
farmacologica. Il suo principio terapeutico, assai noto, è il «similia similibus curantur»: ciò che
provoca malattia, in dosi ridotte, infinitesime, induce la guarigione. Ma le diluizioni omeopatiche
del farmaco arrivano all’inesistenza, matematicamente dimostrata, della sostanza: a meno di
ricorrere a ipotesi estreme come la «memoria dell’acqua» del fisico francese Jacques Benveniste,
o la «super-radianza» degli italiani Giuliano Preparata e Emilio Del Giudice: ipotesi fortemente
avversate, ma sostenute, soprattutto la seconda, da studiosi degni di credito. Il dialogo tra
metodologia omeopatica e allopatica rimane aperto con le due correnti dell’odierna omeopatia:
quella umanistica – sudamericana e italiana, e quella biologico-fisica. Da segnalare sull’autorevole
Lancet, nel ’97, una revisione critica, o «meta-analisi», poi contestata, di prove e sondaggi sulle
31
verifiche di validità, effettuati negli anni precedenti: i risultati ottenuti non sarebbero
completamente spiegabili con l’effetto placebo, attraverso autosuggestione, e dovrebbero
ipotizzarsi altre scorciatoie, non ancora individuate, per giustificare l’effetto curativo (pp. 834843). L’americano Office ofalternative medicine, creato nel ’92 all’interno dei National Health
Institutes con la direzione dell’omeopata Wayne Jonas, rappresenta un presidio di oculata
vigilanza, ma anche di giustificata flessibilità, in un ambito forse ricco di promesse nonché,
almeno per il momento, di aleatorietà conoscitiva.
NEUROSCIENZE, CIBERNETICA
Le neuroscienze appartengono al ventesimo secolo: la cellula nervosa s’impone peraltro
all’attenzione di anatomici e fisiologi con Camillo Golgi (1844 – 1926) e Santiago Ramón y Cajal
(1852 – 1934), e il termine «neurone» è proposto nel 1891 da Heinrich G. Waldeyer (1836 –
1921). Ma l’Ottocento aveva fatto ben altro, creando la fisiologia degli organi di senso o
«estesiologia»: un termine uscito dall’uso dopo che si era offuscata l’importanza fondamentale
del suo contenuto. Prima che lo Helmholtz vi apportasse i contributi, già citati, delle due opere
sull’acustica e sull’ottica fisiologiche, c’era stato un momento di alta rilevanza teoretica,
rappresentato dalla cosiddetta «età goethiana». J. Wolfgang Goethe (1749 – 1832) con la Teoria
dei colori[41] aveva vittoriosamente rivendicato la natura soggettiva della qualità cromatica, e la
sua irriducibilità all’analisi prismatica della luce bianca, come sostenuto da Isaac Newton (1642 –
1727) nella memoria del 1672 Nuova teoria della luce e i colori[42]. Il Müller, già citato, aveva
trasferito la soggettività goethiana in oggettività soggettiva, aggiungendovi la sperimentazione
del soggetto su sé stesso, con la Fisiologia comparata del senso della vista nell’uomo e negli
animali[43]. Nel proclamare l’«Ignorabimus» della concezione meccanica del mondo, il du BoisReymond si sarebbe per l’appunto richiamato alla svolta dal quantitativo al qualitativo, e
dall’omogeneo al diverso, avvenuta con la legge sulle «energie specifiche degli organi di senso»,
formulata dal Müller, suo maestro:le diverse aree sensoriali provocano sensazioni distinte –
ciascuna, quella che le è propria -, a prescindere dalla natura dello stimolo. Gli sarebbe invece
sfuggita l’altra innovazione mülleriana, di carattere epistemologico: il passaggio da un’oggettività
esterna al soggetto in oggettività intrinseca alla soggettività, ma capace di tradursi in
affermazione scientifica attraverso l’attività razionale. Con la scoperta dell’organo spirale
dell’orecchio interno, dovuta a Alfonso Corti (1822-1876) e resa nota nel 1851 con le Ricerche
sull’organo dell’udito nei mammiferi[44], il sistema nervoso centrale, prima che sopravvenisse la
scoperta del neurone, aveva mostrato una delle sue mirabili conformazioni strutturali: anche
queste sfuggite all’elettrofisiologo du Bois, eppure degne di rappresentare un ottavo «enigma»,
nell’elenco delle manifestazioni incomprensibili della natura, irricavabili da uno scenario di parti
materiali in reciproco movimento.
Da quanto prima riferito appare chiaro come la neurofisiologia – parlare di neurofisiopatologia
andrebbe oltre l’oggettività storica – abbia rappresentato un’area della biomedicina con
accentuata specificità, come terreno d’incisiva elaborazione teorica, al confine con la gnoseologia.
Per correlare la continuità e la connessione delle attività razionali alla struttura anatomofisiologica del sistema nervoso, Golgi ad esempio sostenne la tesi delle rete interneuronale,
contro l’opposta tesi, poi prevalsa, del Cajal sull’autonomia e polarità dinamica del singolo
neurone. L’esigenza unitaria si sarebbe ridestata con Charles Sherrington (1857 – 1952), autore
di un’opera classica: L’azioneintegrativa del sistema nervoso[45], uscita nei primi anni del nuovo
secolo. «Integrativo», «integrazione»: a tutti i livelli della sua struttura e del suo funzionamento, il
sistema nervoso unisce entità, strumenti e momenti diversi, assumendo il ruolo di paradigma
32
strutturale dell’intero organismo, che ha come esigenza primaria l’unificazione della sua
necessaria diversificazione. Si integrano le unità neuronali attraverso le «sinapsi», la
trasmissione elettrica e la mediazione chimica, la contrazione dei muscoli agonisti e il
rilasciamento dei muscoli antagonisti, entrambi indotti per via nervosa: ancora, si integrano
innervazione periferica e organi effettori. L’integrazione concepita come unificazione conferisce
alla neurofisiologia dello Sherrington quella prerogativa di vetrina dell’organismo vivente, che
per lungo tempo era spettata all’embriologia. Sherrington è un dualista, crede che mente e
cervello siano entità distinte, ma il suo dualismo, a differenza di quello cartesiano, contiene
un’analogia tra i due termini. La funzione integrativa, unificante, del cervello è correlata all’unità
dell’universo mentale e a ciò che la produce: l’essenza sintetica del pensiero. La prima può
fungere da strumento della seconda nella compagine psicofisica del soggetto umano. Uno degli
allievi dello Sherrington, John Eccles (1903-1997), ne riprenderà l’accennato dualismo e
l’esigenza, problematica ma feconda, di unificazione. Con Il Sé e il suo cervello[46], scritto dallo
Eccles in collaborazione con il filosofo Karl Popper (1902-1994), il dualismo dello Sherrington
diventa peraltro «interazionismo»: fisico, psichico e logico. Gli eventi cerebrali diventano
soggettività pensante perché giungono a diramarsi in un’oggettività pura, rivendicata anche
dallamatematica. Ma alla porta delle neuroscienze preme un altro paradigma, il cognitivismo, che
M.S. Gazzaniga compendia in un volume sulle Scienze cognitive[47]: per studiare scientificamente
gli eventi mentali si assume il modello semplificato del «robot», aggiungendovi la plasticità
sinaptica sherringtoniana. Il cognitivismo diventa un torrente in piena, ma la matematica
continua a fare argine, postulando un’oggettività di tipo arcaico, originario, a presidio della mente
che aspiri alla verità formale delle proprie asserzioni. Il solco tra logica e matematica da una
parte, neurologia e psicologia cognitiviste dall’altra, appare incolmabile, e connota la dimensione
problematica della scienza contemporanea.
I grandi numeri sono ormai entrati nell’orizzonte della biomedicina e della stessa neurologia: il
bisogno di correlazione unitaria è primario, ma l’interruzione dei rapporti con la metafisica ne
rende difficile il soddisfacimento. L’austriaco Ludwig von Bertalanffy (1901 – 1972), poi emigrato
in Canada, apre alla «teoria dei sistemi»: ritiene saggiamente che l’unità del vivente debba essere
analizzata e discussa prima della finalità, ma la prospettiva tecnologica appare insufficiente,
limitativa. Ne nascerà tuttavia la «bionica» per lo studio delle funzioni motorie e sensorie degli
organismi viventi, nonché per la loro imitazione con dispositivi elettronici o di altro tipo. Sagoma
dei sottomarini, ecometro, radar, sonar, trasduttori analoghi agli organi di senso, neuroni
artificiali si susseguono, mentre alla teoria dei sistemi succede negli anni Quaranta la «teoria
degli automi» con la sua più generale e organica formulazione, la «cibernetica». Il ricorso al solito
simulatore di evidenza concettuale, l’evoluzione, non impedisce che Norbert Wiener (1894 –
1964) asserisca e riconosca nettamente l’immaterialità di una grandezza destinata a diventare
ubiquitaria nella scienza, l’«informazione». Scrive in Cibernetica[48]: «L’informazione è
informazione, non materia o energia. Al giorno d’oggi, nessun materialismo che non ammetta
questo può sopravvivere.» (p. 177). Dopo il «codice» di Schrödinger, l’ «informazione», elaborata
matematicamente ma non definita da Claude Elwood Shannon in una classica memoria: Teoria
matematica della comunicazione[49], anch’essa uscita nel cruciale ’48 -, segnalava la ricchezza
che la biomedicina avrebbe potuto apportare a un’indagine senza riserve sui fondamenti teoretici
della scienza. Attraverso Shannon e Wiener s’incontrano, e sommano la propria efficacia, due
diverse organizzazioni della ricerca: la «big science» dei Bell Telephone Laboratories e il gruppo
interdisciplinare. La biomedicina è presente con neurofisiologi e cardiologi nella ristretta,
amichevole comunità, dov’è inserito Wiener al Massachusetts Institute of Technology.
L’informazione ha le caratteristiche della scoperta nuova, ancora intuitiva: e il suo assurgere a
nozione primaria in tutte, praticamente, le assiomatiche scientifiche, alcune delle quali impostate
33
con il formalismo matematico, ne indica la determinante importanza. Ma il passaggio nel novero
delle entità che in più riprese abbiamo chiamato «simulatori di evidenza» si manifesta come un
grave rischio, e resta tale cinquant’anni dopo. Evoluzione, informazione, complessità: il loro
mancato approfondimento filosofico toglie alla biomedicina l’occasione d’insediarsi, con una
propria ontologia, metameccanica, in ciò che potremmo chiamare la coscienza dellaconoscenza
scientifica del mondo.
L’ESIGENZA FILOSOFICA
Il pensiero nella medicina [50] è il titolo di un discorso che Hermann Helmholtz tenne a Berlino
nel 1877, e rappresenta oggi una ricca fonte di conoscenze sugli anni che videro affermarsi il
paradigma fisiopatologico della biomedicina e costituirsi, per merito dello stesso Helmholtz, la
fisiologia d’organo. Osservava Helmholtz: «La scoperta di un’idea non si limita a mettere insieme
superficiali somiglianze, ma nasce da uno sguardo che abbia colto la profonda connessione del
tutto (…) » La scienza non può sottrarsi al compito di enucleare quei capisaldi concettuali delle
teorie e quei nuclei centrali delle assiomatiche, la cui funzione è di collegare momenti, aspetti e
parti in una sintesi che a tutto conferisca significato e tutto renda comprensibile. La rinunzia ai
simulatori di evidenza, da qualsiasi fonte siano stati attinti, va di pari passo con l’enucleazione dei
fondamenti, nel senso di caratteristiche determinanti delle evidenze osservate, delle analisi
compiute, degli esperimenti effettuati. E’ sembrato di poter indicare nel nuovo cellularismo,
costituitosi entro l’ambito della biologia molecolare, il fondamento dell’odierna biomedicina e il
vantaggio conoscitivo della tradizione, culminata nella fisiopatologia, sulle medicine alternative.
Nella cellula si è ritenuto d’individuare una caratteristica saliente, la sinergia, intesa come unità
funzionale di una molteplicità tanto numerosa e diversificata di parti attive, da rientrare nello
schema della complessità, rappresentandone l’esempio più probativo. Peraltro sinergia e
complessità della vita non si esauriscono a livello cellulare, ma preludono alle analoghe
manifestazioni nella fisiopatologia di organi e apparati, nonché dell’intero organismo. Unità
sinergica di una complessa molteplicità, morfologica e funzionale: ecco «che cos’è la vita», la
natura che consideriamo vivente perché capace di assimilare sostanze eterogenee, di accrescersi,
di riprodursi e di rispondere agli stimoli in maniera specifica.
Sembra, la vita nella natura, il corollario di un’essenza incondizionata e più alta, e tuttavia essa
introduce nello spazio e nel tempo l’individualità capace di correlarsi ad altro, di ricostituirsi da
altro, di esplicare funzioni e manifestare intenzioni. Il vivente apre uno spiraglio su un essere
precedente il suo darsi e sostanziato di autonomia assoluta. Pensare la biomedicina, per
l’esigenza rispecchiata nella lapidaria formulazione dello Helmohltz, è riflettere anzitutto sulla
possibilità, sulle implicazioni e sul modo d’insorgenza, sul tempo e sullo spazio di una
molteplicità complessa, sinergica, unitaria, e come tale da considerarsi vivente. E’ necessario
tornare al concetto di natura, non si può non farlo. Ma il cammino regressivo dovrà spingersi fino
al concetto della realtà originaria, precedente ogni altra determinazione. Prescindere,
presupporre è un’opzione grave per un’intera cultura, che nelle proprie scelte rischia di
distogliersi dall’archetipo della ragione, intesa come esigenza di un incondizionato comprendere,
per orientarsi verso la formula attenuata, utilitaria o tutt’al più compromissoria, della prassi. Un
duplice «taglio epistemologico» - icastica espressione: «coupure épistémologique», del
razionalista Gaston Bachelard (1884-1962) – ha attraversato il corso della scienza: fra meccanica
moderna e fisica aristotelica, e fra concezione informazionale della natura e meccanicismo. Per il
neurofisiologo du Bois-Reymond, la vita non figurava nell’elenco degli «enigmi»: si trattava pur
sempre di parti materiali con una determinata posizione nello spazio e connotazioni di
34
movimento anch’esse determinate. L’informazione si aggiunge peraltro a due corpi uguali, nel
senso ristretto del du Bois, e li rende diversi in termini di struttura e di proprietà. La domanda, a
cui s’intitola il saggio citato dello Schrödinger, non è retorica: la vita è un problema che
l’intuizione affida all’analisi, e che l’analisi meccanica le restituisce insoluto. Ed è problema che
nel pensiero si acuisce, si esaspera, perché il momento della razionalità – che il du Bois
onestamentericonosceva enigmatico – si presenta all’uomo congiunto con la sua vitalità corporea,
inevidente.
Ritorno, dunque, alla filosofia, dopo il lungo e costruttivo percorso della biomedicina nel
ventesimo secolo. L’etica, affiorata come prepotente esigenza in un sapere mostratosi disposto
adaffrontare con opposte scelte i momenti estremi, nascita e morte dell’esistenza individuale, è
un segnale d’allarme, ma certo non la soluzione del problema metafisico, rappresentato dalla
natura vivente. C’è un retroterra ontologico, che giustifica o squalifica le scelte che il medico e la
società si propongono di compiere. Nella sede civile – giuridica o politica –, la bioetica è portata a
circoscrivere un proprio ambito, autosufficiente: ma i confini di tale autonomia si cancellano,
appena la ragione sopravviene e riapre, con la domanda sull’essenza della vita, un immenso
scenario, cosmologico e ecologico, oltre che antropologico. Il bando ai simulatori di evidenza deve
accompagnarsi a un atteggiamento di sottile e vigile analisi verso teorie in corso di formazione,
perché nuove, elusive proposte non si sostituiscano alle precedenti. Ciò vale, in particolare, per le
vedute sull’«autoorganizzazione» dei sistemi fisici e biologici. In quali limiti e da che cosa si
autoorganizza un sistema? La sinergetica, che dovrebb’essere la teoria scientifica più vicina alla
sinergia, è una termodinamica dei processi irreversibili, che considera – secondo Hermann Haken
– sistemi fisici, chimici e biologici lontani dall’equilibrio termico, dove si verificano processi
qualitativamente nuovi, che non possono aver luogo entro sistemi in equilibrio o prossimi
all’equilibrio. Da dove la novità tragga origine, la sinergetica non dice e neppure ritiene di doverlo
ipotizzare. E invece è proprio questo il problema da affrontare, fino a prospettarne scelte
dilemmatiche e soluzioni alternative. Ricorriamo a un esempio. Il biofisico Pierre Lecomte de
Noüy (1883 – 1947), attivo nella cerchia di Alexis Carrel (1873 – 1944) – iniziatore dei trapianti
d’organo e della cultura in vitro dei tessuti –, affermò che dedurre la vita dal caso è come far
nascere la Divina Commedia da una scimmia, messa alla tastiera di una macchina per scrivere. E
tuttavia la probabilità che ciò accada è infinitesima, ma non nulla, come invece deve accadere per
l’assurdità razionale. Anche l’ipotesi del de Noüy, se altrimenti formulata, poteva ridursi ad
assurdità. Bastava far consistere il poema di Dante non in una sequenza di parole, dunque di
segni alfabetici, ma in una costruzione di significati: il primate dattilografo, come alternativa al
poeta, era escluso in radice. La risposta sulla vita, una risposta coerente a quel che la vita è venuta
dicendoci di sé, spetta a una filosofia disposta a scelte coraggiose – in logica si direbbe
controintuitive -, e alimentata da istituzioni – università, accademie, congressi – che aggreghino
tutta la ricerca e permettano al dialogo di superare, ogni qualvolta necessario, competenze e
confini tradizionali. Perquantoriguarda la bioetica, essa vedrà rafforzata la reverenza che
ispirano comunque e a tutti la nascita, la sofferenza e la morte: e potrà,corroborata
filosoficamente, formulare e giustificare norme di condotta e imperativi inderogabili.
35
[1] DU BOIS-REYMOND E., Gedächtnissrede auf Johannes Müller. Gehalten in der Leibniz-Sitzung
der Akademie der Wissenschaften am 8.Juli 1858, in Reden, II, Leipzig: Veit & C., 1887: 143-334.
[2] HUMBOLDT A. VON,Kosmos, Entwurf einer physischen Weltbeschreibung, (5 vol.),Stuttgart:
Cotta, 1845-1862.
[3] SCHWANN TH., Mikroskopische Untersuchungen uber die Uebereinstimmung in der Struktur
und dem Wachsthum der Thiere und Pflanzen,Berlin: Sander, 1839.
[4] VIRCHOW R., Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und
pathologische Gewebelehre, Berlin: Hirschwald, 1858.
[5] HELMHOLTZ H., Handbuch der physiologischen Optik, I, Leipzig: Voss 1856; II, 1860; III,
1867; IV, 1887; V, 1889; VI-VII, 1892; VIII, 1894; «Schlusslieferung» 1895
[6] ID., Die Lehre von den Tonempfindungen als physiologische Grundlage fur die Theorie der
Musik, Braunschweig: Vieweg, 1863.
[7] DU BOIS-REYMOND E,Die sieben Welträthsel, in Reden, I, Leipzig: Veit & C, 1886: 381-411
[8] ID., Ueber die Grenzen des Naturerkennens, in Reden, II, … p. 105-140
[9] ID., Ueber die Grenzen des Naturerkennens. Die sieben Welträthsel, Leipzig: Veit & C, 18842
[10] BERNARD C., Leçons sur les propriétés des tissus vivants, Paris: Baillière, 1866
[11] ID, Leçons de physiologie expérimentale appliquée à la médecine, (2vol.), Paris:Baillière,
1855-56
[12] ID., Leçons de physiologie opérative, Paris: Baillière, 1879
[13] ID., Introduction à l’etude de la médecine expérimentale, Paris: Baillière 1865
[14] ID., Principes de médecine expérimentale, Paris: Press Un. De France, 1947
[15] ID., Le cahier rouge, Paris: Gallimard, 1942
[16] FREUD S., Quelques considérations pour une étude comparative des paralysies organiques
et histériques, in Archives de Neurologie, 1899, XXVI : 29-43 e in Gesammelte Werke, I,
London :Imago, 1965: 37-55.
[17] FREUD S., BREUER J., Studien über Hysterie, Leipzig-Wien: Deuticke,1895 e in Gesammelte
Werke, I…….: 75-312.
[18] ALEXANDER F., Psychosomatic medicin: ist principles and applications, New York: Norton,
1950.
[19] BALINT M., The basic fault: therapeutic aspects of regression, London: Tavistock
Publications, 1968
[20] WEIZSÄCKER V. von, Natur und Geist. Erinnerungen eines Arztes, Göttingen: Vandenhoeck
& Ruprecht, 1954
[21] AMMON G., Psychonalyse und Psychosomatik, München: Piper, 1974
[22] FREUD S., Hemmung, Sympton und Angst, Wien: Int. Psychoan. Verlag, 1926
[23] JUNG C.G., Wandlungen und Symbole der Libido, Leipzig-Wien: Deuticke, 1912. La quarta
edizione dell’opera, totalmente rielaborata, uscirà nel 1952 presso l’editore Rascher a Zurigo con
il titolo Symbole der Wandlung.
[24] JASPERS K., Allgemeine Psychopathologie, Berlin: Springer, 1913.
[25] LAVOISIER A.L., Traité élémentaire de chimie: presenté dans un ordre nouveau et d’apres
les decouvertes modernes ; avec figures, Paris: Cuchet, 1789
[26] ID., Traité…..pp.226-228.
[27] FUNK C., Die Vitamine: ihre Bedeutung für die Physiologie und Pathologie mit besonderer
Berücksichtigung der Avitaminosen, Wiesbaden: Bergmann, 1914.
[28] RICHET C., L’anaphylaxie, Paris: Alcan, 1911
[29] BURNET F.M., Auto-immunity and auto-immune disease, a survey for physician orbiologist,
Philadelphia: Davis, 1972
36
[30] PAULING L., The nature of the chemical bond,Ithaca: Cornell Univ.Press, 1939
[31] SCHRÖDINGER E., What is life: the physical aspect of the living cell, Cambridge: Univ. Press,
1944.
[32] WATSON J.D., CRICK F.H., Molecular structure of nucleic acids, in Nature, 1953, 171: 737738.
[33] MONOD J., Le hasard et la necessite: essai sur la philosophie naturelle de la
biologiemoderne, Paris: Seuil, 1970
[34] JACOB F., La logique du vivant : une histoire de l’heredité, Paris: Gallimard, 1970
[35] DULBECCO R., Il progetto della vita, Milano: EST Mondadori, 1989
[36] LEWONTIN R., It ain’t necessarly so: the dream of the human genome and other illusions,
New York: New York Review of Books, 2000
[37] SELYE H., The stress of life, New York: McGraw-Hill, 1956
[38] ID., Hormones and resistance, Berlin: Springer, 1971
[39] GWEI-DJEN L., NEEDHAM J., Celestial lancets: a history and rationale of acupunture and
Moxa, Cambridge: Univ. Press, 1980.
[40] KORVIN-KRASINSKI C.von, Die Tibetische Medizinphilosophie: der Mensch alsMikrokosmos,
Zürich: Origo Verl., 1953
[41] GOETHE W.J., Zur Farbenlehre, Tübingen: Cotta 1810
[42] NEWTONI., New theory about lights and colours, in Philos.Trans.R.Soc.London, 1672, 80:
3075-3087.
[43] MÜLLER J., Zur vergleichenden Physiologie des Gesichtssinnes des Menschen und der
Thiere. Nebst einem Versuch über die Bewegung der Augen und über den menschlichen Blick,
Leipzig: Cnobloch, 1826
[44] CORTI A., Recherches sur l’organe de l’ouie des mammifères, in
Zeitschr.f.wissenschaftl.Zool., 1851
[45] SHERRINGTON C., The integrative action of the nervous system, New York: Scribner, 1906
[46] ECCLES J., POPPER K.R., The self and its brain, New York: Springer International, 1977
[47] GAZZANIGA M.S., The cognitive neuroscience, Cambridge, Mass.: MIT Press, 1995
[48] WIENER N., Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine, New
York: Wiley, 1948
[49] SHANNON C.E., A mathematical theory of communication, in Bell SystemTechnology Journal
Urbana, 1948, 27: 379-423 e 623-656; in volume con il titolo The mathematical theory of
communication, Urbana: University of Illinois Press, 1949
[50] HELMHOLTZ H., Das Denken in der Medizin, (1877), in Vorträge und Reden, II,
Braunschweig: Vieweg, 19035: 165-190.
37
MÓNICA LÓPEZ BARAHONA
RECENTI PROGRESSI IN TEMA DI BIOLOGIA MOLECOLARE
CON UN IMPATTO DIRETTO SULLA VITA UMANA
INTRODUZIONE
La biologia, può essere definita come un’area di studio, che si occupa di tutti gli aspetti fisicochimici della vita. Poiché la biologia comprende molti argomenti, per comodità di studio, è stata
suddivisa in aree separate.
La biologia molecolare rappresenta una di queste branche; in verità, attualmente la biologia è
spesso affrontata sulla base di vari livelli, che si occupano di unità fondamentali degli organismi
viventi.
A livello della biologia molecolare, la vita è spesso considerata come una manifestazione delle
trasformazioni chimiche ed energetiche, che si verificano tra i vari componenti chimici che
costituiscono un organismo. Così come il 19º secolo può essere considerato l’epoca della biologia
cellulare, il 20º secolo è stato caratterizzato dai progressi in tema di biologia molecolare.
In realtà, la biologia molecolare ha rappresentato un’area di conoscenza che ha vissuto una
rivoluzione drammatica , durante gli ultimi due decenni. E’ veramente difficile riassumere tutti i
progressi che tale area ha ottenuto. Comunque, alcune di queste conquiste hanno una particolare
ripercussione sulla vita umanae quindi si dimostrano particolarmente importanti per
l’Accademia per la Vita.
La genetica molecolare e la biologia cellulare sono le aree della biologia molecolare, nelle quali
sono state acquisite le conoscenze più rivoluzionarie. In entrambi i campi si possono trovare le
questioni critiche della ricerca, che coinvolgono direttamente la vita umana.
La genetica molecolare, comprende lo studio della natura molecolare del gene e il meccanismo
con cui i geni controllano l’attività della cellula.
Sulla base di tale natura molecolare dei geni, la loro sequenza può essere determinata e la
funzione delle proteine che essi codificano predetta.
La biologia cellulare, è lo studio della fondamentale unità strutturale e funzionale dell’organismo
vivente: la cellula.
Si può dire che tale studio è iniziato nel 17º secolo, con l’invenzione del microscopio composto.
Anche se il maggiore splendore è stato raggiunto nel 19º secolo, la fine del 20º secolo e l’inizio del
21º sono di grande importanza per tale area.
GENETICA MOLECOLARE: UNA DELUCIDAZIONE SU ALCUNE IMPLICAZIONI DEL GENOMA
UMANO
Probabilmente il progresso più spettacolare , ottenuto l’anno scorso, nel campo della ingegneria
genetica, è stato la codificazione della sequenza del genoma umano, [1] che era stato ottenuto
alcuni anni prima di quanto fosse previsto.
Il fatto di conoscere la sequenza del genoma umano, offre un potente strumento alle altre aree
della scienza biologica e una via speciale all’interno della medicina.[2]
In tutto il mondo alcuni laboratori stanno attualmente lavorando per chiarificare la mappa del
genoma umano e codificare la sequenza del genoma stesso, in modo tale da mettere in codice
tutte le differenti proteine che unificano un essere umano.
38
In realtà, il campo degli studi sul genoma sta attualmente aprendo vie di notevole interesse,
versogli studi proteomici e ci si aspetta che il proteoma umano venga decifrato abbastanza
presto.
L’attuale conoscenza del genoma umano apre la possibilità di predire l’andamento di certe
malattie ( soprattutto di quelle che hanno una origine genetica ).
Il cancro è una delle malattie con una chiara origine genetica e non vi è alcun dubbio che la
conoscenza di tale patologia stia migliorando grazie alle straordinarie tecniche di
sequenziamento, che permettono di evidenziare i frammenti di DNA.[3]
Per esempio, siamo in grado di classificare nuovi tipi di tumore, secondo il loro modello genico di
espressione e tale classificazione permette di stabilire una migliore diagnosi e di elaborare, in
molti casi, una terapia personalizzata.
Tale informazione, che riguarda l’evoluzione di una malattia, offre nuovi approcci terapeutici e
sta trasformando la medicina attuale in una medicina predittiva e personalizzata.
Tuttavia l’identificazione dei geni implicati in alcune malattie, permette nello stesso tempo di
classificare la popolazione sulla base del proprio genoma e di stabilire categorie di pazienti a
rischio di sviluppare determinate malattie.
In confidenza, a questo punto, esiste un problema molto importante, perché il fatto di sapere che
una determinata persona possiede alcuni geni mutati e, quindi, ha un alto rischio di sviluppare
per esempio un cancro, può avere una influenza sulla polizza assicurativa o sulla sua situazione
professionale.
Una discriminazione basata su un possibile determinismo genetico, rappresenta una
problematica etica molto importante, che appare come una conseguenza della informazione che
la conoscenza del genoma umano porta con sé.
Esistono due diritti, chedovrebbero essere considerati e che potrebbero determinare importanti
conflitti discriminativi: Il diritto della compagnia assicurativa di avere informazioni circa il suo
assicurato o il diritto della compagnia di avere informazioni riguardo la salute dei suoi
dipendenti. Il diritto di riservatezza circa le informazioni di carattere genetico, relative ad un
individuo.
E’ fondamentale prendere in considerazione il fatto che un essere umano non è soltanto un
insieme di geni, molto ben organizzati e che la sua storia, persino la storia clinica di una persona,
non è solamente scritta nei suoi geni.
L’uomo è corpo e anima e i geni non determinano il suo comportamento, neanche un suo
comportamento clinico.
La Dichiarazione dei Diritti Umani, sottolinea con chiarezza che: « Una persona non può essere
discriminata sulla base del proprio sesso, razza, religione o codice genetico ».[4]
Purtroppo, costantemente assistiamo alla violazione di tale principio, per esempio nella pratica
eugenetica delle cliniche della fecondazione in vitro, che seleziona gli embrioni di sesso maschile
che possono essere affetti da emofilia.
Non è questa una discriminazione di tipo genetico? Un altro quesito interessante può derivare dal
fatto che il progetto genoma umano rappresenta la possibilità di “brevettare” i geni.
Quando un brevetto viene discusso, è importante distinguere tra due concetti: invenzione e
scoperta. Inventare, significa introdurre qualcosa di nuovo nell’esistenza. Scoprire, comporta il
trovare qualcosa che già preesiste, ma che risulta ancora non ben conosciuto ( Newton ha
scoperto la legge di gravità ).
Inventare, indica la fabbricazione come risultato dell’esperimento, dello studio o
dell’ingegnosità[5]. Basandosi su tale definizione, la sequenza del genoma umano non è
un’invenzione, ma una scoperta e, quindi, non dovrebbe essere brevettata, perché essa
appartiene all’umanità.
39
Tuttavia, certi geni possono avere una utilità terapeutica o possono essere usati come markers
prognostici o come markers diagnostici.
La reale utilità dei geni non è più una scoperta, è una invenzione e dovrebbe essere considerata
come ogni altro composto, che funge da marker per la diagnosi o l’evoluzione di certe malattie e,
quindi, potrebbe essere brevettata.
Insieme con il progetto del genoma umano, altri genomi di specie diverse sono stati sequenziati e
la possibilità di transgenesiè stato oggetto di molti dibattiti.
Gli organismi, che hanno inseritti nel loro genoma geni provenienti da altre specie ( l’intero
complemento dei geni di un organismo ), vengono chiamati trangenici. Usando queste tecniche,
sono state generate parecchie piante, animali e alimenti.
Per esempio, la produzione di piante transgeniche resistenti all’agente patogeno, sono state
ottenute attraverso tale metodologia, o proteine umane che hanno un utilizzo terapeutico, sono
state prodotte dagli animali.
Come abbiamo già accennato, non possiamo ridurre un essere ai suoi geni, specialmente nel caso
delle persone umane, dove la componente spirituale ha l’importanza che tutti conosciamo.
Al contrario, l’impiego degli animali come fattori biologici non pone grandi problematiche etiche.
La preoccupazione, riguardo i possibili pericoli della trangenesi, è molto spesso polarizzata a
causa dei diversi interessi economici o politici.
Con una appropriata regolazione, tale tecnica mantiene la grande promessa, di raggiungere
sostanziali progressi, in particolare nel campo della agro-biotecnologia.
Basandosi sulla conoscenza della sequenza di alcuni geni, appartenenti al genoma degli animali
da laboratorio, oggigiorno la generazione di animali da combattimento è una tecnica ben
dimostrata, che ha offerto la possibilità di studiare la funzione, in vivo, di un gene reale,
eliminandolo dal genoma dell’animale.
BIOLOGIA CELLULARE: IMPLICAZIONI DELLA CLONAZIONE
La manipolazione del genoma e le tecniche usate per la generazione di animali da combattimento
e di animali transgenici,sono gli stessi strumenti utilizzati nella generazione degli animali clonati.
Tale meccanismo generativo degli animali clonati, è probabilmente uno degli esperimenti più
spettacolari dello scorso secolo ed ha rappresentato una vera e propria rivoluzione per la
biologia cellulare classica.
Crediamo che la possibilità di generare embrioni umani, usando le tecniche già utilizzate negli
animali, abbia una conseguenza direttasulla vita umana edimplicazioni etiche molto importanti,
per tale motivo, descriveremo nei dettagli la questione della clonazione.
La clonazione, significa essenzialmentegenerare strutture genetiche identiche. Sebbene, esistano
vie diverse, per ottenere la clonazione, noi analizzeremo in tale sede, la clonazione attraverso il
trasferimento del nucleo.
La tecnica del trasferimento nucleare, è stata utilizzata sin dal 1938 in embriologia, ma non
comenel 1997, quando tali tecniche acquisirono un significato universale, con la pubblicazione,
da parte di W. I. Wilmuth et al., della generazione della prima pecora clonata, di nome Dolly,
usando la tecnica sopramenzionata.[6]
La tecnica di trasferimento nucleare, consiste nella generazione di uno zigote, attraverso una
riproduzione di tipo non sessuale.
Si usa un’oocita, nel quale è stato rimosso il nucleo e si trasferisce tale oocita denucleato, in
un’altra cellula somatica o cellula embrionale, che contiene il genoma completo.
40
Il genoma viene ri-programmato all’interno dell’oocita ed è in grado di indirizzare l’intero
sviluppo embrionale, quando tale zigote viene trasferito all’interno dell’utero.
E’ importante ricordare che il genoma è uguale in tutte le cellule somatiche, che collegano i vari
tessuti ed organi ed è anche lo stesso genoma dello zigote che ha generato tali organi e tessuti,
tuttavia non tutti i geni che integrano il genoma vengono ugualmente espressi in tutte le cellule,
ogni cellula esprime soltanto i geni di cui la cellula stessa ha bisogno per la sua funzione.
La percentuale di successo di questa via di riproduzione non risulta elevata e varia da specie a
specie.
Ad esempio, per generare la pecora Dolly è stato necessario usare 277 oociti. Questa possibilità di
ri-programmare il genoma non è esclusivo dello zigote. E’ stato dimostrato che l’ambiente è
essenziale per l’attivazione dell’espressione dei geni e ci sono alcuni lavori importanti,che
rivelano come le cellule staminali adulte possono essere ri-programmate, per generare cellule
che non appartengono alla stessa linea cellulare.
Generalmente, si pensava che le cellule staminali adulte erano in grado soltanto di generare
cellule della propria linea cellulare e quindi che erano multipotenti, tuttavia molti esperimenti
dimostrano che la loro potenza è più elevata di quanto si pensa e che si comportano, in molti casi,
come cellule staminali pluripotenti.
Questo è stato dimostrato –in vitro- aggiungendo alla loro diversa differenziazione e/o i fattori di
crescita;[7-8] o –in vivo- trapiantandoli in diversi tessuti o organi. [9-10-11-12] Tutto ciò, ha
aperto nuove possibilità per le terapie di alcune patologie degenerative, nelle quali la
rigenerazione dei tessuti può essere fondamentale.
Tuttavia, le cellule staminali dell’adulto non sono il solo tipo di cellule nelle quali la
differenziazione può essere indotta, ma tutto questo può essere fatto anche con le cellule
staminali embrionali, come è stato già descritto.[13-14]
Tutte le questioni menzionate, hanno stabilito le basi per rendere possibile la cosiddetta
clonazione terapeutica.
La clonazione terapeutica, consisterebbe nella generazione di embrioni umani -in vitroattraverso il trasferimento nucleare, allo scopo di mantenerlo in vita per 7 giorni ( fino al
momento in cui l’embrione acquisisce lo stato di blastocisti ) e di distruggerlo dopo questo
periodo, al fine di ottenere le cellule staminali embrionali dalla blastocisti e differenziarle, in
vitro, tentando di avere differenti tipi di tessuto, che dovrebbero essere immunologicamente
compatibili con il donatore del genoma , che ha fecondato l’oocita, attraverso il trasferimento
nucleare.
Questa pratica, dovrebbe essere un esempio, non soltanto di distruzione di vite umane, ma anche
di generazione di vite, a partire da un certo genoma, al solo scopo di utilizzarle.
Dovrebbe essere un chiaro esempio di utilitarismo. E’ necessario ricordare in tale sede che, in
molti paesi, ci sono diversi embrioni congelati, prodotti per la fecondazione in vitro, che
potrebbero anche essere usati per la ricerca, laddove la legge lo permetta.
Questi embrioni rappresentano, ovviamente, una fonte di cellule staminali embrionali.
Inoltre, per le implicazioni etiche descritte a proposito della clonazione, dovremmo anche
ricordare che tale tecnica apre la possibilità della generazione di ibridi inter-specie.
Il ruolo del biologo molecolare, nella società, oltre alla sua responsabilità morale ed etica, nella
ricerca e nello sviluppo di nuove idee, ha condotto ad una revisione della gerarchia, sociale e
scientifica,dei valori.
Uno scienziato, non può più ignorare le conseguenze delle sue scoperte.
La scienza deve agire per il bene dell’essere umano, altrimenti sarà un tipo di scienza che porterà
al degrado della umanità, invece di aiutarla a progredire.
41
La scienza di base, è chiamata a cercare la verità attraverso una via corretta , senza attentati ai
valori umani essenziali, come la vita: il dono più prezioso che abbiamo.
[1] J.C. VENTER, M.D. ADAMS, E.W. MYERS, et al, The Squence of the Human Genome. Science Vo.
291, 16 February 2001. Pag. 1304-1351
[2] D.R. BENTLEY, P. DELOUKAS, A. DUNHAM, et al. , The physical maps for ssequending human
chromosomes, 1,6,9,10,13,20 and X, Nature VO. 409, 15 February 2001. Pag. 942-958.
[3] O. ERMOLAEVA, M. RASTOGI, K. D. PRUITT et al. Data management and analysis for gene
expression arrays.Nature Genetics 20, 23 September 1998, 19-23.
[4] HUMAN RIGHTS DECLARATION. 1997
[5] Webster`s New Encyclopedic Dictionary. 1993
[6] CAMPBELL, K.H.S., Mc WIR, RITCHIE, W. WILMUT, I., Sheep cloned by nuclear transfer from a
cultured cells line,Nature, vol. 385, 810-813, 27 de febrero de 1997.
[7] PITTENGER et al., Multineage potential of adult mesenchymal stem cells. Science, 284, 143147. 1999
[8] COLTER, D. et al.,Rapid expansion of recycling stem cells in cultures of plastic-adherent cells
from human bone marrow”, Proceedings of the National Academy of Sciences, 97, 3213-3218.
2000.
[9] BJORNSON, C.R., RIETZE, R.L., REYNOLS, B.A., MAGLI, M.C. y VESCOVI, A.L., Turning brain into
blodd: a hematopoietic fate adopted by adult neural stem cells in vivo. Science, 283, 534-537. 1999
[10] MEZEY, E., CHANDROSS, K. J., HARTA, G., MAKI, R. A. y MCKERCHER, S.R., Turning blood into
brain: cells bearing neuronal antigens generated in vivo from bone narrow”. Sicence, 290, 177791782. 2000
[11] BLACK, I.B., PROCKOP, D.J. et al., Adult rat and human bone marrow stromal cells differentiate
into neurons.Journal of neuroscience Research, 61, 364-370. 2000
[12] CLARKE D.L., JOHANSSON C.B., WILBERTS, J., VERESSE, B., NILSSON, E., KARLSTROM, H.,
LENDAHL, U. Y FRISEN, J., Generalized potential of adult neural stem cells. Science 288
(5471):1660-3. 2000 jun. 2
[13] EVANS, M.J., KAUFMAN, M.H. Establishment in culture of pluripotential cells from mouse
embryos. Nature, 292, 154-156. 1981
[14] THOMSON, J.A. et al., Embryonic stem cell lines derived from human blastocysts. Science, 282,
1145-1147. 1998
42
ANGELO VESCOVI
CELLULE STAMINALI CEREBRALI:
STABILITÀ FUNZIONALE, PLASTICITÀ E POTENZIALE TERAPEUTICO
La recente scoperta che il sistema nervoso centrale (SNC) contiene regioni neurogeneticamente
attive che sono ricche di cellule staminali cerebrali (NSCs) ha stimolato una plethora di nuovi
studi finalizzati ad investigare sia gli aspetti prominenti della fisiologiadi base delleNSCs che la
loro applicazione potenziale nell’ ambito della terapia delle malattie neurologiche. Le NSCs sono
precursori neurali multipotenziali che si moltiplicano ed autorinnovano in coltura per periodi di
tempo significativi in risposta alla loro esposizione a fattori di crescita specifici. Recentemente, é
stato suggerito che le NSCs siano soggette a rapida trasformazione in coltura e che questo fatto
rappresenterebbe un ostacolo al loro utilizzo in ambito terapeutico per le malattie
neurodegenerative. Inoltre,é stato proposto che questo fenomeno di rapida trasformazione
sarebbe alla base della capacità delle NSCs di transdifferenziare, una proprietà che non sarebbe
quindi intrinseca alle NSCs .
Questa presentazione é tesa a discutere dati recenti del nostro gruppo di lavoro che descrivono il
comportamento delle NSCs durante la loro coltivazione per lunghi periodi di tempo ,
dimostrando come queste cellule non sono assolutamente soggette a trasformazione e come esse
siano di fatto dotate della capacità di dare origine a cellule di origine non-neurale, e cioé di
transdifferenziare. In questo contesto, le NSCs non mostrano alcun segno di trasformazione a
passaggi di coltura sia precoci che molto tardivi.La capacità di autorinnovamento delle NSCs –
vale a dire la loro capacità di riprodurre nuove NSCs continuativamente – non cambia nel tempo
e non si osservano anomalie cromosomiche fino a 30 passaggi in vitro. Le NSCs mostrano un
potenziale di crescita stabile per molti mesi e, dopo la rimozione dei mitogeni dal terreno di
coltura, smettono di dividersi mitoticamente e, prontamente, differenziano in neuroni e glia con
frequenze del tutto stabili e riproducibili. Inoltre, una analisi della loro risposta a citochine di
varia identità, dimostra come sia possible influenzare il differenziamento delle NSCs in modo che
almeno il 50%della loro progenia matura sia composta da neuroni.
Inoltre, verrà discusso il risultato di studi recenti che confermano che le NSCs possiedono la
capacità di dare origine a cellule non-neurali e cioé mesodermiche, dimostrando che il fenomeno
del transdifferenziamento non dipende dalla trasformazione delle NSCs in coltura. Infine,
verranno presentate evidenze sperimentali che dimostrano l’assenza di un potenziale
tumorigenico delle NSCs e la loro impressionante capacitàdi integrazione nel SNC a supporto di
una elevata potenzialità di queste cellule in ambito terapeutico per le cura delle malattie del
cervello.
Dopo anni di acceso dibattito, si é ormai finalmente affermato il concetto che alcune
sottopopolazioni di neuroni siano soggette a ricambi nell’ ambito della vita adulta. Questo
concetto fornisce chiaro supporto all’ idea che il processo neurogenetico si continui per tutta la
vita, implicando quindi la presenza di NSCs nell’ambito di alcune regioni cerebrali. Nel cervello
dei mammiferi adulti la genesi di nuovi neuroni é stata evidenziata nell ippocampo e nel bulbo
olfattivo. In particolare, nel bulbo olfattivo, nuove cellule neurali vengono continuamente
prodotte da NSCs che sono localizzate nella regione subventricolare dei ventricoli telencefalici
(SVZ) e raggiungono la loro destinazione nel bulbo dopo una migazione di alcuni millimetri (Lois
and Alvarez-Buylla, 1994). In relazione alla novità sottesa al concetto di neurogenesi adulta ed
alle ovvie e stimolanti potenzialità terapeutiche che sacturiscono dall’ esistenza di cellule
staminali cerebrali adulte, questo settore di studio é andato espandondosi in modo esponenziale.
43
Tuttavia, lavorando con un tessuto così complesso come quello del sistema nervoso centrale
(SNC), sisono incontrate alcune serie difficoltà tecniche e ad oggi alcuni aspetti riguardanti la
fisiologia delle cellule staminali neurali rimangono ancora da chiarire.
Alcuni dati recentemente pubblicati in letteratura suggeriscono che è possibile utilizzare alcuni
marcatori proteici quali l’agglutina delle arachidi, l’antigene stabile del calore, l’antigene SSA1 per
identificare le cellule staminali neurali isolate in acuto (Rietze et al., 2001; Capela and Temple,
2002); nonostante cio’, l’identificazione univoca di cellule staminali neurali risulta essere ancora
difficoltosa.Inizialmente, le cellule staminali neurali sono state studiate e caratterizzate come
modelli cellulari cresciuti in sistemi in vitro ben definiti.Questo approccio sperimentale ha
permesso di identificare l’esistenza di cellule di derivazione nervosa in grado di auto-rinnovarsi e
di dare origine a diversitipi di cellule altamente differenziate, tutte caratteristiche tipiche delle
cellule staminali bona fide (Gritti et al., 2002). Sebbene le cellule staminali neurali condividano
con le cellule staminali di altri tessuti la capacità di rifornire continuamente l’organismo di nuove
cellule differenziate, esse posseggono anche alcune caratteristiche peculiari che le differenziano
delle altre cellule staminali.Per esempio, a differenza delle cellule staminali ematopoietiche, le
cellule staminali neurali posseggono una capacità proliferativa illimitata se cresciute in un
terreno di coltura abbastanza semplice, come quello senza siero.Questa caratteristica ha
permesso l’isolamento di linee di cellule staminali neurali – anche di origine umana – che sono
utilizzate nello studio del potenziale terapeutico delle cellule staminali stesse nella cura delle
malattie neurodegenerative.Inoltre i modelli sperimentali di colture cellulari di staminali neurali
hanno suggerito l’idea che queste celllulepotrebbero non sviluppare tutte le loro potenzialità di
differenziamento negli organi in vivo. Infatti molte evidenze sperimentali hanno dimostrato che le
cellule staminali neurali cresciute in terreno di coltura, posseggono ungrado di plasticità più
elevato di quello riscontrato in vivo, probabilmente a causa di un effetto “di silenziamento” a cui
sono sottoposte le cellulenel micro-ambiente cerebrale.
Un esempio di questa elevata plasticità è stata evidenziata con studi in cui cellule staminali
neurali erano in grado di dare non solo di dare origine a cellule ematopoietiche o muscolari , ma
anche di integrarsi in qualsiasi tessuto se trapiantate in sistemi ematopoietici rigeneranti, o in
muscoli danneggiati o in blastocisti murine in via di sviluppo (Frisen, 2002).
Questo suggerisce che nell’elevata potenzialità di sviluppo delle cellule staminali neurali
potrebbe essere compresa anche capacità di trans-differenziare per dare origine a cellule che
appartengono a tessuti di origine embrionale diversa.
Nel 1999, alcune evidenze sperimentali del nostro laboratorio hanno confermato le capacità di
transdifferenziamento delle staminali, dimostrando che cellule staminali neurali clonali sono in
grado di dare origine a cellule ematopoietiche quando vengono trapiantate in vivo in un modello
murino adulto (Bjornson et al, 1999).
In questi esperimenti, una progenie di cellule staminali neurali che costitutivamente
esprimevano la galactosidasi (il prodotto del gene batterico lacZ) sono state iniettate in topi
recipienti irradiati con dose sub-letali. Non solo le cellule staminali neurali iniettate si sono
integrate nei tessuti ematopoietici quali milza, timo e midollo osseo dei topi recipienti, ma hanno
anche dato origine a molti dei precursori ematopoietici che sono stati in grado di differenziare in
quasi tutti i tipi cellulari presenti nel sangue, inclusi megacariociti, granulociti, macrofagi, linfociti
B e T: Non sono stati invece identificatiglobuli rossi originati dalle cellule neurali
transdifferenziate. Sebbene non descritti nel lavoro iniziale,il trapianto di cellule staminali
neurali ha aumentato la vitalità degli animali recipienti suggerendo che le cellule staminali
neurali trandifferenziate nei precursori ematopoietici sono capaci di ricostituire parzialmente
l’ematopoiesi dell’animalericevente irradiato con dose letale (dati non pubblicati).
44
Bisogna inolte sottolinare come ad oggi la conversione neuro-ematopoietica è stata
elegantemente documentata anche utilizzando cellule staminali neurali di origine umana. Queste
cellule sono state iniettate in animali riceventi SCID-Hu, precedentemente trapiantati con midollo
osseo e frammenti timici umani, al fine di fornire dei microambientimidollari e timici
sufficientemente fisiologici per ricevere le cellule trapiantate.In queste condizioni, le cellule
staminali neurali umane sono state in grado di contribuire all’ematopoiesi dell’animale ricevente,
come dimostrato da esperimenti di ricostituzione (Shih et al., 2001).
Un ulteriore affascinante approfondimento delle scoperte appena descritte, deriva
dall’osservazione di come le cellule staminali neurali iniettate in blastocisti murine siano capaci
di integrarsi in molti tessuti derivati dai tre foglietti germinativi embrionali (Clarke et al., 2000).
Curiosamente, in questo lavoro non è stato osservato un contributo delle cellule staminali neurali
iniettate in certi tessuti di origine mesodermica, quali il sangue e i muscoli scheletrici.Tuttavia,
successivamente è stato dimostrato che le cellule staminali neurali umane e murine, sono in
grado di transdifferenziare in cellule muscolari scheletrici, sia in vivo che in vitro (Galli et al.,
2000).
Alcune peculiari circostanze sembrano essere necessarie per l’espressione di cio’che costituisce
un latente, ma generalizzato potenziale di sviluppo delle cellule staminali neurali. Due principali
fattori sembrano essere necessari per il transdifferenziamento neuro-mesodermico. Inanzittutto,
solamente le cellule staminali neurali bona fide sono in grado di transdifferenziare. Come
descritto in Galli et al. (2000), possono transdifferenziare solo cellule staminali derivate dalla
zona subventricolare del cervello (SVZ), ma non quelle derivate da altre aree che non contengono
cellule staminali, come per esempio lo striato e la corteccia celebrale. Questo dato è stato
confermato anche da esperimenti di Rietze et al. (2001), in cui si evidenzia che arricchendo le
colture cellulari con cellule staminali neurali che esprimono alcuni marcatori di superficie (PNAlo
/HSAlo), il fenomeno del transdifferenziamento può essere incrementato da un 2.5% ad un
incredibile 57%.Non solo, anche quando le progenie differenziate di cellule staminali neurali
sono sottoposte agli stessi segnali capaci di indurre il fenotipo miogenico in colture arricchite con
cellule staminali neurali indifferenziate, non si osserva alcun fenomeno di transdifferenziamento.
Questi risultati sono ulteriormente confermati da dati recenti che evidenziano come la
totipotenza delle cellule staminali diminuisca sempre più con l’aumentare del differenziamento.
E’ possibile speculare che per intraprendere il transdifferenziamento, le cellule staminali neurali
devono essere esposte ad un microambiente che possiede segnali istruttivi alquanto peculiari.
Considerando che è stato dimostrato che le cellule staminali del sistema nervoso sono in grado di
colonizzare i foglietti germinativi durante i primi stadi della gastrulazioine (Clarke et al., 2000),
di rigenerare sia il tessuto ematopoietico (Bjornson et al., 1999) che quello muscolare (Galli et al.,
2000), che le cellule staminali del midollo osseo possono ricostituire tessuti muscolari ed epatici
danneggiati (Ferrari et al., 1998; Theise et al., 2000), è possibile postulare che i segnali istruttivi
possono manifestarsi specificamente durante la fase rigenerativa che segue un danno tissutale o
alternativamente che accompagna lo sviluppo embrionale. Purtroppo si conosce molto poco
sull’identità e sulla natura di questi segnali responsabili del cambiamento del destino delle cellule
staminali neurali.Uno degli ostacoli più importanti nell’identificazione di questi segnali dipende
dal fatto che la maggior parte dei modelli sperimentali usati sono basati su saggi in vivo. Ad oggi
sono finalmente disponibili alcuni modelli in vitro per studiare la conversione neuromesodermica al fine di interpretare e comprendere meglio i meccanismi molecolari sottesi al
fenomeno del trensdifferenziamento.Utilizzando questi modelli, è emerso che la conversione
neuro-mesodermicapuò essere osservata solo quando cellule staminali neurali sono cresciute in
sistemi di co-colture, in presenza cioè di cellule miogenichedella linea C2C12 o di mioblasti
primari, ma mai quando sono cresciute in presenza di cellule non-miogeniche.Di notevole
45
importanza il fatto che la conversione neuro-miogenicarichiedail contatto diretto cellula-cellulae
non avvenga quando le cellule neurali e quelle miogeniche sono separate fisicamente per mezzo
di una membrana porosa, né quando le cellule staminali neurali sono cresciute con terreno
condizionato da cellule muscolari.
Inoltre, è evidente che durante il fenomeno della conversione neuro-miogenica si realizza una
fine orchestrazione di segnali antagonisti. Infatti l’induzione del fenotipo muscolare esercitato
sulle cellule neurali è controbilanciato da alcuni segnali “neutralizzanti” che vengono trasmessi
dalle cellule neurali stesse, un fenomeno che può essere interpretato come un classico “effetto
comunità” (Gurdon et al., 1993). Si puo’ concludere quindi che un insieme di segnali istruttivi
piuttosto che un unico segnale effettore sembra controllare il passaggio da un destino neurale ad
uno mesodermico. In vivo, questi segnali possono essere contenuti sia nel microambiente
extracellulare che viene perturbato e alterato durante un danno tissutale e sia possono essere
indotti e rilasciati in seguito ad un contatto diretto cellula-cellula che avviene tra le cellule
riceventi e quelle donatrici.
Un dubbio legittimo su gli studi di transdifferenziamento riguarda la seguente domanda: le
cellule transdifferenziate acquistano veramente un fenotipo differenziato e funzionale o piuttosto
limitano l’espressione di alcuni geni e di alcuni tratti antigenici specifici per la morfologia di un
foglietto germinativo (Weissman et al., 2001). Indubbiamente l’ argomento richiede studi più
approfonditi, ma ad oggi sono disponibili esempi di conversione bona fide di cellule staminali
neurali in cellule mesodermiche funzionalmente mature. Infatti è stato dimostrato con studi di
ultrastruttura che i miotubi derivati da cellule staminali neurali sono dei sincitia polinucleati,
chiara indicazione di differenziamento terminale. Inoltre questi miotubi contengono strutture
sarcomeriche che presentano sia bande M che bande Z (Galli et al., 2000).
Se il concetto che cellule di un dato tessuto possono dare origine a cellule di un altro tessuto di
diversa derivazione embrionale è stato esteso a molti tipi cellulari adulti (Frisen, 2002), questo
fenomeno è stato messo in discussione da alcuni recenti dati presentati in letteratura (referenze).
In particolare studi condotti da Morshead et al. (2002) evidenziano l’impossibilità di generare
progenie ematopoietiche da cellule staminali neurali iniettate in topi irradiati. Sebbene questi
studi siano stati descritti come identici ai nostri esperimenti iniziali, le caratteristiche funzionali
delle cellule staminali neurali descritte da questi autori sottolineano chiaramente che le colture
cellulari usate erano prive di cellule staminali ed erano costituite prevalentemente da cellule
giàdifferenziate. Il lavoro di Morshead è in aperta contraddizione con una sovrabbondanza di
lavori pubblicati precedentemente che dimostrano come né le cellule staminali neurali umane né
quelle murine si trasformano in coltura, ma piuttosto conservano una stretta dipendenza dai
fattori di crescita presenti nel terreno, mantengono costante la cinetica di crescita e differenziano
velocemente quando sono rimossi i fattori di crescita (Reynolds et al., 1996; Gritti et al., 1999;
Vescovi et al., 1999; Galli et al., 2002). Come già ricordato in precedenza, la percentuale di cellue
staminali neurali, definita per mezzo di un classico saggio clonogenico, era inferiore di almeno 20
volte nel lavoro di Morshead se confrontato con i nostri dati. Quindi, la combinazione della
presenza di un basso numero di cellule staminali neurali e di un significativo grado di
trasformazione delle cellule utilizzate ha portato al trapianto di un numero insignificante di
cellule staminali neurali e di per sé spiega il fallimento di questi esperimenti nel coneguire
esempi di conversione neuro-ematopoietica, che sono invece stai dimostrati ad oggi da tre gruppi
indipendenti (Bartlett, 1982; Bjornson et al., 1999; . Shih et al., 2002)
Recentemente, è stato dimostrato che sia le cellule staminali neurali che quelle del midollo osseo
posseggono la capacità di fondere con altre cellule ed originare delle cellule tetraploidi che
esprimono molti dei marcatori caratteristici di cellule di derivazione embrionale diversa da
quella neurale o ematopoietica (Ying et al., 2002; Terada et al., 2002). A questo proposito deve
46
essere tenuto in considerazione il fatto che in entrambi gli studi la fusione cellulare è stata
osservata in celllule staminali embrionali, che non sono tuttavia presenti nella vita adulta di un
organismo.
Inoltre, la frequenza riscontrata degli eventi di fusione è significativamentebassa, compresacioè
tra 10-5 e 10-6. E’ possibile postulare che l’acquisizione di un fenotipo non-neurale da parte di
cellule staminali neurali possa essere il risultato di una fusione cellulare? Considerando che la
frequenza di transdifferrenziamento riportata nei vari lavori è più elevata di due ordini
logaritmici di quella osservata per i fenomeni di fusione cellulare, e considerando che la fusione
cellulare non è un prerequisito per la conversione neuromiogenica (Galli et al., 2000), è alquanto
improbabile che il fenomeno del transdifferenziamento possa essere spiegato solo con la
formazione di cellule tetraploidi.
Per concludere, è evidente che il campo di studi delle cellule staminali adulte e la loro
affascinante biologia costituisce ad oggi un’area di ricerca in espansione che ci porta a
riconsiderare alcuni dogmi fondamentali della biologia.Se queste importanti sfide
biologichepossano essere ostacolate dalle crescenti erigorose indaginirimane argomento per
discussioni future.
47
BARTLETT P.F., Pluripotential hemopoietic stem cells in adult mouse brain. Proc Natl Acad Sci U
S A 79, 2722-5 (1982).
CAPELA A. and TEMPLES., lex/SSEA-1 is expressed by adult mouse CNS stem cells, identifying
them as non pendymal.Neuron 2002; 35:865-875.
CLARKE DL, JOHANSSON CB, WILBERTZ J, et al. Generalized potential of adult neural stem cells.
Science. 2000; 288(5471): 1660-3.
FERRARI G., et al., Regeneration by bone marrow-derived myogenic progenitors. Science 1998;
279(5356): 1528-30.
FRISEN J., Stem Cell Plasticity? Neuron 2002; 35:415-418.
GALLI R., et al., Skeletal myogenic potential of human and mouse neural stem cells. Nat. Neurosci.
2000; 3:986-991.
GALLI R., et al.,Emx2 regulates the proliferation of stem cells of the adult mammalian central
nervous system. Development, 129: 1633-1644 (2002).
GRITTI A., VESCOVI A.L., GALLI R., Adult neural stem cells: plasticity and developmental potential.
J. Physiol. Paris 2002;96:81-90.
GRITTI. A., et al., Epidermal and fibroblast growth factors behave as mitogenic regulators for a
single multipotent stem cell-like population from the subventricular region of the adult mouse
forebrain. J Neurosci 19, 3287-97 (1999).
GURDON J. B., LEMAIRE P., and KATO K., Community Effects and Related Phenomena In
Development. Cell 1993 75: 831
LOIS C., ALVAREZ-BUYLLA A., Long-distance neuronal migration in the adult mammalian brain.
Science 1994; 264:1145-1148.
MORSHEAD C.M., BENVENISTE P., ISCOVE N.N., VAN DER KOOY D. Hematopoietic competence is
a rare property of neural stem cells that may depend on genetic and epigenetic alterations.Nature
Medicine 8, 268-273 (2002).
REYNOLDS B.A. & WEISS S., Clonal and population analyses demonstrate that an EGF-responsive
mammalian embryonic CNS precursor is a stem cell. Dev Biol 175, 1-13 (1996).
RIETZE R.L., BROOKER G.F., THOMAS T., VOSS A.K., BARTLETT P.F., Purification of a pluripotent
neural stem cell from the adult mouse brain. Nature 2001: 412:736-739.
SHIH CC, WENG Y, MAMELAK A, LEBON T, HU MC-T, FORMAN SJ. Identification of a candidate
human neurohematopoietic stem-cell population. Blood 2001; 98:2412-2422.
TERADA N. et al. Bone Marow cells adopt the phenotype of adult cells by spontaneous cell fusion.
Nature 2002; 416:542-545.
THEISE, N.D., et al. (2000) Derivation of hepatocytes from bone marrow cells in mice after
radiation-induced myeloablation. Hepatology 31:235-240.
VESCOVI A.L.et al. Isolation and cloning of multipotential stem cells from the embryonic human
CNS and establishment of transplantable human neural stem cell lines by epigenetic stimulation.
Exp. Neurol. 156; 71-83 (1999).
YIING Q., NICHOLS J., EVANS E.P., SMITH A.G., Changing potency by spontaneous fusion. Nature
2002;416:545-548. to come.
48
IGNAZIO MARINO
ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA:
PER UNA VISIONE CRISTIANA
INTRODUZIONE
La ricerca è componente integrante dell’impegno professionale dei medici e, quindi, del
progresso scientifico. I progressi in campo medico, soprattutto quelli raggiunti negli ultimi anni a
seguito delle nuove scoperte nel campo dell’ingegneria genetica e della biotecnologia, aprono la
strada a terapie e pratiche che spesso mettono in discussione principi fondamentali della
medicina tradizionale e sollevano annose questioni etiche.
La valutazione della condotta umana in ambito medico e scientifico alla luce di valori e principi
morali si è resa sempre più necessaria negli ultimi decenni, parallelamente all’avvento di
scoperte e ricerche che hanno rivoluzionato la posizione stessa dell’uomo (medico e paziente) nei
confronti della natura, della vita e della morte. Non a caso il termine “bioetica” viene coniato
all’inizio degli anni ’70 negli Stati Uniti dall’oncologo Van Rensselaer Potter, quando l’esigenza di
coniugare approccio umanistico e sapere scientifico diventa urgente in seguito ai prodigiosi
progressi ottenuti, ad esempio, nel campo dello studio del DNA, della medicina dei trapianti
d’organo e della terapia genetica. Potter sosteneva che la bioetica doveva essere una disciplina
che combinasse la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani. Egli era
preoccupato della divisione tra i due saperi, quello umanistico e quello scientifico; nella sua
analisi tale separazione aveva le potenzialità di distruggere il nostro ecosistema. Vi era, quindi,
l’esigenza di unire in una nuova disciplina, la bioetica, i valori etici con la biologia e tale scienza
doveva estendersi a tutto ciò che riguardava la vita dell’uomo (“global bioethics”)[1]. L’iniziativa
di istituzioni quali l’Hastings Center (sorto ad opera del filosofo cattolico Daniel Callahan e dello
psichiatra Willard Gaylin nel 1969) e il Kennedy Institute of Ethics (fondato nel 1971 da André
Hellegers, un famoso ostetrico di origine olandese) ha portato alla definizione di un ambito di
indagine prima inesplorato o, forse, non consapevolmente sollecitato o talvolta solo
spontaneamente inserito nella pratica scientifica. Nel 1978, con la pubblicazione della
Encyclopedia of Bioethics, questa nuova disciplina viene introdotta nelle università. Oggi è
impensabile ignorare gli innumerevoli quesiti morali emersi come conseguenza dell’inarrestabile
progresso scientifico. La ricchezza e al tempo stesso complessità della riflessione bioetica nasce
dalla sua stessa natura interdisciplinare. Come confermato dall’impegno della Pontificia
Academia Pro Vita, un concreto contributo agli interrogativi morali posti dalla ricerca biomedica
può derivare soltanto dal confronto continuo fra studiosi e operatori di diversa formazione e
background: medici, biologi, teologi, giuristi, psicologi, sociologi, economisti. Questa caratteristica
ribadisce e mina il ruolo (al tempo stesso centrale e marginale) della ragione nell’etica, un ambito
in cui l’inconciliabilità di posizioni e scelte diventa non impasse argomentativo ma, piuttosto, il
motivo stesso per dare avvio al dibattito pubblico. E per “pubblico” non dovremmo intendere
semplicemente la cerchia multidisciplinare a cui si è accennato poco sopra ma il ben più ampio
pubblico dei non-tecnici, dell’opinione pubblica. Nelle prossime pagine verrà sottolineato come
tale allargamento del dibattito etico dovrebbe essere gestito con maggiore preparazione, onestà e
senso di responsabilità di quanto fatto finora. Da un lato, infatti, i tecnici devono possedere un
bagaglio formativo adeguato che non solo permetta loro di discutere del problema ma anche di
porlo e presentarlo ai non addetti ai lavori in maniera adeguata. Dall’altro, dobbiamo auspicare
che il dibattito su tali questioni diventi pratica comune fra l’opinione pubblica e adoperarci
49
affinchè acquisisca strumenti e sensibilità adatte alla valutazione ragionata e non
sensazionalistica. A monte, naturalmente, è imperativo l’impegno del ricercatore o del medico ed
il suo “dovere di compiere scelte coraggiose”[2], il che comporta talvolta anche la difficile
assunzione di responsabilità qualora una scoperta o una terapia non venga illustrata
pubblicamente se ritenuta in coscienza di difficile interpretazione etica. Probabilmente, l’unica
via percorribile è proprio quella della responsabilizzazione dell’uomo, dello scienziato come del
paziente/cittadino che, di fronte a quesiti morali così profondi che influiscono o minacciano di
influire sul futuro stesso dell’intera umanità, sappia fermarsi e decidere in coscienza.Questo (il
concetto a-culturale e a-religioso di assunzione di responsabilità personale) potrebbe costituire
anche un primo passo fondamentale per la difficile definizione delle caratteristiche di una
bioetica universale e per la mitigazione delle differenze fra bioetica cattolica, bioetica
protestante, ortodossa ecc. Tutto questo è oggi assolutamente necessario dal momento che la
medicina non è più solo assistenza ma è anche un modo di intervenire sulla vita stessa: si può
creare la vita in provetta o posporre la morte oltre i limiti naturali, utilizzando la straordinaria
tecnologia raggiunta e disponibile nei reparti di rianimazione e terapia intensiva.
BIOETICA E DIBATTITO PUBBLICO
Come anticipato, l’apertura al pubblico del dibattito bioetico è un requisito fondamentale anche
se necessita di modalità, tempi e strumenti appropriati. Ripercorrendo la storia del rapporto fra
medico e paziente è interessante notare la lentezza con cui questo concetto ha preso piede e, di
conseguenza, la permanenza, all’interno del rapporto stesso, di pregiudizi e sfiducia. Un esempio
particolamente calzante riguarda il concetto di consenso informato. Questo argomento offre
spunti interessanti per due motivi: innanzitutto, per sottolineare che l’ambito della bioetica è
quello di maggiore interesse per il paziente e quello che oggi, più che mai, necessita il suo
intervento diretto. In secondo luogo, la storia dello sviluppo del concetto di consenso informato
ribadisce l’arida predominanza delle ragioni legali sopra quelle morali.
Un argomento spesso sfruttato per giustificare pratiche e prese di posizione più o meno
“tradizionali” nel campo della professione medica è il giuramento di Ippocrate. Dal punto di vista
storico è facile individuare un recupero del rapporto gerarchico medico-paziente riproposto in
epoca medioevale con il giuramento di Ippocrate. Dopo l’isolato tentativo platonico di instaurare
un dialogo più aperto fra medico e ammalato e la fase paleocristiana della medicina, in cui il
medico è visto come guaritore dell’anima, non solo del corpo, il ruolo del paziente torna ad essere
pressoché ininfluente di fronte al carisma indiscusso di un medico che è al tempo stesso tecnico e
sacerdote. Ciò che manca del tutto è il rispetto dell’autonomia del paziente; in breve, il concetto di
libera scelta, recentemente elaborato anche in termini giuridico-legali nell’idea di consenso
informato. Il concetto di responsabilità inizia ad emergere durante il Rinascimento e si fa
definitivamente spazio, in ambiti diversi, con l’Illuminismo e pensatori quali Locke, Kant, StuartMill. La partecipazione all’informazione da parte del paziente va di pari passo ma è una lenta
conquista, basti pensare che nel 1847 il primo codice di etica medica dell’American Medical
Association (AMA)- la principale società medica statunitense - contempla ancora l’idea di inganno
paternalistico a fin di bene. Nell’edizione del 1980 viene sottolineata la necessità di rispettare le
richieste legali sul consenso informato. Importante e indicativo, quindi, il fatto che il concetto e la
pratica del consenso informato prenda il sopravvento inizialmente non per ragioni etiche ma
strettamente legali. Solo in tempi recenti il consenso informato è stato visto come diritto morale
del paziente, permettendo all’ammalato di partecipare (o sottrarsi consapevolmente) al
trattamento o al progetto di ricerca terapeutica proposta dal medico-professionista.
50
Questo è un esempio di come una pratica oggi accettata e rispettata universalmente come diritto
morale si sia inizialmente affermata come puro requisito legale. La stessa vicenda, analizzando
l’evolversi del rapporto medico-paziente (da “medico sacerdote”-“paziente ignorante” a “medico
professionista”-“paziente informato”), prova quanto sia fondamentale il coinvolgimento diretto
del singolo individuo. In altre parole, il dibattito bioetico deve coinvolgere ogni cittadino e non un
ristretto gruppo di addetti ai lavori. Questo, per non ripetere e recuperare il pericoloso modello
paternalistico degli esordi dell’arte medica.
UNA MORALE, TANTE BIO-ETICHE? UNA “MODEST PROPOSAL” PER IL SUPERAMENTO DEL
PARTICOLARISMO ETICO
I più cogenti interrogativi morali vengono posti oggi dal fatto che la ricerca permette all’uomo
non solo di intervenire in modo sempre più (onni)potente sulla cura e prevenzione di malattie
ma sulla stessa vita, sulla sua origine e fine. Si va così ad intaccare il tabù, non solo cristiano, della
tentazione di dominare la natura e la vita. Sempre più frequentemente i rischi conseguenti da tale
atteggiamento vengono offuscati in nome del progresso scientifico e la cosiddetta neutralità
morale della ricerca è diventata sempre più tristemente illusoria. E’ quindi necessario ribadire,
oggi più che mai, che scienza e tecnica devono rispettare i criteri fondamentali dell’etica. Il vero
dibattito si apre sulla individuazione e delimitazione universale (o internazionale, più
semplicemente) di tali criteri. La difficoltà di definire un unico ed universale codice deontologico,
considerata la delicatezza dei quesiti posti e le diverse personali e culturali interpretazioni di uno
stesso problema etico, è il motivo stesso della nostra convocazione in seno alla Pontificia
Academia Pro Vita. Da un lato avvertiamo la necessità di stabilire linee guida universalmente
valide, dall’altro sembra che il campo stesso di indagine lo impedisca. La conseguenza diretta di
questo impasse o, meglio, la sua soluzione abituale (purtroppo assai limitata) è molto spesso di
tipo puramente legale-giuridico (vedi paragrafo su “Bioetica e dibattito pubblico”). Inutile dire
quanto questa scelta sia spesso influenzata – se non guidata – da argomenti politici ed economici.
Ci troviamo a confrontarci con quello che il Sommo Pontefice nel capitolo III della Enciclica
Evangelium Vitae definisce “relativismo etico”, spesso sancito da una maggioranza parlamentare
o sociale il cui carattere morale non è mai assolutamente automatico. Il compito della legge civile
resta diverso e più limitato rispetto a quello della legge morale, tanto che in alcune circostanze
possiamo addirittura parlare di abdicazione dell’etica. Lo stesso Mons. Sgreccia, nella più recente
edizione della seconda parte del suo Manuale dedicata agli Aspetti medico-sociali[3], si dimostra
consapevole della necessaria specificità dei valori etici. Non per niente parliamo di Bio-etica e
non di Bio-morale. Le problematiche affrontate nel volume delineano un percorso eziologico
carico di malessere per il disagio sociale e il vuoto dei valori che indeboliscono la capacità etica
delle persone e delle stesse istituzioni. Per rompere questo cerchio si richiede una ripresa
vigorosa della volontà di bene, di un anelito sincero verso la verità della persona e della società
che è chiamata a costruire, mediante la ritessitura dell'ordine dei valori e un appello rivolto alla
coscienza di tutti, anche dei legislatori, e proponendo il sostegno della medicina, soprattutto
preventiva, e delle forze educative.
Come accennato nelle note di introduzione la scienza deve necessariamente passare attraverso
una “coscientizzazione” delle diverse discipline. Fermo restando che la valutazione razionale è
prerequisito indispensabile a quella morale, dobbiamo riconoscere l’ingannevolezza di quella che
Giovanni Berlinguer definisce “bioetica giustificativa”[4] ossia la falsa morale del dettame per il
quale tutto ciò che è tecnicamente possibile diventa automaticamente ammissibile e praticabile.
L’arbitrio del ricercatore deve essere disciplinato dal senso di responsabilità, sempre bilanciato
dalla valutazione lungimirante non solo dei rischi ma anche delle conseguenze. Ciò è possibile su
51
base razionale, tecnica e non solo sulla spinta di una coscienza morale particolarmente
sviluppata, né della fede religiosa. Si tratta quindi di una concreta finalità che ogni uomo di
scienza (credente o meno) può e deve rispettare. Anche in questo modo, anzi soprattutto
esercitando questo tipo di auto-regolamentazione ragionata e responsabile, l’uomo di scienza
dimostra di comprendere e di saper gestire l’enorme potere che le recenti innovazioni
tecnologiche mettono a sua disposizione. E questo non per recuperare in chiave semplicistica la
classica figura paternalistica del medico/sacerdote, ma piuttosto quella dell’individuo
consapevole, capace, responsabile e padrone dei propri strumenti cognitivi. Questa può
affermarsi come una nuova visione antropologica che esula da categorizzazioni religiose e
culturali e che può davvero costituire la chiave di accesso alla soluzione del problema della
specificità di etiche particolari: la forza ed il potere di fermarsi, di evitare, di non spingersi troppo
oltre, di non valicare il punto di non ritorno. Ciò non deve essere frainteso con una volontà
bigotta di arrestare il progresso scientifico, bensì con quella di preservare il bene più prezioso: la
vita umana e l’amore verso di essa – valori che nessuna cultura potrà mai arrivare a negare.
Il ruolo dello scienziato ne esce perfino potenziato, investito di una responsabilità che si estende
al di fuori del laboratorio o dell’ospedale, che non si limita più alla scoperta ma alla sua
valutazione lungimirante, in maniera responsabile e sempre aperta al dibattito, non più
sterilmente ristretto alla comunità di tecnici. Non si tratta più, in questo caso, di ciò che il Sommo
Pontefice definisce “atteggiamento prometeico dell’uomo che ... si illude di potersi impadronire
della vita e della morte perchè decide di esse”[5]. La scelta responsabile e lungimirante dello
scienziato avrà pienezza morale indipendentemente dal fatto che essa scaturisca e sia alimentata
dalla fede in Cristo. “Il dovere di compiere scelte coraggiose”[2] non può essere limitato ai
responsabili della cosa pubblica ma deve essere avvertito fortemente anche da ogni singolo
componente della comunità scientifica. E comunque, che il professionista assolva o meno al suo
compito di monitorizzazione ragionata, il singolo cittadino dovrebbe poter valutare
coscienziosamente, con gli strumenti, le nozioni e la pratica che la società e lo Stato gli avranno
fornito. In quest’ottica assume importanza fondamentale l’inserimento ufficiale e riconosciuto
della bioetica, da un lato nel curriculum formativo obbligatorio di professionisti in campo medico,
dall’altro nel ventaglio di argomenti con cui il grande pubblico si confronta regolarmente. Questa
operazione aumenterebbe la consapevolezza delle problematiche morali connesse alla ricerca
biomedica, rendendo il dibattito più consapevole e fruttuoso non solo fra gli addetti ai lavori ma
anche fra quanti sono solitamente esclusi dalla fase decisionale sebbene direttamente coinvolti
nelle sue conseguenze pratiche.
PER UNA BIOETICA CRISTIANA
Un problema potenzialmente tipico per la definizione di una bio-etica cristiana appare quello di
doversi confrontare con discipline e tecnici storicamente laici, da un lato, e con bio-etiche ispirate
da diversi credo, dall’altro (bioetica protestante, bioetica ortodossa, ecc.). L’approccio cristiano
parte dall’assunto fondamentale che la vera natura della persona umana è al tempo stesso
corporale e spirituale e che tale persona fa riferimento ad una legge morale naturale. La prima
conseguenza è che qualsiasi intervento sulla persona coinvolge sia corpo, sia spirito. Da qui, un
aumento di responsabilità morale da parte del medico o ricercatore. Tale responsabilità aumenta
anche considerando la persona come creazione e incarnazione divina. L’uomo è “corpore et
anima unus”[6]: questa è la cosiddetta visione antropologica a cui fare riferimento quando
cerchiamo risposte ai quesiti posti dalle nuove scoperte biomediche. Questo può aiutare la
cristianità a prendere decisioni etiche anche in presenza di valori e significati di ordine personale
che spesso determinano il senso (o l’assenza di senso) morale degli interventi biomedici
52
sull’uomo. Il ruolo della Chiesa può e deve essere riconosciuto non solo dai fedeli ma da quanti
vedono in essa un magistero comunque posto al servizio del bene ultimo, la vita. E’ la missione
evangelica della Chiesa ed il suo dovere apostolico che la autorizzano a giocare un ruolo
fondamentale nella ricerca e valutazione di risposte etiche di fronte ai quesiti posti dalla ricerca
biomedica.
Il superamento del pericoloso particolarismo etico all’interno di una visione morale
universalmente accettabile diventa allora compito della Chiesa che può vivere tale missione non
come annullamento della fertile pluralità di spunti e opinioni, bensì come occasione di nuova
“evangelizzazione”. Il ruolo chiave di sensibilizzazione alla “cultura della vita” si concretizza
proprio nell’importante chiarimento della complessità dell’equilibrio tra responsabilità sociale ed
autonomia individuale. Questo avviene ribadendo il valore di una coscienza intatta e proiettata
verso quella che il Sommo Pontefice contrappone alla “cultura di morte”[7] imperante e anzi
promossa da alcune pratiche mediche recenti (vedi oltre: “Dalla compravendita degli organi alle
cliniche per il suicidio”); ma questi valori non possono essere estranei ai non fedeli, facendo
comunque appello al concetto di responsabilità ragionata e lungimirante, del tecnico così come
del singolo cittadino – entrambi resi consapevoli della possibilità di un coraggioso atto di
rinuncia in nome dell’amore per la vita.
Lo svolgimento pratico di tale rinnovata missione da parte della Chiesa richiede certamente la
collaborazione e l’appoggio di quanti, singoli uomini e istituzioni pubbliche, non possono che
condividerne la finalità universale: la loro stessa preziosa sopravvivenza e la possibilità di
giocare un ruolo chiave nella sua difesa.
IL CASO DELLE GEMELLINE SIAMESI E LA DONAZIONE D’ORGANO DA VIVENTE
Dibattito pubblico, relativismo e particolarismo etico, bioetica giustificativa e bioetica cristiana,
sono tutti argomenti che possono essere chiaramente discussi alla luce di un fatto realmente
accaduto e delle sue implicazioni generali. L’esempio è fornito dalla drammatica vicenda che nel
maggio 2000 in Italia ha coinvolto due gemelline siamesi neonate, entrambe vigili e
cerebralmente intatte, per una delle quali si è ipotizzata la possibilità di sopravvivenza attraverso
il “prelievo” di tessuto cardiaco dell’altra. Una sorta di “donazione da vivente” che implicava il
“sacrificio” della vita di una delle due bambine, quest’ultima scelta sulla base della sua più debole
fisiologia. Il ripercorrere analiticamente tale vicenda non solo ci consente di ragionare su quali
pratiche oggi “tecnicamente” possibili siano anche “eticamente” lecite, ma ci permette anche di
considerare il valore del dibattito pubblico ed il peso in esso della bioetica giustificativa.
L’episodio ed il dibattito si incentrarono sulla liceità di “sopprimere” in sala operatoria una delle
due bambine, separarne il corpo dalla sorella ed utilizzare parte del suo cuore per “donarlo”,
come in un trapianto, all’altra bambina che avrebbe così potuto sopravvivere.Un cardiochirurgo
si rese disponibile ad eseguire l’intervento e, personalmente, si cercò invano di coinvolgermi
come potenziale chirurgo specialista nella chirurgia del fegato e dei trapianti. Infatti, si ipotizzava
la necessità di dover dividere anche il fegato delle due sfortunate gemelline. L’intervento, al di là
degli aspetti tecnici, poneva un unico importante quesito di bioetica. E’ lecito condurre in sala
operatoria due individui con attività cerebrale integra avendo scelto che uno di essi dovrà essere
ucciso per prelevare organi e/o tessuti necessari alla sopravvivenza dell’altro? E’ lecito
sacrificare una vita umana per salvarne un’altra, entrare in sala operatoria con due infermi
avendo già deciso di uscirne con un potenziale convalescente ed un cadavere? Oltre agli aspetti
tecnici e all’eventuale fede religiosa credo che la risposta non possa che essere un fermo “no”. Se
la risposta fosse “si” come si potrebbe dire “no” ad uno scenario (questa volta immaginario) del
seguente tipo. Due fratelli gemelli monocoriali di 45 anni, uno malato gravemente di cuore al
53
punto di richiedere con urgenza un trapianto cardiaco senza il quale morirà con certezza, l’altro
con un apparato cardiovascolare sanissimo ma affetto da un tumore cerebrale che oltre a
provocargli molto dolore non gli concederà più di 60 giorni di vita. Perché non utilizzare il
paziente con il tumore cerebrale, che non preclude la donazione degli organi, come donatore
“vivente” per suo fratello? Perché non portarli entrambi in sala operatoria, prelevare il cuore del
paziente neoplastico, sopprimendolo – mettendo così fine alle sofferenze legate al tumore
cerebrale - e, al tempo stesso, restituire la vita al gemello cardiopatico con il trapianto di cuore?
Dal punto di vista del trapianto non solo ciò è tecnicamente possibile ma, essendo gemelli
monocoriali, non sarà neanche necessaria la terapia immunosoppressiva, non essendoci rischio
di rigetto e, quindi, alcun ostacolo per assicurare un’ottima qualità di vita al trapiantato. Il fratello
terminerà la sua vita solo 60 giorni prima, mettendo fine alla propria sofferenza fisica e felice di
regalare la vita a chi ama. Perché quindi non farlo?
Ritornando all’esempio reale delle gemelline siamesi, dibattito pubblico, una sorta di bioetica
giustificativa sollevata dai media e, infine, l’approvazione del Comitato Etico dell’Ospedale Civico
di Palermo portarono ad eseguire l’intervento che si concluse con la morte di entrambe le piccole
pazienti. Tuttavia questo tragico risultato è irrilevante nella valutazione bioetica necessaria qui e
nella scelta di coscienza che motivò la mia personale decisione di non partecipare né alla
preparazione, né all’intervento stesso. Dal punto di vista pratico si tratta di un atto tecnicamente
possibile e, quindi, ripetibile con successo in futuro. Ma è accettabile sacrificare una vita, uccidere
per salvarne un’altra?
Se sappiamo interpretare l’Enciclica Evangelium Vitae ci sembra che la risposta sia chiara. “La
vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza”. Questa sacralità della vita
non è un concetto riconducibile all’esclusiva visione cristiana, ma è certamente condivisibile e
condivisa anche da una bioetica a-religiosa, che si riconduce al valore della vita senza attribuzioni
di sacralità e/o sopprannaturalità. Ed ecco quindi l’importanza della bioetica come materia non
di esclusivo possesso di scienziati o dotti che ne discutano in convegni specializzati. Ecco il valore
del coinvolgimento diretto dei singoli individui, dei cittadini non addetti ai lavori. Al tempo stesso
questo coinvolgimento richiede uno straordinario impegno da parte degli addetti ai lavori che
devono spiegare il significato e le implicazioni di un gesto chirurgico o di un farmaco in modo che
tutti possano comprenderli e pervenire ad un’opinione “informata”.
Nella società attuale, largamente influenzata dai media, questo si realizza molto raramente a
causa di un giornalismo divulgativo-scientifico spesso gestito da professionisti privi della
necessaria preparazione e che in simili circostanze favorisce una “bioetica giustificativa”, quasi di
consumo. La responsabilità sia degli scienziati che dei professionisti della comunicazione è
altissima: una condotta superficiale da parte di entrambi può determinare aspettative irreali
nella popolazione in generale e nei singoli pazienti. Gli uomini di scienza hanno il compito di
spiegare: questa attività oggi non può essere più considerata semplicemente secondaria o
complementare.
D’altra parte chi si occupa di comunicazione dovrebbe avere il rigore di comprendere e verificare
il senso dell’informazione che fornisce. Probabilmente entrambe le categorie (scienziati e
giornalisti) dovrebbero partecipare a corsi di bioetica che li rendano responsabilmente
consapevoli del valore dell’informazione nel contribuire alla costruzione di una società pluralista
preparata a decidere come utilizzare le innovazioni tecniche.
L’esempio delle gemelline siamesi può essere integrato da una realtà che pone problemi di
bioetica gravi e spesso ignorati: la compravendita degli organi nella “donazione” da vivente.
Premesso che il prelievo di un organo da un donatore vivente, che faccia liberamente questa
generosissima scelta, è oggi un intervento molto sicuro nel trapianto di rene e relativamente
sicuro nel trapianto di fegato, è necessario che questa tipologia di intervento e la metodologia con
54
la quale viene praticato siano costantemente valutati dal punto di vista bioetico[8] affinché il
semplice fatto della eseguibilità dell’intervento non divenga la motivazione ad eseguirlo. Si tratta,
infatti, di una prestazione chirurgica che prevede, in modo unico, l’esecuzione di un intervento,
con rischi di morbilità e mortalità, su un soggetto, il donatore, che proprio in quanto tale è
assolutamente sano e non necessita di alcun intervento chirurgico. Per questo il meccanismo di
consenso informato e la procedura di selezione della coppia donatore-ricevente devono essere
particolarmente rigidi e controllati. In questo modo si può con un atto di amore e generosità
consentire ad un altro essere umano di recuperare la pienezza della sua vita.
Con preoccupazione si assiste, però, alla diffusione di questa pratica non solo come atto d’amore
ma come opportunità di organizzare un vero traffico d’organi come di recente documentato in un
articolo scientifico che ha valutato l’impatto economico e sanitario della compravendita degli
organi in India[9]. Su un totale di 305 cittadini di Chennai (una città di 6 milioni di abitanti,
precedentemente nota con il nome di Madras) intervistati dopo aver venduto un rene, ben il 96%
ha riconosciuto di aver accettato per pagare i debiti dai quali era onerato. Dopo la vendita le
condizioni economiche del “donatore” sono peggiorate e così anche le sue condizioni di salute. In
particolare, il reddito annuo familiare dell’individuo che ha venduto un proprio rene è passato da
660 dollari a 420 dollari, rendendone ancora più grave l’indigenza.
Negli ultimi anni si è assistito ad un fiorire di proposte ed articoli su riviste scientifiche
occidentali che tendono a giustificare la compravendita degli organi, seppure in maniera
regolamentata, e ne teorizzano l’applicabilità anche in paesi come l’Inghilterra[10]. Inoltre,
l’American Medical Association ha proposto di avviare una ricerca su campioni di cittadini
americani con lo scopo di testare in quale misura l’introduzione di incentivi economici potrebbe
influire sulla decisione di diventare donatore di organi. La comunità scientifica si chiede dunque
se sia eticamente ammissibile il pagamento degli organi destinati al trapianto. Il quesito è
rapidamente rimbalzato dai comitati etici alle prime pagine di quotidiani come TheWall Street
Journal innescando un dibattito che deve suscitare un’analisi bioetica. Infatti, il passo compiuto
dall’American Medical Association, seppur con grande e dichiarata cautela, conferma il generale
rafforzarsi del rapporto fra sanità ed economia, salute e denaro, bene fisico e (im)mobile, bioetica
e benessere fisico. Ritornando alla questione iniziale, sull’ammissibilità dal punto di vista etico
del pagamento degli organi destinati al trapianto, il quesito nasce da un’esigenza concreta, quella
di sperimentare nuove strade per incrementare la donazione degli organi e salvare la vita di
molti ammalati che ogni giorno muoiono in attesa di un trapianto. Di fronte a dati sconfortanti
(15 pazienti in attesa di un organo muoiono ogni giorno negli Stati Uniti ed almeno 3 in Italia) i
comitati etici dell’American Medical Association e, più di recente, quello dell’American Society of
Transplant Surgeons hanno voluto affrontare l’enorme discrepanza tra la “domanda” (pazienti in
lista di attesa) e l’“offerta” (numero di donatori) ipotizzando anche di ricorrere al pagamento
degli organi. Tutto questo offre l’opportunità di valutare la medicina dei trapianti come
paradigma del rapporto sempre più complesso fra sanità, bioetica, politica, economia e religione.
Del resto la medicina, pur nella sua complessità, si presta a rappresentare lo specchio di un’epoca
dal momento che in nessun altro ambito il singolo cittadino è il vero protagonista.
Inserito nel panorama moderno di una sanità inevitabilmente legata all’economia e al profitto, il
trapianto si presta bene a definire l’individuo in termini di “commodity”, di materia (prima e/o
derivata). La disponibilità di chirurghi senza scrupoli in alcuni paesi del mondo (come Turchia,
India, Perù, ecc.) ha consentito il nascere di un traffico illecito di organi, probabilmente limitato ai
reni, che infanga sia la professione medica sia i paesi che lo tollerano. Questo traffico di reni
sfrutta individui indigenti e disperati ridotti a cedere a costi irrisori (mille dollari a Bombay, due
mila a Manila, tre mila in Moldavia, dieci mila in America Latina) un proprio organo che viene
rivenduto insieme all’intervento chirurgico, eseguito clandestinamente, a cifre che oscillano fra
55
cento e duecento mila dollari. Questo fenomeno dovrebbe essere considerato come un vero e
proprio crimine verso l’umanità e come tale punibile e perseguibile in ogni paese del mondo.
Chiunque decida, anche se sofferente, di sfruttare la povertà altrui acquistando un organo a
proprio beneficio, si rende colpevole di un gravissimo reato. Bioetica e legislazioni non possono
rimanere estranee a questi problemi solo perché avvengono in “altrove”.Viaggi di questo tipo,
documentati recentemente da una popolare trasmissione televisiva americana (CBS “48 Hours”,
11 febbraio 2002), non possono essere confinati nell’area delle leggende metropolitane ma
devono essere fermati. La legislazione federale americana (National Organ Transplant Act)
afferma con chiarezza che“nulla di valore può essere scambiato per un organo (…)”, escludendo
qualunque forma di compenso diretta o indiretta, comprese quindi le ipotesi appena citate.
Tuttavia, va osservato che questa norma federale, se analizzata dal punto di vista strettamente
etico, viene già infranta nei casi di vendita di cellule o tessuti. Il caso più chiaro è forse quello
degli ovociti umani, venduti regolarmente a scopo riproduttivo negli Stati Uniti, dove
raggiungono un valore di mercato di circa settanta mila dollari. Un altro esempio è rappresentato
dalla Pennsylvania dove è stata approvata una legge che prevede un contributo per le spese del
funerale di una persona deceduta nel caso in cui la famiglia acconsenta alla donazione degli
organi. Da qui il passo è breve verso meccanismi che inducano alla riduzione delle tasse della
famiglia, al pagamento della retta scolastica di un bambino, oppure a staccare direttamente un
assegno permettendo che i parenti del donatore utilizzino il denaro nel modo che ritengono più
opportuno. E se si accetta il concetto di “denaro contro organi”, che differenza fa che provengano
da una persona deceduta oppure da un essere umano vivo e in piena salute? Potrebbe anzi essere
ancora più giusto ricompensare una persona in vita che, vendendo una parte di sè, rende
possibile la guarigione di un suo simile. Oppure indicare come “miglioramento della qualità di
vita” delle aberrazioni come i recenti trapianti di ovaio (Arabia Saudita) ed utero (Cina) a scopo
riproduttivo, con organi prelevati da donatori viventi, che non sono stati eseguiti
clandestinamente ma hanno addirittura ricevuto spazio su prestigiose riviste scientifiche ed il
plauso di alcuni ricercatori. Insomma, l’apoteosi dell’egoismo individuale che infrange ogni regola
etica. Il ragionamento porta lontano e alimenta un dibattito che va ben oltre la problematica del
trapianto dove, da una parte si sostiene che non sia moralmente accettabile lasciare che i pazienti
muoiano in lista di attesa, per cui se gli incentivi economici possono contribuire a far aumentare
le donazioni ben vengano; dall’altra, invece, si pensa che esistano dei limiti invalicabili e che il
corpo umano non possa essere considerato come una merce, con un prezzo fissato per la vendita.
Potremmo allora considerare etico e moralmente accettabile un sistema in cui le donazioni
aumentano ma dove, a conti fatti, sono i poveri a “donare” mentre i più ricchi si possono
accontentare di ricevere? La verità è che qualunque strada che preveda una forma di compenso
economico deve essere evitata perché porta ad una allocazione iniqua degli organi, basata sulla
possibilità di pagare e non sulla reale urgenza medica o priorità in lista di attesa. Idee di questo
tipo mettono in discussione la dignità di ognuno di noi e rischiano di affrancare una pericolosa
sovrapposizione tra sanità e mercato[11-13]. Evitiamo tuttavia inutili ingenuità, è indubbio che il
legame tra sanità e regole di mercato esiste e non si può negare che le leggi dell’economia
debbano integrare la gestione sanitaria ma questo deve avvenire senza sorvolare sui confini di
bioetica che la sanità deve rispettare.
DALLA COMPRAVENDITA DEGLI ORGANI ALLE CLINICHE PER IL SUICIDIO
Un ben documentato e recentissimo articolo[14] descrive in modo agghiacciante le ultime ore di
vita di una signora, Marie Hascoet,che si è recata da Parigi a Zurigo per essere sottoposta alla
pratica (ovviamente a pagamento) di suicidio assistito. L’organizzazione svizzera “Dignitas” dal
56
1998 ad oggi ha assistito circa 140 individui che si sono recati a Zurigo per mettere fine alla
propria esistenza in maniera legale. Si tratta di cittadini americani, inglesi, egiziani, israeliani,
tedeschi e di altri paesi ancora che giungono in Svizzera, firmano un consenso informato
(chiamato “Declaration of Suicide”) e vengono aiutati a suicidarsi in una clinica specializzata.
Richieste motivate da malattie terminali ma anche sulla base di invalidità come il caso di un
musicista sofferente di sordità.
Il suicidio assistito viene eseguito utilizzando una combinazione di farmaci (antiemetici e
barbiturici) secondo un preciso protocollo farmacologico coordinato da personale medico ed
infermieristico specializzato. Il tutto viene gestito con l’accuratezza che potrebbe essere tipica di
una struttura di eccellenza che accoglie pazienti che si affidano alle risorse più avanzate della
ricerca medica per potersi curare e salvare la propria vita. Le cartelle cliniche vengono
preventivamente inviate ed esaminate a Zurigo; successivamente si convoca il “paziente” per una
accurata visita medica che confermi “l’indicazione al suicidio”; questi, infine, ritorna nella propria
città per “sistemare le proprie cose” ed acquistare il biglietto di sola andata per il proprio ultimo
viaggio.
CONCLUSIONI
Possono la ricerca medica e la tecnologia oggi a nostra disposizione essere utilizzate allo scopo di
mutilare soggetti perché altri ne possano acquistare gli organi oppure per assistere chi ha deciso
di porre fine alla propria esistenzao, addirittura,per sopprimere un individuo in sala operatoria
per salvarne un altro, o per pratiche come il trapianto di utero e/o ovaio, che mettono a rischio la
vita di una donna, solo perché forme di bioetica giustificativa insieme a pressioni sociali ed
economiche sembrano suggerirlo? Quale è il limite che dobbiamo porci come individui, membri
di una società pluralista, nell’utilizzare gli strumenti che la scienza ci pone a disposizione e quali
sono invece le caratteristiche di una visione cristiana di questi complessi problemi?
E’ difficile conciliare integralmente entrambe le esigenze ma è sicuramente possibile individuare
un denominatore comune. Chi crede nella vita eterna e vive nella fede ha indubbiamente una
visione diversa ed anche un conforto differente nel valutare le situazioni che l’esistenza pone a
ciascuno. Tuttavia, il rispetto della sacralità della vita e della dignità degli individui non è
patrimonio esclusivo dei cristiani. Se per chi crede in Cristo “l’uomo è chiamato a una pienezza di
vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella
partecipazione alla vita stessa di Dio”[15], il valore incomparabile della persona umana è
certamente patrimonio comune di tutti gli appartenenti alla società, o almeno dovrebbe esserlo,
al di là di qualunque fede. A questo elemento è forse più opportuno ricondursi perché si possano
studiare ed applicare nella società principi e leggi che proteggano la vita umana ed impediscano
la sua soppressione, mercificazione o la sua riduzione ad un bene di consumo. Questo obiettivo
può essere raggiunto da tutti coloro che in una società pluralista abbiano a cuore i valori
essenziali della vita. Vi sono certamente aree dove la ricerca medica pone quesiti bioetici nei
quali è difficile trovare pieno accordo tra tutte le componenti sociali, ma anche in queste aree
deve esservi un costante impegno a seguire i progressi della ricerca ed a regolamentarne l’uso.
Non dovrebbe accadere (come, invece, assai spesso si verifica anche nei paesi più avanzati) che la
scienza individui nuovi percorsi che vengono lasciati senza normative per anni. L’impegno in
questo settore richiede investimento intellettuale con apposite commissioni di esperti e di
risorse affinché cittadini e parlamenti possano in maniera informata partecipare al dibattito e
decidere quale percorso seguire. Probabilmente, il percorso più sciocco e pericoloso, per laici e
cristiani è quello di dimenticare queste esigenze etiche come parte essenziale della nostra
esistenza.
57
RINGRAZIAMENTI
Si ringraziano il Prof. Karl Golser dello Studio Teologico Accademico di Bressanone e il Prof.
Howard R. Doyle dell’Universita` di Pittsburgh per l’aiuto nella revisione critica del testo. Un
sentito ringraziamento alla Dott.ssa Claudia Cirillo ed alla Dott.ssa Alessandra Cattoi per l’aiuto
ricevuto nella stesura del testo.
[1] POTTER V.R., Global Bioethics, Michigan State University Press, 1988.
[2] Lettera Enciclica Evangelium Vitae del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ai vescovi, ai
presbiteri e ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, ai fedeli laici e a tutte le persone di buona
volontà sul valore e l’inviolabilità della vita umana, Città del Vaticano, 25 maggio 1995, 2, 90.
[3] SGRECCIA E., Manuale di bioetica. II Aspetti medico-sociali, Vita e Pensiero, Milano, 1996,
seconda edizione.
[4] BERLINGUER G., Evangelium Vitae: una sfida da raccogliere, Bioetica, 3,1995.
[5] Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 1, 15.
[6] Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium Spes, 14, 1.
[7] Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 3.
[8] MARINO I.R., DOYLE H.R. Living donor in urgent cases: ethical hazard?, Liver Transplantation
2002,8(9):859-860.
[9] GOYAL M., MEHTA R.L., SCHNEIDERMAN L.J., SEHGAL A.R. Economic and health consequences
of selling a kidney in India, JAMA 2002, 288(13):1589-1593.
[10] HARRIS J, ERIN C. An ethically defensible market in organs, BMJ 2002, 325: 114-115.
[11] MARINO I.R., CIRILLO C., CATTOI A. Market of organs: unethical under any circumstances,
British Medical Journal, (Electronic letters published)
2002, http://bmj.com/cgi/eletters/325/7356/114
[12] MARINO I.R. Nessuno compri quegli organi. Il trapianto nasce da un dono. Va’ Pensiero, 93
(Electronic Paper), Il Pensiero Scientifico Editore Online, 18 September 2002.
[13] MARINO I.R. Health at any price, Italianieuropei 2002, 2(3):170-180.
[14] NAIK G. Assisted-suicide group makes more final exits go through Switzerland,The Wall Street
Journal Europe, Vol. XX, No. 206, 1, November 22-24, 2002.
[15] Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 2.
58
ANTONIO BATTRO
LE NUOVE FRONTIERE NELLA NEUROEDUCAZIONE
ALLA SCOPERTA DEL CERVELLO
La rivoluzione digitale ha “messo a nudo” il cervello umano permettendone lo studio e nuovi
interventi su di esso.
Infatti, le nuove tecnologie di “brain immagining” sono il risultato diretto delle potenzialità
sempre maggiori
dei computer che permettono non solo una visione dettagliata dell’anatomia del cervello in vivo,
ma anche della sua composizione chimica così come l’identificazione dei cambiamenti funzionali
a carico della complessa rete neuronale durante le più svariate funzioni percettive, motorie e
cognitive (Posner & Raichle, 1994; Spelke, 2002). Inoltre è oggi possibile, grazie ad alcune
sperimentazioni molto ben controllate, “dedurre i comportamenti dalle immagini funzionali del
cervello” (Dehaene et al, 1998). Queste potenzialità si potrebbero un giorno estendere a contesti
più ampi, dando così luogo a questioni etiche rispetto al problema della privacy (“lettura della
mente”).
In analogia con il “world wide web” (www), potremmo parlare del “brain wide web” (bww)
formato dall'insieme molteplice di comparti corticali e sottocorticali (Battro, 2002), alcuni dei
quali sono molto stabili e modulari mentre altri più flessibili e plastici, geneticamente
programmati attraverso l’evoluzione biologica della nostra specie, o strutturati epigeneticamente
nell’evoluzione culturale e nel percorso educativo del singolo individuo (Huttenlocher, 2002). Le
nuove neuroscienze cognitive ci permettono quindi di mettere a punto nuovi strumenti per
conoscere meglio e migliorare le nostre capacità di apprendimento. Questo è lo scopo e
l’obiettivo della “neuroeducazione”.
NEURO-PLASTICITÀ
La scoperta forse più importante della neuroscienza contemporanea è legata alla sorprendente
plasticità neuronale del cervello umano (Buonmano & Merzenich, 1998, Grafman & Litvan, 1999).
Sappiamo che il cervello umano di un individuo adulto produce costantemente neuroni. Come
afferma Fiona Doetsch “rimaniamo con l’idea di un cervello dinamico, in cui i ricordi si formano
probabilmente dalla formazione di nuove cellule, e con una latente potenzialità autorigenerativa”
(Doetsch, 2002, Doetsch, F & Sharff, C. 2001). Una prova di questa affermazione è la straordinaria
riabilitazione di alcuni bambini che hanno subito l'emisferectomia, i quali dimostrano come
“metà cervello sia abbastanza” per avere una buona qualità di vita nel quotidiano e a scuola
(Vargha-Khadem et al,1997, Battro, 2000). Non conosciamo ancora bene i meccanismi
compensatori coinvolti in questo processo e questi casi notevoli costituiscono una sfida per la
costruzione di modelli standard di mente/cervello.
NEURO-IMPIANTI E NEURO-TRAPIANTI
Il primo neuro-impianto ottenuto con successo della medicina moderna è stato l’impianto
cocleare, una protesi digitale connessa al nervo uditivo, che ha cambiato la vita e l’educazione di
migliaia di bambini con problemi di udito (Giraud et al, 2001). Questo è un buon esempio di come
59
la neuroeducazione può essere applicata in campo umanitario grazie all’utilizzazione della più
avanzata biotecnologia.
Nel futuro vedremo più interventi diretti non solo di neuroimpianti di questo tipo ma anche di
neurotrapianti sul cervello danneggiato. In un recente libro che prende in esame l’argomento
(Freed, 2000) si mostra come l’impianto di cellule staminali possa essere una valida alternativa
all’impianto di tessuti fetali, ad esempio nel cervello di pazienti con morbo di Parkinson, ma
dobbiamo ancora comprendere meglio il meccanismo di differenziazione delle cellule staminali
per produrre nuovi neuroni dopaminergici.Sono stati anche studiati altri casi di possibile
intervento sul cervello trapiantando cellule di animali ed esseri umani, creando così grandi
aspettative nell'ambito della prevenzione e cura delle malattie degenerative.
NEUROINFORMATICA
Il cervello è un insieme di processi analogici e digitali in costante interazione. Ci possiamo
aspettareche un giorno la “neuroinformatica” fornirà uno strumento per il controllo centrale
diretto di un "mouse virtuale" nel cervello, una sorta di “strumento per tradurre il pensiero”
(Kubler et al, 1999). Alcuni ricercatori hanno impiantato degli speciali elettrodi nella corteccia di
tre pazienti, affetti da sindrome di Locked- in; questi individui sonocoscienti e con funzioni
cognitive intatte manon possono muoversi o parlare. Un’interfaccia computer - cervello, BCI,
permette ai pazienti di muovere un cursore nello schermo di un computer quando stanno
pensando di muovere il cursore verso un obiettivo (Kennedy et al., 2000). L’aumento del tasso di
eccitazione dei neuroni impiantati muove il cursore da sinistra a destra nello schermo e la
velocità del movimento è proporzionale al tasso di eccitazione dei neuroni. Per “controllare con
la mente” questo spostamento (per dirigere il cursore) il paziente deve sviluppare una specifica
capacità analogica per raggiungere le differenti icone che produrranno l’emissione di una parola
sintetizzata, o per indicare la lettera target che si vuole scrivere. La capacità digitale, “the clic
option” è automaticamente attivata da un differente treno d'impulsi dalla corteccia (che inoltre
fornisce un chiaro feedback uditivo al paziente). Gli autori si propongono ora di fornire ai
pazienti l’accesso ad alcuni “controllers” ambientali e ad Internet. Questo compito umanitario
apre anche nuove prospettive per lo studio dei cambiamenti plastici che induce la “corteccia
cursore”, come riferiscono gli autori, in questi casi così gravi e drammatici (vedi anche Taylor et
al. 2002, Koning & Verschure, 2002).
IL LINGUAGGIO ED IL CERVELLO
In un mondo globalizzato la possibilità di raggiungere milioni di persone che parlano centinaia di
lingue è una delle più grandi sfide dell’educazione contemporanea. La traduzione automatica
diventerà uno strumento sempre più importante nella società digitale che collega il nostro
pianeta. D’altra parte, ci sono chiare evidenze che il cervello bilingue mostra differenze strutturali
e funzionali rispetto al cervello monolingue, fatto che può giustificare alcuni tipi d’interventi
precoci nell’insegnamento del linguaggio in una società globale (Perani et al. 1996, Paulesu et al.,
2000). Il linguaggio umano può anche essere indipendente dal discorso orale e sappiamo che
il linguaggio scritto, per esempio, che è una nuova modalità di comunicazione, è organizzato nel
cervello in modi che sono simili a quelli del linguaggio parlato
( Hickok, Beluggi & Klima, 2002; Newman et al., 2002; Petitto et al., 2001).
Il Bimodalismo (linguaggio orale /scritto) ha oggi un ruolo importante nella vita di molti individui
sordi. L’attuale tendenza nella neuroeducazione è di fornire un “piano universale” per gli
strumenti educativi (digitali) e di utilizzare diverse strade parallele per superare i più frequenti
60
ostacoli nei processi di apprendimento, come la dislessia, malattie di deficit nell’attenzione, ecc.
(Rose & Meyer, 2002).
Riassumendo, la crescente di interazione dei neuroni con gli strumenti di trattamento delle
informazioni, in un ampio spettrodi casi apre nuovi campi d'indagine e dà speranza a molti esseri
umani di tutte le età e condizioni, dotati o handicappati, ma implica anche l’insorgere di sempre
più numerosi problemi etici riguardanti le procedure, gli interventi, e gli obiettivi delle nuove
tecnologie.
61
Battro, A. M. (2000) Half a brain is enough: The story of Nico.Cambridge: CambridgeUniversity
Press.
Battro, A. M. (2002). The computer in the school: A tool for the brain. In The challenges of
sciences: Education for the twenty-first century. The PontificalAcademy of Sciences. Scripta Varia,
104.
Buonmano, D. V. & Merzenich, M. M. (1998) Cortical plasticity: From synapses to maps. Annual
Review of Neurosciences, 21: 149-186.
Dehaene, S., Le Clec'H, G., Cohen, L., Poline, J. B., van de Moortele, P. F., & Le Bihan, D. (1998).
Inferring behaviour from functional brain images. Nature Neuroscience, 1, 549-550.
Doetsch, F (2002) Reconstructing the brain. Journal of the AmericanAcademy of Child and
Adolescent Psychiatry. 41:5, 622-624.
Doetsch, F. & Sharff, C. (2001) Challenges for brain repair: insights from adult neurogenesis in
birds and mammals. Brain, behavior and evolution. 58; 306-322.
Freed, B. (2000). Neural Transplantation. (2000). Cambridge, MA: MIT Press.
Giraud, A. L., Price, C. J., Graham, J.M & Frackowiack, R.S.J. (2001). Functional plasticity of
language-related brain areas after cochlear implantation. Brain, 124, 7, 1307-1316
Grafman, J. & Litvan, I. Evidence for four forms of neuroplasticity. In Grafman, J. & Christen (Eds)
(1999). Neuronal plasticity: building a bridge from the laboratory to the clinic. Berlin: Springer.
Hickok, G., Bellugi, U. & Klima, E.S. (2002) Sign language in the brain. In The hidden
mind. Scientific American, special edition, 12, 1, 46-53.
Huttenlocher, P. R. (2002). Neural plasticity: The effects of environment on the development of the
cerebral cortex.Cambridge, MA: HarvardUniversity Press.
Kennedy, P. R., Bakay, R. A. E., More, M. M., Adams, K, Goldwaithe, J. (2000). Direct control of a
computer from the human central nervous system. IEEE Transactions on Rehailitating
Engineering , 8, 198 - 202.
Koning, P. & Verschure, F. M. (2002) Neurons in action. Science 1817-1818.
Lichtman, J. W., Fraser, S. E. (2001) The neuronal naturalist: watching neurons in their native
habitat. Nature Neuroscience. 4, 1215-1220
Paulesu, E., McCrory, E., Fazio, F., Menoncello, L., Brunswick, N., Cappa, S.F., Cotelli, M., Cossu, G.,
Corte, F. Lorusso, M., Pesenti, S. Gallagher, A. Perani, S., Price, C., Frith, C.D., Frith, U. (2000). A
cultural effect on brain function. Nature Neuroscience, 3, 1, 91-96.
Perani, D., Dehaene, S., Grassi, F., Cohen, L., Cappa, F. S., Dupoux, E., Fazio, Mehler, J. (1996) Brain
processing of native and foreign language. Cognitive neuroscience and neuropsychology, Vol 7, N
15-17, 2439-2444.
Posner, M. I. & Raichle, M. E. (1994).Images of mind. New York, NY: Scientific American Library.
Rose, D. H. & Meyer, A. (2002). Teaching Every Student in the Digital Age: Universal Design for
Learning. ASCD.http://www.cast.org/teachingeverystudent/ideas/tes/
Spelke, E.S. (2002) Developmental neuroimaging: a developmental psychologist looks
ahead. Developmental Science, 5, 3,392-396
Taylor, D. M., Helms Tillery, S. I. & Schwartz, A. B. (2002) Direct control of 3D neuroprosthetic
devices. Science, 296, 1829-1832.
Vargha-Khadem, F., Carr, L. J., Isaacs, E., Brett, E., Adams, C. & Mishkin, M. (1997). Onset of speech
after hemispherectomy in a nine-year-old boy. Brain, 120, 159-182.
62
ADRIANO BOMPIANI
LA RICERCA SPERIMENTALE IN AMBITO BIOMEDICO
AMBITI, METODOLOGIE, CRITERI DI VALIDITÀ DEI PROGETTI DI RICERCA
PREMESSA
Il contributo che viene presentato al Convegno “Etica della ricerca biomedica: per una visione
cristiana” - IX Assemblea Generale della Pontificia Accademia Pro Vita - ha per titolo LA RICERCA
SPERIMENTALE IN AMBITO BIOMEDICO: AMBITI, METODOLOGIE, CRITERI DI VALIDITA’ DEI
PROGETTI DI RICERCA.
Sembra quasi pleonastico iniziare sottolineando che il mondo contemporaneo avverte come
“necessaria” una sempre più avanzata ricerca biomedica, intesa come fattore di progresso sia
culturale che sociale, per conseguire anzitutto migliori possibilità diagnostiche e terapeutiche. La
finalità pratica di questo sforzo di ricerca, centrato sulla “cura”-scopo fondamentale della
medicina -è universalmente condivisa, anche se non è l’unica. Che sia “aspirazione di ogni malato
l’essere curato efficacemente e tempestivamente, senza effetti collaterali” è un’osservazione di C.
Foster [1] assolutamente veritiera, come del resto ciò che segue: “Ogni medico dovrebbe
realizzare questo preciso obiettivo: ciò che può verificarsi talvolta, ma raramente in modo così
soddisfacente”.
Certamente non è lecito disarmare in questo sforzo. Anche se non si ottengono guarigioni
definitive oggi si possono praticare terapie molto efficaci per alleviare la condizione del paziente
pur ammettendo che lo specifico scopo della ricerca medica dovrebbe essere la sempre più
perfetta “prevenzione delle malattie”, oltre che la“guarigione degli stati morbosi”.
Obiettivo fondante quello “pratico”, si diceva, ma non unico. La ricerca biomedica produce un
aumento delle conoscenze, che ha valore in sé stesso e caratterizza quella progressiva,
inarrestabile ma anche infinita (non delimitabile) conquista di nozioni e di dati che
contraddistingue la scienza moderna e ne caratterizza la espansione. Viene subito messa in
evidenza la particolare “responsabilità” del ricercatore in questa dinamica, sulla quale si
ritornerà brevemente nelle conclusioni.
In chiave di sociologia della scienza, si dovrebbe infine collegare la cultura tecnico-metodologica
delle pratiche della ricerca scientifica in medicina al concetto (sociologico) di interesse, come
avviene in tutti i settori della scienza. Infatti – si afferma - poiché la conoscenza nel mondo reale è
destinata, in larga misura, all’uso, e non alla semplice contemplazione, in questo concetto
confluiscono non solo i già accennati interessi degli utenti (reali o potenziali) ad essere meglio
curati, ma anche gli interessi propri dei ricercatori (economici, di prestigio, di carriera, ma anche
i sentimenti di altruismo od all’opposto di egoismo, ecc..), ed anche quelli di coloro che forniscono
loro i mezzi e gli strumenti della ricerca (interessi economici, potere di mercato, ecc..).
In questo lavoro, si cercherà di puntualizzare alcuni di questi obiettivi, nel momento in cui
confluiscono in “progetti di ricerca”.
1. Scienze biomediche, comunità scientifica, comunità civile
Come è noto, il processo evolutivo della scienza è affidato alla comunità scientifica, cioè a
quell’insieme di operatori che a vario livello di preparazione, azione e responsabilità lavorano
nelle strutture della ricerca e per gli obiettivi della ricerca. Processo evolutivo della conoscenza e
ricerca sono fra loro solidali; soprattutto nelle scienze applicate, la ricerca sostenuta da una
63
appropriata tecnologia è il motore indispensabile dell’evoluzione della conoscenza, e in definitiva
della scienza.
La medicina, pur con la suapeculiarità, condivide questa dinamica.
Il binomio indicato, in cui il termine “scienza” nel significato costitutivo della parola allude alla
pienezza della conoscenza esperibile in un determinato momento storico, costituisce con l’altro
termine – la “ricerca” – una alleanza che vale, sia che si accetti una progressiva definizione del
rapporto fra una realtà oggettivamente esistente e la conoscenza a noi possibile della stessa
realtà – secondo il quale le strutture logiche riflettono aristoteliche strutture ontologiche – sia
che si accolgano rinnovate, di recente, concezioni costruttivistiche e soggettivistiche di
ispirazione platonica, secondo le qualila realtà è un’astrazione, la scienza è un’insieme di
paradigmi mutevoli, elaborati dagli scienziati nel tentativo di dare progressiva consistenza al
processo mentale della conoscenza.
Ciò premesso, il rapporto che intendiamo approfondire in questo breve contributo potrebbe
proporsi – genericamente - come relazione fra il ricercatore biomedico da un lato e la società nel
suo complesso dall’altro; tuttavia è subito necessario – nel campo che esaminiamo - operare una
distinzione fra quei ricercatori che lavorano per la salute in strutture che non hanno diretto
rapporto con il paziente, ed i ricercatori che operano sul paziente o meglio (come oggi si
preferisce) con il paziente (ricercatore biomedico-clinico)[2]. Soprattutto in ques’ultimo caso, il
rapporto fra scienza-sperimentazione biomedica da un lato e persona umana, dall’altro, si
configura come “dialogo” fra un esperto, dotato di propri diritti professionali ma anche di doveri
ed un essere umano, titolare di diritti inalienabili fra cui anche l’omnicomprensivo “diritto alla
tutela della salute”.
Per evidenti motivi, le considerazioni che presenterò in questa circostanza saranno limitate a tale
secondo contesto.
In definitiva: nel mondo contemporaneo ed in quello futuro dobbiamo attendere sempre più
ricerca biomedica, e sempre più ricerca avanzata, tecnologicamente progredita, con espansioni
sempre più ardimentose verso le strutture fondamentali della vita: geni e molecole, delle quali si
vuole non solo conoscere la funzione naturale, ma – talvolta – modificare l’azione per desideri e
scopi sostenuti dalla volontà personale.
Ma la società non ha accettato del tutto passivamente questa evoluzione. Sempre più allarmata da
episodi che travalicano il sentimento etico comune ed offendono la dignità dell’uomo, aumenta la
pressione emotiva dell’opinione pubblica, ma anche la vigilanza giurisprudenziale e legislativa
(soprattutto in sede internazionale) delle autorità sanitarie per disciplinare le attività di ricerca,
soprattutto ove queste recano rischio di danno od offesa alla persona umana, con risultati
peraltro non del tutto soddisfacenti. [3]
Sono state individuate nuove “strutture”, più vicine alla realtà operativa rispetto ai tribunali ed ai
Parlamenti, per dare consistenza preventiva alla tutela del soggetto umano sottoposto a
sperimentazione.
I Comitati Etici (C.E.) si presentano in questo contesto come luogo di dibattito necessario, punto
di valutazione “esterna”, di garanzia e di armonizzazione fra le azioni progettate dal ricercatore
biomedico-clinico e le esigenze di salvaguardia dei diritti del paziente.
2. Libertà della scienza, libertà della ricerca e “progetti di ricerca biomedica”
I Comitati etici, per loro principale e naturale funzione, si trovano di fatto a decidere su “progetti
di ricerca”, e cioè sul concreto esercizio della libertà di ricerca in un definito e per lo più ristretto
ambito delle scienze biomediche, di fronte a domande che il ricercatore si è posto e che presenta
alla comunità scientifica come degne per essere affrontate.Si offre, subito, un quesito generale:
64
la libertà della scienza – di cui parla anche la nostra Costituzione (come del resto alcune delle
altre costituzioni coeve) –sino a che punto coincide con la libertà della ricerca? Domanda
importante, alla quale si può subito rispondere in termini etici generali affermando la necessità
che anche la ricerca condivida l’esigenza di una integrazione antropologica (v. ad es. Sgreccia,
1994)[4] ed in termini giuridici, affermando che ogni principio costituzionale deve accordarsi con
altri principi costituzionali. Domanda intrinsecamente fondamentale nel caso delle ricerche
biomediche, essendo queste rivolte non alla natura inanimata ma ad un essere vivente
caratterizzato da particolare dignità. Appare evidente già all’intuizione etico-giuridica di senso
comune che non possono considerarsi equivalenti fra loro progetti di ricerca che portino
giovamento e progetti che arrechino danno o grave rischio di danno al soggetto umano (vale
l’antico aforisma “primum non nocere”).
Ciò crea una limitazione alla libertà della ricerca?
La libertà scientifica è , oggi, interpretata (come peraltro altre libertà) nella proiezione dei
principi di individualismo, pluralismo e universalismo – che (come è noto) – presentano significati
diversi nei diversi contesti in cui essi vengono esaminati ed in rapporto all’orientamento
culturale e morale dello stesso valutante[5].
Coltivare i valori della libertà scientifica non esonera lo scienziato-sperimentatore biomedico dai
doveri generali di appartenente alla comunità morale degli uomini; se mai ne esalta la
responsabilità e dovrebbe portare a gradi elevati di prudenza ed all’autocontrollo nell’esercizio
del proprio lavoro specialistico.
Il fatto che quasi tutte le Costituzioni dei Paesi più avanzati conferiscano singolare rilievo in
termini di protezione giuridica alle attività della ricerca scientifica è indice non di privilegio, ma
della particolare dignità riconosciuta a chil’esercita con responsabilità[6].
E’ ben noto, peraltro, che al di là di questi principi etici che si applicano al lavoro del ricercatore,
esistono ormai ben chiare norme di tutela giuridica del soggetto sottoposto alla ricerca[7].
Una seconda domanda (la risposta alla quale già a prima vista sembra “scontata”) consiste nel
chiedersi il perché anche nella ricerca e sperimentazione biomedica si adottino progetti basati su
espressi, specifici “protocolli”.
Questo criterio risponde al preciso requisito della metodologia scientifica che – in generale – si è
sviluppata nel corso dell’ ‘800 ed affermata nella prima metà del secolo XX, quanto meno per il
grande raggruppamento delle cosidette “scienze sperimentali”, fra le quali – sia pure con le sue
specificità – si è posta anche la medicina. Metodologia che, in sintesi, si svolge nella direzione:
problemi- teorie-critiche nel binomio congettura-confutazione. Di recente, D.
ANTISERI(2001)[8],e G.FEDERSPIEL e coll. (1999 e 2001)[9] hanno richiamato questa
evoluzione, con i riferimenti all’applicazione in campo medico, ed a questi interessanti articoli si
rinvia il lettore unitamente all’insieme della pregevole letteratura epistemologica medica italiana.
I C.E. con l’esame accurato dei “protocolli di ricerca” che vengono presentati dai ricercatori,
agiscono come partecipi al giudizio preventivo della qualità intrinseca della ricerca, e in ultima
analisi operano a beneficio dello stesso ricercatore, allorché si esprimano con giustizia, serenità
ed obiettività, non solamente scartando (o chiedendo la revisione dei) protocolli che offrano
rischi eccessivi per il soggetto che si sottopone alla sperimentazione ma anche separando i
protocolli dotati di razionalità scientifica da quelli sospetti di improvvisazione o – peggio – di
frode.[10]
Si è molto discusso, in sede nazionale ed internazionale, se il giudizio della qualità scientifica del
protocollo spetti ad un unico organismo che assicuri anche il giudizio etico dello stesso, o sia
preferibile mantenere distinti i titolari delle due funzioni.
65
Anche la recente convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti umani e la biomedicina
(Convenzione di Oviedo, 1997) non prende posizione al riguardo, lasciando comunque al diritto
interno la facoltà di scelta fra modello unico e modello duplice.
Un giudizio sulla validità scientifica e sull’apporto innovativo del proposto protocollo di ricerca è
in ogni caso ribadito, come condizione necessaria per l’approvazione del protocollo stesso,anche
nel testo del Protocollo addizionale sulla ricerca alla Convezione di Oviedo – in via avanzata di
redazione - secondo il dettato ben noto che “nessuna ricerca è eticamente valida se non presenta in
ogni caso intrinseche qualità scientifiche”.
Naturalmente, l’esame della praticabilità scientifica ed etica della ricerca proposta è molto più
complesso, come verrà chiarito proseguendo il discorso sul tema che mi è stato affidato.
3. Ricerca e sperimentazione.
Nel campo che ci interessa, queste due parole – dal significato polisemantico – vengono spesso
utilizzate in modo intercambiabile. Secondo l’Enciclopedia Italiana, per ricerca – con significato
più circoscritto rispetto alla generica “attività di ricercare, trovare, scoprire qualcuno o qualcosa”
– si dovrebbe intendere “l’insieme degli studi e delle indagini che si svolgono nell’ambito delle
discipline scientifiche o umanistiche per individuare documenti o fonti, ricostruire eventi o
situazioni, scoprire fenomeni, processi, regolarità, leggi etc.”. Ricerca, più esattamente, è ogni
attività di studio che si svolga in modo sistematico e non casuale proponendosi come fine
l’acquisizione di nuove conoscenze: si dice scientifica, allorchè è svolta con intendimenti e metodi
scientifici.
La medesima Enciclopedia definisce il termine “sperimentazione” come l’attività dello
sperimentare (derivazione dal tardo latino experimentum): e cioè “applicare, usare, mettere alla
prova qualche cosa per accertare e verificarne le capacità funzionali, la validità, l’efficacia, il
rendimento ecc…”.Nell’ambito della ricerca scientifica significa“il procedere secondo le norme del
metodo sperimentale”.
A rigor di termini, anche nella ricerca biomedica si dovrebbe, nell’usare i termini in esame,
distinguere fra la genericità e la onnicomprensività della voce ricerca esercitata dalla medicina
biologica, consistente nell’osservazione delle caratteristiche fisiologiche e patologiche
dell’organismo umano e la voce sperimentazione, più adeguata ad esprimere modificazioni
indotte ad arte sull’organismo (sano o malato) per derivarne informazioni sia valide alla
“conoscenza in se stessa” della reattività organica, sia utili all’attività applicativa diagnostica e
terapeutica. E’ evidente, altresì, che in rapporto alla possibile generizzabilità delle informazioni
[11], il loro significato può non rimanere circoscritto al singolo individuo dal quale esse sono
derivate, ma può estendersi ad una serie di individui costituenti una categoria, nella quale si
inserisce – per le sue caratteristiche – anche il soggetto che ha fornito le informazioni.
Un’ultima notazione generale: si è discusso, nel passato, fra natura induttiva o deduttiva del
ragionamento medico e del valore intrinseco dell’ “osservazione”[12] . L’osservazione –
considerata come “metodologia” - si applica nella ricerca biomedica a qualsiasi significato si
voglia dare ai termini “ricerca” e “sperimentazione” e la tecnologia biomedica non fa altro che
amplificare gli ambiti ultrasensoriali e consente molte volte di quantificarla.
In realtà, ribadendo la necessità della corretta ed accurata “base empirica osservativa”, si ritiene
oggi che la mente del medico – tanto più se sperimentatore – operi nella ricerca diagnostica ed in
quella terapeutica attraverso una esplorazione graduale e progressiva che procede per
congetture e confutazioni.
Dunque, applicando il “paradigma” scientifico di modello Popperiano, oggi prevalente.
Questa lunga premessa mi consente, ormai, di passare all’analisi delle singole modalità con le
quali viene in generale classificata la ricerca biomedica.
66
METODOLOGIE DELLA RICERCA BIOMEDICA
Sono molteplici, ed loro uso preferenziale dovrebbe essere calibrato sull’obiettivo da
raggiungere, attraverso il modo migliore per conferire validità scientifica al protocollo e valore
scientifico al progetto di studio considerato. Ciò non rappresenta solo un requisito di “buona
scienza”, ma anche requisito “etico”[13].
La scelta richiede “competenza” da parte del ricercatore ed un forte impegno etico (v. oltre).
Tre sono le principali modalità con le quali, in generale, si svolge la ricerca biomedica
clinica,denominate:
 i trials randomizzati controllati
 la ricerca osservazionale
 la ricerca cosiddetta “di qualità”
Tali modalità possono essere applicate in ambito prenatale, neonatale, pediatrico, adolescenziale,
nella vita adulta, nell’anziano , ecc.. in rapporto ai particolari “obiettivi” che si intendono
raggiungere: diagnostico, terapeutico, epidemiologico ecc…[14]
In generale si afferma:
I trials randomizzati controllati rappresentano i metodi più indicati per escludere dalla
valutazione dei risultati le interferenze dovute a preferenze e ad errori.
La ricerca osservazionale è particolarmente indicata in campo epidemiologico, caratterizzandosi
in senso narrativo(descrivendo i fenomeni senza individuarne le cause o gli effetti) o in senso
analitico (ricercando le cause ed effetti dei fenomeni osservati e loro interconnessioni, mediante
alcune varietà: gli studi di coorte, gli studi caso-controllo, ecc…)
Le ricerche di qualità cercano di interpretare il pensiero della gente, a proposito di determinati
fenomeni o problemi, ed hanno una vasta articolazione: metodi puramente osservativi dei
comportamenti da parte del ricercatore, interviste qualitative strutturate in questionari più o
meno elaborati, riflessioni operative di esperti (“consensus methods”), gruppi di interazione su
problemi particolari (“focus groups); esame di casistiche, ecc..
1. Revisioni sistematiche e ricerca
Ogni ricercatore si inserisce, in generale, in filoni di ricerca già coltivati e dei quali è necessario
che il soggetto agente, prima di iniziare la stesura del protocollo e la precisazione dell’ipotesi di
lavoro, ne conosca al massimo livello possibile i contenuti[15]. Sono disponibili in moltissimi
settori della medicina riassunti ed analisi dei risultati di studi precedentemente pubblicati, e
sempre di più si diffondono “revisioni sistematiche e linee guida pratiche”, che costituiscono la
base della cosiddetta “medicina delle prove di efficacia” (Evidence based medecine). Questa
deriverebbe da una vasta analisi critica, possibile quando i lavori esaminati sono fra loro
confrontabili e rispondono a precise esigenze per la soluzione di espliciti problemi[16]. Le
revisioni sistematiche, denominate anche “metanalisi”, hanno la finalità di costituire una base
consistente di studi paragonabili, al fine di aumentare la precisione delle stime riguardanti ad es.
l’effetto di un fattore etiologico, la predittività di un test, o l’efficacia di un trattamento ecc., di
accrescere il numero dei pazienti considerati in sottogruppi clinicamente rilevanti, di favorire la
soluzione di problemi relativi a risultati contrastanti ed anche di indicare l’opportunità di nuovi
studi.
La metodologia per arrivare a tali revisioni sistematiche è piuttosto complessa (e si rinvia
pertanto alle pubblicazioni specializzate); val la pena però di segnalare che l’intuizione di ARCHIE
COCHRANE (1972)[17] sul valore euristico e pratico delle revisioni sistematiche e delle
67
metanalisi è stata (e continua sempre di più ad essere) feconda di risultati ai fini della
impostazione della ricerca clinica non meno che della prassi, cioè delle decisioni cliniche di ogni
medico, caratterizzandosi – peraltro – in molti casi – come una vera e propria “ricerca autonoma”.
2. Le metologie della ricerca nella diagnosi
Il tentativo di predisporre metodi sempre più affinati per scoprire, con facilità di procedure,
rapidità, sicurezza di risultato, comodità di impiego e basso costo patologie, o condizioni
predisponenti, nel soggetto umano è uno degli scopi perenni della ricerca biomedica e della
relativa sperimentazione, oggi particolarmente sensibile alle esigenze della cosiddetta medicina
basata su dati forniti – in alcune circostanze – dalla indagine genetica (divenuta per alcuni
l’attuale “paradigma di sviluppo” della ricerca biomedica nel senso di Kuhn)[18]
Le procedure per valutare un nuovo test diagnostico o di screening[19] si basano
fondamentalmente nel sottoporre un gruppo di persone – che si ritenga adeguato per
caratteristiche – sia alla somministrazione di uno standard diagnostico già comprovato (il
cosiddetto gold standard) che al nuovo test. L’interpretazione, o la lettura, del test standard
dovrebbe essere fatta senza conoscere i risultati del nuovo test e viceversa. Si tratta di stabilire
anzitutto la sensibilità e la specificità del nuovo test nei confronti anche del gold standard. Altre
misure del “valore” di un test consistono nell’apprezzamento del potere predittivo positivo e del
potere predittivo negativo.[20]
Si incontrano, nella ricerca sui nuovi test, varie questioni di carattere etico: oltre a quelle relative
all’accertamento corretto delle proporzioni di falsi positivi e la proporzione di falsi negativi che il
nuovo test può offrire in confronto con le procedure standard (valutazioni errate possono
influenzare notevolmente la condotta dell’agente, e/o la decisione del paziente), si debbono
considerare anche i rischi connessi alla “invasività” di alcune procedure diagnostiche invasive
(sia quelle “gold standard”, sia quelle in sperimentazione).
Valgono, ovviamente, le norme di “buona pratica clinica” in questi casi e ad esse, per brevità, si
rinvia.
3. Qualche indicazione sugli studi clinici controllati (controlled clinical trials; randomized
controlled trials) e loro impiego soprattutto nella sperimentazione terapeutica
Gran parte della sperimentazione clinica si riferisce al settore farmaceutico, come è ben noto
(studi clinici).
Definizione e fasi degli studi clinici farmacologici
Gli studi clinici vengono generalmente classificati in fasi I,II,III,IV.
E’ difficile tracciare confini precisi fra le singole fasi, in quanto esistono posizioni divergenti
(talvolta non corrette e/o non eticamente accettabili).
La Fase I riguarda l’interazione farmaco-volontario sano e ha lo scopo di fornire un profilo della
farmacocinetica (Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo e Eliminazione: ADME) e di avere, se
possibile trattandosi di soggetto sano, una conferma delle risposte verificate negli animali
(attività farmacodinamica). Non rappresenta uno scopo di questa fase – in quanto eticamente
inaccettabile – effettuare ricerche sulla tossicità/tollerabilità del farmaco; è possibile solo
acquisire alcuni dati preliminari di tollerabilità osservando la comparsa o meno di sintomatologie
soggettive (nausea, cefalea, ecc.) non verificabili nell’animale da laboratorio.
Gli studi sull’ADME servono per confrontare i dati relativi verificati nell’uomo con quelli accertati
negli animali di laboratorio e potere così tracciare un primo profilo sulla sicurezza del farmaco:
gli effetti tossici verificati in animali (non collegabili all’attività farmacodinamica del principio
68
attivo) possono ritenersi possibili, quando le due ADME risultano identiche o molto vicine, anche
nell’uomo, per determinati livelli di dose e/o in particolari condizioni (iperattività); al contrario
possono ritenersi non possibili quando i dati dell’ADME risultano diversi. In questa fase, la
sperimentazione non viene generalmente condotta in cieco, ma in “aperto” vale a dire che sia i
ricercatori sia i soggetti conoscono che cosa viene loro somministrato.
La fase II riguarda l’interazione farmaco-paziente (effetti del farmaco sull’organismo:
farmacodinamica) ha lo scopo di dimostrare l’attività di un principio attivo in pazienti affetti da
una malattia o da una condizione clinica per la quale il principio attivo è proposto. In questa fase
vengono anche asquisiti elementi per la sicurezza a breve termine. Gli studi vengono condotti su
numero relativamente limitato di soggetti, spesso secondo uno schema comparativo (farmaco
confronto, placebo). E’ possibile in questa fase riuscire a determinare un appropriato intervallo di
dosi, la dose tollerabile (in base alla comparsa di effetti collaterali, legati cioè all’attività
farmacodinamica) e di identificare un rapporto dose/risposta. La fase II può non avere lo scopo
di accertare un’attività terapeutica, ma soltanto l’attività farmcodinamica.
La fase III riguarda l’interazione farmaco-paziente (effetti del farmaco sulla malattia: farmacoterapia) e ha lo scopo di determinare, su un numero elevato di pazienti, arruolati in diversi centri,
l’efficacia terapeutica e la sicurezza (limitatamente alla numerosità del campione) del
medicamento in esame. Il disegno sperimentale è quasi sempre a doppio cieco, randomizzato, in
confronto con un placebo o con un farmaco di efficacia accertata.
In questa fase si possono rilevare molti degli effetti avversi, in particolare gli effetti più manifesti
che insorgono dopo un trattamento di tre/sei mesi dopo la somministrazione del farmaco, a patto
che questi peò ricorrano con una frequenza maggiore di 1 volta ogni 100 somministrazioni.
Effetti tossici importanti sotto l’aspetto medico che si manifestano con un certo ritardo o
ricorrono con una frequenza minore di una volta ogni mille somministrazioni possono quindi non
venire rilevati prima dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC).
La fase IV della sperimentazione clinica prende l’avvio dopo che il farmaco ha ottenuto il
permesso per la commercializzazione. Questa fase riguarda principalmente l’interazione
medicamento-pazienti, effetti del farmaco nelle reali condizioni d’impiego, eventuale comparsa di
effetti indesiderati (farmacovigilanza) e in linea secondaria l’osservazione di possibili effetti
terapeutici non indicati all’atto della commercializzazione del prodotto. Studi clinici aventi lo
scopo di confermare o accertare nuove indicazioni vanno considerati come studi su nuovi
prodotti medicinali e quindi ricadere su studi di fase II/III. Occorre segnalare che sulla
definizione di questa fase non vi è un completo accordo.
Le caratteristiche dei “controlled clinical trials”
Nel 1998, in occasione del 50° anniversario del primo studio clinico randomizzato controllato
pubblicato in Gran Bretagna sull’impiego della streptomicina nella tubercolosi, è stata
organizzata una grande conferenza internazionale dal titolo: "50 anni di trials clinici”, i temi della
quale indicano molto significativamente il percorso svolto e la complessità che ha assunto tale
tecnica sperimentale[21]:
Non è certamente negli scopi di questa trattazione offrire una esaustiva analisi di questa
complessa materia; tuttavia, qualche sommario richiamo servirà a far intravedere soprattutto la
responsabilità che caratterizza i promotori, i programmatori, e gli stessi esecutori di tali
metodologie, le quali hanno l’obiettivo di valutare qualsiasi trattamento potenzialmente
innovativo con criteri per quanto è possibile rigorosi [22] .
69
J.P. BOISSEL e A.LEIZOROVICZ (2000)[23] sottolineano la “natura” degli studi clinici controllati,
considerati un progresso fondamentale nella storia dello sviluppo e delle terapie efficaci con le
seguenti espressioni:
“Essi sono esperimenti scientifici e per questo motivo possono essere universalmente compresi e
i loro risultati possono essere universalmente applicati, sempre che siano stati disegnati e
condotti in accordo a principi oggi ben codificati….”.
“Il concetto di studio clinico controllato è essenzialmente lo stesso per ogni branca della
medicina. Si applica sia alla valutazione dei farmaci che delle procedure chirurgiche, delle terapie
fisiche e delle terapie psichiche. Può essere esteso alla valutazione dei test diagnostici. Infine, gli
studi clinici controllati possono essere utilizzati (e lo saranno sempre di più) per valutare diverse
strategie mediche. Una strategia è un insieme di interventi, possibilmente in combinazione con
procedure diagnostiche differenti. Sono stati pubblicati diversi esempi di valutazione di differenti
strategie in medicina: per esempio, un approccio di tipo invasivo rispetto ad un approccio
conservativo, o un trattamento farmacologico pre-ospedaliero rispetto a quello ospedaliero”
(pag.1).
E riprendono:
“Uno studio clinico controllato è un esperimento nel corso del quale vengono raccolti dei dati. La
loro analisi, in accordo con il disegno dello studio, produce informazioni che sono di natura
scientifica. Uno studio clinico deve pertanto soddisfare i requisiti fondamentali di un esperimento
scientifico. La metodologia degli studi clinici è basata sui principi del metodo sperimentale, come
già inizialmente identificato nel XIX secolo ed oggi codificato. Tali principi possono essere così
riassunti:
L’ipotesi da valutare deve essere proposta per iscritto prima dell’inizio della raccolta dei dati;
l’ipotesi viene verificata attraverso le modificazioni registrate nel sistema oggetto di indagine
(per esempio il paziente, l’unità che fornisce la terapia, ecc..).
Il sistema oggetto di indagine è l’unità sperimentale.
Il disegno sperimentale deve essere tale per cui la verifica dell’ipotesi dipende dal confronto tra
un gruppo di unità sperimentali modificate e un gruppo di unità di controllo non modificate;
questo paragone è per il ricercatore la chiave di accesso ai risultati dell’esperimento.
Il numero di unità sperimentali deve essere sufficientemente grande da minimizzare il rischio
che singole reazioni idiosincratiche delle unità sperimentali abbiano un peso eccessivo sui
risultati.
Allo scopo di stabilire una relazione di causalità tra la modifica del sistema e il risultato, i due
gruppi, fatta eccezione per l’intervento, devono essere gestiti in modo identico, prima, durante e
dopo l’intervento che determina la modifica, fino al completamento della raccolta dei dati”.
Nei primi tempi di sviluppo del metodo sperimentale questi principi non potevano essere
direttamente applicati al campo della ricerca con piena efficienza. Successivamente sono stati
affinati con l’adozione del modello statistico e con il concetto dei “fattori di confondimento” .
Seguendo questi AA., la “costruzione” di uno studio clinico controllato, in estrema sintesi, deve
prevedere:
l’ipotesi a priori che deve essere testata. Questa di solito è relativa all’efficacia di un certo
intervento su un evento, un sintomo, o sulla qualità della vita di pazienti con una patologia
specifica e un profilo peculiare di eleggibilità. Tale ipotesi rappresenta il prodotto di un processo
lungo e complesso ed è costruita gradualmente intorno ad un ragionamento basato sulle
conoscenze disponibili, su intuizioni, su relazioni funzionali osservate o presunte, e su
un’accurata analisi del problema di salute al quale è interessato lo sperimentatore.
La stima dei cosiddetti “fattori di confondimento”, necessaria per il fatto che numerosi fattori
possono interferire con l’evoluzione delle condizioni di un paziente dopo la somministrazione di
70
una terapia. L’effetto dell’intervento terapeutico è solo uno dei fattori, e non può essere separato
dagli altri solamente osservando il decorso del paziente. Altri fattori in gioco sono la cosidetta
regressione verso la media, il miglioramento o il peggioramento spontaneo della malattia, gli
effetti delle terapie concomitanti e l’effetto placebo. Gli effetti di tutti questi fattori sono correlati
con il tempo[24].
Circa l’effetto placebo, è noto che tale fattore interferisce con l’evoluzionedella malattia di un
paziente, nella maggior parte dei casi in modo positivo. E’ una componente inevitabile di tutte le
terapie. Per quanto sia difficile precisare le modalità secondo le quali opera “l’effetto placebo”,
nessuno negherebbe la sua esistenza [vedi anche G. Folli (1994); L.Candia (1994)].
La sua intensità e il peso delle sue componenti più verosimili (la fiducia del paziente nel medico o
nel farmaco, le aspettative positive del malato e le proprie convinzioni rispetto al “miracolismo”
della medicina, ecc..) non sono prevedibili. Si suppone che molti siano i farmaci che funzionano
solo attraverso l’effetto placebo.
La randomizzazione, criterio con il quale i soggetti che accettano di partecipare all’esperimento
sono collocati in ogni gruppo di studio utilizzando un metodo di assegnazione che non è soggetto
a influenze esterne (e cioè non è permessa alcuna preferenza personale né da parte dei
ricercatori, né dei pazienti). E’ provato che in generale l’assegnazione casuale (random)
rappresenta il metodo migliore per raggiungere questo obiettivo, ma il criterio si presta a varie
obiezioni etiche (che di seguito verranno precisate).
Il mascheramento dell’appartenenza ai diversi gruppi (blinding, o “cieco”). Così si esprimono
ANN MC KIBBON, A. EADY e S.MARKS[25]: “Negli studi relativi a trattamenti, oltre
all’assegnazione casuale, i pazienti, gli operatori sanitari ed il personale che partecipa allo studio
non dovrebbero conoscere, per quanto possibile, il gruppo al quale il paziente è assegnato.
Questo metodo è definito blinding o mascheramento o cieco, ed evita quello che comunemente
viene definitomeasurement bias (errore di misurazione). Considerando la realtà della natura
umana, le aspettative dei pazienti e degli operatori sanitari sono forti, e spesso inconsciamente
possono influenzare la rappresentazione dei risultati. Fin troppo spesso, e con le migliori
intenzioni, le persone considerano come veritiero ciò che pensano debba accadere o ciò che
pensano che gli altri si aspettano debba accadere. Per ridurre al minimo queste percezioni errate,
né gli operatori sanitari né i pazienti dovrebbero sapere quale trattamento i pazienti stanno
ricevendo” (pag.46).
A giudizio di molti autori, da noi condiviso, le procedure di mascheramentosono complicate e
presentano spesso gravi riserve etiche (in seguito richiamate), soprattutto nelle formule del
“doppio” o “triplo cieco”, pur non mancando in linea di principio di una loro razionalità [26].
Il controllo in corso d’opera e a distanza (follow-up). E’ evidente l’importanza di questo fattore
per la valutazione dei risultati degli studi randomizzati controllati, non solo durante e al termine
degli studi (momento previsto correttamente nel protocollo originale; ma che per varie ragioni
viene spesso modificato nel senso di anticipazione o ritardo nella chiusura della fase
sperimentale) ma anche per quanto riguarda la valutazione degli effetti a distanza di tempo. Un
tempo troppo breve di osservazione può mascherare effetti perversi emergenti a lungo termine.
Si ritiene che almeno l’80% di tutti i partecipanti che sono stati arruolati e randomizzati all’inizio
dello studio debbano essere analizzati alla fine di esso perché i risultati siano considerati validi o
“veri”, al 90% di probabilità.Questo significa tener conto di tutti i partecipanti che interrompono
il trattamento (i quali dovrebbero essere nel minor numero possibile) o che sono in qualche
modo persi. Giustamente A. MC KIBBON et al. affermano che mantenere un buon follow-up può
essere facile o difficile, a seconda dello studio[27] e S. Galbraith e I. Marshner (2002) – mettendo
in evidenza anche l’aumento dei costi che si determina con la riduzione dei dati “in corso d’opera”
hanno elaborato criteri statistici atti ad affrontare le varie situazioni [28] .
71
In ogni caso, è necessario (tecnicamente) e doveroso (giuridicamente e moralmente) seguire il
trattamento e “monitorarlo” durante tutto lo stesso svolgimento, allo scopo di chiarire se il
protocollo approvato deve essere mantenuto inalterato o modificato.
Ciò comporta l’adesione a regole di appropriata osservazione della casistica, basata sulla
tempestività delle segnalazioni degli effetti avversi, la completezza delle stesse, la competenza e
l’esperienza professionale di chi effettua il monitoraggio e la sua libertà di giudizio nei confronti
di possibili indebite interferenze [29].
Il corretto impiego di metodologie statistiche. Secondo B.PITT e altri (2000), “l’utilizzo del
modello statistico ha lo scopo di risolvere tre problemi correlati: la variabilità tra un osservatore
e l’altro, o nello stesso paziente a tempi diversi (variabilità intrapaziente) o in pazienti diversi
allo stesso tempo (variabilità tra pazienti); la variazione casuale nei risultati dello stesso
esperimento ripetuto più volte; e la previsione di eventi successivi basata su una serie di dati
osservati in precedenza. I due strumenti statistici che forniscono una soluzione a questi problemi
sono il test di significatività e la stima puntuale con i suoi limiti fiduciari. Il test di significatività
fornisce regole arbitrarie, ma ragionevoli, per decidere se il risultato di uno studio, ossia la
differenza osservata tra il comportamento e cambiamenti nei due gruppi, è dovuto al caso o può
essere accettato come frutto di una reale differenza[30]. Una volta che la differenza tra i
cambiamenti nei pazienti trattati e quelli di controllo è stata calcolata e la significatività statistica
è stata valutata, il punto successivo che il ricercatore deve prendere in considerazione è la
dimensione dell’effetto del trattamento, specialmente se il valore di P è piccolo[31].
Come sottolineano Calamo-Specchia e coll (1994) [32] indagini compiute da Meinert e coll.
(1984) hanno posto in evidenza che molti lavori pubblicati nella letteratura internazionale a
quell’epoca non calcolavano previamente la grandezza del campione necessario, né pianificavano
la valutazione dei risultati con criteri di significatività statistica: oggi, ovviamente, molto è
cambiato a riguardo [33].
Concludendo: le indicazioni (ovviamente non completamente esaustive) fornite in questo
paragrafo dimostrano la complessità, metodologica e interpretativa, dei trials clinici: questa
complessità mette alla prova non solo sperimentatore , lo sponsor ed in generale i “tecnici” della
ricerca clinica, ma anche i divulgatori (la stampa) e la comprensione esatta dei risultati da parte
dell’opinione pubblica (R. Morton, 2001).[34]
4. Ricerca sull’eziologia, sulle cause e sul danno
Sono ricerche molto importanti di carattere sanitario, oltreché di carattere clinico (in
quest’ultimo caso, è frequente l’impiego del concetto di “danno”, anche in senso iatrogeno).
Questi studi, che hanno per obiettivo anche quello di valutare il rischio prodotto per un
determinato soggetto, o per una popolazione determinata, dall’esposizione a cause singole (o
associate) di cui si conosce (o si suppone) l’effetto patogeno, sono molto complicati ed hanno una
diversa capacità di raggiungere un obiettivo di verosimiglianza secondo l’ordine decrescente di
efficacia: studi controllati randomizzati; studi coorte; studi caso-controllo; studi trasversali con
gruppi aggiustati statisticamente.
Non è possibile, in questa sede, approfondire ulteriormente gli aspetti “tecnici”: basterà dire che
vengono attualmente ritenuti “validi” gli studi di coorte (cohort study), sebbene non siano quelli
più specifici nei risultati (ma anche per alcuni aspetti eticamente discutibili) come lo sono i
“prospettici” studi clinici randomizzati. Peraltro, anche gli studi di coorte sono difficili da
eseguire e richiedono tempi lunghi e costi relativamente elevati, caratteristiche molto
pronunciate negli studi prospettici randomizzati.
Gli studi di caso-controllo sono considerati “deboli” dal punto di vista metodologico, ma in clinica
vengono spesso usati per studiare ad es. effetti collaterali rari dei trattamenti perché hanno il
72
pregio di poter essere realizzati con relativa rapidità e minori costi. Gli studi caso-controllo si
basano sull’anamnesi circa l’esposizione degli individui oggetto di valutazione rispetto all’agente
causale (noto o previsto) per la malattia.
Gli studi trasversali con gruppi aggiustati statisticamente sono rapidi e facili da completare come
“indicazione” di una causa eziologica, ma vengono ritenuti “non validi” per costituire una base
attendibile per le decisioni cliniche.
5. La ricerca riguardante la “storia naturale” e l’individuazione della prognosi
Come abbiamo già accennato costituisce un capitolo particolare, anche sotto l’aspetto etico,
l’osservazione della “storia naturale” intesa come progressione della malattia non trattata. Se
questa è invece sottoposta a cure si parla di prognosi, in generale a partire dal momento
dell’avvenuta diagnosi.
Giustamente, si fa rilevare che “i clinici hanno bisogno di avere un rapido accesso alle
informazioni riguardanti la storia naturale e la prognosi per rispondere alle domande dei propri
pazienti. Una delle prime domande poste dai pazienti quando vengono messi al corrente di una
nuova diagnosi è “Cosa mi succederà adesso?”. Essi vogliono conoscere le implicazioni della
malattia o condizione appena diagnosticata in termini di sopravvivenza, progressione della
patologia e stile di vita, ancor prima di cominciare a valutare le opzioni ed i problemi di un
trattamento o di una terapia palliativa” (ANN MC KIBBON et al. (2000); pag.131)[35].
Seguire la malattia astenendosi da un trattamento che si conosca come valido, per osservare cosa
avviene nel tempo (come è avvenuto ad es. nel notissimo caso del Tuskegee Study of Untreated
Syphilis in the Negro Male (Studio Tuskegee sulla sifilide non trattata nel maschio afro-americano
(BRAWLEY, 1998)[36], è palesemente immorale se ciò avviene all’insaputa del paziente perché
tradisce la fiducia di questiriposta nel medico (dal quale si attende una cura).
Valutare la “prognosi” nell’ambito di una ricerca è concetto del tutto diverso;ciò può essere fatto
raggruppando pazienti di una determinata malattia in un campione per quanto è possibile
omogeneo per caratteristiche di inserimento e ad uno stadio precoce di malattia
(cosiddetta coorte incipiente o inception cohort), seguendo poi nel tempo e nel decorso in
presenza di determinati trattamenti almeno l’80% dei pazienti inizialmente arruolati [37].
CONSIDERAZIONI FINALI
1. Correnti etiche e sperimentazione clinica
Al termine di questa esposizione, mi sembra importante svolgere qualche considerazione,
richiamando anzitutto i termini con i quali viene “vissuta” l’attività di ricerca da parte dello
sperimentatore, in rapportoalle correnti etiche alle quali prevalentemente egli si ispira.
Si conviene, largamente, che la sperimentazione clinica costituisca una tematica densa di
implicazioni culturali, morali e giuridiche[38].
Essa mette alla prova sia la preparazione professionale che il senso di responsabilità etica del
medico-sperimentatore, sia il sentimento di solidarietà sociale del partecipante alla ricerca.
Si conviene che ricerca e sperimentazione in medicina (biomedicina) siano fondate sull’uso della
ragione e sull’uso dei sensi (vanno ricomprese nel concetto le tecnologie che implementano o
sostituiscono l’uso dei sensi), così come in ogni ramo della scienza naturale applicata.
La descrizione e la misurazione adeguata dei fenomeni biologici che si osservano
spontaneamente o di quelli che vengono indotti con varie tecniche, debbono necessariamente
essere condotte secondo procedure ben definite e secondo regole che – nell’esperienza – guidano
73
il ricercatore verso affermazioni giustificate dall’evidenza, ancorché in futuro “falsificabili” in
rapporto a successive differenti evidenze.
Tali affermazioni costituiscono il concetto di “oggettività”, al quale si riferiscono anche le ricerche
terapeutiche condotte con le metodologie che abbiamo ricordato[39].
La riflessione etica sul singolare “rapporto” che si instaura nella sperimentazione fra motivazioni,
valori ed interessi diversi può essere svolta in chiave utilitaristica-consequenzialista,
deontologica tuzioristica, autonomista e personalista.
L’utilitarismo apporta alla discussione il criterio del “vantaggio dei molti” (attuali o futuri) che
beneficieranno del progresso diagnostico o terapeutico contro il rischio e la sofferenza dei pochi
sui quali si sperimenta, privilegiando il conseguimento del risultato rispetto alle modalità di
realizzazione.
In questa estrema, schematica forma l’utilitarismo ovviamente non è accettabile; il suo apporto
positivo sta nel fatto che invita a riflettere sulla giustificazione morale del “progetto di ricerca”,
sulla entità del beneficio che se ne può conseguire e sulle conseguenze dell’azione.
Il criterio deontologico, o etica dei doveri, è rivolto non tanto all’analisi dell’obiettivo, quanto
all’apprezzamento della moralità dei metodi con i quali di esperimenta nell’ambito delle
caratteristiche proprie dell’attività medica, che deve sempre privilegiare il migliore interesse
dell’assistito. In caso di conflitto fra interessi della ricerca e tutela del paziente, è quest’ultimo
obiettivo che deve prevalere .
Il deontologismo – che si ispira all’etica del “dover essere” di derivazione Kantiana – dà un
apporto positivo alla valutazione del rischio nei confronti della duplice condizione in cui può
presentarsi la ricerca: interesse diretto per la salute del paziente, nessun interesse immediato per
lo stesso.
Come è noto, la valutazione del rischio rappresenta la formula “moderna” per affrontare il
problema nell’evoluzione subita dal primo documento di Helsinki che vietava la ricerca non
terapeutica allorché priva di consenso, includendo nel divieto coloro che non fossero in grado di
consentire. L’evoluzione ha portato alle attuali formulazioni del “consenso delegato”, associato a
particolari norme di tutela per i soggetti che non possono consentire.
In ogni caso, questo problema (che viene affrontato da altri Relatori in questo Congresso)
costituisce uno degli argomenti più controversi della bioetica della sperimentazione (Della Torre,
1994 [40])
Lo “sdoppiamento” potenziale del ricercatore medico fra il suo ruolo di curante e quello di
sperimentatoreobbliga in ogni caso ad un bilanciamento che faccia pendere l’ago dal lato
dell’interesse del paziente, piuttosto che da quello della scienza e della società (World Medical
Association, 1996; concetto accolto nella Convezione di Oviedo, 1997).
L’etica dell’autonomia è basata sui “diritti della persona” (prima ancora che “del paziente”, come
si suol dire in campo sanitario) e si presenta – nel caso della sperimentazione medica – come
applicazione delle teorie “della scelta” e “dell’interesse”. La prima, al di là del richiamo al diritto
fondamentale alla libertà, circoscrive i diritti della scelta a quelle condizioni in cui altri hanno
doveri morali da rispettare. Waldron [41] applica questo criterio, ad es., alla delicata questione
delle ricerche non terapeutiche, ove il bilanciamento è fra i doveri etici dello sperimentatore di
non far correre rischi al soggetto, e la facoltà del soggetto consenziente di scegliere per il rischio.
La seconda, che risale J. Bentham, circoscrive la tutela degli interessi del soggetto alle condizioni
in cui è possibile in anticipo definire in sede pubblica chi sia beneficiario del dovere altrui, e si
applica – ad es. – ai cosiddetti diritti sociali della persona, fra cui (con le particolari modalità
stabilite dello Stato) la “tutela della salute”.
74
Comunque si voglia argomentare, il risultato porta alla “autodeterminazione” di chi è chiamato a
partecipare alla ricerca, autodeterminazione che – in letteratura – vieneinquadrata nel principio
kantiano della libertà della ragione.
Se la questione è più semplice da derimere con il principio dell’interesse nel caso della ricerca
terapeutica che abbia diretto potenziale vantaggio per il malato, la decisione è ovviamente più
delicata, e richiede l’accoglimento del “principio della autodeterminazione”, nel caso della ricerca
non terapeutica e priva di interesse diretto per la persona .
La autodeterminazione consapevole di correre un rischio, che si esprime nelle note procedure
dell’informazione veritiera e nella volontarietà del consenso in persona competente, farebbe da
contrappeso nella relazione duale alla supremazia di conoscenza che caratterizza lo
sperimentatore rispetto al soggetto che accetta “fiduciosamente” (cioè credendo
nell’informazione) di partecipare alla ricerca, giustificandola. Ciò non toglie che – giuridicamente
– ove manchi l’interesse terapeutico diretto, la scelta del soggetto vada inquadrata nell’ambito
delle attività rischiose.
Concludendo: appare evidente che – nel concreto -tutte le teorie etiche sin qui richiamate
possono essere chiamate in causa, sebbene in diversa misura – nelle varie modalità della ricerca
che abbiamo illustrato, non sottraendosi, soprattutto nel caso dell’utilitarismo, ad alcune assolute
limitazioni.
Fermo restando che, sull’argomento, ha grande importanza quanto è stabilito dalla copiosa
normazione che in sede nazionale ed internazionale è stata gradualmente elaborata per la
protezione giuridica del soggetto partecipante alla sperimentazione, ora desideriamo offrire
qualche esempio delle limitazioni indicate [42].
2. Alcune doverose limitazioni metodologiche nella sperimentazione clinica e l’apporto dell’etica
personalista
Le questioni di maggiore impegno etico ruotano (limitandosi in questa sede alle sole
considerazioni sulle metodologie) attorno ai criteri di randomizzazione (con la questione del
cieco) ed all’uso del placebo negli studi clinici controllati.
Prescindendo da segnalazioni pioneristiche rimaste isolate (ad es. P. Martini “Methodulehereder
Therapeutischen Untersuchung “verlag von J. Springer, Berlin, 1932) la tematica degli studi clinici
controllati si è sviluppata fra gli ultimi anni ’70 e gli anni ’90 del XX secolo anche a riguardo degli
aspetti etici con numerosi contributi, che è impossibile in questa sede esaminare analiticamente.
Si rinvia, pertanto, ai già citati studi di A.G. Spagnolo (1994), Folli (1994), L.Candia (1994), Foster
(2001), B.Pitt et al (2000); A. Mc Kibbon et al. (2000) ecc..
Una linea estremamente rigorosa della sperimentazione clinica, come quella basata sull’ “etica
del risultato” ampiamente sostenuta dall’utilitarismo ed espressa da alcuni AA., fra cuiRAPAPORT
(2001), afferma l’esclusivo valore degli studi clinici randomizzati controllati con placebo nelle
questioni terapeutiche più controverseperché unici in grado di eliminare gran parte deibias [43] .
Ottenuta l’evidenza, si potranno derivare “linee guida” che opportunamente diffuse fra i medici,
porteranno a migliori risultati (soprattutto nei tassi di sopravvivenza) sia per il singolo paziente,
che per la salute pubblica. Cosa pensare di questa strategia?
Che si debba fare ogni sforzo per eliminare quei fattori che distorcono la valutazione dell’efficacia
clinica di un trattamento è intuitivo. Che “linee-guida” basate su questo sforzo possano assumere
un ruolo di riferimento per la medicina corrente, ed anche per futuri ulteriori studi è verosimile,
e tutto ciò rappresenterebbe un’acquisizione favorevole nell’evolversi del sapere medico.
E’ un dato di fatto, però, che la randomizzazione e l’uso del placebo con doppio o triplo cieco
incontrano molte difficoltà ad essere poste in atto, e crescente contrarietà nei medici e nei
pazienti [44].
75
Peraltro, non v’è dubbio che il “paradigma” oggi dominante del consenso pienamente informato è
difficilmente compatibile con i criteri di “mascheramento” sin qui adottati.
Rimane – con la sua forza etica non contestabile – la necessità di valutare caso per caso il
“potenziale contrasto” che gli studi clinici randomizzati potrebbero assumere con gli interessi di
quel determinato paziente.
Questo contrasto potrebbe derivare sostanzialmente da due motivi:
che il rischio a cui viene sottoposto il paziente sia per lo stesso troppo elevato rispetto al rischio
generico medio previsto per la categoria di randomizzazione in cui il paziente risulterebbe
inserito.
che il paziente sia privato di terapie efficaci – di cui abbia reale bisogno - se, nella
randomizzazione, cade ciecamente nel gruppo del “placebo” puro (senza alcun trattamento).
Entrambe le evenienze, da considerarsi negative, comportano un’attenta riflessione da parte
dello sperimentatore ed una consapevole maturità professionale e morale dello stesso. In merito
alla prima (omissione della valutazione personalizzata del rischio), si può osservare che affidarsi
al caso, o a sistemi automatizzati e centralizzati di assegnazione del singolo paziente all’uno o
all’altro gruppo di randomizzazione può confliggere in modo palese e psicologicamente
intollerabile con quel “migliore interesse” che – si afferma – la medicina dovrebbe offrire nella
tutela della salute e che il paziente, che al medico si affida con fiducia, si aspetta di ricevere[45].
Affidarsi a forme di“consenso parzialmente informato” – e senza un’esauriente discussione orale
- per dirimere la questione sul piano “formale” non offre la garanzia che il singolo paziente
comprenda veramente la natura delle informazioni contenute nel modulo che lo impegna ed i
rischi associati alla partecipazione allo studio. Al paziente, comunque, dovrebbe essere lasciato il
tempo per riflettere sui rischi ed i benefici connessi alla partecipazione allo studio randomizzato
prima di decidere, ed il Comitato etico dovrebbe attentamente vigilare sulla comprensibilità delle
informazioni da fornire e della esaustività delle stesse.
Il secondo motivo sopra accennato è altrettanto importante, e spiega la crescente disaffezione
dimostrata dai clinici verso l’uso del “placebo” in senso puro quando esiste una terapia standard
già efficace con la quale trattare i pazienti che non rientrano nel gruppo sperimentale (TAUBES,
1995[46]; LILFORD e JACKSON, 1995[47]; ROTHMAN e MICHELS, 1993[48]; ecc.).
Sebbene si sostenga che senza l’aiuto di studi clinici randomizzati controllati con il placebo e
condotti su un numero elevato di pazienti sia difficile – se non impossibile – determinare i rischi
reali ed i benefici di una determinata strategia terapeutica, si riconosce da parte di numerosi
autori che tale criterio può potenzialmente sacrificare il bene del singolo soggetto.
Ciò che, a nostro parere, è inaccettabile sotto il profilo dell’etica personalista. La priorità da
assegnare all’interesse del singolo, in termini di salute, rispetto ad ogni altro interesse della
scienza è riconosciuto – del resto – come “valore” da preservare anche dai recenti documenti
internazionali sulla sperimentazione in medicina (v. ad es. CONVENZIONE sui diritti dell’uomo e
la biomedicina: OVIEDO, 1997; Dichiarazione sui diritti dell’uomo ed il genoma umano
dell’UNESCO, New York, 1996) [49] e per questo motivo appare “ragionevole” non privare il
gruppo di controllo di una forma di terapia tradizionale scelta fra quelle comunemente usate per
la specifica forma morbosa (Candia, 1994) [50].
Nel caso della ricerca terapeutica, in definitiva, una strategia ottimale è quella di impostare il
protocollo in modo da ottenere le informazioni circa l’efficacia del trattamento così da
promuovere le migliori decisioni per i pazienti futuri, ma nello stesso tempo massimizzando le
opportunità di cura attuali dei pazienti in esame. Questa strategia è – di per sé – portata più alla
versione “adaptive clinical trials (ACTs)” che non alla classica versione “randomized clinical
trials” (RCTs)[51]
76
3- Vi sono altri aspetti di carattere etico generale che meritano attenzione e richiamo in questa
breve analisi conclusiva.
Rinviando alla relazione generale sulla eticità della ricerca biomedica che verrà svolta in questa
sede da S.E. Rev.ma Mons. E. SGRECCIA[52], vorrei considerare solo alcuni punti più strettamente
correlati al tema a me affidato. Considero, con brevità, solo i seguenti:
Obiettivi della ricerca
Uno degli aspetti critici si riferisce alla oculata scelta dell’argomento di ricerca sperimentale:
soprattutto per chi segue un’etica di impostazione personalista d’ispirazione cattolica sono da
considerare non solamente la qualità scientifica del protocollo e le metodologie atte a ridurre al
minimo il rischio del soggetto, ma anche“l’obiettivo” al quale la ricerca è rivolta. Comprendiamo
che questo è argomento scabroso, che non si limita al caso degli abortivi precoci od a metodi di
sterilizzazione od all’uso di cellule staminali embrionali umane, ecc.. (per fare alcuni esempi di
viva attualità), ma potrebbe estendersi (sebbene con altri profili) anche a sperimentazioni ove
intervengano pesantemente il profitto e gli investimenti per farmaci a larga diffusione
commerciale, ma che verrebbero ad aggiungersi ad un arsenale già largamente disponibile di
opzioni a discapito di sperimentazioni per settori “orfani”, che sarebbero più urgenti [53], o per
sperimentazioni condotte in paesi in via di sviluppo o ad altissimo tasso di povertà, ove né
l’informazione, né il consenso della persona arruolata corrisponde ai principi validi nei paesi
sanitariamente ed economicamente sviluppati e la volontà dei singoli può essere facilmente
manipolata da mediatori interessati [54].
In questo contesto si inquadra anche la necessità che la sperimentazione clinica – sia essa
nell’interesse terapeutico diretto che priva di tale interesse sia sempre “caritatevole” (cioè dotata
di sentimenti di empatia umana) verso il soggetto, soprattutto se malato e particolarmente nelle
condizioni cliniche di emergenza o nelle fasi terminali [55].
Per superare i ricorrenti contrasti di opinione su tali argomenti, che hanno contenuti etici
indubbi, è stato da taluno proposto anche una partecipazione più ampia della società alle
strategie dell’innovazione terapeutica, ben oltre il ruolo già attualmente esercitato dai Comitati
Etici ospedalieri. Ciò che appare di difficile realizzazione ma non impossibile per definiti progetti
di ricerca[56].
Gli effetti salutogenici e la “compliance” del soggetto partecipante alla sperimentazione
Rappresentano, questi, aspetti ulteriormente da chiarire nell’ambito della sperimentazione (in
particolare farmaco-terapeutica), allorché si tratta di giudicare sull’effetto “reale” di un
determinato trattamento.
La funzione esercitata dal binomio cervello-mente nel mantenimento della salute è, oggi, sempre
di più oggetto della ricerca delle neuroscienze, anche sulla base del concetto proposto da
Antonovsky nel 1979 [57] di “salutogenesi”, che sottolinea le diversità di reazione delle diverse
persone verso i medesimi traumi dell’esistenza: alcuni dimostrando una coerenza interna globale
di comportamenti orientati alla salute ed all’ottimismo, altri alla depressione e alla malattia.
Varie ricerche hanno dimostrato l’effetto “coping” – e cioè che la capacità delle varie persone di
superare condizioni potenzialmente stressanti si correla con la visione che tali persone hanno
delle situazioni stesse; le capacità salutogeniche del supporto sociale ed infine – ciò che è di
notevole interesse in questa sede – l’effetto salutogenico della fede religiosa [ Strang S. e Strang P.
(2001)[58]; Murphy et al. (2000)[59]; Cinà (1998)[60], A. Bompiani (2000)[61], D. Smith
(2002)[62]].
Che tali reazioni abbiano una base neurobiologica appare sempre più evidente da alcune ricerche
sulla localizzazione nelle aree cerebrali delle funzioni di regolazione delle emozioni in soggetti
77
normali e patologici; tuttavia rimane da chiarire quale effetto queste differenze individuali nei
meccanismi di “salutogenesi” abbiano nelle ricerche farmacologiche e nei “trials” clinici.
Un altro aspetto degno di considerazione nell’ambito delle metodologie di sperimentazione
clinica è quello tecnicamente indicato come “compliance” del paziente, e cioè la “qualità” della
partecipazione del paziente al suo trattamento, valutata come misura del comportamento della
persona interessata nei confronti degli orientamenti medico-sanitari ritenuti dal professionista
sanitario utili per la di lui salute (M. La Rosa, 1995)[63].
Molti sono i fattori che intervengono in questo fenomeno (che riguarda da vicino anche la
“relazionalità” che si è creata fra paziente e curante) e che si riflettono nella (eventuale)
sperimentazione terapeutica. Infatti, il protocollo di studio presuppone una
perfetta compliance del paziente (assunzione del trattamento alle dosi e per la durata prevista),
mentre una cattiva compliance passata inavvertita aumenta la variabilità dei dati e porta ad un
errato apprezzamento dell’entità del risultato (soprattutto nei trials clinici di limitate estensioni
(P.E. Lucchelli, 1995)[64].
Vari metodi sono stati individuati per misurare la “compliance” (v. ad es. R. Novellini, 1995 [65].
Dal punto di vista etico, la questione si riconnette al “senso di responsabilità” che il paziente
dimostra nell’aderire, con convinzione, alla sperimentazione che gli viene proposta.
Ma più ancora si deve sottolineare il valore morale di una partecipazione volontaria ad una
sperimentazione priva di interesse terapeutico per chi vi si sottopone, nel significato di una
consapevole oblazione della propria corporeità ai pur limitati (ma entro certi limiti
imprevedibili) margini di rischio, ove questa partecipazione è decisa nell’interesse del
“prossimo”. Si tratta di una forma di “carità” che identifica una originalità della morale cristiana
rispetto alle morali puramente razionali, nel senso sviluppato ad es. da F.BOCKLE [66].
L’integrità del ricercatore
Un ultimo aspetto da considerare riguarda quel complesso di comportamenti che nel gergo è
indicato come “integrità”dello sperimentatore. Una prima questione inerisce al possibile conflitto
di interessi economici[67], una seconda si riferisce al suo grado di rispetto del “protocollo”
concordato e approvato dal Comitato etico, una terza alla falsificazione dei dati.
Già la mancanza di un coscienzioso attenersi – salvo i casi di palesi eventi avversi e condizioni di
urgenza insorti nel corso del trials clinico – a quanto richiede il protocollo può comportare
distorsioni più o meno apprezzabili dei risultati [68]; ma ben più gravi sono i casi di falsificazione
dei dati, che compromettono – allorché vengono riconosciuti – la fiducia dell’opinione pubblica e
influiscono negativamente sulla disposizione dei pazienti a partecipare a studi clinici.
Nel rinviare l’ulteriore trattazione di questo argomento agli ottimi contributi di F. DI TROCCHIO
(1993)[69], di PORTIGLIATTI-BARBOS e coll. (1993)[70], di J. RANSTAM et al. (2000)[71]
segnaliamo anche – in taluni ambienti ad alta “competitività” scientifica – la caduta di quel
fondamentale comportamento collaborativo tradizionale del ricercatore, basato sullo scambio di
informazioni e di materiale fra pari [72].
Vogliamo chiudere queste brevi note sottolineando l’attuale, notevole carenza di processi
“specifici” di formazione dei ricercatori in medicina e – per converso – il grande significato
morale che rivestono i rari esempi in cui questa formazione viene affrontata con serietà e
metodo.
78
[1] C. FOSTER, The ethics of medical research on humans, Cambridge University Press 2001, p.1.
[2] Uso l’espressione “paziente” nel senso indicato dal documento “Diritti del paziente”
dell’O.M.S.-Regione Europea (Copenhagen , 1994), nel quale è paziente qualunque persona che ha
diritto ad un’assistenza sanitaria e viene a contatto con una struttura sanitaria. Per maggiori
informazioni sull’argomento, si rinvia a A. BOMPIANI, L’Italia e la Dichiarazione di Amsterdam sui
diritti del paziente, Medicina e Morale 1998/1, 47-90.
[3] E’ opportuno avvertire che questo contributo non si occupa delle questioni relative alla
ricerca embrionale, che è trattata da altra relazione (v.Roberto Colombo).
[4] SGRECCIA E. [ in SGRECCIA E., Autonomia e responsabilità della scienza, in SPAGNOLO A.,
SGRECCIA E., (a cura di ), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero,
Milano, 1994, p.39] scrive:” la scienza dovrà riferirsi all’uomo singolo e alla società, perché è
l’uomo che pone in essere la ricerca, perché il bene dell’uomo è il fine della ricerca scientifica e
sperimentale sia pura che applicata e perché il campo stesso esplorato dalle scienza sperimentali
rappresenta una dimensione vera ma settoriale della realtà” (p.46)
[5] Vorrei sottolineare quanto a me sembra opportuno accogliere anche nel campo biomedico dei
significati attribuiti a questi principi:
 Individualismo, inteso come sottolineatura delle capacità e delle volontà del ricercatore a
svolgere una funzione di promozione personale con l’esercizio della ricerca e della scienza
che – lo si ricordi – spesso le Costituzioni accomunano nelle libertà di scelte e d’esercizio
assieme all’arte ed in stretta correlazione con la libertà di pensiero e di pratica religiosa.
Non v’è dubbio che – sotto questo profilo – l’esercizio della scienza diviene esperienza di una
“ricerca di senso” della propria vita, fatta ovviamente in quell’ambito che è storicamente
determinato dal contesto esistenziale di ciascuno; ma in questo percorso personale si incontra
inevitabilmente “il volto dell’altro” e la dimensione sociale dell’esistere, realtà verso le quali si
hanno diritti ma soprattutto doveri, affinché si possa accordare l’individualismo con il rispetto
degli altri, la collaborazione ed il “bene comune”.
 Pluralismo, inteso come ammissione di concezioni diverse nel percorrere le vie della
ricerca, essendo ognuno consapevole del dovere di documentare con sinceritàla propria
attività e la scelta del proprio percorso, esercitando il rispetto che è dovuto ad ogni altro
serio ricercatore.
 Universalismo, inteso come proiezione della propria esperienza di senso – nell’esercizio
della ricerca – nel contesto della comunità internazionale dei ricercatori e non come
orgogliosa ed utilitaristica appartenenza ad una “lobby” circoscritta di potere.
[6] LABRIOLA richiama, con riferimento alla Costituzione italiana, questa tematica che si
complementa nella lettura coordinata dell’art.33, comma 1 Cost. “l’arte e la scienza sono libere e
libero ne è l’insegnamento” con l’art.9, comma 1 Cost. “La Repubblica promuove lo sviluppo della
cultura e della ricerca scientifica e tecnica”, abbracciando in tal modo la nozione di “attività
scientifica” (v.pag.8 di LABRIOLA S., Libertà di scienza e promozione della ricerca, Cedam Ed.,
Padova, 1979). Una trattazione più recente e maggiormente finalizzata alle applicazioni
biomediche dei principi costituzionali italiani può leggersi in L. CHIEFFI, Ricerca scientifica e
tutela della persona, Ed. Sci.Ital., Napoli, 1993.
[7] L’argomento, amplissimo, non viene trattato in questa relazione, perché forma oggetto
d’analisi di altri contributi al Convegno.
[8] ANTISERI D., Epistemiologia contemporaneae logica della diagnosi clinica, in SGRECCIA E., (a
cura di), Storia della medicina e storia dell’etica medica verso il terzo millennio, Rubettino Ed.,
Soveria Mannelli (Ct) Edit. 2000.
79
[9] G. FEDERSPIEL, La conoscenza scientifica e il problema metodologico del dolore in medicina,
Minerva Anestesiologica, 1999,65,679-87. G. FEDERSPIEL, R. VETTOR, N. SICOLO, C.
SCANDELLARI, L’analisi decisionale clinica, in Atti del 102 Congresso Nazionale della Società
Italiana di Medicina Interna, 23-26 ottobre 2001, CEPI Ed., Roma in Annali diMedicina Interna
16 (suppl. 1), 2001
[10] La questione delle frodi nella ricerca scientifica è di grande interesse, come capitolo delle
“trasgressioni” etiche del ricercatore, ma non può essere nella sua complessità affrontata in
questa circostanza. Si rinvia alla monografia di DI TROCCHIO F., Le bugie della scienza, A.
Mondadori Ed., Milano, 1993,ed all’ottimo studio di PORTIGLATTI BARBOS M., MAGGIONA B., I
comportamenti illeciti nella pubblicazione dei risultati della ricerca medica e loro aspetti eticodeontologici, in Rassegna di criminologia IV/1 (1993), pp 117-166.
[11] La questione della generalizzabilità delle informazioni nasce quando è possibile constatare il
verificarsi della stessa informazione nelle medesime condizioni di stimolazione in un numero
appropriato di casi. Tuttavia, è problema epistemiologicamente complesso e da affrontarsi in
sede clinica con molta prudenza (v. ad es.FEDERSPIEL G., I limitidella medicina: rischio,
probabilità e linee guida, Congresso: La fibbrillazione atriale, Verbania Pallanza, 4-6 maggio 2000.
[12] L’osservazione non va intesa, come nel passato, quale unico passivo criterio “longitudinale”,
non interventistico, per conoscere l’evoluzione naturale della malattia. E’ necessario però che
l’osservazione sia condotta con metodologia analitica ineccepibile, cogliendo quegli elementi che
sono significativi per l’ipotesi proposta dal ricercatore ed il relativo giudizio di verificabilitàfalsificabilità. Di conseguenza, l’osservazione come procedimento scientifico della biomedicina
comporta la precisa “codificazione” dei fenomeni percepiti dal ricercatore (sensoriali) o rilevati
(strumentalmente) a carico del soggetto sottoposto alla sperimentazione e la loro esatta
descrizione/memorizzazione. Si tratta del “linguaggio-base” della ricerca (che si esprime in
proposizioni descrittive nel senso di Wittgenstein). Il complesso delle osservazioni costituiscono
la “base empirica”, delle proposizioni che caratterizzano il protocollo, e consentono la
costruzione della “sovrastruttura teorica” dallo stesso, compiuta in modo logicamente valido e
coerente sopra la base empirica.
[13] Di proposito, si è usata l’espressione vaga di “modo migliore”. Il giudizio complessivo prende
in carico vari elementi, da rapportarsi alla specificità del “protocollo”, come costruito e articolato.
Come è noto, B. Freedman elaborò alcune considerazioni ad uso dei membri degli Institutional
Review Boards (IRBS) distinguendo fra validità scientifica e valore scientifico dello studio.
La validità scientifica si identificherebbe nella seguente serie di elementi:
 possibilità di avere informazioni attendibili dall’ipotesi che intende valutare;
 l’essere condizione prioritaria e necessaria per la ricerca;
 non poter prescindere da conoscenze note, dal protocollo proposto e dall’ipotesi fatta;
 l’avere valore in sé mentre irrilevanti sono i fattori presuntivi (capacità del ricercaotre,
laboratori, documentazione possibile;
 non poter sempre tenere conto di altri elementi (come ad es. il consenso). Come elementi
di giudizio per il CdE dovrebbero essere presi in considerazione il disegno, la statistica,
il background clinico e delle scienze di base.
Il valore dello studio si affiderebbe ai seguenti elementi:
 l’avere un’ipotesi utile o interessante;
 il presupporre la validità scientifica;
 l’aver valore in sé ma anche in relazione a quanto già noto o al tipo di protocollo;
 il dover tener conto di fattori presuntivi (ricercatore, laboratorio, documentazione)
 il dipendere da fattori esogeni (costi, priorità, abusi)
80
B. FREEDMAN, Scientific Value and Validity as Ethical Requirements for Research: a Proposed
Explication, IRIB, 9,6 (1987), pp.7-10. Ulteriore trattazione può trovarsi in :
 SPAGNOLO A.G., Principi etici e metodologie di sperimentazione clinica, in SPAGNOLO A.G.,
SGRECCIA E., (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero
Ed., Milano, 1994 (pp. 51-70).
 BIGNAMINI A., Costruzione di un protocollo di sperimentazione clinica conforme alla
G.C.P. in SPAGNOLO A.G., SGRECCIA E. (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione
clinica, Vita e Pensiero, Milano, 1994 (pp 227-242).
[14] Esula dagli scopi (e dalla possibilità) di questatrattazione compiere una analisi degli aspetti
applicativi specifici delle modalitàdella ricerca nelle varie condizioni di vita del soggetto umano.
[15] Si sostiene che ciò serva ad evitare duplicazione di ricerche i cui risultati sono da tempo
consolidati, evitando dispersione di risorse. Questa giustificazione è validissima, ma è opportuno
riconoscere che la conoscenza approfondita di ciò che è stato fatto in precedenza può valere
anche per individuare dubbi e lacune residue, ed anche errori che – in taluni casi – hanno portato
“fuori strada” il progresso medico. Pertanto, quando gli elementi a disposizione appaiano
insufficienti, o dubbi, è chiaramente “scientifico” e nell’etica del ricercatore corretto ripetere gli
esperimenti.
[16] Questa relazione, per evidenti motivi, non può affrontare il complesso dibattito che si è
aperto sulla “medicina delle prove di efficacia” in sede clinica, ma si limita alle questioni della
sperimentazione che servono a fondarne i presupposti. Si rinvia alle pubblicazioni di LIBERTI A.
(a cura di ), La Medicina delle prove di efficacia, Pensiero Scientifico Ed., Roma, 1997, all’editoriale
di M. BARNI, Medicina della scelta o medicina delle evidenze?, in Riv. Ital. Med. Legale XXIV/38/2002); ed al lavoro di FEDERSPIEL G. E VETTOR R., La evidence based medicine: unariflessione
critica sul concetto di evidenza in medicina, in Ital. Heart J., Suppl. Vol 2, Giugno 2001.
[17] COCHRANE A., Effectiveness and efficacy., Nuffield Provincial Hosp.Trust, London, 1972
(Efficienza ed efficacia.Il Pensiero Scientifico Ed., Roma, 1999).
[18] KUHN T.S., The structure of scientific revolutions, Chicago Univ. Press, 1962.
[19] Si impiega la denominazione di test diagnostico quando, applicata al singolo individuo, la
tecnica usata è in grado di rivelare una condizione morbosa (malattia in atto, o disordine di
funzione, ecc..) e – nel caso dei test genetici – indicare se quella determinata persona possiede
uno o più tratti genetici che possono predisporre, o determinare in futuro, lo sviluppo di malattie
o disordini funzionali della stessa, ovvero dar luogo a malattie o disordini funzionali.
[20] Secondo Ann MC KIBBON e coll. (2000), la sensibilità misura la proporzione di pazienti
affetti dalla patologia o condizione in esame che hanno un risultato positivo. La specificità del
test misura la proporzione di pazienti non affetti dalla patologia o condizione in esame che hanno
un risultato negativo al test. Sia la sensibilità che la specificità devono essere elevate perché un
test diagnostico sia di vera utilità in ambito clinico. Nella pratica, entrambe dovrebbero superare
l’80% perché il test sia clinicamente utile. Per i test di screening, la performance dovrebbe essere
prossima alla perfezione (100%) per evitare di diagnosticare erroneamente soggetti non affetti
dalla patologia in esame; i test diagnostici invece possono funzionare bene con una sensibilità ed
una specificità minori. Nessun test ha una sensibilità ed una specificità del 100%. Spesso, se il
livello di risultato del test viene aggiustato per massimizzare la sensibilità, la specificità
diminuisce, mentre se il livello di risultato del test viene aggiustato per massimizzare la
specificità, diminuirà la sensibilità.
Il potere predittivo positivo è la proporzione di pazienti risultati positivi al test che hanno la
malattia o condizione in esame. Il potere predittivo negativo è la proporzione di pazienti
risultati negativi al test che non hanno la malattia o condizione in esame.
81
I valori predittivi vengono influenzati dalla prevalenza della condizione in esame nella
popolazione oggetto di studio. Per la valutazione di un test diagnostico, la prevalenza è la
proporzione di pazienti affetti da una data condizione su tutti i pazienti testati. La prevalenza
viene anche talvolta definita probabilità pre-test o verosimiglianza pre-test di una malattia o
condizione
[21] I temi erano i seguenti:
 sviluppo storico dei sistemi di valutazione in medicina;
 differenze internazionali nell’approccio alla valutazione in medicina;
 differenze interdisciplinari nella valutazione;
 politica degli studi randomizzati controllati;
 partecipazione dei consumatori negli studi randomizzati controllati;
 industria, regole governative e studi clinici;
 qualità degli studi randomizzati controllati;
 il lavoro quotidiano della conduzione di studi randomizzati controllati;
 studi di particolare significato storico o metodologico;
 come gli studi clinici influenzano la pratica clinica;
 studi clinici e politica sanitaria – priorità e studi clinici;
 il futuro della valutazione nelle scienze sanitarie
[22] B. PITT E COLL., così si esprimono nella prefazione alla monografia “La sperimentazione
clinica” (Il Pensiero Scientifico Ed., Roma, 2000): “E’ di importanza cruciale che tale valutazione
sia oggettiva e imparziale, e che venga attuata ogni possibile strategia per evitare errori sistematici
e distorsioni (bias) nella selezione dei pazienti, nella gestione, nel follow-up e nella valutazione dei
risultati. Lo studio clinico controllato randomizzato è l’unico strumento affidabile per ottenere
risultati di alto livello nella ricerca clinica.
[23] BOISSEL J.P., LEIZOROVIEZ A., Disegno e condizione di uno studio clinico, in B. PITT E
COLL., La sperimentazione clinica, Il Pensiero Scientifico Ed., Roma, 2000 (pp 1-44).
[24] La regressione verso la media si osserva quando un soggetto viene selezionato sulla base di
un valore alto o basso di un parametro fisiologico. E’ un fenomeno puramente statistico, la cui
estensione dipende dal processo di reclutamento dei pazienti. Dato che lo stesso parametro viene
misurato anche successivamente nel corso dello studio, il nuovo valore osservato sarà – in
generale – più vicino a quello della media della popolazione. Il risultato è che, dopo qualche
tempo, il valore anormale di selezione si è spostato verso il valore medio della popolazione e se
l’evoluzione della malattia viene valutata utilizzando il cambiamento osservato nel parametro, un
cambiamento puramente statistico potrebbe essere visto come cambiamento dello stato di
malattia.
La definizione di placebo si applica “a qualsiasi trattamento che non ha un’azione specifica sui
sintomi soggettivi e sui segni obiettivi di un processo morboso” (G.Folli, 1994, p.87); dunque può
essere una “sostanza priva di qualsiasi attività farmacologica” (sostanza inerte, definita come
placebo puro) o – quanto meno non fornita di attività specifica per la condizione morbosa o alle
dosi in cui viene impiegata (placebo impuro) (L. Candia, 1994, p. 21). FOLLI G., L’uso del placebo
in trials clinici: significato scientifico e valore sperimentale, in SPAGNOLO A.G., SGRECCIA E., (a
cura),Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero Ed., Milano, 1994, pp. 8590. CANDIA L., L’uso del placebo nei trial clinici: considerazioni etico deontologiche, in SPAGNOLO
A.G., SGRECCIA E.(a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero Ed.,
Milano, 1994, pp. 85-90.
[25] ANN MCIBBONet al., Guida alla evidence-based medicine, Il Pensiero scientifico Ed., Roma,
2000.
82
[26] A. MC KIBBON e coll. (l.c.), così descrivono il criterio in esame: “Tre sono i gruppi di persone
solitamente coinvolti in studi clinici: i pazienti, gli operatori sanitari ed il personale che lavora
alloallo studio. Ilprocesso di blindingdenominato “cieco” si riferisce in genere alla non conoscenza
del gruppo diassegnazione o delpaziente oppure dell’operatore sanitario. Il “doppio cieco” si
riferisce in genere al fatto che né il paziente né l’operatore sanitario sanno quale trattamento
medico o altro tipo di intervento il paziente stia ricevendo. Il “triplo cieco” comporta che né
l’operatore sanitario né il paziente né il personale che lavora allo studio, compreso il personale
che gestisce i dati, sanno quale dei trattamenti sia quello attivo e quale il placebo o il trattamento
standard fino al completamento dell’analisi finale dei dati” (pag.47).
Secondo questi AA., il triplo cieco è molto importante per gli studi sponsorizzati dall’industria
farmaceutica. Le case farmaceutiche sono spesso criticate per il fatto di anteporre i loro profitti
alla corretta pubblicazione dei dati negativi relativi ai loro prodotti, e questo sistema di triplo
cieco esteso a tutti i livelli aiuta tutti i fruitori della ricerca medica a poter fare affidamento sui
risultati finali che vengono pubblicati. Il doppio cieco è la forma più comune di procedura
diblinding” (pag.48).
[27] “Un esempio di follow-up facile è uno studio a breve termine disegnato per valutare i
benefici relativi di un trattamento antidolorifico standard per via endovenosa con uno strumento
controllato dal paziente tramite un sistema di iniezione a pompa, nelle prime 24 ore dopo un
intervento di cardiochirurgia. In questo tipo di studio è facile avere un follow-up del 100%. Il
follow-up è molto più difficile quando lo studio dura più a lungo, i pazienti sono più mobili ed
esistono minori incentivi per mantenere l’interesse dei pazienti. Esempi di follow-up difficile
sono un programma di cura e prevenzione della diffusione della tubercolosi nei senzatetto o studi
poliennali di trattamento con metadone e colloqui periodici di pazienti con problemi di
tossicodipendenza” (pag.49).
[28] GALBRAITH S., STAT M; MARSCHNER I, Guidelines for the design of clinical trials with
longitudinal outcomes, Controlled Clinicaltrials 23, 257-273, 2002.
[29] Perunapiù ampia rassegna delle condizioni di monitoraggio si legga: CURTIS L.
MEINERT,Clinical trials andtreatementEffects Monitoring, Controlled Clinical Trials 19, 515-522,
1998
[30] “Il principio consiste nello stabilire un’ipotesi nulla, che indica cioè che il valore della
differenza tra i cambiamenti è zero, e calcolare la probabilità (valore di P) della differenza
osservata rispetto all'ipotesi nulla. Se il valore di P è alto, l’esperimento non è stato in grado di
dimostrare una differenza, o perché questa non esiste realmente, o perché i dati non erano
sufficienti. Ciò può essere dovuto o a una dimensione dell’effetto minore, o a una variabilità nei
risultati maggiore rispetto al previsto. In entrambi i casi il numero di pazienti arruolati nello
studio era troppo bassa (per scoprire un effetto). E’ importante sottolineare che il test di
significatività non è in grado di distinguere tra queste due alternative. Se il valore di P è piccolo,
di norma inferiore a 0.05, si può concludere che non è probabile che la differenza sia un effetto
del caso. Il test di per sé non dice nulla a proposito di qualsiasi relazione di causalità tra la
differenza osservata e il trattamento valutato. Questo problema si collega all’assenza di bias nel
disegno e nell’esecuzione di uno studio clinico” (pag.14).
[31] Si ottiene la risposta con una procedura in due fasi, secondo PITT e altri (2000). “Per prima
cosa si dovrebbe dimostrare che la differenza tra i due gruppi è stata causata dall’intervento, e
che pertanto la dimensione osservata dell’effetto è un valore reale, dato l’ambito sperimentale…
In secondo luogo, stabilito che la prima fase si sia conclusa con un sostegno soddisfacente alla
relazione di causalità, si vorrebbe conoscere il valore della dimensione dell’effetto. La teoria
statistica della stima dimostra che il valore più probabile dell’effetto vero è la differenza
osservata, ma che altri valori, sebbene meno probabili, sono perfettamente coerenti con i dati
83
raccolti. Allo scopo di fornire al ricercatore uno spettro di tali valori, si calcolano i limiti fiduciari,
che costituiscono l’intervallo dei veri valori che non sono significativamente diversi dalla
differenza osservata a un livello di X%. Dato che X è di norma fissato al 5% di significatività, i
limiti fiduciari sono di conseguenza al 95%”.
[32] CALAMO SPECCHIA F.P., FUSCO A., LOJUDICE M.T., Etica e statistica nella gestione dei dati
sperimentali in SPAGNOLO AG., SGRECCIA E. (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione
clinica, Vita e Pensiero, Milano 1994 (pp. 211-226).
[33] MEINERT C.L., TONASCIA S., HIGGINS K., Contents of reports on clinical trials: a critical
review, Controlled Clinical Trials 5 (1984), pp 328-347.
[34] R. MORTON, The clinicaltrials: deceitful , disputable, unbelievable, unhelpful, shameful : what
next?, ControlledClinical Trials, 22, 593-604, 2001.
[35] MC KIBBON A. ET AL., Storia naturale e prognosi, in MC KIBBON A. ET AL., Guida alla
evidence basedmedecine,Il Pensiero Scientifico, Roma, 2000.
[36] BRAWLEY OW, A study of untreated syphilis in Negro male, Int.J. Radiat.Oncol.Bio.Phys-40, 58, 1998.
[37] Pertanto, valgono le indicazioni dell’Evidence-Based Medicine Working Group per gli studi
di storia naturale e di prognosi in ordine all’importanza per i clinici (LAUPACIS A. et al., User’s
guides to medical literature: how to use and article about prognosis,JAMA, 1994; 272: 234-7):
 campione ben definito di pazienti ad uno stesso punto del decorso della malattia;
 lunghezza e completezza del follow-up;
 criteri di esito oggettivi e non soggetti a bias;
 aggiustamento per i fattori prognostici importanti
[38] Anche il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) non ha mancato, in più occasioni, di
trattare l’argomento. Si vedano, ad es., i “Pareri” seguenti:
 I comitati etici (27 febbraio 1992)
 Informazione e consenso all’atto medico (20 giugno 1992)
 La sperimentazione dei farmaci (17 novembre 1992)
 Sperimentazione sugli animali e salute dei viventi (8 luglio 1997)
[39] Scrivono FIEDERSPIL e VETTOR: “Oggi, quindi, la conoscenza scientifica non è più
considerata come una conoscenza “vera” né tanto meno come una conoscenza “certa”, ma solo
come una conoscenza “fondata ed oggettiva”. Il termine oggettività può avere però due sensi
diversi che è opportuno distinguere. Da un lato esso può essere inteso sia in senso forte, per il
quale è “oggettivo” ciò che è “proprio” di un oggetto ovvero ciò che inerisce a quell’oggetto, sia in
senso debole, per cui “oggettivo” è ciò che prescinde dai gusti, dalle preferenze personali, dai
sentimenti, dalle speranze del soggetto. Come ha sottolineato Michael Dummett, “la scienza (….)
cerca delle descrizioni della realtà che prescindano dalla nostra collocazione specifica
nell’universo e dai nostri mezzi per percepire le cose”.
Fra i metodologi della scienza prevale oggi il secondo senso della parola per cui l’oggettività viene
identificata con l’intersoggettività. Le “cose” – molecole, specie animali, pianeti, farmaci, fiumi,
catene montuose, raggi luminosi, ecc. – che fanno parte della scienza sono in realtà concetti,
ovvero oggetti “costruiti” mediante l’uso di alcuni criteri operativi che sono stati
preliminarmente accettati dalla comunità scientifica. Ciò vuol dire che nella costruzione del loro
sapere i membri della comunità scientifica stipulano fin dall’inizio un accordo che li vincola ad
accettare alcuni criteri per definire gli “oggetti” che costituiranno l’ambito di una certa disciplina
scientifica”. L’accordo sul significato di un termine non è però sufficiente a fondare l’oggettività
scientifica. Affinché si possa parlare di oggettività è infatti necessario che le operazioni da
effettuare e i risultati siano osservabili e registrabili, almeno in via di principio, da tutti e alla
stessa maniera. Così, non basta che tutti gli immunologi siano d’accordo sul fatto che un antigene
84
sia una sostanza che provoca la produzione di anticorpi ma è necessario che la presenza degli
anticorpi possa essere messa in luce mediante una serie di tecniche effettuabili da tutti e sia
osservabile da tutti. “La determinazione oggettiva (..) – ha scritto Agazzi – è quella che deve
valere per tutti i soggetti che si occupano di quel determinatooggetto”. Ciò significa
“semplicemente che chiunque si metta in grado di usare certi strumenti e di compiere certe
operazioni, deve ritrovare lo stesso risultato”. Quel che si è detto finora riguarda l’oggettività
delle osservazioni e dei concetti scientifici, tuttavia, è anche necessario considerare l’oggettività
delle ipotesi e delle teorie scientifiche. Di fronte ad un certo numero di risultati sperimentali un
ricercatore può sempre proporre diverse ipotesi esplicative, ma è possibile sostenere che tutte le
congetture possibili sono ipotesi oggettive? Ad una simile domanda appare naturale rispondere
negativamente, tuttavia una simile risposta solleva immediatamente il problema della distinzione
fra le ipotesi oggettive e quelle non-oggettive. Al problema dell’oggettività Karl Popper ha trovato
una soluzione che è divenuta ormai classica: “Dirò soltanto – ha scritto nella sua “Logica della
scoperta scientifica” – che l’oggettività delle asserzioni della scienza risiede nel fatto che esse
possono essere controllate intersoggettivamente”. (FEDERSPIEL G., VETTOR R., l.c., p. 681)
[40] DELLA TORRE G., La protezione dei soggetti di sperimentazione: il consenso informato e il
consenso di chi non può consentire, in SPAGNOLO AG, SGRECCIA E. (a cura di), Lineamenti di etica
della sperimentazione clinica, Vita e Pensiero Ed., Milano, 1994 , pp141-170.
[41] WALDRON J. (Ed.), Theories of Rights, OxfordUniv.Press, Oxford, 1995
[42] Si rinvia , in questa sede, alle relazioni dei Prof.ri MAY e soprattutto A. LORETI BEGHÉ e A.
SPAGNOLO per gli aspettigiuridici e operativi.
[43] E. RAPAPORT (2001), scrive: “Gli studi clinici randomizzati controllati con placebo
forniscono l’approccio scientifico più valido attualmente disponibile per stabilire se una
particolare scelta diagnostica, preventiva o terapeutica può modificare uno specifico risultato.
Stabilita la correttezza del disegno, questa tipologia di studi clinici fornisce non solo la possibilità
di verificare se esiste un beneficio, ma aiuta anche a quantificare il livello di efficacia che può
essere raggiunto in relazione a uno o più obiettivi primari o secondari predefiniti.
Le scelte dei medici in merito alla cura dei pazienti dipendono sempre più spesso dai risultati
forniti dagli studi clinici randomizzati. Sebbene l’esperienza accumulata nella cura di una
particolare malattia sia importante, gli studi clinici randomizzati forniscono una dimostrazione
obiettiva sulla quale ogni medico dovrebbe basare le proprie decisioni. Se gli studi clinici
randomizzati nonvengono realizzati su vasta scala per valutare terapie importanti, il clinico
potrebbe trovarsi in una posizione difficile, incapace di stabilire quale sia la cura migliore per un
particolare paziente.
[44] S. D. HALPERN (in HALPERN S.D., Prospective preference assessment: a method to enhance
the ethics and efficiencyofrandomizedcontrolled trials, Controlled Trials 23, 274-288 (2002)) ha
sottolineato queste difficoltà, che portano spesso ad uno scarso arruolamento, a limitazione
dell’efficienza dello studio ed hanno indotto a varie proposte per risolvere la questione. Peraltro,
si va diffondendo il principio dell’adattamento personallizzato alla ricerca clinica (adattive
clinical trials: ACTs), con il quale il singolo paziente viene immesso in un braccio di trattamento
in rapporto alle informazioni disponibili. Questo criterio è tuttora limitato , almeno in USA, per
vari motivi logistici e statistici e per il peso considerevole che rivestono i bias, ma – secondo
PULLMAN D. e WANG X.[ in D.PULLMAN, WANG X., Adaptive design, informed consent and the
ethics of research, Controlled Clinical Trials 22, 203-210 (2001) ] dovrebbe essere il criterio di
scelta di fronte alle situazioni cliniche più difficili.
[45] Molti autori hanno insistito su questo aspetto. Fra gli altri, BEAUCHAMP, CHILDRESS
J.F., Principles of medical ethics, 4a ed., Oxford University Press, New York, 1994; DAUGHERTY
85
CK, Hope and the limits of research, Hastings Center Rep. 26, 20-21, 1996; KASS NE. ET AL., The
fragile foundation of contemporary biomedical research, Hastings Center Rep. 26, 25-29, 1996.
[46] TAUBES G., Use of placebo controls in clinical trials disputed, Science 257, 25-6, 1995
[47] LILFORD RJ, JACKSON J., Equiposis and the ethics of randomization, J. Royson. Med. 88, 532-9,
1995
[48] ROTHMAN K.J, MICHELS KB, The continuing unethical use of placebo controls, New Engl.
J.Med. 331, 394/8, 1993
[49] Si rinvia, per la trattazione di questi argomenti, allarelazione di A.Loreti-Begué in questa
stessa sede congressuale
[50] CANDIA L. (l. cit.)
[51] Si veda, oltre al citato contributo di D.PULLMAN E X. WANG (2001), anche BERRY D.A., EICK
SG., Adaptive assignement versus balanced randomization in clinical trials, Stat. Med. 14, 231-246
(1995).
[52] SGRECCIA E., La politica della ricerca biomedica: valori e priorità (in questa sede).
[53] Spesso – è stato segnalato – le ricerche su vasta scala di trials clinici randomizzati cercano di
strappare pochi punti di vantaggio percentuali sul “golden standard” attuale, e pertanto
necessitano di amplissime casistiche e tempi lunghi di realizzazione, a scapito degli investimenti
su settori trascurati e di bassa frequenza nei paesi economicamente vantaggiosi ai fini economici
ma di altissima frequenza in altri paesi economicamente svantaggiati (questione delle cosiddette
malattie orfane, e dei farmaci orfani).
In ogni caso, non è affatto garantito che i “vantaggi” assicurati da tali trials si diffondano
realmente, con sufficiente ampiezza e rapidità, nell’ambito della medicina pratica, così da
apportare benefici concreti al miglioramento dell’assistenza.
[54] Sull’argomento, vedesi D. ROTHMAN, The Shame of medical research, New York Review, Nov.
30, 60-64, 2000; National Bioethics Advisory Commission: “Ethical and political issues in
international research”, Bethesda NBAC 2001.
[55] Esempi dell’utilizzazione per attività sperimentali di malati terminali (preagonici, ma con
coscienza conservata) o di soggetti in stato vegetativo permanente, per quanto rare, ci vengono
anche di recente dalla letteratura americana (v. J. COUZIN, Study of brain dead, Science 295 ,
1210/11, 2002). Nel primo caso si suggerisce il rispetto delle volontà del paziente, nel secondo il
“consenso indiretto” dei famigliari.
Si rinvia alla relazione di A. Spagnolo per ulteriori approfondimenti in questa sede.
[56] PITT (2001) ricorda la raccomandazione di LEVIN e coll. (1991) a proposito di una
“consultazione sociale” che coinvolga i potenziali soggetti, le organizzazioni sociali, le agenzie che
erogano finanziamenti, e tutte le parti che possono avere un ruolo nella preparazione di uno
studio clinico. Sutherland et al., citati da Pitt (2001), sottolineano l’importanza del contesto
sociale nella progettazione di uno studio. Essi enfatizzano i potenziali benefici di una
consultazione sociale e suggeriscono perfino una più ampia partecipazione nel disegno di uno
studio. Hanno individuato una lista di punti che comprende le considerazioni generali, quelle
scientifiche e quelle etiche che potrebbero essere utili allo sperimentatore per pianificare uno
studio, al comitato etico locale per la sua approvazione, e alle riviste per decidere sulla sua
pubblicazione.
Di recente S. HALPERN (in S. HALPERN, Prospective preference assessment: a method to enhance
the ethics and efficiency of randomized controlled trials, Controlled Clinical Trials 23, 2002, 274288) di fronte alle dimostrate, crescenti difficoltà di arruolamento riscontrate per i clinical trials
in USA, documenta il vantaggio di una discussione preliminare con gli arruolandi, capace di
aumentare il loro interesse a partecipare alla ricerca e modulare le metodologie sulla compliance
degli stessi, senza sacrificare l’efficienza della ricerca. Esiste, ormai, una discreta letteratura su
86
queste esigenze [v. anche P. PEDUZZI ET AL., Research on informed consent: investigatordevelopped versus focus group-developped consent documents, a VA cooperative study, in
Controlled Clinical Trials 23 (2002) 178-197]
[57] ANTONOVSKY A., Health, stress and coping. New perspectives on mental and physical
wellbeing, Jossey-Bass Publ., S.Francisco, 1979.
[58] STRANG S.,STRANG P., Spiritual thoughts, coping and sense of coherence in brain tumor
patients and theirs spouses, Palliat. Med. 152, 127-134, 2001.
[59] MURPHY P.E. ET AL., The relation of religious belief and practices, depression and hopeleness
in persons with clinical depression, J.Counsult. Clin. Phsychol. 68(6), 1102-6, 2000.
[60] CINÀ G., Introduzione, in CINÀ G. (a cura di), Medicina e spiritualità: un rapporto antico e
moderno per la cura della persona, Ed. Camilliane, Roma, 1998.
[61] BOMPIANI A., Medecine and man: human ecology, in AA.VV., The human search for truth:
philosophy, science, theology, Intern. Conf. Sc.Faith, Vatican, 23-25 May, 2000, Saint Joseph’s
University Press, Philadelphia, 2002.
[62] SMITH D., Functional salutogenic mechanism of the brain, Perspectives in biology and
medecine, 45(3), 319-328, 2002.
[63] LA ROSA M., Salute, relazionalità e compliance, in V. GHETTI (a cura di), La partecipazione del
paziente al suotrattamento, Fondazione Smith-Kline, F. Angeli Ed., Milano, 1995 (pp. 7-14).
[64] LUCCHELLI P.E., Compliance e sperimentazione clinica dei farmaci, in V. GHETTI ( a cura di),
La partecipazione del paziente al suo trattamento, Fondazione Smith-Kline, F. Angeli, Ed. Milano,
1995 , pp 45-48.
[65] NOVELLINI R., Strumenti emisurazione della compliance negli studi clinici, in GHETTI V. (a
cura di), La partecipazione del paziente al suo trattamento, Fondazione Smith-Kline, F. Angeli Ed.,
Milano, 1995, pp 67-68.
[66] BOCKLE F., I concetti fondamentali della morale, Queriniana Ed., Brescia, 1991.
[67] Che vi siano condizioni di potenziale conflitto in quella “difficile alleanza” che caratterizza
l’incontro fra il ricercatore universitario e l’industria farmaceutica è opinione sostenuta da molti
[v. ad es. R. MORTON, The clinical trial: deceitful, disputable, unbelievable, unhelpful, and shameful:
what next?, Controlled Clinical Trials 22, 593-604 (2001); T. BODENHENMER, Uneasy alliance:
clinical investigators and the pahrmaceutical industry, New Engl. J. Med. 342, 1539-1544 (2000)].
L’American Medical College (AAMC) ha, di recente, emanato linee guida dirette ad impedire lo
svolgimento di trials clinici da parte di ricercatori che abbiano interessi economici nelle industrie
farmaceutiche proponenti [Protecting subjects, Preserving Trust, Promoting progress: policy and
guidelines for the oversight of individual financial interest in Human Subjects Research,
www.aamc.org/member/coitf] (v. J. Kaiser, Science 295, 246/247, 2002).
[68] Gli sperimentatori, come affermato nei recenti studi sul cancro, potrebbero non seguire i
criteri di inclusione ed esclusione di un protocollo randomizzato, mentre l’inclusione di pazienti
ineleggibili potrebbe compromettere la validità e l’interpretazione dei risultati. D’altra parte se ci
si accorge che pazienti non eleggibili sono stati inclusi nello studio, non si può facilmente
escluderli dall’analisi senza compromettere i presupposti di una randomizzazione bilanciata. Una
analisi intention-to-treat, che rappresenta l’approccio meno esposto ai potenziali errori
sistematici, richiede che tutti i pazienti randomizzati siano inclusi nell’analisi finale.
L’inserimento in uno studio randomizzato di pazienti ineleggibili allo scopo di aumentare la
numerosità o perché lo sperimentatore desidera fornire una terapia nuova e potenzialmente
salvavita a un dato paziente, minaccia l’interpretazione dei risultati dello studio, ed è quindi un
atto non etico. Il rischio a cui il paziente viene esposto, lo sforzo dello sperimentatore, l’impiego
di fondi sia pubblici che privati, potrebbero essere stati sprecati qualora i risultati di uno studio
clinico randomizzato fossero non interpretabili o interpretati erroneamente a causa
87
dell’inserimento di pazienti ineleggibili. Questo raggiro da parte degli sperimentatori è sempre
stato trascurato o minimizzato, sebbene non sia meno pericoloso della falsificazione dei dati. La
raccolta incompleta dei dati può a sua volta mettere in pericolo la capacità di uno studio
randomizzato di dimostrare la sicurezza o l’efficacia di una data strategia terapeutica. La mancata
aderenza al protocollo e la raccolta incompleta dei dati sulle apposite schede, sono motivazioni
che dovrebbero essere utilizzate per impedire la partecipazione di uno sperimentatore a
successivi studi. La partecipazione di uno sperimentatore a uno studio clinico dovrebbe essere
considerata un privilegio piuttosto che un diritto, e implica delleresponsabilità che vanno prese
molto seriamente se si vuole che i rischi dei pazienti siano giustificati” (PITT, 2001, pag.112-113).
[69] DI TROCCHI F., (l.cit.).
[70] PORTIGLIATTI-BARBOS M., MAGGIONA B. (l.cit.).
[71] J. RANSTAM et al. (2000), Fraud in medical research: an international survey of
biostatisticians, Control Clinical Trials 21 (2000); 415-427.
[72] E. STOKSTAD (in STOKSTAD E., Data Hoarding blocks progress in genetics, Science 295, 599,
2002) segnala i risultati di una richiesta condotta dall’Institute for Health Policy, USA su 1240
genetisti e altri 60 ricercatori di 100 Università che ricevono fondi pubblici dal NIM, ben l’84%
riferisce di aver chiesto informazioni o materiale ad altro collega, ma il 47% denuncia di non aver
avuto risposta nei tre anni considerati; provocando il 28% di rinuncia alla collaborazione ed il
21% di abbandono di promettenti linee di ricerca. I motivi della mancata risposta/collaborazione
sono addotti per il 90% all’impegno necessario a produrre il materiale o l’informazione richiesta,
per il 64% alla protezione del lavoro dei collaboratori; al 50% alla protezione della propria
capacità di pubblicazione dei dati; il 28% alla sfiducia di poter godere di reciprocità di
trattamento; il 27% alla tutela degli interessi dello sponsor, ecc..
88
GONZALO HERRANZ
ALCUNI CONTRIBUTI CRISTIANI ALL’ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA.
UNA PROSPETTIVA STORICA
INTRODUZIONE
Gli studi sulla breve ma intensa storia dell’etica della ricerca biomedica (erbm)[1] non sono
pochi. È interessante rilevare come, al di là delle ovvie differenze di vedute e di approccio, molti
fra questi studi mostrano una spiccata propensione in favore di un’interpretazione convergente
sul tema, se non uniforme. La coincidenza è sufficientemente evidente da far sospettare che si sia
ottenuto un accordo informale fra gli autori non solo relativamente ai fatti principali da includere
e sottolineare nelle loro riflessioni, ma anche riguardo alla prospettiva secolarizzata e scientista
con cui interpretare e ricostruire la storia . Sembra che sia stato ottenuto un consenso generale
sul luogo e sul tempo di nascita dell’erbm, sui capisaldi che scandiscono la sua evoluzione, sulle
questioni dominanti che la caratterizzano e, soprattutto, sulle forze interne che ne sospingono i
progressi[2].
Risultato di tale interpretazione dominante è la grande diffusione di una storia che tende ad
illuminare alcuni eventi come significativi, cruciali e nello stesso tempo ad eclissarne altri come
banali e irrilevanti.
Fra gli elementi svalutati o cancellati dalla storia standard dell’erbm vi sono alcuni pionieristici
contributi dell’etica cristiana, che, in conseguenza di ciò, non vengono mai citati. Il presente
articolo vuole rappresentare un primo sforzo per identificare e raccogliere i contributi cristiani
all’erbm nella sua fase iniziale, al fine di farli riemergere dall’oblio e di offrirli alla discussione.
LA VERSIONE DOMINANTE DELLA STORIA DELL’ERBM
Non sarà qui fuori luogo una breve caratterizzazione dell’approccio nei confronti della storia
dell’etica della ricerca biomedica. Solo su tale sfondo si può capire e apprezzare adeguatamente
la significatività e il valore degli aspetti che l’etica cristiana ha apportato alla costruzione
dell’erbm.
Fra i tratti caratteristici della versione standard che domina la storia dell’erbm, i seguenti
risultano particolarmente attinenti al nostro discorso:
 Il merito attribuito al Codice di Norimberga di aver costituito il punto di partenza della
storia dell’erbm.
 L’aver etichettato il periodo precedente Norimberga come età buia.
 La convinzione che solo dopo la pubblicazione della Dichiarazione di Helsinki ed il
Rapporto Belmont sia stato possibile riconosce all’erbm un’autonomia, emancipandola
dalla generica etica medica.
 Il ruolo esclusivo ed eminente assegnato all’etica laicista nello sviluppo dell’erbm.
Il Codice di Norimberga, un evento epocale
Si afferma spesso che l’erbm nasce a Norimberga il 20 agosto 1947, quando viene pronunciata la
sentenza al processo contro i medici nazisti, colpevoli di aver compiuto esperimenti disumani sui
prigionieri di guerra. Come è ben noto, la sentenza del Tribunale Militare Americano conteneva
una sezione, chiamata successivamente Codice di Norimberga, in cui erano enumerate dieci
89
proposizioni, quali principi etici fondamentali da rispettare al fine di soddisfare i requisiti morali,
etici e giuridici comunemente accettati sulle pratiche di sperimentazione su soggetti umani. La
promulgazione dei Dieci Punti del Codice di Norimberga viene considerato l’evento che segna in
germe il passaggio da una preistoria antica e scura ad un nuovo tempo illuminato.
Una simile esaltazione di Norimberga non appare pienamente giustificata. Essa rappresenta
piuttosto l’esito di una riscrittura artificiale e politicamente interessata della storia. A ben vedere,
la legittimità del Codice, sia nei contenuti etici di alcuni articoli che come punto di riferimento
giuridico per la condanna dei medici nazisti al processo medico di Norimberga, è stata oggetto di
fondate critiche[3].
Ma un altro fatto è assai più importante: il Codice di Norimberga non esercitò alcuna influenza
immediata sul comportamento etico nella ricerca medica. Il messaggio di Norimberga non ebbe
alcun impatto sulla professione medica perché era specificamente destinato a punire i
perpetratori dei crimini di guerra, e pertanto non aveva implicazioni per i medici che, con buone
intenzioni, lavoravano nei paesi liberi e democratici. Solo due decenni più tardi, allorché il Codice
fu riscoperto, fu riconosciuta apertamente la portata del suo contenuto etico. In particolare, la
dottrina sul consenso volontario e libero ebbe il riconoscimento quando comparve in due
influenti documenti successivi, la dichiarazione di Helsinki (1964) e il Rapporto Belmont (1979).
Il recepimento dei principi di Norimberga da parte dei Codici di Etica delle associazioni mediche
nazionali seguì pure un corso lento, fortuito, quasi letargico. Ebbe impulso solo dopo il 1975,
quando l’Associazione Medica Mondiale pubblicò la seconda versione della Dichiarazione di
Helsinki[4].
Prima di Norimberga, un tempo buio
Non è giusto relegare il periodo precedente Norimberga nella categoria di epoca buia. Fu un
periodo che per molti aspetti contrasta con il nostro. Non si avvertiva alcun bisogno di
regolamentare formalmente l’erbm, e questo per svariate ragioni, fra cui il mancato
riconoscimento di una chiara separazione fra pratica ordinaria e sperimentazione clinica: la
maggior parte della ricerca era di tipo descrittivo e osservativo, e la ricerca non alterava il
comune rapporto medico-paziente; pertanto, la riflessione etica poteva essere lasciata in disparte
senza rimorsi. È vero che prima di Norimberga veniva attribuita da parte degli scienziati più
considerazione all’ethos della ricerca (la professione e le virtù specifiche del ricercatore, la
selezione e l’istruzione dei giovani ricercatori, il rigore metodologico, le responsabilità sociali, il
ruolo di consulenza, i modelli di comportamento) che all’etica vera e propria[5]. Ma è pure vero,
come mostreremo più avanti, che vi furono alcuni medici appartenenti al circolo francese
della Morale Mèdicale che presero in considerazione alcune questioni fondamentali dell’erbm e
riuscirono a portare avanti alcuni concetti etici pionieristici e sorprendentemente moderni.
L’oscurità ingiustamente attribuita al tempo che precede Norimberga consegue più ad una
disattenzione, forse involontaria, per alcune fonti storiche che all’assenza di autori e di contributi
significativi.
La convinzione che solo dopo la Dichiarazione di Helisinki ed il Rapporto Belmont fu
identificabile una vera erbm
Solo di recente fu ,essa a punto una normativa specifica ed esplicita riguardante l’erbm. Prima del
1947, erano stati pubblicati sull’erbm soltanto alcuni documenti normativi formali, che erano
stati praticamente ignorati[6].
90
La carenza di documenti etico-normativi durante questo periodo è dovuta soprattutto al fatto che
fino a tempi relativamente recenti la separazione fra pratica medica quotidiana e
sperimentazione era poco percepibile o non riconosciuta. Claude Bernard, figura dominate della
medicina sperimentale, volendo fornire giustificazione morale alla sperimentazione umana,
attribuisce carattere sperimentale a qualunque intervento medico o chirurgico, oscurando
qualunque separazione setta fra le due. Riassumendo l’opinione generale del suo tempo, Bernard
scrive: “I medici compiono quotidianamente esperimenti terapeutici sui loro pazienti, mentre il
chirurgo pratica ogni giorno vivisezioni sui suoi soggetti. […] Esiste pertanto il dovere di
sottomettersi alla sperimentazione e il diritto corrispondente ad effettuarla qualora tale
procedura sia in grado di salvare una vita, curare una malattia, o portare benefici personali”[7].
Tale prospettiva ci appare oggi tipica di un’epoca da tempo superata. Eppure, è opportuno
ricordare che, un secolo più tardi, era divenuta opinione medica comune ritenere che, poiché
tutto ciò che il medico decide di compiere a favore del suo paziente si basa su una conoscenza
parziale e confusa, ogni atto clinico condivide molti tratti dell’esperimento clinico[8].
Il ruolo dominante ed esclusivo assegnato all’etica laicista nello sviluppo dell’erbm
Si possono invocare due fattori per spiegare il ruolo subordinato del contributo cristiano
all’erbm.
Da un lato, prima del 1950, le fonti bibliografiche di origine cristiana prestarono attenzione quasi
esclusivamente a questioni legate ai problemi morali e ai bisogni spirituali dei malati. Gli autori
cattolici, più che sull’etica medica, si occuparono della medicina pastorale. Il loro interesse
principale riguardava gli effetti delle cure mediche sull’osservanza dei comandamenti divini e
sull’amministrazione dei sacramenti della Chiesa, questioni come la sacralità della vita umana e la
trasmissione della vita, come l’aborto e l’eutanasia, la contraccezione e la sterilizzazione, la cura
dei morenti, il segreto professionale, la cooperazione al male, il matrimonio. L’interesse per
l’erbm era secondario, al punto che la maggior parte dei manuali non ne parlavano affatto, o vi
alludevano in maniera superficiale[9].
Dall’altro lato, i profondi mutamenti avvenuti nel campo della bioetica contemporanea hanno
determinato, come effetto collaterale, la progressiva riduzione al silenzio e l’esclusione dei
contributi cristiani all’erbm.
Durante gli anni Cinquanta e Sessanta, i principi e gli standard cristiani costituivano una parte
integrante degli articoli e delle direttive riguardanti l’erbm[10]. Nei decenni seguenti, sotto
l’influenza di molteplici fattori (la ribellione nei confronti dell’autorità, l’aperto dibattito pubblico
su alcuni illustri esempi di abusi e di comportamento scorretto nella ricerca, il ruolo sempre più
intenso dell’elemento giudiziario delle questioni bioetiche, la crescente influenza teorica e pratica
dell’etica situazionista e utilitarista, le rivendicazioni di gruppi di attivisti assai critici verso la
religione), la bioetica ricevette un’impronta marcatamente laicista[11].
Oggi, l’etica dell’assistenza sanitaria è sottomessa ai famosi quattro principi, che derivano
direttamente dai tre principi contenuti nel Rapporto Belmont[12]. Molte disposizioni etiche e
giuridiche della ricerca medica furono costruite sul fondamento di quei principi, e
conseguentemente le deliberazioni dei comitati istituzionali di revisione ruotarono attorno ad
alcuni argomenti fissi e ricorrenti, come la tutela dell’autonomia del soggetto, la garanzia del
consenso libero e informato in conformità alla legge, la comparazione fra rischi e benefici, l’equa
distribuzione dell’onere etico della ricerca fra i membri della società, la tutela degli interessi dei
soggetti di ricerca, dei ricercatori, degli sponsor e della società. In effetti, i principi della bioetica
monopolizzano di fatto l’attività di molti Comitati. Nessuna alternativa è al momento ritenuta
91
soddisfacente[13]. In questo modo, l’influenza pratica dei valori cristiani nell’erbm è andata
indebolendosi e dimenticandosi anche il suo significato storico.
LA GENESI DELLA VERSIONE STANDARD
Come vedremo nella prossima sezione, la tradizione morale cristiana ha mantenuto una
posizione chiara e forte riguardo alla partecipazione degli esseri umani alla sperimentazione
biomedica. Tale partecipazione è un’azione umana, che richiede, da un lato, che lo sperimentatore
abbia previamente l’indispensabile consenso del soggetto; dall’altro, che il soggetto goda delle
informazioni e della libertà necessarie per dare il suo consenso in modo veramente umano e
moralmente responsabile. Come già osservato, questa tradizione è assente nella versione
standard della storia dell’erbm.
A cancellare la memoria di questa tradizione hanno contribuito due fattori. Il primo è il
restringimento dello spazio e del tempo di indagine, comune fra gli storici della bioetica, i quali si
limitano normalmente nei loro studi ai fatti statunitensi successivi alla prima guerra mondiale,
così che spesso la storia dell’erbm non presta la dovuta attenzione agli eventi accaduti fuori dagli
Stati Uniti prima di Norimberga[14]. Il secondo fattore è l’applicazione di specifici indicatori che
accertino che cosa sia e che cosa non sia il consenso alla ricerca secondo i bioeticisti americani o i
casi giudiziari forniti unicamente da americani. L’espressione “consenso informato” diviene così
una specie di marchio registrato, di cui si può fare solo un uso ristretto e autorizzato. Non è un
comune termine descrittivo, ma un termine qualificato, differente nella sostanza e superiore nella
qualità ad altri concetti utilizzati in diversi tempi e luoghi.
Nulla più della distinzione che Faden e Beuchamp fecero fra due diversi tipi di consenso
informato rivela maggiormente l’intento di trasferire l’erbm all’interno del patrimonio culturale
americano[15]. Il primo tipo, chiamato effettivo, si riferisce alla mera procedura formale richiesta
dalla legge o dalle politiche istituzionali per dare informazioni e documentazioni
sull’autorizzazione del paziente a partecipazione alla ricerca, procedura attraverso cui il
consenso diviene formalmente valido. Si tratta semplicemente di riempire un modulo, in virtù del
quale il soggetto accetta la ricerca proposta. Questo tipo di consenso implica una procedura
effettiva, burocratica e formale, che soddisfa materialmente i requisiti minimi prescritti dalla
legge, dal codice professionale o dalle regole istituzionali. Il secondo tipo, chiamato
“dell’autorizzazione autonoma”, definisce il consenso informato come una sottocategoria dell’atto
autonomo con cui un soggetto autorizza il ricercatore ad intraprendere un determinato
intervento di ricerca. È proprio il suo carattere di autonoma autorizzazione che rende tale
consenso sostanziale ed eticamente autentico, in quanto manifesta il valore centrale del rispetto
per la persona. Questo genere di consenso fa onore alla sovranità dei soggetti, ai loro valori e alle
loro convinzioni, ed equivale di fatto ad un trasferimento di autorità e responsabilità che viene
compiuto attivamente dal soggetto in favore del ricercatore. I due tipi di consenso corrispondono
da vicino ai due modelli della beneficenza e dell’autonomia, che Beuchamp e McCullough hanno
tratteggiato ideato nella loro descrizione della responsabilità morale del medico[16].
Nella sua recensione al libro di Faden e Beauchamp[17], Caplan afferma che soltanto il tipo
sostanziale di consenso informato è, a differenza di quello effettivo, un vero consenso, e che tale
consenso è un prodotto tipicamente e necessariamente americano. Caplan accosta Faden e
Beuchamp commettendo un errore madornale, e cioè ritenendo che gli autori, nonostante la loro
attenta analisi storica, omettano un fatto decisivo, di estrema importanza: la nozione di consenso
informato orientata all’autonomia non è solo nata e cresciuta negli Stati Uniti, ma si radica nel
valore dell’autonomia che rappresenta un’intuizione tipicamente americana. Al contrario, negli
altri luoghi e tempi, la pratica e gli scritti sul consenso informato riguarderebbero esclusivamente
92
gli aspetti formali e procedurali, secondo la variante effettiva. Il consenso autentico sarebbe un
fenomeno moderno e radicalmente americano, come proverebbe lo stupore che i non americani
provano di fronte al ruolo che l’autonomia gioca nella pratica medica americana[18].
Si insinua così una nuova visione del consenso informato, una visione che rompe con il passato: è
originale ed esclusiva della mentalità americana, è “il risultato dei cambiamenti culturali avvenuti
negli ultimi decenni nell’etica, nel diritto, nell’economia e nell’atteggiamento culturale nei
confronti dell’individualismo e della scelta personale, che si estendono ben oltre i confini della
moralità medica”[19]. Di contro alla visione moderata di Faden e Beuchamp sulla difficoltà di
valutare le pratiche di consenso del passato[20], Caplan adotta un metro di valutazione del
presente e del passato più radicale, basato sul criterio del consenso come autonoma
autorizzazione, e ciò implica un forte rischio di imperialismo assiologico. Il nuovo concetto di
consenso come autorizzazione autonoma poggia su criteri di giudizio sorti in seno al diritto
americano, presuppone che il soggetto sia di norma dotato di un solido intelletto e di
un’autonomia formata. Di più: questo nuovo concetto è stato elevato alla condizione di modello
universale. Inoltre, il nuovo paradigma rompe tutti i legami dell’erbm con l’etica cristiana. Tutto
ciò che la tradizione medica e cristiana aveva affermato sui diritti morali dei soggetti di ricerca,
sulle loro responsabilità e libertà, sul potere di gestione della propria vita e del proprio corpo,
sulle capacità e sulle azioni umane è venuto ad avere cattiva reputazione o ad essere ridotto alla
condizione di precedente rudimentale ed obsoleto.
Di fronte ad una simile spavalda auto-attribuzione di importanza storica e di superiorità
ideologica, è dovere di tutti chiedersi se questa versione della storia del consenso informato
tenga conto di tutti i dati disponibili e li analizzi correttamente. A mio avviso non è così, dato che
tale interpretazione non considera una parte importante della storia dell’erbm[21].
Di seguito presenterò alcuni dati che mostrano come la versione standard della storia dell’erbm
tralasci l’esplorazione di autori e di opere che hanno proposto con sorprendente maturità e
lungimiranza, molto prima di Norimberga, idee molto avanzate sui criteri etici per il consenso
informato e sulla posizione che la ricerca biomedica ricopre nella società.
ALCUNI CONTRIBUTI ORIGINALI DELL’ETICA CRISTIANA ALL’ERBM
Non si tratta di un argomento semplice. Per di più, una buona percentuale di pubblicazioni non è
facilmente reperibile e, come già notato, molte di esse non trattano di erbm.
Nonostante queste difficoltà, il periodo pre-Norimberga appare un’età interessante e pacifica, in
cui i problemi erano relativamente semplici e l’etica medica era coltivata soprattutto dalle
persone che avevano profonde convinzioni religiose. Molti di essi erano cattolici. Per i teologi
morali, come pure per i medici, le questioni di maggior interesse erano in gran parte quelle legate
alla medicina pastorale, e in specifico quelle relative ai sacramenti della Chiesa, ai comandamenti
o la sessualità umana. D’altra parte, i medici, i teologi e i moralisti, in quanto uomini del loro
tempo, erano imbevuti di incertezza riguardo ai confini di separazione fra pratica e ricerca
medica.
Mostrerò ora due interessanti scoperte, finora sconosciute alla letteratura bioetica. Una riguarda
il rispetto per la persona dei soggetti di ricerca, nel contesto specifico della ricerca psicologica
(non terapeutica), quale luogo di energico richiamo alla pratica del consenso informato. L’altra
scoperta, che concerne la relazione fra scienza, società e individuo, è all’origine di un significativo
argomento attualmente presente in molti documenti sull’erbm.
93
Un primo richiamo al consenso libero e informato
Nella tradizione cattolica, i medici e i pazienti, i ricercatori e i soggetti devono essere guidati da
uno spirito di rettitudine morale, di amore fraterno, di sincerità e di libertà. Tutti sono
ugualmente esseri umani ad immagine di Dio, dotati del medesimo valore, resi capaci dalla grazia
divina di intessere una relazione con Dio diretta, personale e filiale.
Pertanto, si può dedurre che, nelle circostanze specifiche della sperimentazione biomedica,
esistono alcune particolari relazioni del ricercatore e dei soggetti con Dio, relazioni plasmate sul
rispetto per la dignità e la libertà delle persone che sono contemporaneamente fratelli e creature
appartenenti a Dio. Privare l’essere umano della libertà e della responsabilità di decidere della
propria salute e del proprio corpo, oppure accogliere o negare il suo consenso alla ricerca non
rappresentano solo ripugnanti abusi, ma peccati, perché schiavizzano il prossimo e lo privano del
merito morale di aiutare consapevolmente la scienza e l’umanità.
Il consenso libero e informato costituisce una parte integrante della relazione ricercatoresoggetto all’interno della tradizione cattolica[22]. Ciò emerge come requisito radicale e obbligato,
chiaramente delineato da autori appartenenti alla scuola francese, praticamente ignorati,
dalla Morale médicale del XIX secolo[23], ne è un esempio Georges Surbled.
Quando Surbled discute la sperimentazione psicologica, protesta energicamente contro
l’insensibilità di certi colleghi che non riconoscono i limiti imposti alla ricerca dai principi morali.
Per Surbled, “l’amore caritatevole rappresenta la prima e l’ultima parola della scienza”. Egli
rimpiange il fatto che molti scienziati, che non credono in Dio e sono perciò incapaci di amare in
Dio il loro prossimo, dimentichino il dovere di giustizia richiesto a tutti. Surbled è convinto che ci
sia un modo per ripudiare le sperimentazioni abusive o immorali: affermare senza possibilità di
errore i “diritti dell’uomo e, perciò, dei diritti del paziente. […] Ogni uomo ha il diritto di essere
rispettato nel corpo […], ha il diritto assoluto di non essere offeso o torturato. Così, al dottore non
è permesso sperimentare sull’uomo senza il suo consenso formale. E non si è mai saputo di
pazienti che hanno autorizzato la pratica degli esperimenti dannosi e rischiosi registrati poi dalla
storia e condannati dalla coscienza retta. Tali esperimenti sono stati eseguiti surrettiziamente, su
soggetti iganri, con il pretesto perverso di praticare trattamenti medici. Il paziente non può mai
essere usato come oggetto di sperimentazione a buon mercato”[24].
Parlando del consenso negli avvenimenti clinici ordinari, Surbled non si mostra molto energico,
ma ha idee estremamente importanti sul punto, in quanto adotta un atteggiamento che si
discosta per alcuni versi dall’approccio beneficialista e paternalista dei suoi contemporanei.
Certamente segue prima di tutto “l’antica e suprema regola infusa nella coscienza del medico e
regolatrice di tutta la sua attività: primum non nocere”, una regola attiva nella sperimentazione
così come nella terapia clinica. Tuttavia, in entrambi i casi, Surbled sostiene che il paziente ha il
diritto di rifiutare qualunque sperimentazione o terapia, “poiché gli basta barricarsi dietro il suo
volere, senza alcun obbligo di fornire spiegazioni per la sua decisione […]. Egli è l’unico padrone
del corpo, che può usare liberamente. Soltanto, deve sottomettersi alla volontà di Dio”. Surbled
non ha dubbi nel definire criminale e mostruoso il comportamento di quei ricercatori che
ingannano i soggetti, sani o malati, iniettando nelle loro ignare vittime microrganismi patogeni.
Il concetto che Surbled ha del consenso informato, con la sua profondità etica, non si piega alla
nozione di consenso che vediamo gelosamente custodita da molti documenti odierni. Il suo
concetto include quei requisiti di rispetto per l’autonomia dei soggetti che Faden e Beuchamp
considerano indispensabili per un consenso informato eticamente impeccabile: l’assenso a
partecipare alla ricerca basato sulla piena comprensione delle informazioni rilevanti;
l’autorizzazione deliberata e consapevole accordata all’intervento di ricerca; l’assenza di
coercizione o di incentivi esterni che possano viziare o predeterminare la scelta del soggetto[25].
94
C’è tuttavia una differenza significativa fra i due concetti, una differenza che rivela la grande
distanza che intercorre fra la visione cristiana e quella laicista dell’uomo. Infatti, al posto
dell’assoluta autonomia del soggetto propria dell’etica laica/secolarizzata, che conduce il
soggetto ad una decisione isolata, immanente e individualistica, l’autonomia del soggetto
cristiano, cioè di un uomo che vive alla presenza di Dio e fruisce dell’aiuto della grazia, capisce
lucidamente che l’uomo non è il padrone assoluto di se stesso, ma piuttosto un amministratore
prudente e responsabile della propria vita e del proprio corpo, che sono doni elargiti (“in
prestito”) e che devono essere trattati con saggezza e responsabilità. Si può dire esattamente lo
stesso dei doni ricevuti, e dei doveri subiti, dal ricercatore, il quale conserva una relazione viva e
attiva con Dio e con i soggetti[26].
La padronanza dell’uomo su se stesso equivale ad un dominio d’uso, e non ad una proprietà,
equivale ad un ruolo direttivo subordinato a Dio, che ognuno deve esercitare in libertà e nel
servizio agli altri[27]. L’umanesimo cristiano crede fermamente nel valore e nella libertà
dell’uomo, nei diritti umani, e nel compito, assegnato da Dio all’uomo nel giardino dell’Eden, di
governare e migliorare il mondo[28].
L’idea di consenso libero e informato coniata da Surbled appare, in scritti successivi che fanno
capo alla scuola francese della Morale médicale, sotto differenti aspetti, spesso curiosamente
inclusi nel principio dominante del non fare male[29]. Altre volte viene enunciata chiaramente:
Bon[30], ad esempio, inserisce fra i requisiti per una ricerca legittima il fatto che “Il soggetto,
dopo essere stato pienamente informato dei rischi in cui incorrerà, si presti al ricercatore in
modo assolutamente libero e di sua volontà”.
Scienza, società e individuo: la relazione etica
La Dichiarazione di Helsinki, non nelle parole originali del 1962 ma nelle versioni successive dal
1975 in poi, contiene una proposizione di profondo significato morale: afferma la superiorità
etica degli interessi dell’individuo sugli interessi della scienza e della società. Nei venticinque
anni fra il 1975 e il 2000, questo nobile concetto è stato ripetuto. “La preoccupazione per gli
interessi dei soggetti deve sempre avere la prevalenza sugli interessi della scienza e della
società”, recita la clausola I, 5, riecheggiata dalla clausola III, 4. Nella versione attuale, aggiornata
ad Edimburgo nel 2000, la clausola 5 dell’introduzione insiste dicendo: “Nella ricerca medica sui
soggetti umani, le considerazioni relative al benessere dei soggetti umani deve avere la
precedenza sugli interessi della scienza e della società”.
Lo sfondo dominante del valore della persona, rispetto ad altri valori umani, è un punto costante
nell’etica medica cattolica. Surbled afferma senza ambiguità che il migliore interesse del paziente
si impone con una tale forza alla coscienza del medico da determinare il suo comportamento.
“L’amore per la scienza, per quanto profondo e potente possa essere, non può mai prevalere nel
nostro cuore sull’amoreper i fratelli sofferenti che necessitano del nostro aiuto”:
Eppure, molti anni prima di Surbled, Max Simon affermava con determinazione e chiarezza lo
stesso principio della superiorità delle persone sui più stimati valori della scienza. Non più tardi
del 1845, scriveva: “Né la preoccupazione per la scienza, né la determinazione a risolvere un
importante problema teorico, né il desiderio di aggiungere un nuovo agente chimico al corredo
farmacologico dei medici possono portare gli sperimentatori a perdere il contatto con l’interesse
immediato dell’individuo che costituisce il soggetto dei loro studi. Niente può affrancare i medici
dal loro compito umanitario di assicurare al paziente sofferente tutti i benefici della loro
arte”[31]. E alcuni anni più tardi, Simon aggiunge: “Infine non è possibile sottolineare
maggiormente questo principio, e cioè che il paziente più indigente e privo di valore, il più inutile
95
per la società, non può essere soggetto di esperimenti rischiosi o pericolosi. Muoia piuttosto la
scienza che questo principio!”[32].
Simon si batte per la concentrazione della ricerca medica all’interno dei grandi ospedali e sotto la
guida di rappresentanti del mondo accademico eminenti e altamente capaci, poiché solo così
diventa possibile eseguire numerose serie di osservazioni e, soprattutto, assicurare che i medici
non usino mai dei loro privilegi per sacrificare l’interesse dell’individuo agli interessi della
società, e ancor meno al successo personale[33].
Sarebbe molto interessante ricercare il percorso che lega Simon ad Helsinki, e scoprire come un
libro scritto nella Francia del XIX secolo nell’ambito della Morale médicale si sia fatto strada fino
alla Dichiarazione di Helsinki del 1975, che è un prodotto dell’etica medica secolarizzata del
dopoguerra. Si possono invero identificare alcuni punti di raccordo. Uno è il ben noto discorso
che Pio XII pronunciò il 14 settembre 1952. In esso, il papa analizza l’etica della ricerca biomedica
sulla scorta di tre principi: gli interessi della scienza medica, gli interessi dei soggetti individuali e
gli interessi della comunità. Sostiene, fra l’altro, che la scienza non è il valore più alto, a cui tutti
gli altri valori devono essere subordinati, e che la persona umana non può essere utilizzata dalla
comunità come un oggetto; infine, sostiene che il paziente non è il padrone assoluto di sé, e
pertanto non può disporre liberamente di sé come più gli pare[34].
Queste idee furono probabilmente portate all’interno della Dichiarazione di Helsinki attraverso il
simposio sulle prospettive religiose nei riguardi della sperimentazione medica, organizzato
dall’Associazione Medica Mondiale durante la sua protratta incubazione della Dichiarazione di
Helsinki, pubblicata poi nel 1960. Il rappresentante delle confessioni protestanti, Jacques de
Senarclens, dopo avere affermato che né l’interesse della scienza né l’interesse della società
bastano a giustificare gli esperimenti sull’uomo che contrastano con i principi dell’etica medica,
che feriscono la dignità degli esseri umani o che infrangono i precetti più elementari della fede
cristiana, invoca l’autorità morale del papa proprio attraverso le parole del discorso del 1952:
l’uomo “non deve essere subordinato alla comunità nel suo essere personale; al contrario, è la
comunità che esiste per l’uomo”[35].
È evidente che l’attuale Dichiarazione di Helsinki mantiene il prezioso legame con Simon nella
sua integrità, anche se certamente con enfasi ridotta rispetto alle versioni precedenti. L’impegno
a dare la precedenza in ogni occasione al benessere dei soggetti umani rispetto agli interessi della
scienza e della società merita il posto d’onore che occupa nella Dichiarazione, addirittura nella
forma di un’ingiunzione. Il suo significato, non facile da definire con precisione, è aperto ad
interpretazioni divergenti[36]. Nella sua vaghezza, può essere inteso come valido strumento per
accertare i limiti di rischio accettabile in situazioni di ricerca molto specifiche, o come
disapprovazione preventiva degli esperimenti pericolosi. Tuttavia, può anche essere compreso
come esortazione parenetica ad affinare la nostra sensibilità etica a favore della difesa dei
soggetti di ricerca, o come atteggiamento morale fondamentale che conferisce un’accorata
preferenza all’integrità dell’essere umano rispetto a considerazioni consequenzialiste. Questo
argomento è stato sviluppato in modo approfondito da Jonas, in uno studio che è divenuto un
classico[37].
96
[1] La bibliografia sull’argomento è consistente. Diamo qui soltanto alcuni riferimenti che offrono
una panoramica della storia dell’erbm: Beecher H.K., Research and the individual. Human Studies,
Boston: Little, Brown, 1970:5-15. Brieger G.,History of human experimentation, in Reich W.T.
(ed.), Encyclopedia of Bioethics, New York: The Free Press, 1978:684-92. Bynum W., Reflections on
the history of the use of human subjects in research, in Spicker S.F., Alon I., de Vries A., Engelhardt
H.T. Jr, (eds.), The use of human beings in research. Dordrecht: Kluwer; 1988:29-46. Howard-Jones
N., Human experimentation in historical and ethical perspectives, in Bankowski Z., Howard-Jones
N, (eds.), Human experimentation and medical ethics. Geneva: C.I.O.M.S.; 1982:453-95. Ivy
A.C., The history and ethics of the use of human subjects in medical experiments, Science
1948;108:1-5. Jonsen A.R., The Birth of Bioethics. New York: OxfordUniversity Press; 1998:125165. Katz J., Experimentation with Human Beings, New York: Russell Sage Foundation;1972.
LadimerI., Newman R.W. (eds.), Clinical Investigation in Medicine: Legal, Ethical and Moral
Aspects. An Anthology and Bibliography, Boston: Law-Medicine Research Institute,
BostonUniversity; 1963. Lock S., Research Ethics – a Brief Historical Review to 1965. J Intern Med
1995;238:513-520.Rothman D.J., Strangers at the Bedside. A History of how Law and Bioethics
Transformed Medical Decision Making, New York: Basic Books; 1991:15-100. Rothman
D.J., Research, Human: Historical Aspects, in Reich W.T. (ed.), Encyclopedia of Bioethics. Revised
edition. New York: MacMillan; 1995: 2248-2258. Vaux K., Schade S.G., The Search for Universality
in the Ethics of Human Research: Andrew C. Ivy, Henry K. Beecher, and the Legacy of Nuremberg, in
Spicker S.F., Alon I., de Vries A., Engelhardt H.T. jr (eds.), The Use of Human Beings in Research,
Dordrecht: Kluwer; 1988:3-16.
[2] Con qualche differenza, questa versione standard della storia dell’erbm si ritrova non nei testi
di ricerca accademica o nei capitoli di monografie e di libri, ma nei brevi editoriali, nelle
enciclopedie e nelle pubblicazioni per il vasto pubblico. Un tipico esempio è Booth C.C., Clinical
Research. In: Bynum W.F., Porter R., eds. Companion Encyclopedia of the History of Medicine. Vol.
1. London: Routledge, 1993:205-229. La troviamo anche in molti manuali che hanno esercitano
vasta influenza in quanto usati in internet per la prima istruzione dei futuri membri di Comitati
Internazionali di Revisione. In questo modo, il messaggio continua a persistere e ad essere
diffuso.
[3] Sull’origine artificiale di Norimberga e sul suo carattere improvvisato come riferimento
giuridico, si vedano: Grodin M. E., Historical Origins of the Nuremberg Code.In Annas G. J., Grodin
M. E., The Nazi Doctors and the Nuremberg Code. Human Rights and Human Experimentation. New
York: OxfordUniversity Press, 1992:121-144. sull’incoerenza interna del Codice, si veda: Deutsch
E., Der Nürnberger Kodex. Das Strafverfahren gegen Mediziner, die zehn Principien von Nürnberg
un die bleibende Bedeutung der Nürnberger Kodex, in Tröhler U., Reiter-Theil S., Ethik und Medizin
1947-1997. Was leistet die Kodifizierung von Ethik, Göttingen: Wallstein, 1997:103-114.
[4] Herranz G., The Inclusion of the Ten Principles of Nuremberg in Professional Codes of Ethics:
An International Comparison, in Tröhler U., Reiter-Theil S., Ethics Codes in Medicine. Foundations
and Achievements of Codification since 1947. Aldershot: Ashgate, 1998: 127-139.
[5] Come esempi della letteratura antica sull’ethos della ricerca biomedica, si vedano: Cannon W.
B., The Way of an Investigator, A Scientist’s Experiences in Medical Research.New York: W.W.
Norton & Co, 1945: Gregg A. The Furtherance of Medical Research, New Haven: Yale University
Press, 1941; Albareda J.M., Consideraciones sobre la Investigación Científica, Madrid: C.S.I.C., 1951;
Ramón y Cajal S., Reglas y Consejos sobre Investigación Biológica (Los Tónicos de la Voluntad), 6th
ed. Madrid: Imprenta Pueyo, 1923.
[6] Ad esempio, negli Stati Uniti (Cannon W.B., The Right and Wrong of Making Experiments on
Human Beings, Journal of the American Medical Association 1916;67:1372;1373) o in Germania
97
(Volmann J., Winau R., The Prussian Regulation of 1900: Early Human Experimentation in
Germany. IRB: a Review of Human Subjects Research, 1996;18(4):9;11; Reich Minister of the
Interior, Regulation on the New Therapy and Human Experimentation, February 28, 1931. In:
Annas G.J., Grodin M.A., The Nazi Doctors and the Nuremberg Code: Human Rights in Human
Experimentation. New York: Oxford University Press, 1992:129-132). Il caso più eclatante fu
probabilmente la Risoluzione dell’Associazione Medica Mondiale del 1946, che dopo una
frettolosa approvazione al fine di fungere da riferimento etico durante il Processo di Norimberga,
iniziò a non essere considerata e scivolò nell’oblio (American Medical Association, Requirements
for Experiments on Human Beings, Journal of the American Medical Association 1946;132:1090).
[7] Bernard C., Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, Paris: Garnier-Flammarion,
1966: 151-152.
[8] Prima dell’inizio degli studi clinici controllati e dell’assunzione della mentalità dell’evidence
based medicine(medicina delle prove di efficacia, n.d.t.), il buon senso induceva a sostenere che
praticamente ogni intervento medico fosse in un certo senso sperimentale. Ivy, ad esempio,
affermava che “anche dopo aver trovato la terapia adatta ad una malattia, le sue applicazioni al
paziente restano in parte sperimentali. A causa delle variazioni fisiologiche nella risposta di
diversi pazienti allo stesso trattamento, la terapia delle malattie è e sarà sempre un aspetto
sperimentale della medicina” (Ivy A. C., The History and Ethics of the Use of Human Subjects in
Medical Experiments, Science 1948;108:1-5).E Shimkin, alcuni anni più tardi, osservò che “la
sperimentazine medica sui soggetti umani, nel suo significato più ampio e per il bene del singolo
paziente, si verifica continuamente in ogni ambulatorio medico” (Shimkin M.B., The Problem of
Experimentation on Human Beings, Science 1953;117:205-207).
[9] Una parte consistente dei manuali più utilizzati non include fra le materie trattate l’erbm; si
vedano ad esempio: Bonnar A., The Catholic Doctor, 4th ed., London: Burns Oates & Washburne,
1944; Marshall J., The Ethics of Medical Practice, Darton, Longman & Todd, London, 1960; Peyró
F.J., Deontología médica, 5a edición, Madrid: Marbán editor, 1954. Pazzini A., Il Medico di Fronte
alla Morale, Brescia: Editoriale Morcelliana, 1950.
[10] In quegli anni, era consuetudine invitare i teologi cristiani a partecipare ai dibattiti o ai
lavoro collettivi sull’erbm. Nel 1960, l’Associazione medica Mondiale sponsorizzò un simposio dei
rappresentanti delle maggiori religioni, come passo necessario verso lo sviluppo della futura
Dichiarazione di Helsinki (Human Experimentation. A World Problem from the Standpoint of
Spiritual Leaders, World Medical Journal 1960;7:80-83, 86). Nelle monografie e nelle antologie
pubblicate successivamente sono regolarmente inclusi articoli scritti da teologi morali, come
pure direttive sulle ricerca emanate da istituzioni cattolicahe si assistenza sanitaria, e anche
pronunciamenti del magistero, soprattutto di papa Pio XII (Beecher H.K., Research and the
Individual. Human Studies, Boston: Little, Brown and Co, 1970; LadimerI., Newman R.W.,
eds., Clinical Investigation in Medicine: Legal, Ethical, and Moral Aspects. An Anthology and
Bibliography, Boston: Law-Medicine Research Institute, 1963; Katz J. Experimentation with
Human Beings. The Authority of the Investigator, Subject, Professions, and State in the Human
Experimentation Process,New York: Russell Sage Foundation, 1972).
[11] Callahan D., Religion and the Secularization of Bioethics, HastingsCenter Report 1990;20(4
Suppl):2;4.
[12] National Commission for the Protection of Research Subjects of Biomedical and Behavioral
Research (Commissione Nazionale per la Difesa dei Soggetti di Ricerca della Sperimentazione
Biomedica e Comportamentale, n.d.t.), The Belmont Report: Ethical Principles and Guidelines for
the Protection of Human Subjects of Research, Washington, D.C.: Government Printing Office,
1979.
98
[13] Come afferma Veatch, “l’autonomia sta fra noi e l’abisso morale”. Veatch R. M., From
Nuremberg through the 1990s: The Priority of Autonomy. In: Vanderpool H. Y., The Ethics of
Research Involving Human Subjects. Facing the 21th Century. Frederick, MD: University
Publishing Group, 1996: 44-58.
[14] Faden e Beauchamp, trattando l’evoluzione storica dei requisiti per il consenso nel campo
della ricerca biomedica, dichiarò che il loro scopo principale era mostrare come il consenso fosse
emerso e maturato negli Stati Uniti. Affermano inoltre che, a differenza di quel che accadde nel
fertile campo dell’assistenza clinica ordinaria, nel contesto dell’etica della ricerca prima della
seconda guerra mondiale furono pochissimi i fatti che richiesero l’apporto della morale. Una
ricerca scientifica e rigorosa sugli esseri umani si verifica negli Stati Uniti solo dopo la guerra,
mentre il criticismo morale relativamente alla ricerca biomedica inizia ivi a crescere verso la
metà degli anni Sessanta. Si veda Faden R.R., Beauchamp T.L., A History and Theory of Informed
Consent. New York: OxfordUniversity Press, 1986:150-151.
[15] Faden R.R., Beauchamp T.L., O. c. : 274-297.
[16] Beauchamp T.L., McCullough L.B. Medical Ethics: The Moral Responsibilities of Physicians.
Englewood Cliffs, N.J.: Prentice Hall, 1984.
[17] Caplan A. L.,A History and Theory of Informed Consent, by Ruth R. Faden and Tom L.
Beauchamp. Book Review. JAMA 1987;257:386-387.
[18] La riaffermazione da parte di Caplan della cittadinanza esclusivamente americana della
comprensione sostanziale, e non meramente formale, delle ragioni per il consenso informato
raggiunge un tono di esultanza quando l’autore parla del “totale sconcerto manifestato da
europei, asiatici, mediorientali e sudamericani al vedere la nostra apparente ossessione per
l’autonomia”, caratteristica, questa, che era passata inosservata ed era stata trascurata da Faden e
Beauchamp. Caplan A.L., A History and Theory of Informed Consent, by Ruth R. Faden and Tom L.
Beauchamp (Book review). Journal of the American Medical Association 1987;257:386-387.
[19] Caplan, o.c.: 387.
[20] Faden R.R., Beauchamp T.L., A History and Theory …: 55.
[21] Ha suscitato frequentemente critiche l’atteggiamento di alcuni bioeticisti americani che, per
giustificare la loro rivendicazione del titolo di fondatori della moderna etica medica, tendono ad
ignorare i contributi vecchi e nuovi di autori appartenenti ad altri luoghi e tempi. L’irritazione
che provano a riguardo alcuni europei è sincera e, secondo me, in parte giustificata. Scriveva
Serres alcuni anni or sono in maniera retorica: “le novità sono spesso fatte di cose che abbiamo
dimenticato. Importiamo, con grandi spese di traduzione, libri sull’etica fatti di plastica friabile,
mentre dimentichiamo che la nostra tradizione europea scolpisce l’etica da due millenni nel
granito e nell’oro”. Serres M., Préface, in Testard J.,L’Œuf Transparent, Paris: Flammarion,
1986:11-12.
[22] Soane B., Consent and Practice in the Catholic Tradition, in Dunstan G.R., Seller M.J., Consent
in Medicine. Convergence and Divergence in Tradition, London: King Edward’s Hospital Fund,
1983:37-44.
[23] È sorprendente verificare come né in Francia né in altri Paesi siano stati studiati gli autori di
libri sull’etica e sulla deontologia medica esistenti in Francia nel XIX secolo. Non si trova alcuna
citazione negli articoli e nei libri dedicati alla storia dell’erbm in Francia ai contributi di Surbled e
di Simon, i due autori considerati più avanti. Si vedano, ad esempio, Ambroselli, C. L’Éthique
Médicale, 2nd ed, Paris: Presses Universitaires de France, 1988. Fagot-Largeault A., L’Homme Bioéthique. Pour une Déontologie de la Recherche sur le Vivant, Paris: Maloine, 1985. Hoerni,
B. L’Autonomie en Médecine. Nouvelles Relations entre les Personnes Malades et les Personnes
Soignantes.Paris: Payot, 1991. Moulin, A.-M., Medical Science and Ethics before 1947, in TröhlerU.,
Reiter-Theil, S., Herych, E. eds. Ethics Codes in Medicine. Foundations and Achievements of
99
Codification since 1947. Aldershot: Ashgate, 1998. Moulin, A.-M., Medical Ethics in France, Theoret
Med1989,9:271-285.
[24] Questa proclamazione dei diritti umani del paziente nella situazione specifica di soggetto di
un esperimento è tratta dall’edizione del 1905 di Surbled G., La Morale dans ses Rapports Avec la
Médecine et l’ Hygiène, Paris: V. Retaux et fils, 1905, Vol. 3 : 216-217. Non è stato possibile oggi
recuperare le edizioni precedenti del lavoro, in particolare la prima, del 1891. le parole di
Surbled riportate precedono di almeno un decennio quelle così frequentemente citate di B.
Cardozo, che comprende la famosa frase: “Ogni essere umano adulto e mentalmente capace ha il
diritto di determinare che cosa deve essere fatto con il suo corpo; un chirurgo che esegue
un’operazione senza il consenso del paziente commette un atto di violenza per il quale è
imputabile di risarcimento dei danni”. Schloendorf v. Society of New York Hospitals (1914), as
appears in Katz J., ed., Experimentation…:526.
[25] Faden R. R., Beauchamp T. L., O. c. : 241-262.
[26] Il consiglio di Witts al ricercatore è pieno di arguzia e di fede religiosa: “[…] non ci sono
formule standard che il medico coinvolto in uno studio clinico posa usare per dirigere le sue
azioni. Egli deve piuttosto avere una coscienza sveglia e accorta, e deve essere preparato a
giustificare ogni sua azione davanti al Creatore. Dovrebbe inoltre essere pronto a difenderle,
prima, nei tribunali”. Witts L.J., The Ethics of Controlled ClinicalTrials, in Hill A.B., ed., Controlled
Clinical Trials, Oxford: Blackwell Scientific Publications, 1960:13.
[27] Sulla visione cristiana del dominio dell’uomo sulla sua vita e sul suo corpo, da una
prospettiva personalista, si veda Sgreccia E., Manuale di Bioetica. I. Fondamenti ed Etica
Biomedica, 2ª ed, Roma: Vita e Pensiero, 1994:153-199. Di grande interesse sono anche le idee
sul personalismo pruidenziale in Ashley B.M., O’Rourke K.D., Health Care Ethics. A Theological
Analysis, 4th ed., Washington, D.C.: GeorgetownUniversity Press, 1997:166-169.
[28] Sul profondo valore umano e cristiano dell’atteggiamento di intelligente e fedele
accettazione della volontà di Dio, così come viene manifestata dalla rivelazione divina e
specificata dal magistero della Chiesa, si veda Smith J.E., The Introduction to the Vatican
Instruction, in McCarthy D.G., ed., Reproductive Technologies, Marriage and the Church, Braintree,
Mass: The Pope John Center, 1988:13-28.
[29] Payen G., Deontología médica según el Derecho Natural, Deberes de Estado y Derechos
Profesionales, Barcelona: Sucesores de Juan Gili, 1944:164-183.
[30] Bon H., Précis de Médecine Catholique, Paris: Félix Alcan, 1936.
[31] Simon M., Déontologie Médicale ou des Devoirs et des Droits des Médecins dans l’Etat Actuel de
la Civilisation, Paris: J.B. Baillière, 1845:335.
[32] Simon M., O. c., 337.
[33] Simon M., O. c., 334.
[34] Il discorso sui limiti etici della sperimentazione umana e degli interventi medici, tenuto al
primo convegno internazionale di istopatologia del sistema nervoso il 14 settembre 1952, fu
pubblicato negli Acta Apostolicae Sedis (AAS 1952, 44:779; 789). Fu anche riportato e
commentato da molte riviste mediche. Una traduzione inglese si può trovare in Linacee Quart.
1952;19:98-107, e pure, in versione quasi completa, in Ladimer I., Newman RW., O. c.: 276-286.
Some select fragments appear in Katz J. Experimentation with Human Beings: 731-733 y 549-551.
Il discorso è stato dettagliatamente recensito da Beecher H.K., O. c.: 189-200. Commenti più o
meno estesi sono inseriti in President’s Advisory Committee, Final Report, The Human Radiation
Experiments, New York: Oxford University Press, 1996: 88; Ford J., Human Experimentation in
Medicine: Moral Aspects. Clin Pharmacol Therap 1960;1:396-400; Jonsen A.R., O. c.: 149;
O’Donnell T.J., Medicine and Christian Morality, New York: Alba House, 1976:91-93. and in:
Vallery-Radot, j., Lenègre, J., Milliez, P., Étude des conditions Morales d’Exploration Clinique en
100
Médecine. I Congrès International de Moral Médicale, Vol. 1, Rapports. Paris: Ordre National des
Médecins, 1955: 123.
[35] Giuseppe B.M., De Senarclens, J., Groen J. J., Human Experimentation. A World Problem from
the Standpoint of Spiritual Leaders. World Med J 1960; 7:80-83, 96. The three contributions are
reproduced in LadimerI., Newman R.W., O. c. : 267-270.
[36] Schaupp W., Der etische Gehalt der Helsinki Deklaration. Eine historisch-systematische
Untersuchung der Richtlinien des Weltärztebunds über biomedizinische Forschung am
Menschen.Frankfurt am Main: Peter Lang, 1993:243-245.
[37] Jonas H., Philosophical Reflections on Experimenting with Human Subjects, en Shannon T.A.,
ed., Bioethics, 3rd ed, Mahwah, New Jersey: Paulist Press, 1987:253-279. Di particolare interesse
per questo nesso sono le sezioniche esaminano la polarità individuo-società, cioè fra benessere
privato e benessere pubblico, da un lato, e, dall’altro, la suggestiva analisi delle contrastanti
componenti di sacrificio e di contreatto sociale insiti nella sperimentazione umana.
101
ADRIANO PESSINA
La relazione tra la ricerca biomedica, l'antropologia e l'etica filosofiche.
Appunti per una riflessione metodologica
Premessa
L'interdisciplinarità è diventata oggi un'esigenza diffusa: essa esprime una richiesta di unità di
fronte all’ eccessiva frammentazione e parcellizzazione dei saperi, resi possibili dalla progressiva
suddivisione del lavoro, delle competenze, delle aree di studio. Si tratta, per certi aspetti, di un
movimento inverso rispetto a quello innestato nell’epoca moderna con la nascita delle scienze
sperimentali, quando il problema era proprio quello di salvaguardare l’autonomia delle singole
discipline.
Nell’ambito della biomedicina, questa necessità di stabilire una prospettiva unitaria (anche se
non univoca) è riconducibile alla nascita stessa della bioetica. Sebbene di interdisciplinarità si
parli spesso, occorre però riconoscere che non è sempre facile comprendere in che cosa consista
realmente, quali siano le premesse teoriche che la rendano possibile, quale tipo di interazione si
intende promuovere.
Ci sembra, infatti, che si possa parlare di interdisciplinarità in diversi modi, o a diversi livelli. Da
una partel'interdisciplinarità può essere pensata come mezzo per una determinata finalitàpratica
o conoscitiva, che non può essere perseguita attraverso un solo approccio disciplinare. Per
esempio, questo avviene nella prassi medica quando la formulazione di una diagnosi è il risultato
di differenti dati conoscitivi, ottenuti con strumenti conoscitivi differenti. Spesso
l'interdisciplinarità è, quindi, più "vissuta", "praticata" che adeguatamente teorizzata (e questo
fatto è facilmente documentabile nella biomedicina, dove si intrecciano conoscenze e
metodologie che si radicano in discipline che hanno anche una loro autonomia, come, a titolo di
esempio, la chimica, la matematica, la biologia, la statistica, la fisica e via dicendo).
L'interdisciplinarità può essere intesa anche soltanto come interazione comunicativa, che
permetta di integrare diverse informazioni per meglio definire l’oggetto di cui si parla. Facendo
un esempio banale, il paziente di cui si occupa il medico è anche l'uomo di cui parla la filosofia ed
è anche il contribuente di cui si interessa l’economia o il padre di famigliala cui funzione è oggetto
di studio della sociologia, ma è inoltre il depresso in cura dallo psicanalista e, soprattutto è Carlo,
cioè un individuo unico ed irripetibile, che nessuna scienza può mai esprimere adeguatamente. Il
convergere delle definizioni per meglio denotare ciò di cui si sta parlando, permette una visione
olistica che può essere utile anche all'esercizio della singola disciplina.
Ma l’esigenza maggiore, quando si parla di interdisciplinarità, è quella di trovare una prospettiva
unificante in grado di coordinare le varie attività umane, comprese quelle conoscitive, in vista di
finalità moralmente buone. In questo caso, l’ interdisciplinarità risulta necessaria perché fornisce
alla morale le conoscenze necessarie alla determinazione della valutazione. Per usare un
linguaggio classico, potremmo dire che l’interdisciplinarità è necessaria per formulare la
premessa minore di un eventuale sillogismo pratico.
Tutti questi aspetti non possono essere trascurati quando ci chiediamo a che proposito si può
parlare della bioetica come disciplina interdisciplinare.
Ma prima di entrare in merito a questo tema, è necessario accennare brevemente all'origine della
scienza moderna per comprendere alcuni problemi, ereditati dal passato, che rendono arduo
soddisfare l' esigenza di interdisciplinarità.
102
Autonomia ed eteronomia
Come è noto, la nascita delle scienze sperimentali, e la progressiva determinazione delle identità
metodologiche che le caratterizzano, avviene attraverso processi storici complessi, articolati[1],
che non si prestano a facili sintesi né a schemi di comodo.
Le interpretazioni che tendono a polarizzare questa storia sulla base delle polemiche e delle
dispute che contrapposero, per lungo tempo, umanisti e scienziati[2], rischiano certamente di
essere riduttive, ma possono servire almeno ad illuminare alcune "categorie" che rendono
difficile "pensare" oggi in termini corretti all'interdisciplinarità, specie laddove è in gioco la
questione "morale".
Il riferimento all’etica sembra, infatti, minare alcune nozioni meta-scientifiche che hanno
accompagnato la nascita delle scienze, e in particolare le tesi riguardanti l'autonomia, la libertà di
ricerca e la neutralità assiologica proprie di ogni scienza.
Il timore di una indebita ingerenza della morale all’interno della stessa pratica multidisciplinare
ha delle motivazioni teoriche e delle radici storiche.
Dal punto di vista storico, possiamo ricordare che le scienze si sono progressivamente costituite
proprio attraverso un processo di "emancipazione" dalla teologia e dalla filosofia, dai loro
contenuti e dai loro metodi e che, in tempi recenti, esse hanno dovuto "liberarsi" dalle ideologie
politiche ed economiche.
Dal punto di vista teorico, l'interdisciplinarità sembra mettere alla prova proprio le nozioni
cardine sulle quali si radica la scienza come tale, dalla teologia (che i medioevali chiamavano
scienza sacra), alla filosofia, dalle cosiddette scienze esatte a quelle sperimentali (discipline che i
medioevali accorpavano nelle scienze profane).
Può essere interessante ricordare che già Tommaso d'Aquino stabiliva con chiarezza la
distinzione tra le varie forme del sapere, basata sull'autonomia dei loro procedimenti specifici e
sulla fiducia nell'uso del "lume naturale":
"La dottrina sacra è scienza; ma occorre sapere che vi è una duplice classe di scienze. Alcune
infatti procedono da principi noti col lume naturale dell'intelletto, come l'artimetica, la geometria
e simili: altre invece procedono da principi noti col lume di una conoscenza superiore. In
quest'ultima maniera la sacra dottrina è scienza, perché procede da principi noti col lume di una
conoscenza superiore, la quale è la conoscenza di Dio e dei beati. Onde, come la musica crede ai
principi che le offre l'aritmetico, così la sacra dottrina crede ai principi rivelati da Dio".[3]
Questa citazione ci ricorda che per Tommaso l'intelletto può correttamente operare in base ai
principi che può apprendere da solo e che la dottrina sacra non si sostituisce alla scienza profana
nel suo campo, né serve per far funzionare correttamente l'intelletto, ma per fornire quella
visione superiore che è necessaria all'uomo per ben condurre la sua vita e
realizzare adeguatamente il fine per cui è stato creato.
Questo passo ci fa comprendere come la scienza (e per Tommaso era allora in questione
soprattutto l'autonomia della filosofia) non è subordinata in quanto scienza ad altre forme di
sapere, neppure alla dottrina sacra, che pure è giudicata indispensabile per avere una visione
adeguata della finalità dell'uomo.
Possiamo trarre un'indicazione da queste osservazioni: l'interdisciplinarità, se non è pura
giustapposizione di saperi, necessita di una chiarificazione del significato specifico di "scienza" e
di "autonomia". Già in Tommaso emerge un uso analogo del concetto di scienza, che rimanda
all'idea, oggi spesso trascurata o negata, del significato analogo del termine "ragione" umana.[4]
Se rileggiamo la lunga e travagliata storia del rapporto tra le scienze nascenti, il loro legame con
la tecnica, e i loro rapporti, spesso problematici, con la filosofia e con la teologia dell’epoca
moderna, possiamo comprendere il "timore" (oggi spesso evocato) di far cadere la ricerca
scientifica in una sorta di "eteronomia" disciplinare. Questo "timore" esprime anche l’esigenza di
103
salvaguardare un "valore": si tratta, infatti, del timore che le scienze, qualora perdano la loro
autonomia, tradiscano la loro vocazione specifica, sebbene circoscritta, alla "verità", che passa
attraverso la ricerca delle "cause" dei fenomeni che studiano.
Il riferimento al "vero" è, in fondo, ma su questo torneremo, il terreno di incontro e di scontro tra
le diverse forme del conoscere, sia perché spesse volte si dimentica che anche la nozione di verità
è analoga e non univoca, sia perché le vie per determinare la verità intorno allo specifico oggetto
di indagine sono diversificate proprio dai principi di riferimento e dagli scopi ultimi che si
prefiggono le varie scienze.
Per stabilire quale debba essere la relazione tra la biomedicina, l’antropologia e l’etica filosofiche
occorre però tenere conto che la stessa medicina tende oggi a pensarsi in termini di "scienza
naturale" e, quindi, a rendere problematica quella connessione con l'etica che per lungo tempo
era data come evidente. A ciò si deve aggiungere un’altra considerazione. Mentre risulta facile
parlare di una biomedicina, oggi sembra impossibile parlare di una antropologia e di una etica
filosofiche. Dallo stesso versante della filosofia, infatti, è teorizzata l’idea che sia impossibile non
soltanto di fatto, ma in linea di principio, affermarne una unitarietà di metodo e di contenuto a
proposito dell’etica e dell’antropologia. La frantumazione della filosofia in "filosofie",resa
evidente sia dall'ormai consueto discorso sul pluralismo etico (nell'accezione
dell'incommensurabilità delle etiche), sia dal dibattito intorno alla nozione di "persona",
contribuisce a complicare l’attuazione dell’interdisciplinarità.
Scienza medica e arte medica
In ciò che noi chiamiamo "medicina" possiamo distinguere diversi livelli: da una parte c'è
l'insieme delle conoscenze scientifiche che, acquisite attraverso differenti strumenti e con
l'apporto di discipline specialistiche (dalla biologia alla statistica) costituiscono ciò che si chiama
la "scienza medica"; dall'altra esiste la prassi medica che, nell'epoca contemporanea, ha esteso le
proprie finalità al di là dello scopo terapeutico, includendo prassi di stampo diagnostico e
preventivo, nonché attività sperimentali che si situano tra il piano terapeutico e quello della
ricerca scientifica. Questi due "macrolivelli" possono essere distinti in ordine alla differente
finalità che di per sé perseguono: la medicina come "scienza" ha come scopo primario la
conoscenza, mentre la medicina come "arte" o professione medica ha come scopo primario la
cura, la guarigione o il "prendersi cura" della persona, in quanto "paziente" reale o in quanto
"paziente" possibile[5]. Esula dallo scopo di questa riflessione articolare ulteriormente questa
distinzione, che peraltro contiene già in sé alcuni elementi che possono farci comprendere
quanto sia complessa una riflessione sulla medicina nella sua veste contemporanea.
Non tutti, però, sono disposti a riconoscere questa distinzione di piani. H. Jonas, per esempio,
scrive: "Alla scienza medica, come scienza generale del corpo sia malato che sano, non si adatta
quindi -già il nome lo dice- ciò che altrimenti è valido per la scienza, e cioè avere il suo scopo nella
conoscenza: con tale conoscenza essa intende fin dall'inizio aiutare il medico nella sua capacità di
guarire. Non è perciò priva di scopi né neutrale. E ancora una volta ciò che distingue l'arte medica
dalle antiche arti dell'umanità è che fin dall'antichità -da Ippocrate- essa è intimamente legata a
una scienza che ne costituisce il fondamento"[6].
Jonas pretende di negare questa distinzione sia per evidenziare la peculiarità del rapporto che
intercorre tra la scienza medica e l'arte medica (rapporto che sarebbe totalmente differente
rispetto a quello che può intercorrere tra una scienza -per es. la fisica- e le sue possibili
applicazioni pratiche), sia per segnalare il fatto che nella medicina come scienza e come arte
l'oggetto non è un corpo qualsiasi, ma il corpo della persona umana.
104
L'esigenza di Jonas è condivisibile, ma si può conservare questa sua esigenza senza giungere
all'eliminazione della distinzione che abbiamo posto. Lo scopo conoscitivo di una scienza, infatti,
non può essere ricavato guardando all'intenzione del soggetto che fa scienza[7].
Il ricercatore che studia il corpo umano può avere come scopo l'applicazione pratica del suo
sapere, ma lo scopo della sua ricerca non è l'applicazione stessa, ma la scoperta, per esempio,
del come avvengano i processi fisiologici del corpo umano. In questo senso possiamo perciò
distinguere la scienza medica dall'arte medica. Solo la seconda è in sé determinata alla guarigione
e alla cura: la prima, infatti, potrebbe sussistere anche in assenza della possibilità di applicazione.
Così, per esempio, le conoscenze anatomiche sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per
l'esercizio della chirurgia e sussisterebbero anche qualora mancassero gli strumenti tecnici per
operare. Ciò che, infatti, determina la non neutralità assiologica di una scienza (la sua rilevanza
morale) non è il suo carattere di scienza, ma il suo modo di ottenere la conoscenza. Le scienze
sperimentali, infatti, non sono "neutre" soltanto perché il loro modo di ottenere i risultati, a
differenza di quanto avviene in altre scienze speculative (come, per es. le matematiche o la stessa
filosofia) è "pratico", cioè comporta una trasformazione e un intervento sull'oggetto di studio.
La medicina come scienza richiede una valutazione etica non perché avrebbe, come dice Jonas, il
medesimo scopo dell'arte medica, ma perché (e questo è evidente nel suo lato sperimentale, dove
si coniuga sia l'esigenza di dare beneficio ad un paziente, sia il desiderio di conoscere l'effetto,
poniamo, di un farmaco) per ottenere la conoscenza deve intervenire quasi sempre (ci sono anche
aspetti di pura osservazione nella stessa scienza medica) sul suo "oggetto di studio".
Ed è in riferimento all' "oggetto di studio" della medicina che emerge la peculiarità di questa
"scienza". Infatti, sia la scienza sia l'arte medica hanno a che fare con il corpo umano, che è il
corpo della persona umana. Va subito detto che, a motivo della struttura multidisciplinare della
scienza medica, molte volte la ricerca si svolge su parti del corpo (su cellule o su organi) e non
sempre sul corpo vivente della persona (come avviene, per esempio, nell'ambito della
sperimentazione farmacologica nella sua fase finale).
Pertanto, sul versante della scienza medica possiamo affermare che essa può a giusto titolo
rivendicare una "neutralità" assiologica e una sua autonomia dalle considerazioni etiche soltanto
in quanto ha come scopo la conoscenza.. Per neutralità intendiamo affermare che, quando
consideriamo una scienza come tale, l'etica riguarda l'attività del ricercatore (che deve essere
onesto, deve rispettare i metodi propri della ricerca stessa, deve essere veritiero e via dicendo), e
non la scienza stessa. Questa osservazionevale per ogni attività di ricerca dell'uomo, ma non è più
sufficiente laddove il modo del conoscere si attua attraverso un intervento pratico su una realtà
che è in sé dotata già di valore intrinseco, come è appunto la corporeità vivente della persona
umana.
Scienza medica e arte medica si trovano a condividere la medesima responsabilità morale
laddove la ricerca si svolge inmodo pratico sull'uomo concreto, che è unico ed irripetibile.
Questa rilevanza etica diventa più chiara se prendiamo in esame l'arte medica. A questo
proposito vale la pena di citare ancora Jonas, e per esteso, perché ci sembra che le sue
considerazioni siano estremamente pertinenti.
"Un tratto essenziale dell'arte medica è dunque che il medico ha ogni volta a che fare con il suo
simile e ogni volta tipicamente al singolare. Il paziente si aspetta e deve confidare sul fatto che la
cura sia finalizzata a lui solo. Più specificamente, però, se prescindiamo dalla psichiatria, l'arte
medica è volta al corpo tramite cui l'uomo appartiene al regno degli organismi animali, è cosa di
natura tra cose di natura e in questo senso rientra nella scienza della natura. Ma si tratta di un
corpo di una persona (…) Per consentire a una persona di vivere, il corpo deve essere aiutato. Il
corpo è l'elemento oggettivo, ma è il soggetto ad essere in gioco. " [8]
105
Il corpo (sia esso sano o malato) è l’oggetto della considerazione medica, ma si tratta di un
“oggetto” particolare, poiché il corpo umano vivente è sempre il segno della persona umana, cioè
della soggettività. Il corpo umano vivente esprime bene il significato originario del termine
“persona”, cioè di quella “maschera” che mentre permette di identificare un soggetto ne nasconde
l’identità profonda, la sua “personalità” umana. Da questo punto di vista, è abbastanza evidente il
fatto che non ci si preoccupa di una persona malata senza passare attraverso la sua corporeità: il
corpo vivente è “segno”, più o meno opaco, della persona umana che, pur eccedendo la
corporeità, non è mai senza il corpo. Ogni violenza fatta al corpo umano è anche una violenza
fatta alla persona umana.
Il corpo umano vivente si colloca, per così dire, come il luogo di confine tra la pura materialità e la
pura spiritualità: situazione-limite ben espressa dalla possibilità di considerarlo soltanto alla luce
deiprocessi biochimici che lo connotano o attraverso l'eccedenza delle attività umane (che non
sono soltanto attività mentali) che lo qualificano. Proprio questa struttura dell'umano fa sì che
l’arte medica si costituisca sempre nei termini di una relazionalità interpersonale anche quando
l'esercizio della professione si svolga sopra il corpo e verso il corpo.
Ma anche il “corpo” studiato dalla scienza medica e dall’anatomia non è mai, in ultima analisi,
soltanto “un corpo”, anche se la sua struttura può essere considerata a partire da discipline
differenti, che lo “dissezionano” secondo la logica conoscitiva di diverse forme di sapere (dalla
biochimica alla fisiologia), come se fosse un corpo qualsiasi.
Proprio a questo livello si pone, ci sembra, l'intrinseca necessità tanto per la medicina quanto per
l'arte medica di instaurare una chiara relazione con le conoscenze antropologiche ed etiche. La
medicina, infatti, richiede anche una competenza di stampo antropologico e filosofico proprio
perché il suo oggetto è il corpo umano e le conoscenze "oggettive" del corpo trascurano quella
componente "soggettiva" che specifica il corpo come corpo umano. Non solo: ma la stessa
"malattia" porta con sé il duplice livello del dolore corporeo e della sofferenza psicologica ed
esistenziale. Non si dà comprensione del fenomeno "malattia" senza un riferimento al "vissuto"
del malato e senza quindi fare i conti con gli aspetti della soggettività.
L’unità psicofisica dell’uomo concreto impedisce alla medicina di stabilire un confine netto, un
punto di demarcazione tra dove inizia lo spirito e dove finisce il corpo e impone al medico una
consapevolezza antropologica che trascende quanto ha appreso sull'uomo in termini di scienza
"naturale". In base a questa consapevolezza, la medicina può considerare il corpo vivente umano
in tutte le sue fasi, dalla generazione alla morte, come segno della persona umana.
Ma non solo sul versante, per così dire, dell'"oggetto" della scienza e dell'arte medica si impone la
questione antropologica (il "chi è"? l'uomo) e morale (che cosa è bene o lecito fare per conoscere
meglio il corpo umano e per prendersi cura di questo uomo?), ma anche sul versante del
"soggetto" della ricerca e dell'arte medica si impongono delle considerazioni morali. E questo per
almeno due motivi di fondo. Il primo, perché è necessario riconoscere come “bene” morale la
dedizione per la salute concreta dell’uomo vivente per dedicarsi alla cura degli altri; il secondo,
perché non c’è cura o studio del corpo che non sia anche interazione con la persona umana e,
quindi, non tutti i modi del conoscere e del curare sono rispettosi della persona umana vivente.
Da questo punto divista, possiamo inoltre affermare che la fonte specifica dell’arte medica è
sempre di stampo extrascientifico. L'arte medica non si attua in nome del sapere sperimentale
sulle strutture della corporeità umana, ma in nome del riconoscimento del valore intrinseco
dell’uomo vivente e, quindi, del valore della salute come condizione che contribuisce
all’espressione della personalità umana..
In fondo, a ben vedere, la medicina è il maggior progetto anti-darwiniano della storia, poiché
opera contro la pretesa selezione "naturale" che privilegia l'avvento del più forte e del più sano.
Sarebbe interessante, ma esula dallo scopo di questa riflessione, mostrare come sia difficilmente
106
conciliabile una lettura "naturalistica" dell'umano di stampo darwiniano o neodarwiniano con lo
scopo dell'arte medica. Possiamo anzi dire, a conclusione di questa prima analisi, che il rapporto
tra arte medica e scienza medica è, dal punto di vista cronologico, inverso rispetto a quello
metodologico: è stato uno scopo pratico a rendere sempre più necessario un approccio scientifico
all'uomo, anche se è oggi evidente che nessuno scopo pratico può avvenire senza premesse
scientifiche.
In termini generali possiamo allora fare questa osservazione: lo scopo della ricerca è la
conoscenza; la conoscenza è un valore morale in sè, ma la conoscenza è sempre conoscenza di
qualcosa: il valore della conoscenza perciò, non può collidere o eliminare il valore del
“conosciuto” senza eliminare anche il valore morale della stessa conoscenza. Il valore del
conosciuto impone che i mezzi per conoscerlo adeguatamente ne rispettino i caratteri. Tutto ciò
risulta evidente quando questo "conosciuto" e "conoscibile" si identifica con il corpo personale,
cioè con il corpo umano. La medicina, come scienza e non soltanto come arte, quindi, implica che
si sappia chi è l'uomo di cui si studia il corpo.
Il metodo della bioetica, tra descrittivo e prescrittivo
Il carattere interdisciplinare della bioetica è stato espresso fin dall’inizio dalla ormai celebre
definizione proposta nel 1978 dall’ Encyclopedia of Bioethics: "studio sistematico del
comportamento umano nel campo delle scienze della vita e della salute, in quanto questo
comportamento è esaminato alla luce di valori e principi morali"[9].
La definizione della bioetica, come è noto, resta ancora un problema aperto, in quanto resta
ancora da definire con chiarezza quale sia il suo statuto epistemologico[10]: in particolare resta
aperta la questione se la bioetica possa o no assolvere ad un compito prescrittivo, o si debba
limitare all’aspetto descrittivo o di chiarificazione dei problemi che affronta. Decidere per una
bioetica soltanto descrittiva o anche prescrittiva significa, in ultima istanza, decidere se l’etica
della bioetica riesce a superare l’impasse in cui si è trovata gran parte della filosofia morale
contemporanea che ha assunto come proprio modello teorico l’impianto analitico.
Resta comunque il fatto che, mentre sul piano della scienza medica l’interdisciplinarità può
assolvere ad un compito descrittivo, quando si entra nell’ambito dell’arte medica emerge come
inevitabile il problema del che cosa si deve fare.L’arte medica, per sua stessa natura, richiede un
momento prescrittivo. Ed è proprio quando la bioetica è chiamata a gestire dei contenuti
problematici che emerge l’esigenza di stabilire un metodo che permetta di indicare ciò che si
deve fare, e non soltanto ciò che di fatto si fa.
Per quanto riguarda il metodo della bioetica, vale la pena prendere in esame la proposta di E.
Sgreccia, che si è imposta come punto di riferimento delle ricerche del Centro di Bioetica
dell’Università Cattolica (e non soltanto di questo).
Questo metodo è stato presentato attraverso la figura della triangolazione: esposizione del fatto
biomedico, approfondimento del significato antropologico, individuazione dei valori in gioco.
La figura del triangolo[11], nella sua geometrica chiarezza permette di individuare ciò che
possiamo definire le “emergenze” teoriche della questione bioetica: rappresentata appunto dai
tre vertici del triangolo. La figura, peraltro, esprime la necessità che siano presenti tutti e tre i
vertici teorici: se ne venisse a mancare uno, verrebbe a mancare la figura stessa. Se abbiamo ben
inteso la proposta di Sgreccia, il significato simbolico del metodo della triangolazione ci permette
di affermare che la bioetica non è definita soltanto dalla presenza di questi “vertici” tematici, ma
dalla loro connessione, che permette appunto di tracciare un itinerario.
Se leggiamo la proposta metodologica di Sgreccia, rappresentata da questa figura, alla luce delle
concrete tesi che egli ha svolto nel suo Manuale, emergono diversi aspetti dell’interdisciplinarità,
sui quali è opportuno riflettere. La relazione “triangolare” tra bio-medicina, antropologia, etica,
107
infatti, si assesta su due piani: dapprima permette una chiarificazione del tema (momento
descrittivo) che è fatto oggetto della riflessione bioetica, poi segue un momento prescrittivo, in
cui, però le conclusioni sono guadagnate discutendo quelle prospettive metaempiriche che di
fatto sono presenti nei due dei lati della figura triangolare. In questo modo la bioetica si presenta
secondo una connotazione tanto valutativa quanto critica. Valutativa, perché lo scopo della
bioetica non è quello semplicemente di descrivere l’insieme dei dati che entrano in una relazione
che si presenta più o meno problematica, ma di proporre delle soluzioni a questi stessi problemi:
e si tratta di soluzioni di natura etica, e perciò prescrittivi.
La connotazione etica della bioetica, pertanto, non si mostra secondo una improponibile logica
deduttiva, ma grazie ad un’interazione sistematica delle diverse forme del sapere che trovano la
loro conclusione in un giudizio di coscienza (premessa del giudizio ultimo pratico, cioè
dell’azione vera e propria), cioè in una valutazione di ciò che è bene fare qui ed ora. Ora, questo
metodo si distingue dal proceduralismo di altre prospettive sia per la sua connotazione
contenutistica, che ha il suo perno in una concezione sostanzialistica della persona umana, sia per
la sua struttura critica o, se si preferisce, dialettica. Non va, infatti, trascurato che, se abbiamo ben
inteso l’itinerario argomentativo di Sgreccia, la concezione etica ed antropologica che egli
propone è chiaramente di stampo cognitivista, e pertanto si muove nella convinzione che si
possano guadagnare alcune verità intorno all’uomo e alla sua prassi, riconoscibili in linea di
principio da tutti.
In questa figura “triangolare” emerge, peraltro, il significato analogo della verità, che resta il
terreno sul quale costruire una valutazione morale. I tre lati del triangolo possono essere tracciati
perché c’è qualcosa che accomuna i tre vertici e li rende comunicanti pur nella differenza: ed è
appunto il significato analogo della verità. Se l’immagine dell’umano e del valore della sua
esistenza e della sua prassi (cioè l’antropologia e l’etica) fossero soltanto il frutto storico
culturale delleopzioni del singolo e delle comunità, allora non si comprenderebbe in base a che
cosa si potrebbero avanzare delle pretese nei confronti dell’attività scientifica, che resterebbe
l’unica ancorata al criterio del vero e del falso.Ma proprio perché tutte e tre le discipline, secondo
i metodi che le caratterizzano, hanno a che fare con la verità, sono in grado di comprendersi ed
interagire nell’itinerario di valutazione di ciò che è in gioco nella prassi umana.
Nella prospettiva di Sgreccia, infatti, la bioetica non sorge dalla somma delle competenze, ma
emerge come disciplina nella costruzione di un itinerario (il triangolo) che ha la sua realizzazione
laddove il giudizio di coscienza è formulato in base alle verità acquisite ed integrate. Il momento
prescrittivo, che indica indubbiamente come l’oggetto formale della bioetica sia di stampo etico,
non è pertanto frutto di una pura deduzione dai principi morali, ma sorge dentro un complesso
itinerario teorico che tiene conto dei diversi approcci alla realtà, resi possibili dall’attività
conoscitiva dell’uomo. Questo riferimento alla prassi conoscitiva che accomuna queste discipline
è il fondamento della legittimità della valutazione etica. L’etica, infatti, ha sempre come oggetto le
azioni umane e, quindi, non si trova “fuori luogo” laddove interviene per individuare i beni che
sono in gioco: beni che riguardano anche la scienza dal suo interno, perché essa è sempre e
comunque espressione dell’umano e della verità della sua condizione.
Il carattere dinamico di questo processo ci permette di evidenziarne anche la portata dialettica: la
stessa verità sull’uomo, nelle sue molteplici dimensioni, è, infatti, anche un guadagno teoretico, e
non soltanto un’eredità del pensiero classico. In questa prospettiva, allora, si comprende lo sforzo
per ritrovare le ragioni che fanno dell’antropologia e dell’etica un sapere, che si assesta
discutendo ed argomentando, prendendo sul serio le tesi che a questo itinerario si
contrappongono. Questo modello teorico rende la bioetica un’impresa teoreticamente dinamica
non soltanto perché ha a che fare con le scoperte scientifiche che vengono di volta in volta
riproposte, ma perché tiene anche conto delle diverse modalità con le quali l’uomo
108
contemporaneo percepisce, in modo più o meno adeguato, la propria identità e l’insieme dei
valori che lo connotano come uomo.
Ora, è importante sottolineare che questo impianto argomentativo
è metodologicamente caratterizzato dalla capacità di confrontarsi sia con le istanze dell’ateismo e
della secolarizzazione, sia con le proposte della fede e della teologia, cattolica e non. Si tratta dell’
impianto metodologico e non semplicemente della volontà dell’Autore: è, infatti, proprio della
struttura dialettica ed argomentativa della ragione la capacità di considerare tutto ciò che le si
presenta come in grado di contribuire alla scoperta della verità. Questa capacità metodologica di
non escludere a-priori nessun interlocutore, e di saper distinguere la fonte di una tesi dal valore
in sé della tesi stessa, permette di fornire un’indicazione precisa alla vexata quaestio del
pluralismo etico, che vorrebbe ricondurre anche la bioetica ad una provincia dei singoli territori
nei quali si dividerebbe la mappa dell’etica. Nessun dubbio sul fatto che l’etica sia terreno di
scontro e di differenze: ma questo fatto non può pretendere alcuna normatività, anzi ne richiede
proprio il superamento. Superamento richiesto dal fatto che quando si mette a tema il bene
morale si mette a tema l’umano che c’è in ognuno di noi: quando si agisce in nome della morale si
agisce in nome dell’umanità e perciò si interpella ogni uomo come soggetto morale. Da qui deriva
la spinta al confronto e alla discussione, animata dallo spirito della ricerca della verità e non
dall’esigenza del dominio e del puro consenso.
A chi ha una formazione scientifica, empirica, potrà sembrare che questa impostazione rischi di
essere conflittuale, a fronte delle modalità assertorie con le quali le quali si trasmettono i risultati
scientifici: ma è un’impressione erronea, che non tiene conto della specificità metodologica del
sapere filosofico e dimentica che questa dimensione dialettica è analoga alla logica dell’ipotesi e
della verifica con la quale si costruisce il sapere sperimentale.
Mantenere questa consapevolezza metodologica potrebbe essere un ottimo antidoto anche nei
confronti di possibili derive ideologiche che potrebbero condizionare la trasmissione di alcuni
contenuti bioetici: nella trasmissione dei contenuti, infatti, è necessario aver cura di indicare
anche le ragioni che li supportano e le tappe dialettiche che ne hanno permesso la formulazione.
Certo, questa impresa non è di facile attuazione in un contesto culturale che sembra oggi
privilegiare una linea ermeneutica che, in nome di un inventario delle possibili ed indefinite
letture della realtà, rifiuta di pensare la stessa possibilità della soluzione ai problemi etici. Ma
questo è un tema che qui non possiamo affrontare.
Linee conclusive
Per prima cosa è opportuno ricordare che c’è un nesso intrinseco tra tutte le attività umane e la
questione morale: per usare l’espressione tomistica idem sunt actus morales et actus umani. Come
è noto, per Tommaso, gli atti umani sono quelli liberi e consapevoli, dei quali possiamo
“rispondere”, che determinano progressivamente la nostra personalità morale e la nostra
capacità non soltanto di fare il bene e il male, ma di essere buoni o cattivi.
Da qui deriva un fatto: tutte le attività umane, considerate dal lato del soggetto, hanno a che fare
con la morale. Su questo aspetto si fonda l’esistenza della deontologia sia come mezzo per
ottenere risultati confacenti allo scopo specifico della ricerca medica (valore dell’onestà
intellettuale, della precisione, e via dicendo), sia come mezzo perché il singolo agente, attraverso
le sue opere, rispetti e promuova la propria identità morale. Questo aspetto “immanente”,
deontologico,non può però essere né l’unico né il fondamentale tema da affrontare laddove si
parla di interdisciplinarità. In termini paradossali potremmo esprimere il limite della riduzione
dell’etica a deontologia professionale ricordando che anche per ottenere scopi cattivi possono
essere richieste virtù (cioè abilità) morali: così occorre serietà, impegno, precisione anche per
109
costruire un’arma letale, ma questa profusione di virtù non rende lo scopo in sé buono e apre la
questione delle responsabilità del soggetto agente e della loro estensione.
L’interdisciplinarità emerge con un’altra esigenza, quella della valutazione sia dei mezzi sia degli
scopi dell’attività biomedica: qui la questione etica trascendela ricerca stessa, e si costituisce
secondo una valenza “architettonica”. La valutazione morale non mina l’autonomia disciplinare in
quanto tale, ma la considera in funzione di un’altra prospettiva disciplinare. Questa impostazione
è già sottesa, per esempio, al convincimento diffuso checiò che si può concretamente fare non
coincide di per sé con ciò che è moralmente bene fare. Si noti che è possibile anche un rapporto
differente, cioè si può dare una valutazione medica di una prassi morale, come valutazione
estrinseca e non per questo lesiva dell’autonomia della morale stessa. Poniamo, a titolo di
esempio, la legittimità di interrogarsi circa la salubrità o no di un digiuno prolungato, dettato da
criteri religiosi, o di portare a termine una gravidanza rischiosa. Un’azione può così essere
“buona” moralmente, ma anche “nociva” dal punto di vista della salute: a livello conoscitivo è così
possibile invertire le relazioni tra le varie discipline. Il carattere della interdisciplinarità, infatti,
permette lo scambio delle parti, senza che per questo venga determinata (in linea di principio)
una violazione dell’autonomia delle singole discipline correlate.
La necessità della valutazione morale, come abbiamo cercato di provare, deriva
dalla caratterizzazione pratica della scienza e dell’arte medica.
Le considerazioni finora svolte sul versante della morale possono essere facilmente estese sul
piano antropologico, distinguendo, anche in questo caso, una relazione intrinseca ed una
relazione estrinseca. Da una parte, infatti, la ricerca sul corpo dell’uomo richiede una concezione
dell’uomo e non soltanto una conoscenza della sua struttura biologica, anatomica, chimica e fisica
per il semplice motivo che queste strutture non esistono in astratto, ma sono qualificate dalla
condizione umana stessa. La peculiarità umana è anche la peculiarità qualificata della corporeità
umana.
Un’ultima annotazione, di tipo storico, si impone. Per lungo tempo la medicina, come arte e come
scienza, non ha avvertito la necessità di una connessione strutturale con le discipline filosofiche
semplicemente perché essa assumeva dall’ambiente culturale nel quale operava le categorie
antropologiche ed etiche. Per molto tempo la medicina è stata “naturalmente” cristiana
semplicemente perché si era formata e sviluppata in una Weltanschauung cristiana. Oggi la
situazione è profondamente diversa, perché il contesto culturale è contrassegnato da diverse
forme di secolarizzazione e perché non si può più parlare, a livello sociologico, di un indiscusso
primato dell’umanesimo di stampo cristiano. Non esiste più, a livello sociologico, una concezione
omogenea alla quale fare riferimento: il “buon senso” non è in grado di supplire alle specifiche
conoscenze antropologiche ed etiche. Da questa situazione storico-ambientale deriva le necessità
di guadagnare a livello teorico molte delle categorie che, per lungo tempo, hanno fatto da
“sfondo” naturale e non conflittuale alla biomedicina occidentale. Il futuro della scienza e dell’arte
medica richiede una nuova consapevolezza sul piano delle conoscenze e delle competenze etiche
ed antropologiche.
110
1] Tra i numerosissimi studi dedicati alla storia delle scienze e al loro rapporto con la filosofia, ci
limitiamo a ricordare qualche testo: A. Koyré, Dal mondo Chiuso all'universo infinito, Feltrinelli,
Milano 1970; A.C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal Val XVII secolo,
Feltrinelli, Milano, 1970; P. Rossi, I filosofi e le macchine (1400-1700), Feltrinelli, Milano 1972.
[2] Una riedizione di questa polemica, nel nostro secolo, si è realizzata a partire dalla riflessione
intorno alla tecnica e al rapporto che essa intrattiene con la cultura umanistica.
[3] Tommaso d’Aquino, Summa Teologiae, I. q.1, a 2.
[4] Può essere utile rileggere il sintetico ed interessante contributo di M. Lenoci, La ragione
umana tra scienza e filosofia, in S. Zaninelli, Scienza, tecnica e rispetto dell'uomo. Il caso delle
cellule staminali, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 27-38.
[5] Su questi temi cfr. D. Callahan, La medicina impossibile, trad. it., Baldini & Castaldi, Milano
2002e il recente Pareredel Comitato Nazionale per la Bioetica dal titolo Scopi, limiti e rischi della
medicina, 14 dicembre 2001.
[6] H. Jonas, Tecnica, medicina, etica, trad. it., Einaudi, Torino 1997, p. 110.
[7] Se guardiamo alle intenzioni del soggetto conoscente non possiamo a distinguere tra scienze
pratiche e scienze speculative: dal fatto, per esempio, che l’intenzione di un matematico sia quella
di ottenere il premio Nobel con le sue ricerche non si può evincere nulla sulla natura della
matematica.
[8] H. Jonas, op. cit., p. 111.
[9] Cfr. W. T. Reich (a cura di) Encyclopedia of Bioethics, 4 voll., The Free Press, Ney York,
1978, Introduction, p. XIX.
[10] Per una sintetica analisi del problema mi permetto di rinviare a A. Pessina, Bioetica. L’uomo
sperimentale, B. Mondadori, Milano 1999.
[11] Cfr. E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, vol I, Vita e Pensiero 1999(3° ed), pp. 63-64. La stessa
figura metodologica è utilizzata nell’analisi della relazione tra i diritti del malato e quelli del
medico (cfr. p. 244 e ss.).
111
ROBERT SPAEMANN
ARS LONGA, VITA BREVIS
Quello che noi oggi indichiamo con la parola "scienza" non è la stessa cosa che era chiamata con
questo nome fino al sedicesimo secolo. E' bene essere consapevoli di questa differenza se ci si
vuole fare un'idea adeguata di quello che fa la scienza moderna. Episteme o scientia erano
sostantivi derivati dal verbo "sapere". Sapere è uno stato relazionale dell'anima, è l'habitus di un
uomo. Un habitus: che qualcuno sa qualcosa non significa che debba pensare attualmente a quello
che sa, ma significa invece che, se ci pensa, lo pensa correttamente e con certezza e più
precisamente con una certezza che conosce le proprie ragioni come ragioni definitive. Questo
differenzia il sapere dall'opinare e dal credere. In quanto concetto relazionale il sapere non è un
fenomeno puramente psicologico. Dal punto di vista psicologico il sapere non è distinguibile da
una convinzione sbagliata. Vi sono convinzioni sbagliate, opinioni sbagliate, credenze sbagliate.
Non vi è invece sapere sbagliato, perché la verità, l'"adaequatio rei et intellectus", fa parte della
definizione del sapere. Se io credevo di sapere qualcosa e in seguito arrivo a una convinzione
diversa, questa nuova convinzione implica che la convinzione precedente era pure una
convinzione ma non era sapere.
Il sapere viene attualizzato quando pensiamo coscientemente a quello che sappiamo, ma viene
attualizzato anche senza che noi ci pensiamo attraverso il nostro comportamento. Andiamo in un
posto passando da una certa strada perché sappiamo che questa strada porta in quel posto. Se
percorriamo spesso quella strada non abbiamo bisogno ogni volta di rendere cosciente questo
sapere. In generale il sapere ci dà la possibilità di raggiungere quello che vogliamo, posto che
sappiamo che cosa vogliamo davvero.
Il sapere pratico nel senso classico della parola non era soltanto e neppure innanzi tutto know
how, ma sapere di ciò che l'uomo vuole davvero e soprattutto. E poiché ogni uomo in fondo
desidera essere felice, quello che deve sapere è in che cosa consista la felicità, l'eudaimonia, la
beatitudo. Aristotele ha insegnato che la più alta forma di felicità consiste essa stessa
nell'attualizzazione del sapere teoretico più elevato, nella theoria, ovvero nella contemplazione
delle realtà eterne, necessarie e immutabili e non di quelle terrene, contingenti e mutevoli.
La theoria non serve alla praxis ma ne è essa stessa la forma più alta. Per Platone questo sapere
supremo è la conoscenza del Bene. Alla fin fine ogni sapere è sapere soltanto se è fondato sulla
conoscenza del Bene in quanto questo è "la causa della conoscenza e della realtà" di tutte le cose.
Che cosa sia un coccodrillo lo si sa soltanto se si sa che cosa distingue un coccodrillo ben riuscito
da uno mal riuscito, un coccodrillo sano da uno malato. E chi dicesse di sapere che cosa è un
coltello, ma non fosse in grado di distinguere un coltello affilato da uno che non taglia, in realtà
non sa che cosa è un coltello. Il concetto classico di sapere presuppone una visione teleologica
della realtà. Sapere veramente significa comprendere una struttura teleologica. E abbiamo
davvero compreso che cosa sia l'indefinibile "Bene in sé" quando questo determina il nostro
comportamento. Chi fa il male, dice Platone, evidentemente non conosce veramente il bene. E così
ancora san Tommaso insegna che nessuno fa volontariamente il male ovvero ciò che non è
desiderabile. La colpa dell'azione cattiva è sempre preceduta da un errore colpevole rispetto a ciò
che è desiderabile qui e ora ovvero rispetto al bene. Ancora Dante scrive che l'inferno è il luogo di
coloro "c'hanno perduto il ben dell'intelletto". Per questo la tradizione della filosofia classica
sostiene che la prudentia è la più alta delle virtù cardinali.
Ciò che più importa in questa caratterizzazione della scienza è che il sapere è sempre e soltanto
lo stato di un singolo uomo reale. Non è possibile che qualcosa "si" sappia. Vi è la convinzione
112
comune di più uomini. Ma una tale convinzione può diventare sapere sempre e soltanto in un
uomo concreto. Soltanto un uomo concreto può essere sapiente. Ma il sapere nel senso
tradizionale culmina appunto nella sapienza.
Il desiderio di sapere è un tratto fondamentale dell'uomo. "Tutti gli uomini per natura tendono al
sapere": con queste parole inizia la Metafisica di Aristotele. Come prova empirica di questa
caratteristica degli esseri umani Aristotele cita il fatto che essi provano piacere nel vedere, anche
indipendentemente da ogni utilità pratica e da ogni riferimento all'azione.
Questo desiderio di sapere fine a sé stesso è stato considerato criticamente dai dottori cristiani.
L'influenza maggiore la ebbe la critica della curiositas di Agostino. Si può leggere questa critica
come una radicalizzazione della dottrina platonica della conoscenza del "Bene in sé" ovvero del
Bene supremo. Per Platone si può parlare di sapere in senso stretto soltanto se ciò che è saputo
viene fondato fino ad arrivare al fondamento ultimo che è il Bene in sé. Solo pochi sono in grado
di farlo, i filosofi. Affinché lo Stato sia ordinato, negli altri devono essere coltivate opinioni
corrette cui essi si adeguino senza comprenderle più profondamente. Il cristianesimo ha
democratizzato la filosofia platonica: tutti sono chiamati ad arrivare alla conoscenza della verità,
cioè alla conoscenza di Dio. La fede non è doxa, opinione nel senso che l'Antichità dava a questa
parola, ma sapere che poggia sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé e che ha una certezza tale da
superare il sapere acquisito dall'uomo con i propri mezzi. Infatti nei confronti di noi stessi
possiamo e dobbiamo diffidare. Ma nel caso della fede vale il detto dell'Apostolo: "Scio cui
credidi". Perciò, a differenza che per Platone, per Agostino il desiderio terreno di sapere fine a sé
stesso va condannato come curiositas. Il desiderio di sapere è giustificato soltanto quando il
sapere è utile per la vita degli esseri umani oppure come mezzo per la conoscenza di Dio. La
conoscenza di Dio è fine a sé stessa in quanto Dio è lui stesso il fine e la conoscenza sfocia nel
"frui Deo", nella dedizione amorosa a lui. La conoscenza del finito, invece, quando non sia utile nel
senso che si è detto, termina nell'autocompiacimento, nell'"amor sui usque ad contemptum Dei".
Tommaso cerca di conciliare Aristotele e Agostino, non soltanto riconoscendo il desiderio di
sapere come costante antropologica, ma vedendo in esso la realizzazione del fatto che l'uomo è
immagine di Dio. In questo senso ogni sapere in quanto tale contiene già di per sé un riferimento
a Dio in quanto origine della verità. Il vizio della curiositas consiste perciò soltanto nel recidere
questo riferimento ovvero nella ricerca di un sapere che pregiudizialmente rifiuti ogni
riferimento a questa origine. Ciò che muove il ricercatore è allora soprattutto la superbia, vanità e
ambizione, e non l'amore della verità. E' interessante il fatto che in un passo Tommaso definisce
la curiositas come una forma di acedia, la pigrizia spirituale. Per perseguire il suo fine ultimo
l'uomo deve mettere in gioco le sue energie più profonde. Quando, in conseguenza della "fuga
finis",questo non accade, l'uomo si trascina per così dire senza meta tra la massa infinita dello
scibile.
Hans Blumenberg, nel suo libro La legittimità dell'età moderna, ha indicato la riabilitazione della
curiosità teorica come una caratteristica fondamentale di tale epoca. Questa tesi appare corretta
soltanto a patto che teniamo presente che il concetto di scienza si è al tempo stesso
profondamente trasformato. Voglio caratterizzare questa trasformazione evidenziandone
quattro fattori. 1) Oggetto della scienza non sono più le strutture teleologiche della realtà ma
nessi causali regolari. 2) Il sapere non è né sapere pratico né theoria nel senso di contemplazione
di ciò che è conosciuto; ciò che è conosciuto teoricamente è il presupposto su cui si basano delle
applicazioni pratiche oppure è uno stadio nel progredire infinito della ricerca. 3) Il sapere
scientifico non è affatto sapere nel senso classico della parola ma ipotesi, opinione più o meno
ben fondata, sempre falsificabile in linea di principio, giacché poggia non sull'intuizione di
essenze, ma sul tentativo di ordinare da un punto di vista teorico i dati empirici. 4) La scienza non
è il sapere di uomini concreti ma un'impresa collettiva che offre informazioni che a seconda delle
113
necessità possono essere acquisite parzialmente da uomini concreti al fine di ulteriori ricerche o
di applicazioni pratiche.
1) L'ontologia classica è biomorfa. La realtà è fatta di cose con le loro proprietà e relazioni. Il caso
paradigmatico di che cosa sia una cosa è il vivente. Il caso paradigmatico dell'essere nel senso
dell'esistenza è il vivere. "Vivere viventibus est esse", si legge in Aristotele. Però che cosa sia un
essere vivente e che cosa sia vivere, noi lo sappiamo innanzi tutto perché conosciamo noi stessi. Il
caso paradigmatico del vivente è l'uomo e così questa ontologia in ultima analisi è antropomorfa.
"Essere" non significa innanzi tutto essere oggetto, ma essere in sé. Ma è proprio del vivente
l'"essere in cerca di qualcosa". Fintanto che viviamo, ci interessa qualcosa, foss'anche soltanto la
sopravvivenza. Conoscere il vivente significa perciò conoscerne la struttura teleologica. Chi non
sa a che cosa serve un polmone e come mai gli uccelli in inverno volino verso sud, non sa nulla
dell'organismo dei mammiferi e non sa nulla degli uccelli migratori. La scienza moderna comincia
con un rifiuto programmatico della considerazione teleologica della realtà. Questa, come scrive
Francis Bacon, "sterilis est, et tanquam virgo Deo consecrata nihil parit", è sterile e non genera
nulla come una vergine consacrata a Dio. L'Illuminismo ha poi realmente cacciato dai monasteri
tutte le vergini consacrate a Dio a meno che non facessero qualcosa di utile come fare scuola ai
bambini o curare i malati. Ma vediamo già in queste parole di Bacon il nuovo ideale di scienza: la
scienza deve essere utile. Il sapere deve avere una utilità pratica oppure deve essere tale da
generare nuovo sapere. Il sapere teleologico suscita il sospetto di essere un "asylum ignorantiae",
una scusa per la "ignava ratio", la ragion pigra. Che i polmoni siano necessari per l'assunzione di
ossigeno è una constatazione di per sé priva di interesse. Al massimo può avere un qualche valore
euristico per un programma di ricerca che indaghi i processi microbiologici attraverso i quali i
polmoni si formano e funzionano. Lo stesso vale per le migrazioni degli uccelli. La conoscenza di
nessi causali regolari, però, a differenza della considerazione teleologica, porta all'apeiron, va
all'infinito. E' interminabile. Per questo non può offrire alcun orientamento per l'azione, ma
soltanto renderla più efficiente.
2) Per questo motivo la scienza moderna non è contemplazione ma ricerca. In quanto tale, però,
essa non è come la theoria dell'Antichità, forma suprema della prassi, ma è al servizio di una
prassi che mira alla progressiva sottomissione della natura. Il sapere teleologico è privo di ogni
utilità ai fini del dominio della natura, anzi è piuttosto un ostacolo. Si possono condurre
esperimenti sugli animali con meno remore se si ignora che gli animali soffrono. Il sapere causale
ci insegna però come noi possiamo intervenire sulla natura. E questo sapere viene acquisito di
solito soltanto attraverso tali interventi, cioè attraverso degli esperimenti. Conoscere una cosa
ora non significa più comprenderla per così dire dall'interno, ma, come scrive Thomas Hobbes,
"to know what we can do with it when we have it". Aristotele credeva -- e questo è quello che io
intendo sottolineare parlando di "ontologia biomorfa" -- di poter comprendere perché le pietre
cadono verso il basso. La scienza moderna si limita a constatare quali connessioni regolari vi
siano dietro la caduta delle pietre, ma rinuncia a intendere il vivente in modo biomorfo e l'uomo
in modo antropomorfo. La considerazione antropomorfa dell'uomo viene lasciata all'ermeneutica
delle scienze umane, la considerazione biomorfa del vivente non ha più luogo. La vita non viene
più compresa a partire dal vissuto umano, ma come un caso particolare di processo fisico, perché
soltanto in processi fisici così intesi noi possiamo intervenire. Per questo, soltanto questa forma
di sapere è utile.
Possiamo chiarire questo passaggio da una scienza "comprendente" a una scienza "calcolante"
considerando un esempio che consentì già a Leibniz di vedere chiaramente come stiano le cose. E'
l'esempio del movimento. Nella tradizione classica il movimento in quanto continuo si sottraeva
alla trattazione matematica. Appunto per questa ragione la fisica non poteva essere
matematizzata, a differenza dell'ottica, nel cui caso si fa astrazione dal movimento e che può
114
essere trattata in modo puramente geometrico. La fisica matematizzata moderna divenne
possibile soltanto grazie al calcolo differenziale e integrale che fu inventato
contemporaneamente da Leibniz e da Newton. Questo permette di scomporre il movimento in
stati stazionari con intervalli sempre più piccoli la cui sequenza è ora calcolabile. Il prezzo da
pagare per la calcolabilità, tuttavia, è la scomparsa del movimento in quanto movimento ovvero
in quanto continuo. A differenza di tanti scienziati moderni, Leibniz questo lo ha visto
chiaramente e ha perciò introdotto il concetto di conatus che prende il posto del concetto
aristotelico di dynamis e cerca di comprendere il movimento per così dire dall'interno. Tale
comprensione non può fare a meno dell'idea di anticipazione. Il corpo in movimento nell'istante
t1 si differenzia dal corpo immobile nello stesso istante per il fatto che il suo trovarsi in un altro
luogo nell'istante t2 è già contenuto nella definizione del suo stato presente. Questo suona come
un paradosso. Ma questa affermazione ha un fondamento nell'esperienza e più precisamente
nell'esperienza che noi abbiamo delle nostre azioni. Si può definire un'azione soltanto
caratterizzandone l'inizio attraverso il fine a cui si tende. Ogni definizione del movimento in
quanto movimento contiene perciò un antropomorfismo occulto. Chi vuole evitarlo deve negare
che vi sia una realtà quale quella del movimento e definire il movimento come ciò che il calcolo
infinitesimale rende calcolabile: una successione di stati stazionari con una distanza minima
l'uno dall'altro.
Avendo compreso questo, Leibniz concepì due forme di scienza della natura che potremmo
chiamare una "fisica dall'esterno" e una "fisica dall'interno", cioè una filosofia della natura che
non tratta della realtà sotto l'aspetto della sua oggettivabilità, ma tratta della realtà in quanto
tale. Questo può voler dire soltanto che ne tratta dal punto di vista della sua somiglianza con noi.
Questa scienza non è antropocentrica come la scienza moderna, ma è antropomorfa.
Né antropocentriche né antropomorfe sono soltanto due forme di sapere che per questo motivo
secondo Platone devono essere strettamente legate tra loro: la matematica pura e la metafisica.
La matematica tuttavia ha trovato nella conoscenza della natura un campo di applicazione che ha
del prodigioso. Per la metafisica, invece, lo spazio si è ristretto. L'opera metafisica più
significativa del ventesimo secolo è quella di un matematico, Alfred North Whitehead. E' un'opera
rimasta solitaria. Dov'è nello scientismo moderno il posto per speculazioni metafisiche rigorose e
degne di rispetto? Descartes si è espresso con chiarezza a tale proposito. Lo scopo della scienza è
la sua applicazione finalizzata alla crescita della felicità umana. I campi di applicazione sono la
meccanica, la medicina e la psicologia. Sono questi i frutti dell'albero del sapere. Il tronco
dell'albero è la fisica. La radice è la metafisica. E' un cambiamento significativo. La metafisica
classica vedeva sé stessa come il vertice degli sforzi teoretici dell'uomo. La theoria, scrive
Aristotele, in realtà è qualcosa di più divino che umano. Per i dottori cristiani essa era un anticipo
della visio beatifica. Per Descartes invece la metafisica è il mezzo con cui raggiungere in sé stessi
la certezza e la stabilità che occorre avere nel momento in cui si intraprende l'avventura della
scienza. Senza idee ontologiche a fare da fondamento tutto quello che facciamo resta campato per
aria. Ma queste questioni non sono tali da occuparci per tutta la vita. Bisogna sbrigare questa
faccenda una volta per tutte e eventualmente richiamare alla mente per poche ore ogni anno
quello che abbiamo così compreso per dedicarsi nel tempo che resta alla "vita", di cui fa parte, per
chi ne è ha la capacità, la scienza. Praticare la scienza diventa però per Descartes un dovere
morale. Infatti ci possiamo permettere il dubbio metodico soltanto se con la scienza cerchiamo
poi di rimuovere sistematicamente ogni dubbio e ci adoperiamo per promuovere la felicità
dell'umanità.
3) Su questo punto tuttavia il cammino della scienza europea si è allontanato da Descartes.
L'ideale di Descartes era di sostituire con la certezza il sapere soltanto probabile e plausibile. La
scienza doveva progredire di certezza in certezza fino a divenire un sistema deduttivo completo.
115
In realtà la scienza europea ha fatto sua piuttosto la concezione degli empiristi. Ha rinunciato alla
fondazione metafisica. Ha rinunciato all'ideale della certezza e ha rinunciato all'idea di
compiutezza. Non conosce alcun sapere assoluto e perciò definitivo, ma soltanto ipotesi che
vengono fondate sempre meglio e meritano una fiducia crescente a mano a mano che falliscono i
tentativi fatti di falsificarle, sebbene non siano mai definitivamente sottratte al rischio di essere
ridimensionate o rivoluzionate.
4) La rinuncia al sapere nel senso di certezza è una conseguenza necessaria del fatto che la
scienza diventa una impresa collettiva in cui vale il principio della divisione del lavoro. Sapere o
essere certi possono esserlo soltanto uomini concreti. Sapere è una condizione della ragione. Ma
la ragione esiste soltanto come ragione individuale. Heidegger ha scritto: "La scienza non pensa".
Si potrebbe anche dire: "La scienza non sa". La scienza, infatti, è un'astrazione ricavata
dall'attività di tanti uomini diversi. Questi uomini possono arrivare a mettersi d'accordo in gran
numero. Ma quello su cui sono d'accordo può anche essere un errore. Il consenso fonda una
presunzione di verità. Ma l'atto per cui dal consenso deriva la certezza di una verità può essere
soltanto un atto individuale. (J. H. Newman ha affrontato la questione del passaggio dalla
probabilità oggettiva alla certezza soggettiva nella sua Grammar of Assent.)
Si trovano qui peraltro le radici di un conflitto sempre latente nella scienza. Quello che dal punto
di vista scientifico è a rigore una ipotesi falsificabile può diventare una certezza per il singolo
scienziato. In questo caso lo scienziato difenderà questa ipotesi con una parzialità che
contraddice l'ideale scientifico di Popper. E dai lavori di Kuhn e Lakatos abbiamo pure appreso
che il processo secondo cui la scienza si sviluppa, in particolare il processo di sostituzione dei
paradigmi non si svolge secondo l'ideale popperiano ma piuttosto in modo darwiniano. Le ipotesi
di solito non vengono semplicemente confutate. Grazie al ricorso a ipotesi supplementari esse
vengono puntellate da parte di coloro che le hanno care e rimangono così al sicuro finché non
arriva una nuova generazione che ha nuove idee e per la quale, considerata l'efficacia del vecchio
paradigma, non vale più la pena difenderlo.
I paradigmi hanno del resto uno status diverso dalle teorie. Essi rappresentano un quadro
teoretico normativo all'interno del quale devono muoversi le teorie che aspirino a essere prese
seriamente in considerazione. Così la teoria dell'evoluzione ha oggi lo status di un paradigma.
Lacune empiriche, obiezioni teoriche da parte della biochimica ecc. non portano a ripensare il
paradigma e a sviluppare possibili alternative. Si dà per scontato in linea di principio che alle
questioni aperte si troverà un giorno una risposta nel quadro di questo paradigma. La maggiore
forza del paradigma sta nel fatto che dietro alle obiezioni che vengono sollevate non stanno
teorie alternative che potrebbero rivendicare una analoga capacità esplicativa. La storia della
scienza mostra però che le teorie che sono arrivate ad assumere lo status di paradigmi possono
essere costrette alla resa soltanto da teorie alternative che possano vantare una capacità
esplicativa dello stesso livello o più elevata e non da un "ignoramus". Gli argomenti contro la
pretesa da parte della teoria dell'evoluzione di spiegare l'origine della vita e l'emergere della
coscienza non hanno da offrire nessuna alternativa sullo stesso piano ma soltanto un
"ignoramus". Per questo hanno scarse possibilità di successo. Nel caso della psicoanalisi di Freud
le cose stanno diversamente. Certamente essa dispone di una strategia perfetta per immunizzarsi
contro le obiezioni teoriche. Tuttavia essa è risultata impotente di fronte ai risultati di ricerche
statistiche empiriche sul suo successo dal punto di vista terapeutico. Poiché i casi di guarigione di
pazienti trattati con la psicoanalisi non sono più frequenti dei casi di guarigione spontanea, la
psicoanalisi appare squalificata come terapia, quale che sia il parziale valore conoscitivo che resta
ancora associato al suo studio.
Il caso Galilei è una bella esemplificazione di quanto detto. L'Inquisizione dimostrò di aver
compreso il principio della scienza moderna meglio di Galilei quando gli chiese di qualificare la
116
sua teoria come ipotesi. Qualsiasi astronomo moderno accetterebbe immediatamente di farlo,
limitandosi ad affermare che le formule che si ricavano quando si faccia girare la terra intorno al
sole sono molto più semplici e più "belle" di quelle che si ricavano nel caso contrario. Ammettere
che il sole giri intorno alla terra comporta il ricorso a una quantità tale di costruzioni teoriche che
ne vale la pena soltanto se è in gioco la verità della Rivelazione. Che questa non fosse in gioco i
cardinali lo ritenevano possibile. Ma per considerare come davvero realizzata questa possibilità
occorreva rivedere una serie di convinzioni condivise fino a quel momento. Si sarebbe voluto
prendere in considerazione la possibilità di farlo soltanto se le idee di Galilei si fossero imposte
con una necessità assoluta. Partita patta, insomma. Galilei vinse perché di fronte all'enorme
valore esplicativo della sua teoria venne meno l'interesse a continuare a sostenere la teoria
opposta accettando l'ipotesi estremamente artificiosa degli epicicli.
La "nuova scienza" è diventata nel fattempo lo strumento più importante del dominio dell'uomo
sulla natura. Ha facilitato il lavoro umano, migliorato la salute, prolungato la vita terrena, reso più
comoda la vita e aumentato a dismisura la produzione di beni materiali. A causa del suo carattere
non teleologico essa deve tuttavia rinunciare a offrire all'uomo un orientamento per il suo agire.
Il sapere che essa mette a disposizione dà potere, non sapienza. E' chiaro perciò che accanto a
questa scienza che permette di scoprire e di ordinare sistematicamente fatti e connessioni
regolari tra fatti si afferma un'altra forma di ricerca scientifica che si occupa di quei fatti che
senza una comprensione "dall'interno", senza comprensione del loro significato, non possono
neppure essere percepiti ovvero i discorsi e le azioni degli uomini. In tedesco si parla di
Geisteswissenschaften, in inglese di human o moral sciences, in francese di sciences sociales. La
descrizione fisicalistica di una azione umana non la renderebbe neppure identificabile come
azione e avrebbe piuttosto un effetto comico. Pascal parlò a questo proposito di "esprit de
finesse" contrapponendolo all'"esprit de géométrie". Oggi parliamo di "ermeneutica", laddove
tuttavia si dovrebbe parlare anche di una "ermeneutica della natura". La nozione di
"informazione" sembra presentarsi oggi come un ponte tra human science e biologia.
Non voglio adesso approfondire questa questione. La questione che desidero affrontare è quella
delle implicazioni morali dell'idea moderna di scienza.
Innanzi tutto è chiaro che una scienza non teleologica non può sicuramente essere quella guida
nella vita che essa doveva essere stando ai proclami del Positivismo di un tempo. Ma ancora oggi
gli scienziati vengono continuamente consultati pubblicamente in merito a questioni di carattere
etico o politico. A questo proposito bisogna capire che la scienza moderna non è ipotetica
soltanto nel senso che le sue risposte sono provvisorie e falsificabili, ma anche nel senso che nel
migliore dei casi può essa dirci come raggiungere un obiettivo che noi vogliamo raggiungere e
quali costi questo comporta. Quando la scienza ci voglia insegnare quale obiettivo noi dobbiamo
perseguire e quale prezzo dobbiamo pagare per il suo conseguimento, la prudenza è d'obbligo.
Pensiamo soltanto a quanti consigli ha già dato la pedagogia scientifica soltanto per poi
constatare di essersi sbagliata. Emerge qui un problema di fondo che ha a che fare con il detto
"ars longa, vita brevis". La scienza non "sa" perché non è una persona individuale. La scienza è
un'impresa collettiva non limitata nel tempo. Per lei gli errori non sono qualcosa di negativo. Al
contrario, essa può imparare dagli errori più che da verità ovvie. Il suo cammino significa "trial
and error". Le cose stanno però in tutt'altro modo per le persone reali, finite e mortali, che
subiscono le conseguenze di questi errori. Mi ricordo l'esclamazione di una infermiera di fronte al
fatto che mi era stata diagnosticata una psittacosi: "Il dottore sarà contento di poter finalmente
vedere una psittacosi!". Io non ero altrettanto contento. Una diagnosi sbagliata per la scienza non
è una disgrazia, ma lo è per il paziente e per il medico ovvero per il medico in quanto medico, non
in quanto ricercatore in campo medico. Gli interessi della scienza medica, infatti, non coincidono
117
con quelli della pratica medica che si regola sui bisogni del paziente. La consapevolezza di questa
discrepanza fa parte naturalmente dell'ethos del medico.
II
E' importante rendersi bene conto che la scienza non ha un ethos e non può avercelo. Solo il
singolo scienziato o una comunità concreta di scienziati costituita di persone singole può essere
morale. E questo ethos dello scienziato si mostra sia nel servizio leale alla scienza sia nei limiti
che sono posti a questo servizio. Questi limiti non sono i limiti del desiderio di sapere. La brama
di sapere sembra essere una forza primitiva che cerca di sfondare tutti i limiti contro i quali si
scontra. Non ci si deve fare un'idea troppo elevata di questa forza. Di per sé essa è moralmente
indifferente. Il dominio della natura fa parte dell'affermazione di sé da parte dell'uomo. Ma i
cristiani sanno bene che il potere dell'uomo dopo il peccato originale è ambivalente. La scienza
moderna però dà potere. Il suo intreccio con la tecnica è sempre più inestricabile. Lo stato della
tecnica prescrive in buona parte alla scienza le prospettive della sua ricerca e spesso la verifica di
una teoria scientifica consiste in un grande evento come l'esplosione di una bomba atomica. La
prima reazione alla bomba di Hiroshima da parte dei fisici nucleari tedeschi, come racconta Carl
Friedrich von Weizsäcker, fu di stupore e di ammirazione: "Ma allora è possibile!".
Quando oggi si chiede la disponibilità di embrioni a fini di ricerca, questo avviene perché
altrimenti certe conoscenze non potrebbero essere acquisite. "La scienza" non può rinunciare a
tali conoscenze, perché non può rinunciare a alcunché. Ma l'uomo che pratica la scienza può e
deve rinunciarvi.
Vi sono tuttavia conoscenze la cui acquisizione è come tale immorale. Non si tratta in questo caso
di conoscenze scientifiche teoriche ma tecnico-pratiche ovvero quelle conoscenze che chiamiamo
know how. I fondamenti teorici della produzione di armi di distruzione di massa di per sé sono
moralmente indifferenti. Ma l'"arte" di produrre tali armi non è un oggetto di conoscenza che sia
lecito a qualcuno studiare. Tuttavia anche qui vi è una eccezione. Una volta che tale sapere già
esista, può essere necessario acquisirlo per sapere come ci si può proteggere da questo nuovo
male.
Alle virtù della vita brevis nel rapporto con l'ars longa appartiene anche e soprattutto la
consapevolezza di una certa incommensurabilità tra le due. Il presidente francese Pompidou era
solito dire che ci si può rovinare in tre modi, con il gioco, con le donne e con i consigli degli
esperti. L'esperto scientifico si muove nell'ambito di condizioni ideali. Egli deve necessariamente
ridurre la complessità del caso singolo. Le sue informazioni sono importanti per prendere una
decisione in un caso concreto, i suoi consigli possono essere sbagliati. L'esperto in quanto
scienziato non deve essere infastidito da questo fatto. Egli, infatti, trova la sua soddisfazione nel
poter dire a cose fatte perché i suoi consigli erano sbagliati e perché le cose sono andate in
tutt'altro modo rispetto a quanto prognosticato. La scienza che osserva e ordina i fatti è
incommensurabile con l'unicità di ogni singolo evento.
Finora ho parlato soprattutto dei limiti etici e cognitivi della scienza. L'etica tratta soprattutto dei
limiti delle nostre azioni.
In linea di principio non vi sono limiti etici del sapere teorico. Nel racconto biblico del Paradiso
terrestre Dio non ordina di rinunciare a una conoscenza ma di rinunciare a un'azione. La
trasgressione del comandamento ha però come conseguenza una conoscenza che senza tale
esperienza non sarebbe possibile, la conoscenza della differenza di bene e di male. Il sapere
scientifico nel senso moderno, come ho cercato di mostrare, è per sua natura senza fine. Non ha
limiti immanenti, soltanto gli restano inaccessibili certe dimensioni del reale, come i colori al
daltonico o certe qualità musicali a chi non ha orecchio. I limiti etici del sapere con i quali la
scienza deve confrontarsi in realtà non sono limiti del sapere, ma limiti dell'agire, che di fatto
indirettamente mettono dei limiti anche al desiderio di sapere. Si tratta per un verso dei limiti di
118
ciò che possiamo fare per acquisire il sapere e per un altro verso dei limiti di ciò che possiamo
fare per applicare il sapere acquisito. Sempre di più, peraltro, questi due tipi di limiti tendono a
confondersi. Oggi come oggi è sempre più la tecnica che decide della possibilità di acquisire
ulteriore sapere scientifico, perché questo sapere può essere acquisito solo con il dispiegamento
di grandi mezzi tecnici. In medicina, del resto, è sempre stato vero che soltanto l'applicazione di
quello che si ritiene essere un sapere verifica o falsifica l'ipotesi. E qui si può immediatamente
vedere qualche caso esemplificativo delle limitazioni etiche di cui stiamo parlando. Le limitazioni
a cui mi riferisco dipendono dal carattere della persona come fine a sé stessa. Kant ha formulato
l'imperativo categorico affermando che non si devono mai usare gli uomini soltanto come mezzi.
La parola "soltanto" è importante, perché ovviamente noi ci usiamo continuamente gli uni gli altri
come mezzi per raggiungere i nostri fini. E ogni persona su cui vengano condotti degli
esperimenti viene strumentalizzata, cioè usata come mezzo per un fine. Ma ciò che è decisivo
sono i limiti di questo uso. Essi esigono innanzi tutto che nessuno sia usato senza il suo consenso.
Questo implica per esempio che generalmente bambini e handicappati psichici non possano
essere usati come cavie in un esperimento se questo comporta un qualche danno per loro. Questo
implica naturalmente che la vita e la salute di qualcuno non possono essere sacrificate a
vantaggio della vita e della salute di altri, come fecero i medici nazisti che nei lager condussero
sui prigioneri esperimenti di congelamento i cui risultati avrebbero dovuto servire ai soldati che
combattevano nell'inverno russo. I limiti all'uso delle persone come mezzi vietano anche ogni
acquisizione di conoscenze che derivi da esperimenti che comportano la distruzione di embrioni.
Ma anche nella prassi sperimentale quotidiana questo problema emerge a proposito della
sperimentazione di nuovi farmaci. Talvolta succede che prima che finisca la serie degli
esperimenti previsti il medico arrivi a convincersi che il medicinale in questione è effettivamente
molto efficace nella cura di una malattia. Nel momento in cui se ne convince deve interrompere la
sperimentazione e somministrare a tutti i pazienti quel farmaco, anche al gruppo di controllo che
fino a quel momento aveva ricevuto un placebo. "Salus aegroti suprema lex": quello di cui qui si
parla è un concreto paziente di un concreto medico, che non può essere sacrificato alla salus di
una massa indistinta di futuri pazienti.
A questo punto bisogna anche dire una parola in merito ai cosiddetti comitati etici che da qualche
anno spuntano ovunque come funghi. E' il sintomo di una crisi. Mostra che l'ethos professionale
dei medici, che è quasi identico a una lex artis, non adempie più la sua funzione di garantire che ci
sia una qualche normalità etica liberando chi agisce dal peso della riflessione. Si sono aperte
troppe nuove possibilità per affrontare le quali le semplici regole di questo ethos non bastano
più. I medici non erano preparati a riflettere sulle loro scelte risalendo ai principi su cui esse si
basano e hanno ceduto il compito di condurre questa riflessione ai comitati etici. Ma è una
illusione credere che moralisti di professione diano qualche garanzia di decisioni buone e giuste.
Al contrario, i più radicali oppositori della tradizione etica europea sono di professione professori
di Etica, come per esempio Peter Singer. Fidarsi di loro perché sono professori di Etica sarebbe
più o meno come se si volesse lasciare decidere che cosa è giusto a degli avvocati professionisti
soltanto perché questi sono capaci di formulare una qualunque decisione in linguaggio giuridico
professionistico e di giustificarla con argomenti giuridici.
Il medico oggi, in presenza di problemi complicati, ha bisogno dell'aiuto di gente con una
preparazione specifica nel campo della riflessione etica. Ma non deve mai sospendere il proprio
giudizio rimettendosi al giudizio di una commissione e tali commissioni devono essere sempre
soltanto organi consultivi e mai organi deliberativi. Non affiderei il mio destino a un medico che
non sia disposto a ascoltare i consigli di persone competenti. Egli deve prendere le proprie
decisioni conoscendo il punto di vista di altre persone competenti. Ma può seguire i loro consigli
soltanto se è convinto lui stesso che siano giusti. E sicuramente non avrei fiducia in un medico
119
che in una situazione difficile rinuncia a dare il proprio giudizio rimettendosi al parere di una
commissione. Vi sono norme morali obiettive. Ma è morale soltanto una persona che agisce
avendo fatto di queste norme obiettive un proprio convincimento.
Del resto anche il discorso scientifico è soggetto a norme morali. Esso deve servire a scoprire la
verità. Questo può essere ostacolato da diversi fattori. Uno di questi è l'ambizione personale che,
come è noto, ha portato in diversi casi a falsificare i risultati delle ricerche. Ma vi sono anche
fattori di disturbo meno evidenti. Uno di questi non può probabilmente essere eliminato:
l'interesse del ricercatore a ottenere un determinato risultato. Questo interesse può essere di
natura ideologica. Il caso più clamoroso è forse la biologia di Lysenko con la sua teoria
dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Quello che vi stava dietro era l'ideologia stalinista. Ma vi
sono esempi di political correctness più vicini a noi. Si veda ad esempio il tentativo di mettere a
tacere lo psicologo inglese Eysenk che aveva presentato i risultati di ricerche empiriche sulla
relazione tra la razza e certe capacità cognitive. La scienza moderna proprio a causa del suo
carattere non teleologico non dà mai giudizi di valore. I suoi risultati consentono reazioni e
applicazioni diverse. Se ci viene detto che i giapponesi mediamente hanno un quoziente di
intelligenza più alto che gli europei, dobbiamo prenderne atto, posto che questo risultato sia stato
ottenuto lege artis. Se poi da questo noi traiamo la conclusione di far immigrare più giapponesi in
Europa o al contrario di cercare di limitarne l'immigrazione, questo non viene suggerito in alcun
modo dalla constatazione di fatto. Gli interessi hanno spesso un grosso peso nel caso delle
scienze umane, soprattutto nella ricerca storica, i cui risultati vengono usati per legittimare o
discriminare persone e gruppi. Fa parte perciò dell'ethos del discorso scientifico che l'interesse a
ottenere un determinato risultato venga dichiarato apertamente e che per quanto possibile i
portatori di tale interesse si astengano dall'intervenire nella discussione riconoscendo di non
essere imparziali. Un esempio di questo è la discussione in merito alla cosiddetta morte
cerebrale. Vi è un interesse enorme e del resto rispettabile da parte dei medici che praticano i
trapianti a ottenere gli organi viventi da trapiantare. Riconoscere il venir meno delle funzioni
cerebrali come morte dell'uomo è in linea con questo interesse. Il riconoscimento della morte
cerebrale in Germania non si sarebbe mai avuto senza il grande peso dei medici impegnati nel
trapianto di organi. Troppi fenomeni suggeriscono il contrario. Anestesisti e infermiere spesso
cercano inutilmente di convincersi che è morto un uomo che respira, che distende il braccio, che
suda e le cui ghiandole secernono ormoni se gli si fa un taglio nella pelle e che perciò viene
sottoposto ad anestesia prima che gli organi siano prelevati. La constatazione della morte era
sempre stata una questione che riguardava i parenti che vedevano che il morire era terminato e
che il morente era morto. Un medico veniva chiamato per confermare il giudizio dato così prima
facie oppure per constatare invece che la persona era ancora viva. Se adesso l'onere della prova
viene invertito e in nome della scienza viene dichiarato morto un uomo di cui tutti gli astanti
vedono che è vivo, quello che vi sta dietro, come ho detto, è un interesse in sé legittimo della
trapiantologia. Ma non è bene che sia così. Questo rende più difficile la ricerca della verità. Gli
studi nel neurologo americano Shewmon e di altri scienziati hanno mostrato che l'integrazione
delle diverse parti nell'organismo vivo non dipende né soltanto dal cervello né soltanto dal cuore.
Quando un ragazzo le cui funzioni cerebrali sono completamente estinte sopravvive ancora per
diversi anni e in questo periodo compaiono i cambiamenti puberali, definire questo ragazzo un
cadavere è inconciliabile con la sana ragione. Lo stesso vale per la donna ricoverata nella clinica
universitaria di Erlangen che secondo il criterio di Harvard era morta ma dopo mesi ha ancora
dato alla luce un bambino. E' vero che questi uomini sarebbero morti ben prima se non li si fosse
tenuti in vita artificialmente. E non voglio discutere la questione se non sarebbe stato meglio
lasciarli morire in pace. Ma, dato che non li si è lasciati morire, non erano appunto morti ma vivi.
Pio XII ha dichiarato espressamente che "la vita umana continua fintanto che le sue funzioni vitali
120
-- a differenza della semplice vita degli organi -- si manifestano spontaneamente o anche con
l'aiuto di procedimenti artificiali" ("la vie humaine continue aussi longtemps que ses fonctions
vitales -- à la difference de la simple vie des organes -- se manifestent spontanément ou même à
l'aide de procédés artificiels").
Sarebbe contro l'esperienza comune delle cose umane affermare che è solo un caso se il momento
in cui è stata proposta la nuova definizione della morte coincide con il momento in cui si sono
aperte nuove possibilità nel trapianto di organi. I medici che praticano i trapianti e vogliano
lavorare con la coscienza a posto dovrebbero perciò rifiutarsi di entrare nel processo con cui si
forma il giudizio in merito alla morte cerebrale. Proprio perché il loro interesse coincide
obiettivamente in modo così immediato con l'amore del prossimo -- che cosa vi può essere di più
nobile che donare i propri organi per salvare la vita di un altro? -- esso tende a indebolire
pregiudizialmente tutti gli argomenti in contrario.
Vi è ancora un altro interesse che ostacola la scoperta della verità nel processo della ricerca
scientifica e che non può essere eliminato, ma può però essere neutralizzato: l'interesse del
ricercatore alla conferma della sua teoria. Popper ha espresso l'esigenza che la scienza sostenga
soprattutto le teorie improbabili dalla cui falsificazione può imparare di più che da conferme che
sono sempre soltanto provvisorie. In realtà il ricercatore ha l'interesse opposto a vedere
confermata la propria teoria. Questo non è preoccupante in quanto di solito vi sono altri
ricercatori pronti a fare i necessari tentativi di falsificazione. Soltanto là dove la scientific
community nel suo insieme è d'accordo su una determinata teoria, diventa difficile e spesso
impossibile per il singolo outsider farsi ascoltare e trovare una rivista in cui presentare i suoi
argomenti in contrario. L'ethos della ricerca esige che ci si opponga a questo meccanismo.
Da ultimo desidero menzionare in questo contesto il problema della rilevanza. "Ars longa, vita
brevis". Ma senza la "vita brevis" l'"ars longa" è soltanto virtuale. Essa è reale soltanto come
attività di uomini che sono esseri finiti. La finitezza umana non riguarda soltanto la durata della
vita, ma anche la limitatezza materiale delle risorse. In ambito medico questa limitatezza fa sì che
la società, nonostante l'incommensurabilità di ogni persona, debba negare a alcune persone una
terapia che concede a altre, scegliendo in base a criteri che in qualche modo rendono
paragonabile ciò che paragonabile non è. In questa sede non devo affrontare questo problema,
ma voglio soltanto menzionarlo. Per la ricerca si presenta un problema analogo. Non possiamo
studiare tutto, perché la vita è breve e perché i mezzi sono limitati e la ricerca diventa sempre più
costosa. I soldi che vengono spesi nella ricerca non vengono spesi altrove. E i soldi che vengono
spesi nella ricerca in una disciplina non vengono spesi in un'altra. Il problema di fissare delle
priorità è un problema politico e perciò sempre anche un problema morale, sebbene l'etica lasci
qui un ampio spazio di libertà. Verso la fine degli anni Sessanta vi furono accese discussioni sul
problema della rilevanza della ricerca. Secondo qualcuno ogni ricerca avrebbe dovuto dimostrare
la propria utilità sociale, laddove peraltro i criteri in base ai quali stabilire che cosa fosse utile
apparivano pesantemente ideologizzati. Per fortuna questa è acqua passata. Ma naturalmente il
problema rimane. Per quanto riguarda la ricerca nell'ambito delle scienze naturali, si tratta in
buona parte di un aspetto del problema più ampio del rapporto tra interessi di breve e di lungo
periodo. La cosiddetta ricerca di base spesso porta vantaggi soltanto a lungo termine e non è
neppure sicuro che li porti. Ma tutti i progressi tecnici e medici degli ultimi secoli si devono a
ricerche che quando furono fatte non potevano promettere con sicurezza tali vantaggi e anzi
spesso non miravano affatto a risultati di quel tipo. Una politica saggia si distingue per un verso
da una politica populistica e per l'altro verso da una politica stalinista per il fatto che cerca di
trovare un equilibrio tra gli interessi di coloro che vivono adesso e i probabili interessi delle
generazioni future. Il nostro primo dovere nei loro confronti è di non vivere a loro spese,
121
consumandone le risorse e facendo debiti che loro dovranno pagare. Non vi è invece un dovere
ugualmente assoluto di fare per loro investimenti smisurati.
Il problema della rilevanza della ricerca, soprattutto in ambito medico, ha anche un altro aspetto
ancora più evidente. Vi sono in medicina interrogativi rispondere ai quali ha un'importanza
enorme dal punto di vista terapeutico e può essere fatto con un impegno finanziario
relativamente modesto. Ma proprio perché le cose sono così semplici tali ricerche non
comportano un grande prestigio scientifico. Non ci si può fare un nome lavorando in quel campo.
E istituzioni di ricerca non sono disposte a spendere soldi in quelle aree, sebbene in tal modo
molti pazienti potrebbero essere aiutati. Ha un valore simbolico il fatto che la prima fecondazione
in vitro sia stata eseguita a Calcutta, una città in cui neonati abbandonati muoiono sulla strada.
Chi avesse aiutato uno di questi bambini a trovare dei genitori adottivi sarebbe rimasto
sconosciuto. Il dottore che in un quartiere elegante lì vicino ha eseguito questo intervento
spettacolare è entrato per sempre nella storia della medicina.
Mi pare che Tommaso d'Aquino abbia colto nel segno là dove dice che il movente che corrompe il
desiderio di sapere è la superbia, ambizione e vanità. Anche qui è di nuovo chiaro che la moralità
e l'immoralità consistono innanzi tutto e soprattutto nelle virtù e nei vizi di persone individuali.
Queste virtù e questi vizi hanno conseguenze più o meno vaste per altri uomini e per il mondo.
Ma è importante ricordare che la Chiesa non è interessata innanzi tutto alle conseguenze terrene
di un'azione, ma alle anime di chi la compie e di chi la subisce. Quello che accade dipende da noi
solo in minima parte. Ma noi possiamo evitare di commettere azioni ingiuste.
122
WILLIAM MAY
DIGNITÀ UMANA E RICERCA BIOMEDICA:
LE RISPETTIVE POSIZIONI DELL'OGGETTO
DELLA RICERCA E DEL RICERCATORE
INTRODUZIONE
Dopo alcune riflessioni iniziali sul significato della dignità umana, prenderò in considerazione il
significato della ricerca biomedica su soggetti umani, la sua necessità, la natura e la tipologia di
tale ricerca.
Successivamente, prenderò in esame i criteri scientifici di tale ricerca e quindi mi occuperò più in
dettaglio di principi e di norme etiche o morali di base, che regolano ricerche di questo tipo,
tentando di correlare tali principi e norme alle rispettive posizioni del soggetto della ricerca e del
ricercatore.
In conclusione, focalizzerò l'attenzione sulla legittimità del "consenso per delega" in situazioni
non terapeutiche, soggetto di un impegnativo dibattito.
DIGNITÀ UMANA
La tradizione Cattolica, 1 riconosce, per quanto riguarda la persona umana, una dignità di tre tipi:
la prima è intrinseca, naturale, inalienabile, ed è una donazione o dono; la seconda èugualmente
intrinseca, ma è una conquista, non un dono; una conquista resa possibile, data la realtà del
peccato originale e i suoi effetti, soltanto dall'inesauribile grazia di Dio; la terza è ancora una
dignità intrinseca, ma è allo stesso tempo un dono, non una conquista, ma un dono, che di gran
lunga trascendela natura umana e che, letteralmente, la rende divina; inoltre, gli è concesso come
fosse un bene molto prezioso, che deve saper custodire e coltivare e che egli può perdere, qualora
scelga in piena libertà di commettere peccati gravi.
Il primo tipo di dignità, proprio degli esseri umani, è quella dignità che appartiene ad essi
semplicemente in virtù del fatto che fanno parte della specie umana , che Dio ha chiamato alla
vita quando, in principio, Egli "creòl'uomo a sua immagine e somiglianza…maschio e femmina li
creò" (Genesi 1,27). Ogni essere umano è un'immagine vivente di Dio santissimo e, quindi, può
essere giustamente definito come una "parola creata" di Dio, la "parola creata" in cui si è
trasformato il suo Mondo non Creato ed esiste proprio per rivelarci quanto Dio ci ama.
La prima, inalienabile dignità della persona umana, è importante sia per il soggetto della ricerca
che per il ricercatore, ma è della massima importanza per il soggetto della ricerca. È, come
vedremo, il fondamento essenziale che sottende i principi morali di base della ricerca biomedica
sulle persone umane.
D'ora innanzi, io chiamerò questa nostra dignità proprio in quanto persone.
Quando entriamo nell’esistenza noi siamo, in virtù di tale dignità intrinseca, persone che superano
in dignità e valore l'intero creato. La persona umana è in verità la " sola creatura che Dio abbia
voluto fortemente proprio per se stesso" (Gaudium et Spes, 24).
In quanto persone, siamo dotati della capacità di conoscere la verità e di decidere della nostra
vita scegliendo liberamente di conformare la nostra esistenza e le nostre azioni alla verità.
Tuttavia, al momento della nascita noi non siamo ancora del tutto gli esseri che Dio desidera che
noi diventiamo.
123
Ciò porta a considerare il secondo tipo di dignità propria delle persone umane, una dignità
intrinseca ma che è una conquista (resa possibile soltanto in virtù dell'inesauribile grazia di Dio)
e non un dono.
Questo secondo tipo di dignità è quella alla quale siamo chiamati in quanto persone intelligenti e
libere, capaci di decidere delle nostre vite, con le proprie libere scelte. Questa è la dignità che
siamo invitati a dare a noi stessi, scegliendo liberamente di attuare le nostre scelte e le nostre
azioni secondo la verità, ossia in accordo con la legge eterna di Dio, alla quale noi prendiamo
parte attraverso la legge naturale. Come ha affermato il Concilio Vaticano II, "l'uomo scopre nel
suo cuore una legge scritta da Dio [la legge naturale]; la sua dignità sta nell'obbedire a questa
legge e secondo questa egli sarà giudicato". (Gaudium et Spes, 16).
Tale dignità, come vedremo, è della massima importanza sia per il soggetto della ricerca che per il
ricercatore, ma è, ritengo, di importanza ancora maggiore per il ricercatore.
D'ora in poi,io farò riferimento a questo tipo di dignità come alla nostra dignità proprio in quanto
agenti morali.
Il terzo tipo di dignità, è nostra in quanto "figli di Dio", fratelli e sorelle di Gesù, membri della
famiglia divina. Questo tipo di dignità è un dono puramente gratuito datoci dallo stesso Dio, che
ce lo concede quando, per mezzo del battesimo, noi siamo "rigenerati" come veri e propri figli di
Dio e ci viene data la vocazione per diventare santi, proprio come lo è il Padre celeste, e di
diventare colleghi di Cristo, suoi collaboratori per la redenzione del mondo. Questa dignità, che
possiamo definire la nostra dignità proprio in quanto figli di Dio, è un bene prezioso che ci viene
affidato e che possiamo perdere scegliendo liberamente di compiere delle azioni molto gravi.
Esiste uno stretto legame tra questo tipo di dignità e la nostra dignità proprio in quanto agenti
morali. Nella parte che segue, tuttavia, focalizzerò l’attenzione sui primi due tipi di dignità, ossia,
la nostra dignità propria in quanto persone e la nostra dignità in quanto agenti morali.
RICERCA BIOMEDICA SU SOGGETTI UMANI: LA SUA NECESSITÀ, LA SUA NATURA E LA
TIPOLOGIA
La necessità della ricerca biomedica su soggetti umani, è ampiamente riconosciuta dalla
comunità medica 2e dal Magistero.3
Tale ricerca è necessaria se la scienza medica deve acquisire ed ampliare la conoscenza e le
tecniche necessarie e/o utili per la diagnosi, la prevenzione e la cura delle persone umane, che
necessitano di assistenza sanitaria e hanno bisogno di alleviare la loro sofferenza.
La sperimentazione umana, nella pratica della medicina, è antica quanto la stessa pratica medica,
anche se è stato soltanto nel secolo scorso o giù di lì, dai tempi di Louis Pasteur e di Claude
Bernard, che i medici, nell’esercizio della attività professionale, sono diventati fortemente
consapevoli della necessità di una sperimentazione e di una ricerca condotte con prudenza,
scientificamente valide e programmate. 4L'Associazione Medica Mondiale, individua brevemente
il fine di tale ricerca: essa " deve migliorare le procedure diagnostiche, terapeutiche o di profilassi
e la comprensione dell'eziologia e della patogenesi della malattia ". 5
La ricerca può essere definita come " un'attività sistematica, intrapresa allo scopo di acquisire
una nuova conoscenza e una comprensione o per confermare la conoscenza che già si possiede
".6
Nonostante alcuni Autori facciano una netta distinzione tra ricerca sperimentale su soggetti
umani e terapia, in quanto l'obiettivo principale della ricerca non è quello di curare ma di
imparare, 7 è diventata ormai una consuetudine classificare la ricerca come terapeutica o
nonterapeutica.
124
La prima, studia gli effetti derivanti dall'impiego di metodi diagnostici, preventivi o terapeutici,
che si discostano dalla prassi medica abituale, ma che hanno delle ragionevoli prospettive di
successo, mentre la seconda non viene effettuata a vantaggio del soggetto della ricerca, ma allo
scopo di acquisire una conoscenza o per sviluppare delle tecniche, dalle quali possano trarre
beneficio altre persone. 8
CRITERI SCIENTIFICI PER LA RICERCA BIOMEDICA SU SOGGETTI UMANI
Le domande alle quali la ricerca biomedica, su soggetti umani, cerca di dare una risposta devono
essere poste in modo tale che possano essere accettate come sufficientemente fondate, dal punto
di vista scientifico.
Questa è fondamentalmente una questione di buona scienza, ma è anche una questione etica o
morale. 9
Diversi articoli del Codice di Norimberga, forniscono delle indicazioni sui criteri scientifici per la
ricerca su soggetti umani. I principi enunciati nel Codice sono della seguente natura:
L'esperimento dovrebbe essere tale da fornire dei risultati proficui per il bene della società,
risultati che non si potrebbero ottenere con altri metodi di studio e che non siano, per la loro
natura, casuali e superflui. 3. I risultati dovrebbero essere progettati e fondati sui dati ottenuti
con la sperimentazione sugli animali e su una conoscenza della storia naturale della malattia o di
altri problemi facenti parte dello studio, in modo tale che i risultati previsti giustifichino
l’esecuzione dell'esperimento. L'esperimento dovrebbe essere condotto esclusivamente da
persone qualificate, da un punto di vista scientifico. È necessario che vi sia, in tutte le varie fasi
dell’esperimento, il massimo livello di abilità e di attenzione , da parte di tutti coloro che lo
conducono o che vi sono in qualche modo coinvolti. 10
L'Associazione Medica Mondiale, ha formulato molti criteri analoghi nella Dichiarazione di
Helsinki.
Tra i " Principi di base ", che regolano la ricerca su soggetti umani, enunciati nel 1975, nella
edizione riveduta della Dichiarazione, vi sono i seguenti:
1. La ricerca biomedica, che coinvolge soggetti umani, deve attenersi ai principi scientifici
generalmente accettati e dovrebbe essere basata su una sperimentazione di laboratorio e su
animali, condotta in modo corretto e su una profonda conoscenza della letteratura scientifica.
2. Il progetto e l'esecuzione di ogni procedura sperimentale, che coinvolge soggetti umani,
dovrebbero essere formulati con chiarezza in un protocollo sperimentale, che dovrebbe essere
trasmesso ad un comitato indipendente, nominato appositamente a tale scopo per averne una
valutazione, un commento ed un orientamento. 11
3. La ricerca biomedica, che coinvolge soggetti umani, dovrebbe essere condotta esclusivamente
da persone qualificate, da un punto di vista scientifico e sotto la supervisione di un medico
competente, dal punto di vista clinico. La responsabilità per i soggetti umani, deve sempre
spettare ad una persona qualificata, dalpunto di vista medico e mai al soggetto della ricerca….
4. La ricerca biomedica che coinvolge soggetti umani non può essere portata avanti
legittimamente se l'importanza attribuita all'obiettivo da raggiungere non è proporzionale al
rischio intrinseco per il soggetto.
5. Ogni progetto di ricerca biomedica, che coinvolge soggetti umani dovrebbe essere preceduto
da un'attenta valutazione dei rischi prevedibili rispetto ai benefici, sia per il soggetto che per le
altre persone. La preoccupazione per gli interessidel soggetto deve sempre prevalere sugli interessi
della scienza e della società. 12
Ho riportato in corsivo un passaggio del quinto principio di Helsinki che, per la sua natura, è
principalmente etico o morale e non scientifico. Ma anche i criteri "scientifici" di questo
125
documento e del Codice di Norimberga hanno delle implicazioni morali, nella misura in cui i
medici e gli scienziati, coinvolti nella ricerca, sono moralmente obbligati ad osservare tali
requisiti scientifici.
In questo documento stiamo prendendo in esame la ricerca su soggetti umani principalmente dal
punto di vista del ricercatore.
È, inoltre, evidente che il tipo di dignità umana qui principalmente in gioco è la dignità proprio
in quanto agente moraledel ricercatore.
PRINCIPI E NORME ETICHE PER LA RICERCA BIOMEDICA SU SOGGETTI UMANI
La dignità degli esseri umani proprio in quanto persone è il principio cardine che regola la
ricerca biomedica su soggetti umani. Come ha affermato Papa Giovanni Paolo, " la norma etica,
fondata sul rispetto della dignità della persona umana, dovrebbe illuminare e disciplinare sia la
fase della ricerca che l'applicazione dei risultati ottenuti grazie ad essa ". 13
Prima di essere eletto Papa, Karol Wojtyla aveva formulato, nel suo libro "Amore e
responsabilità", quello che egli definiva il "principio" o la "norma" personalistica che, " nel suo
aspetto negativo afferma che la persona è quel tipo di bene che non ammette di essere usato, così
come di essere trattato come ilmezzo per il raggiungimento di un fine " e " nel suo aspetto
positivo…conferma questo: la persona è un bene verso il quale l'unico atteggiamento corretto e
adeguato è l'amore ". 14
Il principio del consenso libero e informato
Il principio/norma fondamentale, che serve da fondamento per il più importante principio di
base che regola la sperimentazione biomedica sulle persone umane, è il "principio del consenso
libero e informato". Come ha sottolineato Gonzalo Herranz, questo principio è stato chiaramente
riconosciuto ed affermato dagli autori cattolici nel diciannovesimo secolo molto prima che fosse
espresso proprio nel primo articolo del Codice di Norimberga del 1949.
G. Herranz richiama l'attenzione sul lavoro del medico cattolico francese George Surbled, che ha
espresso chiaramente questo principio, nella prima edizione (1891) del suo libro "La morale nei
suoi rapporti con la medicina e l'igiene", e nella forte affermazione, del suo predecessore Max
Simon, del principio della supremazia della persona umana sulla ricerca scientifica, nel suo
volume del 1845, " Deontologia medica o dei doveri dei medici allo stato attuale della civiltà ". 15
Questo principio, come è stato notato, è stato chiaramente affermato nel primo articolo del
Codice di Norimberga ed è importante ricordare che tale codice è stato formulato quando il
ricordo delle atrocità compiute dal Terzo Reich, in nome della ricerca scientifica, era ancora
vivissimo nelle menti degli uomini. Il magistero della Chiesa è molto chiaro riguardo alla
necessità di un consenso libero ed
informato nel caso in cui la ricerca biomedica abbia bisogno di una giustificazione.
Papa Pio XII ha fatto numerose dichiarazioni sulla necessità del consenso libero ed informato. 16
Come ha affermato Papa Giovanni Paolo II, "il medico ha soltanto quel potere e quei diritti che lo
stesso paziente gli concede ". 17
Il Codice di Norimberga enuncia le caratteristiche di questo principio, dichiarando quanto segue:
" Ciò significa che la persona coinvolta dovrebbe avere la capacità legale di dare il consenso; se si
trovasse nella condizione tale da poter esercitare il potere della libera scelta, senza l'intervento di
alcuna componente di forza, frode, inganno, violenza, imbroglio o forme ulteriori di costrizione o
coercizione, e che dovrebbe avere sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi
dell'argomento in questione tanto da consentirgli di prendere una decisione intelligente ed
illuminata. Quest'ultimo elemento richiede che prima di prendere una decisione affermativa, il
126
soggetto che si sottopone ad un esperimento dovrebbe essere informato della natura, della
durata e dell’obiettivo dell'esperimento; del metodo e dei mezzi con cui dovrà essere condotto; di
tutti gli inconvenienti e i rischi che si potrebbero ragionevolmente prevedere; e degli effetti sulla
sua salute o persona, che potrebbero eventualmente derivare dalla sua partecipazione
all'esperimento. Il dovere e la responsabilità di accertarsi della qualità del consenso dipendono da
ogni individuo che avvia, dirige o si impegna in un esperimento. Si tratta di un dovere e una
responsabilità personali, che nonpossono essere delegati impunemente ad un altro ". 18
Ho riportato in corsivo le ultime due frasi di questo articolo del Codice di Norimberga, in
quantodimostrano che la responsabilità principale di un consenso libero ed informato è
attribuibile al ricercatore ed è connessa direttamente alla sua dignità proprio in quanto agente
morale ed al suo obbligo di rispettare la dignità del soggetto proprio in quanto persona.
Il soggetto dell'esperimento ha, inoltre, la responsabilità, ben radicata nella dignità proprio in
quanto agente morale, di formare la propria coscienza in modo adeguato e di rifiutare di
prendere parte ad esperimenti di natura immorale o progettati per raggiungere ulteriori fini
immorali.
La dignità del soggetto in quanto agente morale gli richiede questo. In quanto agente morale, il
soggetto deve rifiutare la sperimentazione nel caso in cui, come afferma il Catechismo della Chiesa
Cattolica, "questa esponga la vita o l'integrità fisica o biologica del soggetto a rischi eccessivi o
evitabili". (n. 2295).
Molte autorità, tra cui Henry K. Beecher, 19 famoso per i suoi studi sulla ricerca medica, hanno
notato che è molto difficile, a volte quasi impossibile, garantire un consenso interamente libero
ed informato. Ciò che il principio richiede è un consenso "ragionevolmente" libero e
"adeguatamente" informato. Fondamentalmente, qui la posta in gioco è la fiduciatra il ricercatore
ed il soggetto, la certezza che il ricercatore non proporrà alcun esperimento senza comunicare al
soggetto informazioni sufficienti, per consentirgli di prendere una decisione informata e
consapevole. 20 Tale requisito è assolutamente fondamentale, in quanto è radicato nella dignità
del soggetto proprio in quanto persona, ed è in relazione direttamente con la dignità del
ricercatorein quanto agente morale.
Il principio del consenso libero ed informato è necessario in ogni tipo di ricerca biomedica,
terapeutica e non terapeutica, che sia effettuata su soggetti capaci (in grado di dare un consenso
libero ed informato per se stessi), su soggetti non capaci quali i bambini, nati o non ancora nati o
su pazienti "senza voce". Parlerò più approfonditamente del consenso "per delega" più avanti.
Prima di farlo, tuttavia, è importante notare un'"eccezione" relativa al requisito di consenso
libero ed informato e quindi altre norme di base che regolano la ricerca biomedica su soggetti
umani.
Una "eccezione" al principio del consenso libero ed informato
Se prendiamo in considerazione le trattamenti terapeutici medici, notiamo che esiste una chiara
eccezione alla richiesta del consenso espresso; una eccezione, tuttavia, che in nessun modo
indebolisce l'esigenza normativa, che richiede il consenso personale del paziente alle cure
mediche. Questo è il tipo di situazione in cui il consenso è ragionevolmente presunto o implicito,
quando una persona si trova in una situazione di estremo pericolo e non può dare il proprio
consenso esplicitamente o implicitamente, né quando vi è l'opportunità di un consenso "per
delega". Come sostiene la Carta degli operatori sanitari, in casi estremi di questo tipo, "se vi è una
perdita temporanea di conoscenza e volontà, l'operatore sanitario può agire in virtù del principio
della fiducia terapeutica… Nel caso in cui dovesse verificarsi una perdita permanente di
conoscenza e volontà, l'operatore sanitario può agire in virtù del principio di responsabilità
sanitaria, che obbliga l'operatore sanitario ad assumersi la responsabilità, nell'interesse del
127
paziente ". 21Ritornerò a quello che la Cartadefinisce il "principio di responsabilità sanitaria" più
avanti, quando prenderò in considerazione i problemi del "consenso per delega".
La dignità qui principalmente in gioco è la dignitàdel ricercatoreproprio in quanto agente
morale, che ha il dovere di prendersi cura della vita e della salute del soggetto, la cui dignità
proprio in quanto persona gli dà il diritto di ricevere le cure necessarie per tutelare la sua vita
e la sua salute, qualora esse siano in pericolo.
Altri principi/norme etiche che regolano la ricerca biomedica su soggetti umani
Il consenso libero e informato, non è soltanto il principio morale specifico che giustifica la ricerca
biomedica su soggetti umani. Un altro principio/norma chiave è noto come il "principio
dell'ordine discendente". Il filosofo Hans Jonas, ha suggerito tale principio nel selezionare i
soggetti della ricerca. Esso richiede, da parte dei ricercatori, una scelta dei soggetti tra le persone
meno vulnerabili.22
L’obbligo primario, è quello di proteggere le persone vulnerabili e di impedire che si approfitti di
loro nella "scelta" dei soggetti della sperimentazione. Tali soggetti, naturalmente, devono dare il
proprio consenso libero e informato al progetto di ricerca per il quale sono stati "scelti" e per il
quale essi si offrono spontaneamente. Ci sono due principali categorie di "persone vulnerabili"; la
prima include le persone che non sono in grado di dare il consenso alla sperimentazione; i
bambini, nati o non ancora nati, e gli anziani che sono mentalmente incapaci; il secondo gruppo
include persone vulnerabili alla manipolazione o alla coercizione (magari di tipo sottile) da parte
di altri, ad esempio prigionieri, persone residenti in istituti, poveri, studenti che frequentano
istituti che svolgono delle ricerche, ecc.
Il criterio dell'ordine discendente, non significa che le persone vulnerabili non possano essere
mai scelte a buon diritto o non possano mai offrirsi spontaneamente come soggetti della ricerca
biomedica; richiede semplicemente che i soggetti della ricerca siano scelti sulla base di un
principio di giustizia.
Benedict Ashley, O.P. e Kevin O’Rourke, O.P., propongono il seguente criterio generale, relativo a
tale principio: " i soggetti dovrebbero essere scelti in modo tale che i rischi e i vantaggi non
ricadano in maniera diseguale su uno stesso gruppo della società ". 23
Tale esigenza ricade sul ricercatore e, in quanto tale, è direttamente correlato alla sua dignità
proprio in quanto agente morale.
Negli Articoli 9 e 10 del Codice di Norimberga, vengono formulati altri due validi principi.
Nell'Articolo 9, si afferma che: " nel corso dell'esperimento, il soggetto umano dovrebbe essere
libero di portare a termine l'esperimento nel caso in cui questi abbia raggiunto quello stato fisico
o mentale tale da fargli apparire impossibile la continuazione dell’esperimento ".
Nell'Articolo 10, si dichiara: " Nel corso dell'esperimento, lo scienziato che se ne sta occupando
deve essere preparato a concludere l'esperimento stesso, in qualunque fase, se ha ragionevoli
elementi per ritenere (nell'esercizio della buona fede, di capacità superiori e di un attento
discernimento chegli è richiesto), che la continuazione dell'esperimento potrebbe avere come
conseguenza delle lesioni, l'invalidità o la morte del soggetto implicato nell'esperimento".24
In questo caso sono importanti sia la dignità del soggetto proprio in quanto persona e
la dignità del ricercatore proprio in quanto agente morale.
Consenso volontario in una situazione non terapeutica: potrà mai essere moralmente obbligatorio ?
Prima di passare a considerare il consenso "per delega" alla sperimentazione, sia terapeutica che
non terapeutica, è necessario porsi la domanda se possa esistere un obbligo o una responsabilità
morale per le personein grado di offrirsi spontaneamente come soggetti in tali esperimenti. Per
anni ho pensato che non potesse sussistere tale obbligo morale e che l'offrirsi spontaneamente
128
per partecipare a tale sperimentazione fosse un atto di pietà, come una specie di dono. Ma nel
preparare questo scritto e dopo aver discusso la questione con altre persone, in particolare con
Germain Grisez,sono ora dell'opinione che il principio della giustizia può a volte portare un
adulto, nel pieno delle sue facoltà, a scegliere liberamente di partecipare ad esperimenti
biomedici non terapeutici, con determinate condizioni.
Ad esempio, se il medico di base di una persona le ha chiesto, nel corso di analisi mediche di
routine, di dare un campione di urina, per un programma finalizzato al confronto dell'urina di
adulti sani con quella di persone che soffrono di una particolare malattia, in modo tale da
verificare alcune ipotesi relative alla cura di tale malattia o dei suoi sintomi, si dimostra, che in
tutta equità, una persona potrebbe averel’obbligo morale di offrire il proprio aiuto.
In un caso del genere, una persona potrebbe facilmente fare del bene all’umanità, senza costi o
con costi minimi per se stesso. La situazione sembra essere analoga, a quella di un adulto sano
che vede un anziano debole che cerca di trasportare una valigia dall’altra parte della strada;
l’equità, radicata nella Regola d'Oro, come ha intuito la tradizione cristiana, richiederebbe
normalmente che l'adulto sano venisse in aiuto della persona anziana e debole. Nonostante tale
responsabilità non possa essere obbligatoria, da un punto di vista legale, è ragionevole pensare
che per un adulto sano possa sussistere un obbligo morale a partecipare ad una sperimentazione
biomedica non terapeutica, in situazioni di questo tipo. Se, tuttavia, la sperimentazione non
terapeutica impone delle condizioni o degli inconvenienti più che onerosi, allora l'equità non
esigerebbe che una persona si offrisse spontaneamente come soggetto di ricerca; la propria scelta
libera ed informata a prendere parte alla ricerca, sarebbe effettivamente un atto di pietà, un
"dono" di se stessi.
Il problema del consenso per delega o surrogato nelle situazioni terapeutiche
Non esiste un dibattito serio tra le diverse autorità - legale, medica o morale- nel trovare
legittimo il consenso per delega o surrogato, quando la sperimentazione / ricerca / trattamento
sia terapeutica, intesa come un beneficio, ad esempio, verso la salute o la vita di un soggetto
incapace o "senza voce". 25
Parecchie volte, le responsabilità di coloro che delegano il loro consenso, per le procedure di tipo
terapeutico, vengono descritte come scelte fatte in accordo alle preferenze dellapersona
incapace, se sono conosciuti o moralmente onesti, oppure facendo tali scelte in accordo ai
"migliori interessi" dell’individuo, se egli o ellanon ha mai espresso le sue preferenze, per
esempio, se qualcuno funge da tutore di un neonato (nato o non ancora nato), di un bambino, o di
un adulto che non è stato mai capace di agire in modo moralmente responsabile,a causa di
qualche anomalia.
Di conseguenza i vescovi degli Stati Uniti dichiarano che le decisioni prese a nome di una
persona, da parte di un delegato nominato appositamente o di unmembro responsabile della
famiglia, dovrebbero "essere fedeli ai principi morali Cattolici e alle intenzioni e ai valori della
persona rappresentata [in modo tale da essere in accordo con i principimorali Cattolici), o se le
intenzioni della persona sono sconosciute, con i migliori interessi della persona stessa ". 26
Allora, quale sarebbe la giustificazione ultima per concedere il "consenso per delega",
agliindividui le cui "intenzioni" siano sconosciute?
Io credo che il "consenso per delega", quando viene fatto a nome di coloro che non sono mai stati
capaci di esprimere le loro preferenze, riguardo il tipo di procedure terapeutiche, sono
disponibili ad accettare, non è tanto un consenso per "delega", ad esempio, un consenso fatto in
nome di un’altra persona (come i genitori danno, nel battesimo, il consenso per il bambino), come
é il consenso personale, richiesto alla persona(e) moralmente responsabili della cura degli esseri
umani "senza voce".
129
Se la salute o la vita di una persona umana, in particolare, una persona per la quale abbiamo una
particolare responsabilità (come i genitori nei confronti dei loro figli), é in pericolo o soffre per
qualche malattia e ci sono strumenti che potrebbero proteggere e/o ottimizzare la vita e la salute
della persona e/o migliorare la sua condizione,senza imporre gravi pesi alla persona, noi siamo
moralmente obbligati, a ragione della nostra dignità proprio come agenti morali, ad
autorizzare la ricerca/esperimento/trattamento, nella situazione terapeutica.
Mi sembra che la Carta degli Operatori Sanitari identifica correttamente il fondamento morale del
così detto consenso "per delega", in tale situazione, quando abbiamo parlato del " principio di
responsabilità nella cura della salute ". 27
CONSENSO PER DELEGA NELLA SITUAZIONE NON TERAPEUTICA: È SEMPRE
GIUSTIFICABILE ?
Può essere giustificato il consenso "per delega" nella situazione non terapeutica, ad esempio,
quando la ricerca/esperimento/trattamento proposta, non intende beneficare il soggetto umano
di tali procedure, ma piuttosto migliorare le conoscenze, che in futuro potrebbero essere di
grande beneficio ad altre persone?
In tale sede, primariamente passerò in rassegna gli argomenti avanzati per legittimare e per
contrastare il consenso per delega nella situazioni non-terapeutica.
Successivamente esaminerò l’Insegnamento Magisteriale più significativo.
Argomentazioni pro e contro
L’argomentazione principale, avanzata per giustificare il consenso per delega nella situazione
non-terapeutica, veniva proposta, nel 1970, da Richard McCormick.
La sua argomentazione di base era che il consenso per delega, a scopo terapeutico, viene
giustificato, propriamente perché i genitori ed altri loro rappresentanti possono presupporre che
tali soggetti vorrebbero essi stessi acconsentire, se potessero, perché avrebbero il
dovere diacconsentire, in virtù del loro obbligo morale di proteggere la propria vita e la propria
salute.
Similmente, egli ha argomentato, nelle situazioni non terapeutiche, che non comportano alcun
rischio significativo o rischio minimo, nelle quali viene promesso un grande beneficio, il consenso
per delega per i bambini e per altri incapaci viene giustificato dal momento che, come si può
ragionevolmente supporre, le persone non capacivorrebbero per se stessi se potessero, perché
dovrebbero rendersi conto che essi dovrebbero acconsentire a tali esperimenti a causa della loro
natura sociale e il dovere dipromuovere il bene comune della società,quando essi possono fare
così con un piccolo sforzo e nessun pericolo o il minimo rischio per se stessi.28
Paul Ramsey ed io, rifiutammo l’argomento proposto da Mc Cormick nel quale si giustifica il
consenso per delegain ambedue casi, sia a scopo terapeutico, come non terapeutico,
precisamente perché non ci sono motivi per presumere che i bambini e altri incapaci vorrebbero,
se potessero,acconsentire in tali situazioni perché capirebbero che dovrebbero fare così.
Non c’è bisogno di supporre, come ha fatto Mc Cormick, che i bambini ed altri incapaci hanno
qualche obbligo morale. 29
Essi non lo hanno, precisamente perché non ne sono capaci, ma sono, tuttavia, personeche mai
dovrebbero essere usate come semplici strumenti, per fini estrinseci a loro stessi. 30
Trattarli come se fossero agenti morali che hanno obblighi morali da realizzare, farli partecipare
ad esperimenti non terapeutici, che promettono un grande beneficio, con un minimo o con
nessun rischio significativo, significa non riuscire a riconoscerli per quello che, in verità, essi
sono, vale a dire, persone umane vulnerabili, indifese,totalmente dipendenti da altri.
130
Credo che tali considerazioni mostrano con chiarezza che l’argomentazione di Mc Cormick, per
giustificare il consenso per delega alla sperimentazione a scopo non terapeutico, non sia affatto
valida.
Anche se, ho sottolineato precedentemente, che gli adulti capaci potevano avere, in certe
condizioni, un obbligo morale a partecipare ad alcuni tipi di ricerca non terapeutica, i non capaci,
persone "senza voce" non possono avere tale obbligo precisamente perché essi non hanno
obblighi morali, a causa della loro condizione.
Come P. Ramsey, ho trovato non accettabile la giustificazione di R. Mc Cormick, nei confronti del
consenso per delega a scopo non terapeutico.
Infatti, dal 1970 fino al Settembre 2002, quando presentai una bozza preliminare di tale
documento alla riunione, organizzata dalla Pontificia Accademia per la Vita, in preparazione della
sessione plenaria del Febbraio 2003, trovai la mia posizione contestata aspramente.
Ho mantenuto fermamente la posizione, secondo la quale non è mai moralmente corretto, da
parte di altre persone, concedere il cosiddetto consenso "per delega" nei confronti di incapaci,
persone umane senza voce, a favore della ricerca/sperimentazione a scopo non terapeutico.
Fondamentalmente, l’argomento che sostiene tale conclusione, avanzata nel 1970 da Paul
Ramsey e dal sottoscritto, sostiene che le persone umane incapaci o "senza voce", a ragione della
loro dignità proprio come persone, non devono essere mai utilizzate come soggetti nelle
procedure a scopo non terapeutico, intraprese non aloro beneficio, ma per il beneficio di altri.
Secondo questo argomentazione, anche se tali procedure non possono "danneggiarli", risultano
immorali perché violano la loro dignità come persone.
P. Ramsey ha espresso bene questa posizione quando ha affermato: Sperimentare sui bambini [o
altri soggetti non capaci ], con modalità che non si rivolgono a loro come pazienti, è già una forma
ripulita di barbarie; già li rimuove dalla vista e non presta attenzione alla pienezza di fiducia che,
come un bambino, semplicemente un normale ammalato o un bambino morente, pone su di noi e
sulla cura medica ... Tentare didecidere per un bambino perché sia un soggetto della
sperimentazione, è trattare il bambino come un non-bambino... La sperimentazione non a scopo
terapeutico, non a scopo diagnostico, che coinvolge soggetti umani, deve essere basata su un
consenso vero, se deve procedere come un azione umana . Nessun bambino o adulto incapace,
può scegliere di diventare un membro delle imprese medichee nessun altro sulla terra dovrebbe
decidere di sottoporre queste persone a sperimentazioni, non in relazione con il proprio
trattamento.Questo è un criterio di lealtà nei loro confronti. Semplicemente gli è dovuto come
essere umano, bambino o incapace. 31
Come ho già sottolineato, ero stato indotto a cambiare la mia immutabile posizione, che si
opponeva all’intero consenso per delega per le procedure a scopo non terapeutico, a motivo delle
obiezioni contrarie sollevate nella riunione del 27-28 Settembre 2002 ed anche a motivo del
risultato delle discussioni che successivamente ho avuto con German Grisez.
Sono giunto alla conclusione che, comunque, l’argomentazione di Mc Cormick per giustificare il
consenso per delega, a favore dei soggetti "senza voce", a scopo non terapeutico, possa essere
seriamente criticata, per le ragioni già dette, la posizione che ho assunto, può essere difesa per
altri motivi.
Alcuni partecipanti al Convegno, che si è svolto nel Settembre 2002, si riferirono ad un’unica
linea di pensiero, suggerita precedentemente per giustificare tale consenso " per delega ".
La richiesta di base non sarebbe irragionevole, e perciò non contraria ai criteri morali obiettivi,se
i genitori,per esempio, dovessero permettere la sperimentazione sui loro bambini per ilbeneficio
di altri, se l’esperimento non comportasse alcun rischio significativo.
Dopo tutto, i genitori spesso portano i loro bambini, compresi i neonati, a fare viaggi in auto non
intrapresi per un loro beneficio (ad esempio, per acquistare alcuni vestiti per la loro mamma) e
131
tali viaggi comportano certamente dei rischi ma, dopo tutto, i rischi di questo tipo sono
accettabili sia per sé stessi, sia per coloro di cui ci si prende cura.
E potrebbero essere riferiti altri esempi. Perciò, se non è sbagliato agire così per i genitori, perché
sarebbe sempre immorale per loro dare il consenso, affinché i propri bambini prendano parte
alla ricerca/sperimentazione a scopo non terapeutico?
Germain Grisez, a tale proposito, ha enunciato queste linee guida: La gente prendendo decisioni
per un’incapace – per esempio i genitori per un figlio - potrebbe non accettare alcun rischio
significativo ( che è ogni rischio che oltrepassa il livello dei rischi comuni della vita), riguardo alla
sua salute, a motivo di un possibile beneficio dell’esperimento per gli altri. I genitori ed altri
rappresentantidegliincapaci, hanno la responsabilità d’agire nei loro interessi personali, senza
subordinarli a quelli degli altri. Nemmeno una tale subordinazione degli interessi del proprio
assistito, puòessere un atto dimisericordia, essendo la misericordia un fatto che comporta il proprio
sacrificio, ma non impone i sacrifici nei confronti di colui del quale si è responsabili. 32
Desidero far notare alcuni note caratteristiche della presentazione fatta da G. Grisez.
Innanzitutto, offre una chiara definizione/descrizione del rischio "significativo".
Egli identifica come significativo, un rischio che sta "al di là dei rischi comuni della vita", ad
esempio, alcuni rischi come guidare la macchina, attraversare una strada… "rischi" come quelli
che i genitori abitualmente assumono quando hanno accompagnano i propri figli, in tipi di
attività, che non sono finalizzate ad apportare alcun beneficio per i figli stessi.
G. Grisez ci offre così, un criterio chiaro e ben definito, che ci aiuta a determinare se un certo
rischio è "significativo". L’applicazione di questo criterio, perciò, potrebbe essere diversa, in
relazione alla condizione socio-culturale. Così, ciò che rappresenta un rischio "significativo" a
Manhattan, a New York, potrebbe risultare diverso, da quello "significativo" a Wagga Wagga, in
Australia.
In secondo luogo, G. Grisez è chiaramente persuaso che un tale consenso dei genitori, in nessun
modo "subordina" i propri figli agli interessi degli altri, dal momento che lo stesso consenso
rifiuta tale subordinazione. Quando le condizioni offrono garanzie nei confronti del consenso dei
genitori (o il consenso da parte di altri tutors) alla partecipazione, di coloro che vengono loro
affidati, alla sperimentazione a scopo non terapeutico, in altre parole, tale consenso viene
consegnato in buona fede alla fiducia, che viene data loro per proteggere l’inviolabiledignità
proprio come persone, delle persone incapaci, del cui benessere sono i responsabili.
Egli rifiuta esplicitamente, inoltre, che tale subordinazione possa essere "un atto di misericordia,
perché la misericordia comporta il proprio sacrificio, non è un sacrificio imposto su qualcun’altro,
di cui si è responsabili ".
Dopo avere riflettuto sulle ragioni portate avanti da coloro che considerarono la mia visione
troppo restrittiva e non necessariamente in grado di proteggere la dignità inviolabile delle
persone "senza voce", ho concluso che non sarebbe irragionevole per i genitori permettere ai loro
bambini di essere soggetti di studi a scopo non terapeutico, che non comportano alcunrischio
"significativo" (come definito sopra) e non provocano un disagio significativo, o non
rappresentano un peso per i loro bambini.
Essi non tratterebbero i bambini come meri oggetti di uso o non mancherebbero di
responsabilità, nel proteggere la loro vita e la loro salute, tramite ogni ragionevole mezzo.
Ora penso, che la visione che ho difeso per molti anni rappresentasse infatti una reazione
eccessiva agli esperimenti immorali sulle persone non-capaci e una paura, ragionevole in se
stessa, che la dignità intrinseca di persone così vulnerabili fosse messa in pericolo dal desiderio
di subordinarli all'interesse di altri.
Il consenso "per delega", in tali condizioni, non è un vero consenso per delega, cioè, un consenso
dato anome delle stesse persone non capaci.
132
È il consenso personale, dei genitori o dei rappresentanti delle persone "senza voce",che
permette a coloro, di cui hanno una seria responsabilità a motivo della partecipazione alle
sperimentazioni non a scopo terapeutico se, e solamente se, tali esperimenti non presentano un
rischio "significativo", promettono un grande beneficio e non possono essere eseguite su altri
soggetti.
Come prima abbiamo notato (si veda sopra la nota 29 ), penso che i bambini che hanno raggiunto
" l'uso della ragione ", possano prendere decisioni libere e informate, anche se i genitori devono
fornire ai loro figliinformazioni sufficienti, affinché loro facciano una scelta libera ed informata,
riguardo al problema e possano rispondere ad alcuni loro bisogni e mantenereil potere di veto
sulle decisioni dei loro figli, riguardo a tale questione, quando lo giudichino necessario.
L’INSEGNAMENTO MAGISTERIALE PIÙ SIGNIFICATIVO
Riguardo all’insegnamento magisteriale più significativo su tale argomento, è molto importante
considerare a) il consenso per delega alla sperimentazione a scopo non terapeutico, sulle
persone umane non ancora nate e b) e la stessa sperimentazione sulle persone già nate.
Il Magistero Universale della Chiesa, ritiene assolutamente immorale il consenso per delega a
favore degli esperimenti, a scopo non terapeutico, sulle persone umane non ancora nate.
Un passaggio chiave, nella Donum Vitae, di assoluta importanza che riguarda tale argomento è il
seguente: Per quanto riguarda la sperimentazione, presupposta la distinzione generaletra quella
con finalità non direttamente terapeutica e quella chiaramente terapeutica per il soggetto stesso,
nella fattispecie [ sperimentazione sugli embrioni umani e sui feti ] occorre distinguere anche tra
la sperimentazione attuata sugli embrioni ancora vivi e la sperimentazione attuata su embrioni
morti. Se gli embrioni sono vivi, viabili o non, devono essere rispettati come tutte le persone umane;
la sperimentazione non direttamente terapeutica sugli embrioni è illecita. 33
Nessuna finalità, anche in se stessa nobile, come la previsione di un utilità per la scienza, per altri
esseri umani o per la società, può in alcun modo giustificare la sperimentazione sugli embrioni o
feti umani vivi, viabili e non, nel seno materno o fuori di esso. Il consenso informato,
normalmente richiesto per la sperimentazione clinica sull’adulto, non può essere concesso dai
genitori, i quali non possono disporre né della integrità fisica , né della vita del nascituro. D’altra
parte, la sperimentazione sugli embrioni o feti, comporta sempre il rischio, anzi il più delle volte
la previsione certa di un danno, per la loro integrità fisica, o addirittura della loro morte.
Usare l’embrione umano, o il feto, come oggetto o strumento di sperimentazione, rappresenta un
delitto nei confronti della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto allo stesso rispetto
dovuto al bambino già nato e ad ogni persona umana. 34
Quando ho letto questo passaggio, per la prima volta nel 1987 e negli anni successivi, lo
interpretai nella prospettiva della mia posizione, che considera come immorale l’intero consenso
per delega, per le cosiddette persone " senza voce ",a favore della sperimentazione a scopo non
terapeutico, propriamente perché tale consenso viola la loro dignità come persone.
Per tali motivazioni, suppongo che la ragione fondamentale per cui la Donum Vitae rifiuta in modo
assoluto il consenso per delega alla sperimentazione, a scopo non terapeutico, sul bambino non
ancora nato fosse la stessa ragione per la quale io stesso l’ho rifiutata.
Comunque, il testo in questione mi sembra suscettibile di essere interpretato in tale direzione, in
quanto il rifiuto a tale consenso è iniziato, sottolineando il rispetto dovuto agli embrioni umani,
come persone che hanno la stessa dignità di tutte le altre persone umane.
Infatti, suppongo che sia la Donum Vitae, sia Papa Giovanni Paolo II, nel passaggio citato nella
nota a piè di pagina nº 29, considerarono immorale la sperimentazione a scopo non terapeutico,
sugli embrioni umani – e certamente tutte le persone umane incapaci di sottoscrivere un
133
personale consenso informato – perché tale sperimentazione considera gli embrioni umani ed
altre persone umane incapaci, come "oggetti" o "strumenti" da utilizzare.
Così, quando in seguito ho scoperto che i Vescovi degli Stati Uniti, che, insieme con la Donum
Vitae e Papa Giovanni Paolo II, hanno rifiutato in assoluto come illecito il consenso per delega, a
favore degli esperimenti a scopo non terapeutico sulle persone umane non ancora nate, 35ciò
nonostante hanno autorizzato i genitori a fornire il sopraccitato consenso, a favore delle
sperimentazioni a scopo non terapeutico sui bambini già nati, se tali esperimenti non
comportano alcun "rischio significativo per il bene delle persone implicate in essi". 36
Io li accuso di usare un "duplice criterio", uno che riguarda i bambini non ancora nati e un altro
per i bambini già nati. 37
Una posizione simile a quella dei Vescovi degli Stati Uniti è stata presa dalla gerarchia
Australiana. 38
Tuttavia, attualmente, dopo aver cambiato la mia posizione, relativa al consenso per delega alle
sperimentazioni a scopo non terapeutico, che non comportano un rischio "significativo" per le
persone incapaci o "senza voce", ho capito che avevo letto le mie opinioni nella Donum Vitaee nel
passaggio di Papa Giovanni Paolo II già citato.
Ero colpevole di esegesi e avevo dimenticato di considerare la possibilità di interpretare gli
argomenti in modo diverso. Attualmente, penso che la ragione principale per la quale la Donum
Vitae rifiuta il consenso per delega per le sperimentazioni a scopo non terapeutico, sulle persone
umane non ancora nate è che: " […] la sperimentazione sugli embrioni o sui feti
comporta sempre il rischio, anzi, il più delle volte, comporta la previsione certa di un danno per la
loro integrità fisica o addirittura della loro morte ". ( Donum Vitae 1.4; il corsivo è stato aggiunto
).
E’ per tale ragione che la Donum Vitae sottolinea, inoltre, che tale sperimentazione considera
l’embrione umano vivo come un mero "oggetto" o come uno "strumento".
Una obiezione ragionevolmente valida, perché tutte le sperimentazioni a scopo non terapeutico,
sul bambino non ancora nato, sono illecite, a motivo dei gravi rischi che esse comportano e per
quale motivo tali esperimenti sono giustificati sulle persone umane già nate?
Un bambino non ancora nato non può essere un soggetto legittimo degli esperimenti a scopo non
terapeutico, ma evidentemente lo stesso bambino, dopo la nascita, può diventarlo.
Tutto questo mi sembra assurdo. Come risposta a tale obiezione logica, penso che sia
fondamentale mettere in evidenza che i genitori e altri soggetti, che hanno la responsabilità di
prendersi cura delle persone "senza voce" o incapaci, non possono lecitamente accettare di
sottoporre quest’ultimi a procedure senza alcuno scopo terapeutico, se tali procedure comportano
dei rischi "significativi".
Inoltre, sostengo che i neonati sono soggetti molto vulnerabili e si può ragionevolmente ottenere
che gli esperimenti condotti su di loro, a scopo non terapeuticonon comportino rischi
significativi, maggiori dei benefici che ci aspetta.
CONCLUSIONE SUL CONSENSO "PER DELEGA" A FAVORE DEI SOGGETTI INCAPACI O "SENZA
VOCE"PER LA LORO PARTECIPAZIONE ALLE SPERIMENTAZIONI A SCOPO NON
TERAPEUTICO
Come abbiamo gia visto, qui il termine consenso "per delega" viene usato impropriamente, dal
momento che i soggetti potenziali, precisamente perché non capaci o senza voce, non sono in
grado di dare il loro consenso e nessuno dovrebbe presumere di dare il consenso per loro. Il
consenso in questione, è il consenso personale dei genitori e di altri tutors.
134
La dignità propria degli esseri umani in quanto persone e la dignitàproprio come agenti
morali, sono entrambi in pericolo.
Per i genitori e per altri custodi, che potrebbero dare il consenso, per coloro che sono sotto la
lorocura, per partecipare agli esperimenti con finalità non terapeutica, la prima dignità a rischio é
la loro dignità proprio come agenti morali, in quanto devono rispettare assolutamente la
dignità come persone, di coloro che sono "senza voce", incapaci, affidati alla loro fiducia.
Se a loro giudizio, la sperimentazione proposta non violasse la dignità proprio come
persone dei propri rappresentati, tutto questo potrebbe non essere ancora irragionevole o
rappresentare una violazione alla fiducia a loro affidata, per dare il consenso necessario.
Una condizione sine qua non, se tale consenso possa essere moralmente lecito, è precisamentela
richiesta che l’esperimento proposto non comportialcun "rischio significativo" (così comè stato
gia definito), per le persone affidate alla loro cura.
1 JOSEF SEIFERT, ha distinto una radice «quadrupla» della dignità umana ( o 4 tipi di dignità
umana ) in un eccellente ed utile saggio, «Il diritto alla vita e la radice quadrupla della dignità
umana », in « La natura e la dignità della persona umana come fondazione del diritto alla vita: Le
sfide del contesto culturale contemporaneo » ( Atti dell’8ª Assemblea della Pontificia Accademia
per la Vita, Città del Vaticano, 25-27 Febbraio 2002 ), eds. Juan de Dios Vial Correa e Elio Sgreccia
( Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2003 ), pp. 194-215. Laprima, la terza e la quarta
“radice” della dignità umana che egli distingue, corrisponde ai tre tipi di dignità umana che
descrivo in questa sede. Il secondo tipo di dignità umana che J. Seifert distingue è la dignità che gli
esseri umani hanno in quanto persone, realmente consapevoli di loro stessi come soggetti, in
possesso dell’esercizio delle facoltà di conoscere, ponderare e di scegliere. J. Seifert, giustamente
sottolinea che dalla reale consapevolezza ha origine una « seconda e nuova dimensione della
dignità della persona », che consiste nella « consapevole realizzazione della persona, nella
cosciente consapevolezza personale, che rappresenta, in un certo senso, l’atto dell’essere
personale » (p. 206). I bambini non ancora nati, i neonati ed altre categorie di esseri umani, che
sono certamente persone in potenza e non soltanto potenziali persone, fanno parte del primo
tipo di dignità che ho descritto e che J. Seifert include in questa quadruplice classificazione.
Tuttavia, tali persone che godono di tale consapevolezza personale, hanno gli stessi diritti delle
persone la cui consapevolezza non è stata ancora realizzata ( come ad esempio, bambini non
ancora nati ) o nelle quali tale consapevolezza risulta assente o gravemente ridotta a causa di una
lesione o non è posseduta a causa di una malattia. Così, tutte le persone umane, che siano
realmente consapevoli oppure no, hanno il diritto di vivere, a motivo del loro essere persone, ma
non hanno altri tipi di diritti reali, come il diritto di libertà di parola, come al contrario hanno le
persone consapevolmente consapevoli di loro stesse. Tale radice di una dignità umana già
distinta, di conseguenza, ha avuto uno spazio molto importante nel saggio di Seifert, che si è
occupato della relazione tra i differenti tipi di dignità e di diritti umani. Mi concentrerò, in tale
sede, sul diritto di tutte le persone umane di essere riconosciute come esseri di inalienabile
dignità, a ragione della loro dignità proprio come persone e sul dovere morale, non sul diritto
morale, di acquisire, in quanto persone consapevolmente consapevoli, la propria dignità come
agenti morali, formando la propria vita e formulando le proprie scelte, in accordo con la verità.
2 Così dichiarava l’Associazione Medica Mondiale, nella giustamente famosa Dichiarazione di
Helsinki, adottata dalla 18ª Assemblea Medica Mondiale, nel 1964 e rivisitata dalla 29ª
Assemblea, nel 1975: « Il progresso medico è fondato sulla ricerca che, in definitiva, deve basarsi
135
in parte sulla sperimentazione che coinvolge soggetti umani » ( Introduzione ). E’ possibile
trovare il testo di tale Dichiarazione in « Contemporary Issues in Bioethics » eds. TOM L.
BEAUCHAMP E LEROY WALERS ( 2ª ed. C.A. Belmont: Wadsworth, 1986 ); pp. 511-512.
3 Consultare, ad esempio, Pope Pius XII, Allocution to First International Congress of
Histopathology, 14 settembre 1952; in The Human Body: Papal Teachings (Boston: St. Paul
Editions, 1979), nn. 637-649. Consultare, inoltre, Catechism of the Catholic Church (1994), nn.
2292-2293, e Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers,Charter for Health
Care Workers (1994), n. 75-82 e fonti in esso citate
4 Studi meritevoli della ricerca medica e della sua storia vengono forniti da BEECHER,
HENRY, Research and theIndividual (Boston: Little, Brown, 1977) e da KATZ, JAY; CAPRON,
ALEXANDER; e SWIFT-GLASS, ELEANOR,Experimentation with Human Beings (New York: Russell
Sage Foundation, 1972). Moraczewski, ALBERT,O.P., dà una panoramica breve ma utile nel suo
saggio, “Human Experimentation and Research,” in Catholic Health Care Ethics: A Manual for
Ethics Committees, eds. MORACZEWSKI, ALBERT, O.P., e CATALDO, PETER, (Boston: National
Catholic Bioethics Center, 2001), capitolo 23.
5 Associazione Medica Mondiale, Dichiarazione di Helsinki, Introduzione.
6 Catholic Health Australia,Code of Ethical Standards for Catholic Health and Aged Care Services
in Australia (ACT: Catholic Health Australia, 2001), n. 6.1, p. 49.
7 APPLEBAUM, PAUL, et al., “False Hopes and Best Data: Consent to Research and Therapeutic
Misconceptions”,Hastings Center Report 17 (2) (Aprile, 1987) 16-30.
8 A riguardo, consultare ASHLEY, BENEDICT, O.P. e O’ROURKE, KEVIN, O.P., Health Care Ethics: A
Theological Analysis ( 4 thed. Washington, D.C.: Georgetown University Press, 1997), pp.345-346.
Come il Codice dei Criteri EticiAustraliano ne descrive l’importanza: “ E’… importante distinguere
tra una ricerca che è terapeutica, che è condotta con l’intenzione di procurare un chiaro beneficio
clinico al partecipante alla ricerca stessa con il miglioramento della conoscenza, e una ricerca che
è non-terapeutica, che è condotta non con l’intenzione di procurare un beneficio al partecipante
ma piuttosto con l’intenzione di migliorare l’informazione che può nel tempo giovare ad altri. ”
9 A riguardo, consultare FOSTER, CLAIRE, The Ethics of Medical Research on Humans (
Cambridge: Cambridge University Press, 2000 ), p. 21.
10 Testo inBEUCHAMP/WALTERS, p. 510.
11 Il Governo Statunitense richiede che tutte le istituzioni che portano avanti progetti di ricerca,
finanziati con fondi pubblici, nominino un comitato di revisione istituzionale (CRI) e il governo
federale degli Stati Uniti non finanzierà progetti di ricerca, se questi non saranno stati prima
approvati da tale CRI (CommissionE DEL PRESIDENTE PER LO STUDIO DI PROBLEMI ETICI IN
MEDICINA E NELLA RICERCA Biomedica E COMPORTAMENTALE,CRI Guidebook(Washington,
D.C.: Ministero della Sanità e dei Servizi Umani, 1983).
12 Associazione Medica Mondiale, Dichiarazione di Helsinki, in BEAUCHAMP/WALTERS, pp.
511-512.
13 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Rappresentanti della Società Italiana di Medicina e alla
Società Italiana di ChirurgiaGenerale, 27 Ottobre 1980, in Insegnamenti III/2, 1009, n. 3.
14 Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, trad. H. Willetts (New York: Farrar, Straus and Giroux,
1981), p. 41.
15 HERRANZ, GONZALO, “Christian Contributions to the Ethics of Biomedical Investigation: An
Historical Perspective,” un saggio contenuto in questo volume. Consultare in particolare le note
21 e 28.
16 Molte affermazioni di PAPA PIO XII sono raccolte in The Pope Speaks, vol. 1, nn. 3 e 4 (1954).
Tra i suoi discorsi più importanti su tale argomento ci sono quelli relativi al Primo Congresso
Internazionale sull' Istopatologia del Sistema Nervoso (14 Settembre 1952), il Sedicesimo
136
Congresso Internazionale di Medicina Militare (19 ottobre 1953) e il suo discorso all'Ottavo
Congresso dell'Associazione Medica Mondiale Settembre 1951).
17 PAPA GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Rappresentanti della Società Italiana di Medicina ed
alla Società Italiana di Chirurgia Generale, 27 ottobre 1980, in Insegnamenti III/2, 1009, n. 5. Io
ritengo che le riflessioni del suddetto Paul Ramsey sul “principio” del consenso libero ed
informato siano molto pertinenti su tale argomento. Dopo aver notato che altri aspetti della
ricerca, ad esempio le esigenze scientifiche di un progetto sperimentale corretto e della
conoscenza e della competenza professionali, considerano il soggetto come passivo o come
paziente, Ramseyha affermato: «un essere umano è più di un paziente o di un soggetto
sperimentale: è un soggetto personale—ogni parte di esso è un uomo allo stesso modo del medico
che effettua l'esperimento. In procedure del genere, la lealtà è tra uomo e uomo. Il consenso
esprime o stabilisce tale relazione e l'esigenza di ottenere tale consenso la supporta. La lealtà è il
legame tra l'uomo che dà il proprio consenso e l'uomo che dà il proprio consenso, in procedure
del genere. Il principio del consenso informato è uncanone cardine della lealtà che unisce gli
uomini nella prassi e nell'indagine medica. In tale requisito, la fedeltà tra uomini—la fedeltà che è
di norma per tutti i patti o gli impegni morali della vita con la vita—acquista importanza per le
relazioni primarie, tipiche della prassi medica». P. Ramsey delinea la questione molto bene
quando egli ha, inoltre, affermato: « nessun uomo è competente abbastanza per effettuare degli
esperimenti su di un altro, senza il consenso di quest’ultimo». Fare riferimento a RAMSEY,
PAUL, The Patient as Person (New Haven: Yale University Press, 1970), pp. 5, 7.
18 Codice di Norimberga, Articolo 1; il testo si trova in Beauchamp/Walters, p. 511.
19 Consultare il suo «Research and the Individual», pp. 18-19, 231f.
20 Ramsey nota che “Sir Harold Himsworth ha affermato (1953) che il giuramento di Ippocrate
può essere reso con un'unica frase: « Agisci sempre in modo da aumentare la fiducia…Questa frase
potrebbe recitare ancor meglio nel modo seguente: Agisci sempre in modo da non abusare della
fiducia: agisci sempre in modo da mostrare lealtà, da meritare ed ispirare fiducia » in“The Patient
as Person” , p. 8, nota a piè di pagina 6.
21 CONsiglio PontificIO PER L'ASSISTENZA Pastorale AGLI OPERATORI SANITARI,Carta
degli operatori sanitari(1994), n. 73.P. Ramsey ha espresso chiaramente, a mio avviso, il
significato di quello che la Carta definisce il "principio di responsabilità sanitaria" nel modo
seguente: « potremmo dire che se un medico si ferma sulla strada di Gerico, invece di passare
sulla propria strada, per leggere un documento di ricerca prima di una riunione scientifica o di
andare a visitare i suoi pazienti abituali e paganti, si autodefinisce come sufficientemente
competente per la pratica medica, senza il consenso espresso dall'uomo bisognoso ». A tale
riguardo, consultare il suo libro « Patient as Person », pp.7-8.
22 JONAS, HANS, “Philosophical Reflections on Experimenting with Human Subjects,” in H.
Jonas, PhilosophnicalEssays: From Current Creed to Technological Man (Chicago: University of
Chicago Press, 1980), pp.105-131.
23 Ashley and O’Rourke,HealthCare Ethics, pp. 346-347.
24 Il testo di questi Articoli viene fornito in Beauchamp/ Walters, I nomi di battesimo degli autori
e il titolo ?????p. 511.
25 Il termine significativo, “senza voce”, veniva usato da PAUL RAMSEY per descrivere bambini e
altri incompetenti, dipendenti da altri per la cura, nel suo saggio: « A Reply to Richard Mc
Cormick. The Enforcement of Morals: Non-therapeutic Research on Children », Hastings Center
Report 6.4 (May, 1976 ); 21-23.
26 NATIONAL CONFERENCE OF CATHOLIC BISHOPS, Ethical and Religious Directives forCatholic
Health Care Facilities (1994), n. 25.
27 Charter for Health Care Workers,n.73.
137
28 MC CORMIK, RICHARD, S.J., How Brave a New World? Dilemmas in Bioethics (Garden City, NY:
Doubleday, 1981), capitolo 4°, “Proxy Consent in the Experimental Situation”, pp. 61-62e capitolo
6º, “Sharing in Sociality: Children and Experimentation”, pp. 87-98.
29 In tale sede desidero sottolineare che io credo, insieme ad altri, che i bambini nella misura in
cui crescono, diventano capaci di esercitare il loro intelletto, e il potere di scegliere liberamente.
In accordo con il Codice di Diritto Canonico, riconosciamo che “minorenni”, ad esempio, individui
al di sotto del 18° anno d’età, “alla fine del settimo anno di vita.. [sono ] presumibilmente in grado
di usare la ragione (“Minor... expleto autem septennio, usum rationis habere praesumitur”) (Canone
97.2). Coloro che hanno raggiunto l’uso della ragione, io penso, possono dare il loro personale
consenso libero e informato per essere soggetti delle ricerche/esperimenti non
terapeutichecome di quelle terapeutiche. Comunque, io credo che i genitori dei bambini
minorenni, possono proibire tale autorizzazione.
30 A riguardo consultare il mio saggio: «Experimenting on Human Subjects », The Linacre
Quarterly 41(3 ): 238-252 e inoltre il mio saggio: « Human Existence, Medicine, And Ethics:
Reflections on Human Life » (Chicago: Franciscan Herald Press, 1977), pp. 21-28; P. RAMSEY, “A
Reply to Richard Mc Cormik: «TheEnforcement of Morals: NonTherapeutic Research on Children
».
31 P. RAMSEY: « The Patient as Person »; pp. 12-14.
32 GERMAIN GRISEZ: « The Way of the Lord Jesus », vol. 2;Living a Christian Life (Quincy, IL:
Franciscan University Press, 1993), p. 534, la sottolineatura è stata aggiunta.
33 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione Donum Vitae (1987); 1.4, AAS
80, 81-83. L’originale è in italiano. A questo punto, si rimanda alla nota a piè di pagina, n° 29. Essa
afferma: « Condanno, nel modo più esplicito e ufficiale, le manipolazioni sperimentali
dell’embrione umano, perché è un essere umano, dal momento del suo concepimento sino alla
morte, non deve essere strumentalizzato per nessuna ragione ».Cf. GIOVANNI PAOLO II, Discorso
ai Partecipanti al Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze, (23 Ottobre 1982), in AAS
75 (1983) 37.
34 Ibid.
35 A tale proposito, consultare NATIONAL CONFERENCE OF CATHOLIC BISHOPS, “ Ethical and
Religious Directives for Catholic Health Care Facilities “; nº 51: « La sperimentazione a carattere
non terapeutico, sull’embrione vivo o sul feto, non sono permessi, neanche con il consenso dei
genitori ». Consultare inoltre “ Charter for Health Care Workers “ nº 82.
36 Ibid, nº 31, che in parte afferma: « Nel caso di sperimentazione a scopo non terapeutico, il
delegato può dare il consenso solo se l’esperimento non comporta un rischio significativo per tutte
le persone implicate in esso » ( il corsivo è stato aggiunto).
37 Ho fatto tale accusanel mio saggio: « Catholic Bioethics and the Gift of Human Life » ( Hunting,
IN: Our Sunday Visitor, 2000 ); pp. 208-209.
38 A tale proposito consultare il testo: Australian Bishops’ “Code of Ethical Standards for Catholic
Health and Aged Services in Australia”. Al nº 6.6 di tale documento leggiamo: « La ricerca che
coinvolge persone vulnerabili deve essere intrapresa soltanto quando la conoscenza che è stata
ottenuta è sufficientemente avanzata, da garantire persone così vulnerabili, coinvolte in tale
ricerca e tale conoscenza non può essere ottenuta attraverso altri mezzi […] La sperimentazione,
con finalità non terapeutica, non deve comportare alcun rischio significativo per tutte le persone
coinvolte in essa » ( il corsivo è stato aggiunto ).
138
DANIEL SERRÃO
L’ETICA DELLA RICERCA SPERIMENTALE SULL’UOMO:
PRINCIPI E LINEE GUIDA
INTRODUZIONE
Gli aspetti etici della ricerca sperimentale sull’uomo sono oggi tra le questioniprincipali della
società civile perché le biotecnologie sono percepite dall’opinione pubblica laica come una
possibileminaccia personale. Per questa ragione molte organizzazioni internazionali, come l’OMS,
il CIOMS ed altre, hanno dedicato tempo e risorse per discutere gli aspetti scientifici ed etici della
ricerca sperimentale sugli animali e sugli uomini, compresi gli embrioni ed i feti.
Nel mio contributo mi occuperò soltanto della ricerca su esseri umani adulti nello specifico
ambito della sanità.Non è oggetto di questa trattazione la questione degli animali e delle piante,
come soggetti della ricerca, pur essendo un argomento d’indubbia importanza per l’uomo e
meritevole di attenzioneper l’avvenire.
Ci sono differenti tipi di ricerca legati al contesto sanitario. Secondo una recente pubblicazione
del Nuffield Council on Bioethics (1) gli ambiti più importanti sono:
la ricerca di base
la ricerca clinica
la ricerca epidemiologica
la ricerca sociale e comportamentale
studi d’intervento, compresistudi sia clinici sia di popolazione
studi sull’erogazione del servizio sanitario
La ricerca di base è generalmente incentrata su attività di laboratorio che comprendono studi a
livello cellulare, studi immunologici e patogenetici. Questo tipo di ricerca dipende spesso
dall’utilizzazione di campioni prelevati dal paziente.
La ricerca clinica è spesso eseguita con i pazienti in un contesto medico, ad esempio un
ospedale, con lo scopo di ottenere migliori informazioni sulla storia naturale o lo sviluppo
patogenetico di una malattia per poternemigliorare le strategie di diagnosi, di cura o di
prevenzione.
La ricerca epidemiologioca riguarda normalmente indagini su popolazioni, che possono
comprendere studi incrociati su popolazioni selezionate (studi di caso-controllo) oppure su tutti i
membri di una comunità, o può coinvolgere studi longitudinali prospettici sulle popolazioni
(studi di coorte). Questo tipo di ricerca è condotta per conoscere meglio la storia naturale di una
malattia o per identificare fattori che aumentano o diminuiscono l’incidenza di rischio di una
malattia negli individui. Questi tipi di ricerche riguardano spesso lo studio di grandi popolazioni e
possono essere di tipo osservazionale o d’intervento. Lo scopo è di identificare strategie per il
miglioramento della prevenzione o della cura della malattia una comprensione più approfondita
dei fattori di rischio della malattia o della sua progressione.
La ricerca sociologica e comportamentale è spesso una parte della ricerca epidemiologica ed è
incentrata sullo studio dei fattori comportamentali e socialiche possono modificare il rischio
d’incidenza di una malattia nei singoli individui o nelle popolazioni. Questo tipo di ricerca può
implicare la raccolta dei dati sensibili riguardo alla persona e al suo stile di vita (ad es. i
comportamenti sessuali). Mentre alcuni tipi di ricerca sono semplicemente osservazionali altri
139
possono riguardare i modi di esaminare o verificare il cambiamento dei comportamenti e delle
condizioni sociali.
Studi d’intervento sono condotti per valutare l’impatto di specifici interventi di prevenzione
della malattia, spesso nel contesto di studi su popolazioni, o di modificazione del decorso clinico
di una malattia, spesso nel contesto di studi
clinici. Questo tipo di ricerca può costituire la base per definire linee di condotta sulle decisioni
da prendere e sulle priorità da attribuire. Gli studi d’intervento riguardano spesso il confronto fra
le diverse cure o strategie di prevenzione in cui il metodo utilizzato correntemente è messo a
confronto con un altro, spesso nuovo, che potrebbe essere più efficace di quello già esistente. Se
non ci sono trattamenti efficaci già esistenti possono essere utilizzati, sia un placebo sia “nessuna
cura” come termini di paragone su cui stimare l’impatto del nuovo trattamento. Idealmente gli
individui sono distribuiti casualmente per ricevere idiversi trattamenti che saranno confrontati
nello studio.
Le ricerche sui servizi sanitari e sulle politiche di erogazione del servizio riguardano lo
studio dei metodi di erogazione della cura sanitaria, dell’accesso ai trattamenti e della qualità
della cura, allo scopo di trovare metodi più efficaci per una migliore cura. Questi studi riguardano
spesso anche la valutazione dei costidi accesso ad una cura medica e dei benefici forniti.
Nel campo della ricerca su individui adulti, uomini e donne, ci sono molti problemi che meritano
di essere posti all’attenzione dell’opinione cattolica. Esistono molti documenti internazionali e
linee guida che hanno seguito il Codice di Norimberga, mapresenterò qui il Protocollo sulla
Ricerca Biomedica, preparato dallo Steering Committee on Bioethics(CDBI) ed aperto alla
discussione pubblica, la cui versione finale sarà approvata nel 2002 e proposta per la firma agli
stati membri nel 2003. Il Protocollo copre l’intera gamma delle attività di ricerca biomedica
comprendendo qualsiasi tipo d’intervento sugli esseri umani, ma non riguarda la ricerca sugli
embrioni in vitro; riguarda, invece, la ricerca sul feto e sugli embrioni in vivo, così come sulle
donne gravide.
L’opinione cattolica non è contro le ricerche su individui umani a patto che siano pienamente
rispettati la dignità ed i diritti dell’uomo.
In questo senso il Protocollo afferma, come la Convenzione, che l’interesse ed il benessere degli
esseri umani che partecipano alla ricerca deve prevalere al solo interesse della società e della
scienza.
Per proteggere la dignità ed i diritti umani il protocollo afferma che ogni progetto di ricerca
debba essere approvato da un’autorità competente dopo un esame indipendente sul suo valore
scientifico, compresa la valutazione dell’importanza dello scopo della ricerca ed un vaglio
multidisciplinare della sua accettabilità etica.
La revisione etica da parte di un comitato indipendente e multidisciplinare è il punto centrale per
la protezione della dignità e dei diritti dell’uomo. Questo punto è sottolineato anche dalla
Dichiarazione di Helsinki (Edimburgo, 2000) che afferma “il comitato deve essere indipendente
dai ricercatori, dallo sponsor e da qualsiasi tipo d’indebita influenza”: il Protocolloafferma che i
membri del comitato etico devono dichiarare tutte le circostanze che possono portare ad un
conflitto d’interessi. Se un conflitto dovesse sorgere le persone coinvolte non dovrebbero
partecipare alla revisione.
Per promuovere una buona e solida conoscenza del comitato etico il Protocollo fornisce, negli
Articoli successivi, i dettagli sulle informazioni che i ricercatori ed i promotori sono obbligati a
presentare, la dimostrazione che nessuna indebita influenza, compresi guadagni finanziari, viene
esercitata sulle personeper partecipare alla ricerca, con particolare attenzione alle persone
dipendenti e vulnerabili. E’ inoltre importante che l’informazione sia fornita ai partecipanti della
ricerca e che sia completa e comprensibile. Questa informazione è la condizione sine qua non per
140
ottenere il consenso da parte di coloro che intendono partecipare alla ricerca. I principali
argomenti dell’informazione devono essere: la natura, l’entità e la durata delle procedure
coinvolte, in particolare i dettagli di qualsiasi peso imposto; i rischi implicati; i diritti e le tutele
prescritte per legge in loro protezione; Il loro diritto di rifiutare il consenso o di ritirarlo in ogni
momento, senza che venga pregiudicato il loro diritto ad appropriate e tempestive cure mediche,
e senza che venga subito alcun danno, le disposizioni per affrontare eventuali eventi avversi o le
inquietudini dei partecipanti; provvedimenti per assicurare il rispetto della vita privata e la
riservatezza dei dati personali; provvedimenti per l’accesso alle informazioni rilevanti sui
partecipanti che derivano dalla ricerca e dai risultati completi; provvedimenti per un’adeguata
indennità in caso di danno; qualsiasi prevedibile utilizzazione ulteriore, compreso l’uso
commerciale, dei risultati della ricerca, dei dati o del materiale biologico.
Il punto più difficile è la protezione della persona che non è in grado di dare un consenso per la
ricerca. Se le ricerche sono in grado di dare un reale e diretto beneficio alla sua salute e con le
precauzioni prescritte per legge, queste ricerche possono essere accettabili. Senza questi benefici
l’accettabilità della ricerca è problematica ed aperta alla discussione.Anche se il rischio ed il peso
della ricerca è minimo, in soggetti che non sono in grado di dare il consenso, compresi i minori,
con un tutor che dia il consenso, e con qualche probabilità di produrre risultati che diano un
beneficio diretto per la salute della persona coinvolta, mi sembra che si tratti di una
manipolazione non in accordo con l’affermazione enfatica che il benessere delle persone che
partecipano alla ricerca debba prevalere al solo interesse della società e della scienza. In generale
l’opinione cattolica non è d’accordo con questo tipo di ricerche.
Gli studi clinici promossi dalle industrie farmaceutiche sono un altro punto da prendere in
considerazione. Ci sono quattro fasi distinte di questi trials:
(Tradotto da (1))
Studi di Fase I
Gli studi di fase I sono il primo momento in cui i soggetti umani sono esposti a medicine
potenzialmente nuove. L’obiettivo di questi trials sarà di studiare la farmacodinamica e risposta
alla dose, e nel caso dei vaccini, la risposta immunitaria, e di determinare la dose massima che
può essere tollerata dai partecipanti.
Nel caso della maggior parte delle medicine nuove questi studi saranno svolti su un piccolo
numero di volontari sani. Non ci si aspetta che l’efficacia della medicina sia messa in evidenza
dagli studi di Fase I.
Studi di Fase II
Utilizzando le informazioni riguardanti le dosi sicure fornite dagli studi di Fase I, il farmaco sarà
somministrato ai pazienti che soffrono della malattia bersaglioed ora un numero significativo
d’individui sarà coinvolto nello studio. Quasi sempre questi studi vengono svolti in vari centri
clinici. Lo scopo dello studio di Fase II e di dimostrare l’efficacia della medicina contro una
specifica malattia. Ulteriori informazioni sulla sicurezza della cura saranno messe in evidenza da
questi studi perché un maggior numero di individui è esposto alla cura. Nel trial di Fase II il
paziente è spesso assegnato casualmente al gruppo che riceverà la nuova cura o al gruppo che
riceverà il placebo ( un composto che non possiede alcun effetto terapeutico), o più spesso, al
trattamento convenzionale e già collaudato.
141
Studi di Fase III
Se un farmaco ha dato prova di essere efficace e senza significativi effetti collaterali, si entrerà in
Fase III, dove molte centinaia, a volte qualche migliaia di pazienti saranno arruolati. Questa fase è
generalmente condotta non solo per confermare l’efficacia clinica del farmaco, ma anche per
stabilire la sua efficacia in confronto ai trattamenti tradizionali. Questi studi sono spesso
multicentrici e spesso condotti su basi internazionali. Di nuovo viene posta una grande
attenzione ai possibili effetti collaterali in quanto un gran numero di pazienti è esposto alla cura.
Gli end-points di Fase III includonola dimostrazione di un miglioramento statisticamente
significativo dell’efficacia della nuova medicina rispetto a terapie già collaudate, se ne esistono.
Studi di Fase IV
Una volta che la nuova medicina entra in commercio sarà soggetta a controlli post- marketing per
identificare gli effetti collaterali ed altri affetti avversi che si metteranno in evidenza perché un
numero molto maggiore d’individui saranno trattati con quel farmaco. Inoltre studi clinici formali
continueranno per sviluppare una maggiore comprensione del farmaco e dei suoi effetti in un
contesto clinico più ampio, ma anche per estendere la sua utilizzazione ad altre indicazioni
cliniche o a differenti gruppi di pazienti, come i bambini e le persone più anziane. Speciali disegni
di studio possono essere utilizzati a seconda degli obiettivi dello studio per la valutazione
dell’efficacia e della sicurezza. Questi trialspossono includere studi di andamento temporale,
studi di caso-controllo, o l’introduzione graduale di un trattamento in differenti aree. Gli studi di
Fase IV possono anche essere messi a punto per misurare l’impatto della cura in pattern
epidemiologici o di trasmissione di una malattia infettiva.
Quando ci si propone di avviare questi studi nei paesi in via di sviluppo c’è il rischio che non
esista un comitato etico indipendente e multidisciplinare per dare un’opinione di carattere etico
dopo aver revisionato il progetto di ricerca.
Dopo la notizia di abusi in alcune città, come in Africa, le OMS così come alcune organizzazioni
internazionali, come laWorld Medical Association, il Council for International Organization of
Medical Sciences, ed altre hanno preparato un documento- Operational Guidelines for Ethics
Commettees that Review Biomedical Research- per sostenere il miglioramento dell’organizzazione,
della qualità e degli standards di revisione etica nel mondo: penso che questo documento possa
essere approvato dalla nostra Accademia e che questa approvazione posa essere comunicata
all’OMS.
Il Forum Europeo per la Buona Pratica Clinica, così come il Parlamento Europeo e la
Commissione Europea hanno preparato dei documenti per mettere d’accordo la legge ed i
provvedimenti amministrativi che regolano gli studi clinici di Fase II e III.
L’opinione cattolica sostiene i valori promossi da questi documenti; e rafforza le disposizioni
sull’utilizzazione del placebo della dichiarazione di Helsinki riguardo alla “grande attenzione che
dovrebbe essere presa nell’utilizzare trialscon placebo di controllo, e più in generale, questa
metodologia dovrebbe essere utilizzata solo in assenza di terapie provate già
esistenti”.L’utilizzazione del placebo può aprire la strada all’abuso di quelle persone coinvolte
nello studio terapeutico che non possono essere informate del fattoche potranno ancheprendere
la vera medicina ma una simile che non ha alcuna azione terapeutica. Ci sono notizie di certe
ricerche terapeutiche sull’AIDS, in corso in Africa, che sono condotte con medicine contro il
placebo in donne incinte- chiaramente contro la Dichiarazione di Helsinki.
Dal punto di vista cattolico è sempre necessaria una chiara affermazione dell’imperativo morale
del rispetto della dignità umana. Questo ci richiama a riconoscere che ogni persona deve essere
142
trattata innanzi tutto come persona e come un fine in se stessa, non come un oggetto o come
unmezzo per un fine; questo significa rispettare il diritto di prendere decisioni libere ed
informate nel rispetto dell’esercizio del consenso individuale. I ricercatori dovrebbero
riconoscere e legittimare la realtà cheun consenso libero ed informato è frutto di un processo e
non è semplicemente il mettere una firma nella scheda di consenso. Il processo inizia con il primo
contatto con i potenziali partecipanti, comprende il dialogo e la condivisione delle informazioni, e
continua per tutto l’iter del progetto.
Le esigenze morali di una reale comprensione, di una reale assenza di controllo da parte di terzi,
e di un’autorizzazione, concessa al ricercatore, per far qualcosa ai partecipanti, non sono
suscettibili alla formulazione di valutazioni da parte dei ricercatori, o dei Comitati Etici quali
il Research Ethics Boards. Questo è un punto molto importante e le istituzioni cattoliche, così
come i partecipanti cattolici ai Research Ethics Boards dovrebbero sempre vigilare molto
attentamente sul processo d’informazione data al paziente coinvolto nel programma di ricerca e
sull’espressione del consenso. Questo vale soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove gli
ostacoli culturali, sociali e politici sono così preoccupanti che i promotori non informano le
persone che saranno coinvolte nello studio ma le autorità, che danno o no il consenso per la
ricerca. Sfortunatamente, in certi paesi, i soldi e la corruzione sono i mezzi più efficaci per
ottenere autorizzazioni alla ricerca su soggetti umani.
Le ricerche condotte nei paesi in via di sviluppo, sulla Malaria e l’infezione da HIV, sono state
criticate perché non si utilizzano trattamenti per i pazienti con infezione da HIV che fanno parte
del gruppo cui è somministrato il placebo. Una discussione ben equilibrata sulle questioni etiche
è stata presentata da V.Leontis (2). Nel riferimento (1) può essere trovata una discussione
pregnante e molto completa sulle questioni etiche correlate alla ricerca nei paesi in via di
sviluppo. L’opinione Cattolica può essere d’accordo con le istanze proposte dal Nuffield Report;
questi aspetti dovrebbero essere considerati nel revisionare proposte di ricerca nei paesi in via di
sviluppo.
Riassumendo l’opinione cattolica riguardo l’etica della ricerca sperimentale negli esseri umani
può essere presentata in tre punti.
In ogni tipo di ricerca la sacralità della vita umana creata da Dio, e la dignità dell’essere umano
sono i valori principali che devono essere rispettati. I principi dedotti da questi valori sono, nella
ricerca in ambito sanitario, il dovere di alleviare la sofferenza, il dovere di rispettarela persona, il
dovere di non sfruttare i più vulnerabili. Questi principi devono essere tradotti nella pratica e per
questo deve esistere una procedura appropriata.
I comitati etici di ricerca con un ampio spazio d’intervento, sono una parte molto importante e
necessaria per un’appropriata procedure di controllo del rispetto dei principi. Comunque i
comitati etici di ricerca devono essere forniti di membri indipendenti e competenti, e dare pareri
chiaramente giustificatied aperti alla responsabilità pubblica e democratica.
Gli esseri umani, compresi gli embrioni ed il feto, non possono mai essere usati, nella ricerca
sperimentale, come mezzi per un fine, senza rispetto per le loro vite, dignità e benessere, anche
se il fine si presenta come un bene per la società o la salute dell’umanità.
143
APPENDICE - Nuffield Council of Bioethics
“Issues to be considered when reviewing research proposals”
Aspetti politici
La ricerca ha bisogno di essere condotta nei particolari paesi in esame?
Lo scopo della ricerca può essere giustificato? La ricerca proposta è pertinente per le priorità
nazionali di ricerca sulla salute? Se la ricerca non è conforme alle priorità nazionali, è in ogni caso
giustificata?
Sono stati rilevati i criteri per selezionare la popolazione in studio? Sono state considerate tutte
le questioni correlate al genere di popolazione da studiare?
I fondi stanziati per la ricerca sono sufficienti per completare il progetto?
Se positivi, i risultati possono essere implementati sia ora sia nel prossimo futuro?
Aspetti scientifici
I ricercatori che intraprendono la ricerca sono appropriatamente qualificati e hanno esperienza
relativa all’argomento della ricerca?
Il ricercatore è disponibile per tutta la durata dello studio?
E’ disponibile lo staff che supporta la ricerca e le attrezzature, comprese quelle tecniche, sono
adeguate?
E’ questa la prima volta in cui è portato avanti questo tipo di ricerca? Se non lo è, il valore
scientifico per intraprendere la ricerca è giustificato?
Il progetto della ricerca è appropriato? E’ in grado di fornire risposte chiare alle questioni che la
ricerca si è posta?
E’ possibile ottenere un controllo di qualità dei dati e delle analisi?
Sono stati presi in considerazione gli aspetti legati alla biosicurezza e ad una buona pratica
gestionale?
Gli interventi diagnostici, terapeutici e di prevenzione possono essere condotti con sicurezza?
E’ utilizzato nella ricerca un gruppo di controllo? Se sì, sono inclusi nel progetto i dettagli sulla
cura che sarà somministrata?
Ci sono forme di follow-up per chi partecipa alla ricerca?Se sì, sono forniti i dettagli per questo?
Aspetti etici
La ricerca è stata appropriatamente revisionata dal punto di vista scientifico?
Il progetto è stato approvato dal comitato etico di revisione nel paese ospite/sponsorizzatore?
E’ stato fatto ogni sforzo di consultazione con le relative comunità durante il corso di
progettazione della ricerca? Sono stati forniti i dettagli sulle misure da prendere nel reclutare gli
eventuali partecipanti alla ricerca?
E’ stato considerato chi beneficerà della ricerca?
Sono state fornite considerazioni sui rischi implicati nell’intraprendere la ricerca? Sono state
prese misure per minimizzare il rischio dei partecipanti? Ci sono adeguati provvedimenti per il
monitoraggio dei dati raccolti e per assicurare la sicurezza dei soggetti?
Sono stati forniti i dettagli sulle informazioni che saranno rese disponibili per gli eventuali
partecipanti? Sono appropriate e complete? Sono fornite in un linguaggio e ad un livello di
complessità appropriato per gli eventuali partecipanti alla ricerca?
144
Sono stati forniti i dettagli sulle procedure che saranno utilizzate per ottenere il consenso a
livello delle istituzioni e della società, dove sia opportuno?
Sono stati forniti dettagli sulle procedure che saranno utilizzate per ottenere il consenso dai
singoli partecipanti? E’ opportuno chiedere ai partecipanti di firmare una scheda di consenso
informato? Se non lo è, come sarà documentato il loro consenso? Laddove sia previsto un
consenso orale alla ricerca, c’è un adeguato procedimento per provare l’avvenuto consenso?
Sono stati messi a punto provvedimenti per ricevere e rispondere alle domande o alle lamentele
da parte dei partecipanti alla ricerca e dei loro rappresentati durante il progetto di ricerca?
Sono stati forniti i dettagli su chi avrà l’accesso ai dati personali dei partecipanti alla ricerca,
comprese le cartelle cliniche ed i campioni biologici? Sono state prese misure per mantenere la
riservatezza e queste misure sono adeguate?
Gli standards di cura proposti sono accettabili? Sono appropriati per il paese in cui la ricerca è
condotta?
Ci sono altri progetti di ricerca che possono rispondere alle questioni poste dalla ricerca? Se sì,
perché è stato proposto questo particolare progetto?
Si può utilizzare uno strumento di controllo? Se sì, la sua utilizzazione è adeguatamente
giustificata? Se viene proposto che il gruppo di controllo nella ricerca debba ricevere meno
rispetto al generale standard di cura, questo è giustificato? Vengono forniti i dettagli su come
saranno distribuiti i trattamenti? Sono stati inclusi i dettagli su quali informazioni riceveranno i
partecipanti al gruppo di controllo?
Sono giustificati progetti per eliminare o rifiutare le terapie standard a scopo di ricerca?
Quali standards di cura saranno forniti ai partecipanti che svilupperanno la malattia o condizioni
diverse da quelle studiate? Se si tratta di standards più bassi rispetto alla migliore cura
disponibile come parte del sistema sanitario pubblico nazionale, questo è giustificato?
Saranno offerte ai partecipanti alla ricerca pagamenti, doni o altri incentivi in cambio della loro
partecipazione? Questi sono appropriati?
Ci saranno follow-up e revisioni a lungo termine della ricerca? Se sì, saranno forniti i dettagli su
come questi saranno portati avanti?
Ci sono provvedimenti d’indennità o trattamenti nel caso di morte o danno dei partecipanti alla
ricerca?
I ricercatori si sono preoccupati di fornire un accesso sicuro a trattamenti efficaci post-trial per i
partecipanti allo studio? Se no, la mancanza di queste disposizioni è giustificata?
Viene considerata la possibilità di introdurre una cura che si sia dimostrata di successo in un
contesto più ampio e mantenere la sua disponibilità? Se non è possibile rendere disponibile il
trattamento per una parte o l’intera popolazione nel paese in cui la ricerca è stata condotta, la
ricerca è comunque giustificata?
Il comitato etico della ricerca formulerà dei resoconti regolari sull’andamento della ricerca? Se sì,
sono forniti i dettagli sulla frequenza con cui vengono fatti? Sono forniti i dettagli di ogni
disposizione effettuata per fornire un’adeguata documentazione al comitato?
Sono forniti i dettagli su come saranno utilizzati i risultati della ricerca? Come saranno divulgati i
risultati della ricerca ai partecipanti ed alle altre parti interessate?
La ricerca include programmi per lo sviluppo della competenza sulla ricerca nei paesi in via di
sviluppo in cui lo studio sarà condotto? Se no, è giustificata la mancanza di questi provvedimenti?
145
Ricerche condotte su popolazioni vulnerabili
E’ giustificata l’inclusione nelle ricerche d’individui che non possono dare il consenso?
Le questioni poste dalla ricerca sono importanti per la salute ed il benessere di questa
popolazione vulnerabile?
Il progetto di ricerca è appropriato?
Sono state poste nel progetto di ricerca le cautele necessarie per prevenire indebite coercizioni o
influenze su questo gruppo?
[1] The ethics of research related to healthcare in developing countries. Nuffield Council on
Bioethics publication. London, 2002.
[2] VASSILI LEONTIS – Ethical challenges posed by trials of biomedical intervention on human
subjects conducted in developing countries. Information paper presented at the European
Conference of National Ethics Committee. Porto (Portugal) 1998. CDBI/INF (98)2.
146
EUGENE DIAMOND
Il conflitto di interessi nell’etica medica
La medicina è una libera professione dotata di una sua etica intrinseca, per la quale il fine della
medicina è ordinato ad un bene, cioè alla salute. Tecnica e condotta medica non sono quindi
neutrali rispetto ai valori, ma sono ordinate al bene generale rappresentato dalla salute, che è il
fine datole per natura. La medicina è una professione precisamente perchéprofessa questo fine.
Essere professionisti è più che essere tecnici. La professione pubblica della medicina come modo
di vita rappresenta un’affermazione della natura morale dell’operato medico. La medicina come
professione equivale a dichiarare pubblicamente la volontà di dedicarsi agli altri e di servire un
bene superiore. Il medico è pertanto un soggetto morale che professa e afferma la natura morale
della sua attività.
Negli ultimi anni abbiamo assistito al tentativo di convertire la nostra professione in un’attività
volta ad uccidere. I medici abortisti uccidono bambini non nati; altri medici si assumono la
responsabilità di uccidere pazienti senza il loro consenso, come in Olanda, o di entrare nei
meccanismi del suicidio medicalmente assistito, come nello Stato dell’Oregon in America. Il
medico fedele alla sua chiamata, al contrario, non viola la proibizione di uccidere né per amore né
per soldi.
Ecco perché la medicina deve essere una professione e non un mero business. Il medico che è
mosso principalmente dalla motivazione del profitto, infatti, ha rinunciato all’idea che il miglior
interesse del paziente coincide con la ricerca della sua salute.
C’è stata recentemente l’erosione di alcuni fra i baluardi che si erano andati formando a difesa del
paziente e della società.
Prima di tutto, consideriamo l’informazione pubblicata sulle riviste mediche. Tale informazione ci
aiuta a delineare meglio le decisioni diagnostiche e terapeutiche. Perché una rivista medica sia
valida, occorre che pubblichi informazioni autorevoli, aggiornate e libere da condizionamenti
commerciali. Ciò comporta che le associazioni finanziarie degli autori vengano allo scoperto e che
non influenzino la pubblicazione degli articoli: solo così si possono evitare pregiudizi, reali o
apparenti, basati sul conflitto di interessi. Oltre che agli autori, la libertà dal conflitto di interessi
si deve estendere al processo direvisione da parte dei colleghi di pari grado (peer review). Se
coloro che assistono l’editore nella selezione degli articoli adatti alla pubblicazione non sono a
loro volta liberi rispetto a simili associazioni finanziarie, le possibilità di discriminazione
aumentano[1]. La connessione fra aziende biomediche e ricerca sta crescendo rapidamente. Oltre
al supporto finanziario direttamente volto alla ricerca o alla sperimentazione terapeutica, gli
autori possono ricevere compensi per consulenza, far parte di consigli consultivi (advisory
board), possedere capitali azionari, avere diritti di brevetto, ricevere onorari per conferenze o
per deposizione ai processi in qualità di esperti.
Di recente il New England Journal of Medicine[2] e, per illazione, il Journal of the American
Medical Association[3], hanno modificato le loro politiche editoriali in modo che gli autori sia di
articoli originali che di rassegne e di editoriali non abbiano interessi finanziari “significativi”
all’interno di una società (o dei suoi concorrenti) che causa la discussione di un prodotto
all’interno di un articolo. Il NIH (National Institute of Health)[4] e la Association of American
Medical Colleges[5] hanno parimenti ammorbidito i requisiti relativi alle associazioni finanziarie,
con i possibili pregiudizi da ciò derivanti. Tale tentativo ha lo scopo di quantificare in quale
misura le associazioni possono produrre pregiudizi. Il provvedimento chiave sarebbe quello
stabilire il limite superiore della somma annuale percepita dagli autori, oltre il quale si può
147
valutare un rapporto finanziario come “significativo”. Attualmente il livello è di 10.000 $. Al di
sopra di questo tetto, ogni patrimonio finanziario in cui il potenziale profitto non è limitato, come
nel caso di azioni, opzioni e possesso di brevetti, risulterebbe probabilmente un elemento
squalificante.
La giustificazione di tali mutamenti nella politica editoriale pare essere l’incapacità di eleggere un
numero di autori e/o di revisori adeguato a portare avanti le funzioni delle riviste, dal momento
che moltissimi accademici e clinici sono coinvolti in complicate relazioni finanziarie con case
farmaceutiche[6].
Inevitabilmente il risultato della politica sarà l’accresciuta possibilità di ricorrenza del conflitto di
interessi, nonché una ridotta sicurezza nell’affidabilità dei dati pubblicati. Ciò si estenderà non
solo al processo decisionale dei medici e dei ricercatori, ma anche al grande pubblico. Quasi tutti i
principali mezzi di comunicazione degli Stati Uniti hanno un editore scientifico e uno staff che si
occupa della letteratura medica corrente, spesso basandosi su sommari e annunci pubblicati dalle
riviste stesse al fine di promuoverle. Fornire un simile servizio rappresenta una cospicua fonte di
reddito, ad esempio, per l’Associazione Medica Mondiale.
Un solo caso: un articolo del New England Journal sull’RU 486 (Silvestre L. et Al. New Eng J Med
322: 645, 1990) concludeva che l’RU 486 è “efficace e sicura”. Coloro che ritenevano i dati forniti
eccessivamente fiduciosi e rassicuranti poterono rinforzare le loro preoccupazioni grazie alla
rivelazione, effettuata in una sede autorevole, che tutti i sei autori erano dipendenti della
Roussel-Uclef, che produceva l’RU 486 e contava su ingenti profitti dalla vendita del prodotto.
Venire a conoscenza del fatto che il sedicente articolo “scientifico” fosse in realtà un pezzo
promozionale camuffato poteva dare origine ad un salutare cinismo da parte del lettore. E
tuttavia l’infondato entusiasmo per il prodotto fu incoraggiato come dato di fatto non solo dal
produttore, ma anche dall’intero apparato pubblicitario delle lobby abortiste e dai suoi
collaboratori nei mezzi di comunicazione.
Una nostra delegazione della Catholic Medical Association incontrò il direttore esecutivo e il
comitato di redazione dello JAMA per manifestare perplessità sul fatto che nel corso dei
precedenti tre anni erano stati pubblicati circa quindici articoli pro-aborto e nemmeno uno
contro. Il pregiudizio editoriale venne negato con veemenza. Tuttavia, successivamente,
entrammo in possesso di un memorandum interno[7], fornitoci da un impiegato dello JAMA, che
informava il comitato editoriale dello JAMA come, di fatto, la loro politica fosse quella dimostrata,
cioè di non pubblicare studi contrari all’aborto o studi statistici sfavorevoli all’aborto.
Se questo pregiudizio ideologico ora venisse accresciuto dal potenziale discriminatorio fondato
sul rendiconto economico, la professione medica e l’opinione pubblica verrebbero
completamente compromesse.
Il presidente Bush è stato di recente chiamato a prendere decisioni salomoniche riguardo alla
ricerca sulle cellule staminali. Fu certamente una decisione perfetta quella che lo portò a
compiere l’importante distinzione fra cellule staminali embrionali (prodotte da embrioni creati
con lo scopo di ucciderli per procacciarsi cellule staminali) e cellule staminali derivanti da adulto
(da fonti come il sangue del cordone ombelicale, il midollo osseo, ecc.), come pure quella di
vietare i fondi federali per la creazione di nuove linee di cellule staminali embrionali; tuttavia, il
presidente ritenne ammissibile, nella sua linea di condotta, la conservazione delle linee cellulari
embrionali già esistenti. Ma quando un albero è avvelenato lo sono anche i frutti; infatti, poiché le
cellule staminali derivanti da adulto avevano oramai soppiantato le cellule staminali embrionali
sia nella pratica clinica che nei laboratori, risultava difficile comprendere l’insistenza dogmatica
da parte della comunità scientifica sulla superiorità e sulla necessità di linee cellulari embrionali.
Si scoprì poi che molte delle linee cellulari embrionali esistenti avevano avuto il permesso di
essere conservate perché di fatto erano possedute da università e da altre imprese decisamente
148
intenzionate a trarre profitto dalla diffusione e dalla distribuzione di cellule staminali embrionali
per la ricerca.
Durante il dibattito sulla clonazione[8] al Congresso degli Stati Uniti, fu rivelato che esistevano
tre brevetti di clonazione umana in attesa all’ufficio brevetti USA. Il promotore dell’atto di
proibizione sulla clonazione umana (Human Cloning Prohibition Act), il senatore Brownback,
precisò che l’idea di uccidere una persona per trovare un terapia a vantaggio di un’altra persona
è una falsa compensazione, che trascura i progressi compiuti con altre fonti di cellule staminali
non embrionali. Ancora più preoccupante è la prospettiva di coloro che, in seno alla società
americana, possiedono, commerciano, comprano e vendono persone (clonate) come fossero di
loro proprietà. Tale questione deve essere inclusa nel dibattito sulla clonazione. Quando il
senatore Brownback propose l’emendamento sulla non brevettabilità umana per proscrivere i
cloni umani in attesa di diritto di brevetto[9] fu sconfitto, e ciò accadde lo stesso giorno in cui
un’equipe dell’Università del Minnesota riportò la versatilità delle cellule staminali da adulto e la
loro capacità di convertirsi in centinaia di cellule specializzate del corpo, assumendone la
forma[10].
Jonathan Swift diceva: “la falsità vola e la verità giunge lenta più tardi, così che quando per gli
uomini arriva la disillusione, lo scherzo è finito e la finzione ha già ottenuto il suo effetto”. La
cultura della morte, che ha chiaramente controllato negli ultimi trent’anni la stampa e i media,
mostra ora una sinistra inclinazione verso il controllo della letteratura scientifica e perciò dei
processi politici. Attraverso il potente incentivo del profitto si fa largo l’evidente conflitto di
interessi fra l’investigazione scientifica obiettiva e la scienza difensiva in cerca di un tornaconto
economico.
L’ultima perversione del commercio nella ricerca medica potrebbe diventare la vendita di parti
del corpo per scopi di sperimentazione. La reale fattibilità di un business attivo riguardante le
parti del corpo fetale è stata l’oggetto di numerose ricerche da parte delle agenzie investigative
pro-life. Si è dimostrato che questa emanazione dell’industria abortista intende pubblicizzare la
disponibilità di organi provenienti da bambini abortiti nelle riviste scientifiche. Non si tratta di
semplici illazioni, ma di fatti innegabili, poiché sono stati presentati veri annunci pubblicitari che
contengono listini dei prezzi di tessuti umani. Sono state scoperte offerte come “fegato fetale, reni
fetali del secondo trimestre, tessuto dell’isola pancreatica ciascuna con lista dei prezzi allegata,
predisposte dai cosiddetti “laboratori” che sono in affari con le fonti abortiste[11].
Esiste attualmente un movimento che opera affinché sia ammesso un compenso per i donatori
d’organi da parte di potenziali beneficiari. Al momento l’Atto nazionale sui Trapianti d’organo
(National Organ Transplant Act) dichiara che “chiunque consapevolmente acquisti, riceva o in
altro modo trasferisca un organo umano per trapianto a scopo oneroso” commette un atto
illegale. L’Associazione Medica Americana (AMA) ha richiesto uno studio che indaghi la
possibilità di pagamento ai donatori per i loro organi[12]. Lo sfondo di un simile cambiamento
totale di prospettiva politica è, come è ovvio, l’annuale diminuzione della disponibilità di
donazioni d’organo. Il database della United Network for Organ Sharing indica che ci sono
attualmente 75000 pazienti in attesa di un organo. Un terzo fra quelli che aspettano un trapianto
di cuore o di fegato moriranno prima che l’organo sia disponibile.
La fonte primaria di organi provenienti da donatori sarebbe la cosiddetta donazione da Cadavere
a Cuore Battente. Si tratta di pazienti che hanno subito la cessazione irreversibile e totale delle
funzioni cerebrali e che sono tenuti sotto ventilazione meccanica nelle unità di terapia intensiva.
Essi rappresenterebbero una risorsa pari a 10-12 mila potenziali donatori l’anno, ma, nonostante
l’intensa campagna di sensibilizzazione pubblica, la proporzione di potenziali donatori non è
cresciuta a sufficienza[13]. Fra le motivazioni ci sono state il maggior affidamento riposto nei
149
donatori viventi (di reni), i trapianti parziali(di fegato e polmoni) e quelle fonti di reperimento di
carattere eticamente discutibile, come i neonati anencefalici e gli animali[14].
Un’altra potenziale sorgente di organi trapiantabili sono i pazienti dichiarati morti secondo i
tradizionali criteri cardio-polmonari, e non sulla morte cerebrale. Il successo dei trapianti che
utilizzano gli organi provenienti da quest’ultima fonte sono limitati a causa dei problemi causati
dall’ischemia a caldo. Questi cadaveri a cuore non battente rientrano generalmente in due
categorie: 1) morte cardio-polmonare non controllata (normalmente nelle sale del pronto
soccorso) e 2) morte controllata per tempo e luogo. Questa seconda categoria segue un metodo
comunemente conosciuto come protocollo di Pittsburgh[15].
Secondo tale protocollo, le famiglie che hanno deciso di rinunciare ai mezzi di sostentamento
vitale vengono convocati per proporre loro la donazione d’organi. Il tempo dell’ischemia a caldo è
reso minimo portando il paziente in sala operatoria, ivi sospendendo il supporto vitale e
rimuovendo gli organi immediatamente o poco dopo la dichiarazione di morte. Le questioni
etiche sollevate dall’utilizzo di cadaveri a cuore non battente in qualità di donatori hanno a che
fare con il processo di ottenimento del consenso, con la questione dell’irreversibilità e con quella
della dichiarazione precoce di morte. Si presentano inoltre intuitivi problemi legati al fatto che la
procedura pare attuarsi e risolversi dichiarando morto il paziente solo dopo averlo allontanato
dai parenti stretti e averlo condotto in una sala operatoria.
Le forze di mercato hanno iniziato ad indebolire il principio della donazione disinteressata da
parte dei donatori viventi attraverso la possibilità di reperire organi fuori dagli Stati Uniti. Gli
americani comprano organi dalla Cina, dal Perù e dalle Filippine, poi ritornano negli Stati Uniti
per effettuare la terapia dei trapianti[16].
Un’altra sfida ai principi altruistici che sottendono l’Atto è l’aumentata frequenza delle donazioni
di rene da parte di pazienti non legati ai beneficiari, dal momento che non è più necessaria
l’affinità genetica. Si danno perciò possibilità di acquisto illegale e di profitto illegale che vanno al
di là del controllo dei centri per i trapianti[17].
Il movimento per la liberalizzazione della normativa che regola il libero mercato nella
compravendita di organi accresce lo spettro di una guerra dell’offerta, nella quale candidati
facoltosi ma meno bisognosi di trapianto acquisiscono la priorità su candidati poveri che non
hanno la possibilità di comprare organi. Un economista afferma che gli individui meno abbienti
potrebbero comunque accedere a prestiti per acquistare organi, come fanno oggi per acquistare
la macchina o la casa. Tuttavia, cosa accadrebbe se l’acquirente fosse incapace di restituire il
debito? Abbiamo qualche sistema per confiscare o riavere un rene?
L’attuale sistema per conferire incentivi etici o umanitari alle donazioni dovrebbe tutela la
distribuzione non discriminatoria degli organi in base al criterio della maggior necessità[18].
Risulterebbe impossibile controllare criteri di brocheraggio negli Stati Uniti. Se l’attuale
proibizione del commercio d’organi fosse annullata, non ci sarebbero giustificazioni legali per
impedire alle persone di aggirare il sistema regolativo e entrare in concorrenza all’interno di un
mercato senza controllo. Portare l’attenzione sulla potenziale iniquità di un simile mercato e sulla
preferibilità di rafforzare gli incentivi etici (riconoscimenti pubblici, restituzione delle spese
funerarie o delle tasse) sarebbe il modo migliore per sostenere l’interesse generale della
società[19].
Occorre anche spendere qualche parola sul bioterrorismo, un conflitto d’interessi fondamentale
sorto dalla questione se un biologo debba pubblicare un lavoro che può essere usato per il male.
L’Accademia Nazionale delle Scienze ha riunito un gruppo di esperti per studiare come prevenire
le applicazioni distruttive delle biotecnologie avanzate[20]. Studi recenti sull’epidemia di virus
influenzale del 1918, svolti dall’Istituto di Patologia delle Forze Armate, hanno indicato quali
risorse potenziali occorrano per ricostruire il virus del 1918 rendendolo più resistente al sistema
150
immunitario[21]. Sono stati pubblicati studi analoghi che dimostrano come manipolare i
microrganismi perché si diffondano più rapidamente, resistano ad antibiotici e vaccini, e possano
rappresentare perciò armi più efficaci per il bioterrorismo. Il problema se tali informazioni
debbano essere disponibili nelle riviste è certamente grave. Fra gli esperti di armi biologiche del
governo e la Società Americana di Microbiologia è sorto un conflitto di interessi sulla questione
se in questi casi vi debba essere una speciale peer review. Neanche a dirlo, gli scienziati sono assai
restii ad accettare l’idea che il loro lavoro o dei dati importanti debbano essere sottoposti a
censura per ragioni politiche.
Sebbene i conflitti di interessi non siano evidenziabili all’interno del sistema medico tanto quanto
lo sono nel sistema capitalista, essi sono tuttavia inevitabili in un sistema basato sul privato, sia
nella forma del pagamento a servizio (fee for service) che in quella della assistenza sanitaria
managerizzata (managed care). La principale difesa contro l’intrusione di questioni politiche o
economiche nell’assistenza medica è il ritorno al sistema ippocratico dell’etica medica, che resta
attuabile in tutte le culture e in tutte le forme di risarcimento.
Infine, un’altra opportunità di conflitto di interessi consiste nella cosiddetta “scienza difensiva”.
Essa consiste nell’avanzare pretese di supposta “scientificità” o nel rifiutare le pretese contrarie,
basandosi non sulla qualità dei dati implicati, ma su un intenzioni politiche nascoste o sulla
ricerca della correttezza politica.
Troviamo la principale occasione di impiego della scienza difensiva nella ricerca sull’eziologia e
sul trattamento dell’omosessualità o dei disordini attrattivi verso lo stesso sesso. I media hanno
promosso l’idea che sia stato già scoperto un “gene del gay”, e vi sono state alcune organizzazioni
professionali che non hanno disconosciuto tale assunzione. Se l’attrazione verso lo stesso sesso
fosse determinata geneticamente, allora ci si potrebbe aspettare che i gemelli identici siano
identici anche nell’attrazione sessuale. Invece, molti studi mostrano come gemelli identici
abbiano tendenze sessuali differenti[22-23-24].
Tuttavia, assistiamo a crescenti tentativi per convincere il grande pubblico che l’attrazione verso
lo stesso sesso è geneticamente fondata. Tali tentativi sono motivati politicamente da un
presupposto, e cioè che l’opinione pubblica risponda in modo verosimilmente più favorevole a
mutamenti di legge e di insegnamento religioso se crede che l’attrazione verso lo stesso sesso sia
geneticamente determinata e immutabile.
Una controversia analoga si ritrova nella questione se la condizione omosessuale sia curabile e
reversibile. All’interno del dibattito fra essenzialismo e costruttivismo sociale, chi crede nella
legge naturale sosterrà che l’essere umano ha una natura essenziale – maschio o femmina – e che
inclinazioni peccaminose come il desiderio di coinvolgersi in atti omosessuali sono costruite, e
pertanto possono essere demolite. Alcuni membri dell’American Psychiatric Association, invece,
sono giuntiad asserire che tali tentativi di cambiare gli omosessuali non sono solo senza successo,
ma anche non etici. Tuttavia, un certo numero di terapeuti ha scritto diffusamente che la terapia
riparativa ha successo nel 30% circa delle persone che sperimentano attrazione per lo stesso
sesso, mentre un altro 30% nota un miglioramento[25-26-27-28]. Il dottor Robert Spitzer, il noto
ricercatore psichiatrico della Columbia University che fu in gran parte responsabile della
rimozione dell’omosessualità dalla lista APA dei disturbi mentali, ha ora rivelato che le sue
ricerche più recenti mostrano come il cambiamento prolungato possa davvero essere
raggiunto[29].
Altri esempi di Scienza Difensiva sono il rifiuto della American Cancer Society di accettare la
relazione fra aborto e cancro della mammella[30], nonostante schiaccianti evidenze in proposito,
e l’insistenza del NIH sull’efficacia del preservativo nella prevenzione dell’AIDS. Quando, nel
corso di un importante convegno internazionale che radunava i principali esperti di AIDS, si pose
151
la questione di quanti avrebbero voluto avere un rapporto sessuale con un sieropositivo, pur
dotato di preservativo, nessuno[31] nell’assemblea alzò la mano.
I fatti suggeriscono con forza che i burocrati di numerose organizzazioni professionali come
l’AMA e l’American College of Obstetrics and Gynecology devono evadere una fitta agenda di
richieste di scuse per avere sostenuto l’aborto o per aver supportato le lobby dei diritti
omosessuali, nonostante evidenze contrarie e nonostante la diversa opinione di molti fra i
membri di base.
152
[1] PARRISH D., BRUNS D., Legal Principles and Confidentiality in Peer Review, JAMA 2002, 287:
2839.
[2] DRAZEN J., CURFMAN G., Financial Associations of Authors, New Eng J Med 2002, 346: 1901.
[3] RENNIE D. ET AL, Conflicts of Interest in the Publication of Science, JAMA1991, 266: 266.
[4] Public Health CFR42, May 21, 2002.
[5] ASSOC. OF AMERICAN MEDICAL COLLEGES, Task Force on Financial Conflicts of Interest in
Clinical Research,December 2001.
[6] ANGELL M., WOOD A., Authors Conflicts of Interest, New Eng J Med 1999, 341: 1618.
[7] LUNDBERG G., Memorandum regarding topics for publication, non pubblicato.
[8] BROWNBACK S., LANDRIEN M., ENSIGN J., Human Cloning Prevention Act, U.S. Senate.
[9] BROWNBACK S., Human Un-patentability Amendment.
[10] VERFAILLE C., Adult Stem Cells, Nature 2002, 6: 15.
[11] DENTON T.X., Life Dynamics, dati non pubblicati.
[12] AMA, Study Paying for Organ Donations, Chicago Tribune 2002, 6: 10.
[13] DIAMOND E.F., Ethical Issues in the Use of Asystolic Donors, Linacre Quarterly 2002, 69: 33.
[14] ID., Anencephalic Donors, Chicago Medicine 1994, 97: 15.
[15] UNIVERSITY OF PITTSBURGH, Policy for Management of Terminally Ill Patients, (4.2.19992).
[16] SCHEPER-HUGHES N., The Global Traffic in Organs, Current Anthropology 2001, 41: 191.
[17] FRIEDLANDER M., The Right to Sell or Buy a Kidney, Lancet 2002, 359: 971.
[18] DELMONICO T. ET AL., Ethical Incentives for Organ Donation, N. Eng J. Med 2002, 346: 2002.
[19] LEVINE D., Yes or No?, Am. J. Kidney Dis 2000, 35: 1002,.
[20] Speak no evil, U.S. News and World Report, (6.24.2002), p. 60.
[21] TAUBENBERGER J. ET AL., Proceedings of the National Academy of Sciences, ( 8.5.2002).
[22] BAILEY J., PILLARD R., A Genetic Study of Male SexualOrentation, Archives of General
Psychiatry 1996, 48: 1089.
[23] ECKERT E. ET AL., Homosexuality in Monozigotic Twins Raised Apart, British J. of Psychiatry
1986, 148: 421.
[24] FRIEDMAN R. ET AL., Psychological Development and Blood Levels of Sex Steroids in Male
Identical Twins of Divergent Sexual Orientation, J. of American Academy of Psychoanalysis 1980,
8: 427.
[25] BUBER J., BUBER T., Male Homosexuality, Canadian J. of Psychiatry 1979, 24: 409.
[26] MCINTOSH H., Attitudes and Experience of Pschoanalysists, Journal of American
Psychoanalytic Assoc. 1994, 42: 1183.
[27] NICOLOSI J. ET AL., Toward the Ethical and Effective Treatment of Homosexuality, NARTH
1998.
[28] SATINOVER J., Homosexuality and the Politics of Truth, , Grand Rapids: Baker Books, 1996.
[29] SPITZER R., Communication, NARTH, 2000.
[30] BRIND J. ET AL., Induced Abortion and the Risk of Breast Cancer, N. Eng. J. Med 1997, 336:
1834.
[31] REDFIELD R., comunicazione personale, 1999.
153
ROBERTO COLOMBO
I SOGGETTI PIU VULNERABILI DELLA RICERCA BIOMEDICA
Il caso dell'embrione umano
La maggior parte delle ricerche biomediche presenta delle incertezze circa gli effetti degli agenti
impiegati,gli interventi eseguiti e le loro conseguenze sui soggetti di ricerca. Per questa ragione
tutti i partecipanti agli studi sperimentali sono di principio vulnerabili. Il mito degli "studi clinici
esenti da rischio" è stato da tempo demolito e la categoria degli "studi a rischio minimo", che lo
ha sostituito, non risulta di facile definizione ed applicazione.[1] La vulnerabilità è considerata
un'espressione universale della condizione di limitatezza dell'uomo che caratterizza la sua
esistenza terrena dal principio sino alla morte, e «la particolare vulnerabilità dei soggetti di
ricerca»[2] è stata da lungo tempo riconosciuta. Tuttavia, «le condizioni e le circostanze da cui
origina la vulnerabilità sono state messe a fuoco solo molto recentemente».[3] Il termine
"vulnerabilità" deriva dal latino vulnus, una ferita che può guarire o risultare anche mortale.
Similmente, l'uso contemporaneo del termine si riferisce a «uno stato di esposizione e di
incapacità a resistere al danno, alla malattia, alla lesione, all'insulto, alla debolezza o alla
tentazione».[4] Nel presente contesto, per vulnerabilità si intende la condizione di alcuni
individui – intrinseca o situazionale – che li espone ad un rischio maggiore di venire arruolati in
un progetto di ricerca eticamente scorretto.
A ben vedere, il concetto di vulnerabilità orienta in due direzioni. Da una parte, la vulnerabilità
costituisce una debolezza che caratterizza il soggetto stesso: «uno stato di assenza di protezione
o di particolare esposizione nei confronti di qualcosa di nocivo o che risulti comunque
indesiderabile».[5] D'altra parte, il termine ci ricorda che esistono persone «che sono disposte a
trarre profitto da tale debolezza»,[6] sfruttando (intenzionalmente o negligentemente) questa
opportunità ed avvantaggiandosi in modo disonesto a detrimento del soggetto. Nella maggior
parte delle ricerche e delle situazioni cliniche, i soggetti possono risultare vulnerabili sia in
conseguenza della loro limitata capacità di decidere (come nel caso dei bambini e degli adulti con
disabilità mentale) o di attuare una decisione (come nel caso dei prigionieri), sia perché sono
particolarmente esposti al rischio di sfruttamento (soggetti il cui status morale non è
adeguatamente riconosciuto o protetto in un certo ambiente di ricerca o nella società). Un
resoconto completo della vulnerabilità nella ricerca biomedica dovrebbe considerare entrambe le
tipologie, la seconda delle quali risulta connessa al concetto di sfruttamento.
Al pari della vulnerabilità, lo sfruttamento è diventato in tempi recenti una questione accesa
nell'ambito dell'etica della ricerca.[7] Tuttavia, il concetto di sfruttamento non è esente da alcune
ambiguità che richiedono una chiarificazione nel contesto della ricerca biomedica. Secondo Ruth
Macklin, mentre «nessuno è a favore dello sfruttamento» e «risulta facile raggiungere un accordo
su questo punto [...], il consenso svanisce quando si esaminano le diverse posizioni nei casi
specifici».[8] In un recente saggio,[9] David Resnik ha fornito un'analisi ragionata dello
sfruttamento (in generale) e ha applicato questa analisi ad alcuni contesti della ricerca
biomedica. L'Autore sostiene che non tutta la "ricerca sfruttativa" risulta eticamente
inaccettabile: uno studio può apparire prima facie come uno sfruttamento, ma essere moralmente
giustificato in alcune situazioni. Perciò, «qualificare uno studio come sfruttamento non risolve
definitivamente le questioni circa la moralità dello studio» stesso.[10] Tuttavia, occorre
considerare che «esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle
circostanze, sono sempre gravemente illeciti in ragione del loro oggetto».[11] Questi atti
includono «tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio,
154
l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona
umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare
l'intimo dello spirito»; e «tutto ciò che offende la dignità umana» e tratta gli individui «come
semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili».[12] Ogniqualvolta lo
sfruttamento di un soggetto di ricerca comporta un atto che attenta alla sua vita, alla sua integrità
ed alla sua dignità umana, o tratta il soggetto semplicementecome mezzo, e non allo stesso tempo
come un fine in se stesso,[13] nessuna circostanza clinica o intenzione terapeutica può
“trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto "soggettivamente"
onesto o difendibile come scelta”.[14]
L'analisi dello sfruttamento è stata condotta da vari autori a partire da fondamenti differenti.
Esistono valutazioni dello sfruttamento che si rifanno alla dottrina kantiana, altre a quella del
libero arbitrio o alla teoria marxista, ma non sono le sole.[15] Sviluppando il concetto di
sfruttamento iniquo di Alan Wertheimer,[16] Resnik sostiene che vi sono tre elementi di base
dello sfruttamento – il danno, la mancanza di rispetto e l'ingiustizia – e che in tutti i casi di
sfruttamento è coinvolto almeno uno di questi elementi.[17] Tuttavia, mentre è conveniente per
scopi analitici distinguere tra differenti aspetti dello sfruttamento, in pratica tali aspetti spesso si
sovrappongono ed interagiscono tra di loro. Inoltre, vi sono diversi gradi di sfruttamento, che
variano da atti gravissimi, quali la pratica della schiavitù o il commercio di organi umani,a
situazioni di sfruttamento più contenuto, come il coprirsi della gloria altrui o usare per scopi di
ricerca, senza il consenso specifico del paziente, dei campioni di sangue in esuberanza. Poiché la
ricerca biomedica si accompagna spesso ad una somma di benefici e di danni per i soggetti, le
situazioni possono risultare ancora più complesse. Nel caso di un protocollo clinico non
strettamente terapeutico, dove il rapporto beneficio/danno non risulta favorevole per il soggetto
di ricerca ma lo è per altri pazienti, tale ricerca dovrebbe essere considerata uno sfruttamento?
Secondo l'argomentazione di Resnik, sebbene alcune considerazioni etiche – come il consenso
informato espresso dal soggetto e l'assenza di un elevato rischio di danneggiare seriamente la
vita e l'integrità dello stesso soggetto – possono giustificare l'esperimento, il protocollo «è
tuttavia uno sfruttamento».[18] Negli studi dai quali i singoli pazienti non possono aspettarsi un
beneficio sostanziale, il dilemma morale è se il danno inferto a ciascuno di questi soggetti può
essere giustificato tenendo conto dei benefici di cui godranno altri pazienti. Alcuni autori
ritengono che “esistono buone ragioni per considerare tutta la ricerca come essenzialmente nonterapeutica”,[19] essendo ogni conseguenza terapeutica, considerata in riferimento a ciascun
individuo che è soggetto della ricerca, una caratteristica del tutto contingente del medesimo
processo di ricerca.[20] Altri obiettano che, nelle fasi avanzate dei trial clinici, la conoscenza della
efficacia di un nuovo trattamento è così elevata che è molto probabile che i soggetti di ricerca ne
traggano un beneficio. Il dibattito è tuttora aperto e non sarà affrontato in questa sede. Tuttavia,
si può osservare come diversi autori concordino nel ritenere che, «in un contesto di ricerca, lo
sfruttamento si traduce in una questione di rischi e di benefici, e non di volontarietà».[21] Perciò,
le soluzioni adottate per proteggere i potenziali soggetti di ricerca dalla coercizione sono
differenti da quelle necessarie per proteggerli dallo sfruttamento. Il consenso informato, sia
personale che per procura, non può prevenire il possibile sfruttamento dei soggetti di ricerca.
La vulnerabilità nella ricerca biomedica
Il rischio è la probabilità che un danno possa verificarsi,[22] e una valutazione del rischio
dovrebbe contenere dei giudizi di probabilità: «la quantificazione del rischio implica un esame sia
del grado o della grandezza del danno che potrebbe manifestarsi sia della possibilità che tale
155
danno si verifichi».[23] Un soggetto può venire danneggiato in conseguenza di una aumentata
suscettibilità nei confronti di condizioni solitamente meno nocive, oppure il danno connesso alla
ricerca può derivare dallo sfruttamento di una o più delle sue debolezze fisiche e non fisiche. In
funzione di questo, la vulnerabilità può essere classificata sulla base della natura del danno per il
quale i soggetti di ricerca sono a più elevato rischio (tipo di rischio) o in riferimento alla ragione
per la quale questi soggetti sono vulnerabili (tipo di vulnerabilità).
Levine[24] ha classificato i rischi dei soggetti della ricerca biomedica in quattro
categorie: fisico, psicologico, sociale edeconomico. Sebbene adottata frequentemente
dagli Institutional Review Board (IRB) e dagli Ethical Committee (EC), questo elenco di danni
potenziali non è completo e tralascia due altri tipi di danno, di natura differente: quello legale e
quello nella dignità. Le sei categorie non si escludono reciprocamente e più di un tipo di danno
può essere presente in un determinato studio. I termini danno("harm") e lesione("injury") hanno
acquisito un significato distinto nel diritto, ma, coerentemente con altri saggi,[25] saranno in
seguito usati scambievolmente per quanto concerne gli aspetti etici della vulnerabilità.
I danni fisici si estendono fino a comprendere, da un lato, la morte, la menomazione dello
sviluppo e la lesione permanente, e, dall'altro, uno stato temporaneo di malattia, dolore o
disagio.[26] I danni psicologici includono la percezione negativa di sé da parte del partecipante
alla ricerca, la sofferenza emotiva, e le aberrazioni cognitive e comportamentali.[27] I danni
sociali si riferiscono agli effetti negativi sulle relazioni familiari e sociali del soggetto. Gli esempi
comprendono il rischio di stigmatizzazione in conseguenza del risultato positivo di un test per
l'HIV[28] o il rischio che alcuni studi genetici possano escludere una paternità.[29] I danni
economici derivano dall'onere, a carico dei partecipanti ad una ricerca, di costi finanziari (o dei
loro equivalenti in termini di tempo e di lavoro) non rimborsati o sottostimati.[30]Danni
legali possono sopravvenire nel corso di studi sul possesso e l'uso illegale di alcune sostanze,
sugli abusi sessuali o fisici, o su altri tipi di comportamenti perseguibili.[31]
Una particolare attenzione dovrebbe essere riservata ai cosiddetti danni alla dignità, cioè le
ingiurie che un soggetto può subire nella sua dignità umana durante le fasi di arruolamento,
operativa o di follow-up previste dal protocollo di ricerca. I danni alla dignità sono una
conseguenza degli attentati ai diritti umani, poiché «il fondamento sul quale si erigono tutti i
diritti umani è la dignità della persona».[32] La violazione di alcuni diritti umani fondamentali e
inalienabili – quali il diritto di un essere umano a non vedere la propria integrità fisica e
psicologica menomata per qualsivoglia ragione che non sia quella strettamente terapeutica –
risulta già compresa nelle precedenti categorie di danno. Tuttavia, la dignità umana non è
ristretta né riducibile ai vari aspetti della vita fisica, psicologica, sociale ed economica. In quanto
agente morale, ogni essere umano gode di valori e preferenze personali, di una concezione del
bene e del male, e di impegni individuali. Queste ed altre dimensioni spirituali della vita umana
sono profondamente radicate nella «esperienza originale o elementare” che costituisce la nostra
identità nel modo in cui affrontiamo ogni realtà, cioè quel «complesso di esigenze e di evidenze
con cui l'uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste [...], talmente originali che
tutto ciò che l'uomo dice o fa da esse dipende».[33] A questo livello ci troviamo di fronte al
"cuore" della dignità umana. Questo "cuore" è vulnerabile, e la sua vulnerabilità è testimoniata da
quell'«indefinibile disagio da cui si viene presi quando, ad esempio, si è trattati come oggettodi
interesse o di piacere».[34] In termini kantiani, la dignità umana è danneggiata ogni volta che tu
non “agisci in modo tale da trattare l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni
altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo».[35] Per evitare i danni alla
dignità è necessario un profondo rispetto per ogni dimensione della dignità umana, compreso il
senso religioso, il radicale impegno della persona con la vita ed il suo significato, qualunque sia
l'identità di tale significato della propria vita. A sua volta, la dignità umana si fonda sulla natura
156
propria e originaria dell'uomo – «la natura della persona umana»[36] – che è «la persona
stessanell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che
biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo
fine».[37]
Le ragioni della vulnerabilità
Diverse sono le ragioni per cui i soggetti di ricerca risultano vulnerabili, e gli ultimi anni hanno
visto un incremento degli studi sulle cause della vulnerabilità.[38] Secondo Kipnis,[39] esse
possono venire raccolte in sei tipologie. Un settimo tipo, la vulnerabilità sociale, è stato aggiunto
da altri autori.[40] La classificazione è alquanto ridondante, ma può risultare utile per decidere
se una particolare categoria di soggetti è vulnerabile oppure no, ed in quale misura.
La vulnerabilità cognitiva o comunicativa è la più familiare ai ricercatori e, probabilmente, è più
comune di quanto solitamente riportato. Le circostanze che suggeriscono la presenza di questo
tipo di vulnerabilità dovrebbero comprendere non solo l'immaturità (come nel caso di bambini e
adolescenti),[41] il ritardo mentale,[42] la demenza[43] e alcune forme di malattia mentale,[44]
ma anche le carenze educative e la non familiarità con la lingua[45] così come le situazioni che
non consentono agli adulti, per altri versi competenti, di esercitare effettivamente le loro capacità
(come nel caso di emergenze stressanti).[46] Questi deterioramenti cognitivi o comunicativi
influenzano il processo decisionale del soggetto e limitano l'autonomia degli eventuali
partecipanti alla ricerca. La vulnerabilità giuridica o istituzionale si riferisce al caso di un soggetto
che è sottoposto all'autorità formale di altri (quali genitori, tutori, agenti di custodia, ufficiali e
giudici) che possono avere degli interessi propri (vantaggi privati o pubblici) rispetto all'assenso
dello stesso individuo al proprio arruolamento in uno studio biomedico.[47] I soggetti
possiedono una vulnerabilità deferenziale – una forma sottile e sottostimata di vulnerabilità –
quando la loro subordinazione decisionale ad altri (come parenti, amici, insegnanti, medici
e opinion makers) è il frutto di una gerarchia informale.[48] La vulnerabilità medica può
riguardare i potenziali partecipanti (pazienti) che soffrono di malattie gravi per le quali non
esistono trattamenti standard disponibili, efficaci o accettabili (per esempio, le forme tumorali
molto aggressive, gli ultimi stadi dell'AIDS, alcune malattie rare).[49] A motivo della loro
condizione, che esige una eccezionale assistenza medica, lo sfruttamento di questi pazienti
attraverso la loro speranza di remissione o di miglioramento non è rara. I soggetti di ricerca
manifestano una vulnerabilità economica o allocativaquando risultano svantaggiati nella
distribuzione sociale di beni e servizi come il reddito, la casa o l'assistenza sanitaria. L'offerta di
un compenso per la partecipazione, o di accesso gratuito a determinati servizi sanitari, può
costituire un incentivo per un arruolamento ingiusto, che passa attraverso lo sfruttamento di una
autonomia economica ridotta.[50] Quando il reclutamento dei soggetti richiede o presuppone, da
parte loro, una disponibilità di risorse o di prestazioni che contribuiscono in modo decisivo alla
loro sicurezza personale nel corso dello studio (come un sistema rapido di comunicazione, un
regime dietetico attendibile e dei professionisti sanitari esperti), i possibili partecipanti sono
esposti ad una vulnerabilità infrastrutturale.[51] Da ultimo, la vulnerabilità sociale si riferisce agli
individui che appartengono a gruppi sociali o comunità sottovalutati.[52] In alcuni casi questo
tipo di vulnerabilità è subdola e insidiosa, ed «è una funzione della percezione sociale di
determinati gruppi, che si accompagna a degli stereotipi e può condurre ad una
discriminazione».[53]
Con l'eccezione del primo tipo di vulnerabilità, quella cognitiva o comunicativa, che sconsiglia la
eleggibilità di una persona che ne è affetta al ruolo di chi viene autorizzato adecidere nel caso di
157
un soggetto di ricerca non competente, le rimanenti forme di vulnerabilità posso riguardare
anche lo
stesso procuratore. Per quanto concerne la ricerca sugli embrioni e sui feti in utero, la naturale e
prima scelta della persona che deve prendere una decisione per procura cade sulla madre, se
essa è competente a decidere, non solo perché ci si aspetta che una madre percepisca e difenda i
diritti del proprio figlio non ancora nato meglio di chiunque altro (se questo non è il caso, può
sorgere un conflitto etico e legale la cui soluzione è spesso molto difficile),[54] ma anche in
ragione del fatto che attualmente ogni ricerca sull'embrione (post-impianto) e sul feto vivente
passa attraverso il corpo della madre, e in nessuna circostanza ciò avviene senza un rischio per la
gestante. In questo caso di consenso per procura, la vulnerabilità di colei che è chiamata a
decidere può essere una conseguenza della sottomissione della madre ad una autorità formale
(come nel caso dei i genitori, se essa è minorenne), a rapporti informali di potere, istituiti
socialmente (per esempio, con il proprio ostetrico), o a dipendenze di natura più soggettiva
(come quelle che possono instaurarsi con una persona amica influente). In conseguenza della
diagnosi prenatale, la donna può venire a conoscenza di una malformazione o di una malattia
grave da cui è affetto il feto e per la quale non esiste un trattamento efficace standard. Se alla
madre viene chiesto di partecipare ad un protocollo sperimentale di terapia fetale, è prevedibile
che la vulnerabilità medica possa costituire il punto di maggior debolezza del suo processo
decisionale. In altre circostanze, la madre può essere sola e senza lavoro, appartenere ad una
famiglia povera o vivere in un paese rurale e sottosviluppato, privo di strutture adeguate per
un'assistenza ostetrica. Infine, la gestante può appartenere ad un gruppo sociale emarginato, per
esempio, di immigrati o di rifugiati. In tutti questi casi, la vulnerabilità economica,
infrastrutturale o sociale della madre espone il bambino non ancora nato ad un rischio maggiore
di essere arruolato in un progetto di ricerca che può essere eticamente scorretto.
Il non competente che risulta eleggibile per una ricerca biomedica rimane un soggetto
potenzialmente vulnerabile anche quando sia stato autorizzato un consenso per procura al fine di
compensare il suo deficit cognitivo o comunicativo. Salvo evidenza contraria, una vulnerabilità
indiretta – che passa attraverso il consenso per procura – non può essere esclusa, e si dovrebbero
istituire procedure etiche e strumenti legali per proteggere il non competente dallo sfruttamento
di cui può essere vittima. Non si può infatti sempre presumere che il procuratore sostenga con
fermezza i diritti del rappresentato o sia in grado di proteggerli incondizionatamente.
I soggetti più vulnerabili
Fino a tempi più recenti, la vulnerabilità nella ricerca biomedica– in quanto caratteristica etica
propria di una sottopopolazione di soggetti eleggibili per gli studi sperimentali – ha ricevuto
scarsa attenzione sistematica. Tuttavia, la necessità di tale riflessione era ormai evidente da
qualche decennio.[55] Durante gli anni '70, negli Stati Uniti, alcuni episodi di ricerca scorretta
ampiamente discussi (come lo studio sull'epatite nei bambini della Willowbrook State School,[56]
la ricerca oncologica sugli anziani debilitati e sui pazienti indigenti presso il Brooklyn Jewish
Chronic Disease Hospital[57] e lo studio sulla sifilide a Tuskegee, condotto su uomini di origine
afro-americana poveri e ignoranti[58]), mentre sono stati all'origine delle attuali procedure per
assicurare la conduzione etica delle ricerche nelle scienze biologiche e mediche, hanno anche
messo in luce come queste procedure (che comprendono la considerazione della validità e del
valore scientifico di uno studio, l'analisi dei rischi e dei potenziali benefici, ed il consenso
informato) non riescono sempre ad impedire che i ricercatori sfruttino (intenzionalmente oppure
no) alcune debolezze degli individui e dei gruppi sociali che li rendono maggiormente esposti a
venire coinvolti in trial sperimentali e clinici ad elevato rischio. I casi precedentemente ricordati
158
ed diversi altri hanno sollevato il dubbio circa l'opportunità di lasciare il giudizio sulla
partecipazione di un soggetto ad uno studio alla sola discrezione dei ricercatori. Sin dagli albori
della bioetica la richiesta di una protezione speciale per gli individui e le popolazioni
vulnerabili[59] è stata presente in ogni manuale e in ogni corso che affrontava l'etica della
medicina e della ricerca.
Nell'identificare i soggetti vulnerabili della ricerca biomedica un ruolo particolare viene
attribuito all'analisi dei rischi e dei potenziali benefici per i partecipanti ed alle procedure di
selezione dei soggetti nei protocolli di ricerca. Il riferimento al concetto di "rischio minimo" è
spesso presente (vedi sopra, nota 1). Per esempio, questo concetto è centrale nello schema per
l'analisi dei rischi nella ricerca che coinvolge i bambini e le persone ricoverate come malati
mentali proposto dalla U.S. National Commission on the Protection of Human Subjects of
Biomedical and Behavioural Research.[60] Tuttavia, la distinzione tra "ricerca che non comporta
un rischio superiore al minimo" e "ricerca che comporta un rischio maggiore del minimo" non è
applicabile facilmente e senza ambiguità. Di fronte alle esperienze fisiche, psicologiche o sociali
della maggior parte dei soggetti vulnerabili, il riferimento, contenuto nella definizione, alla
«probabilità e grandezza del danno fisico e psicologico che si incontra normalmente nella vita di
tutti i giorni o negli esami medici e psicologici di routine»[61] non è così immediato e chiaro
come pretende di essere. A riguardo di questo modello di analisi etica del rischio, il Rapporto di
Belmont fornisce pochi dettagli ulteriori, ma sottolinea l'importanza di una “analisi sistematica e
non arbitraria dei rischi e dei benefici” attraverso «l'accumulo e la valutazione delle informazioni
su tutti gli aspetti della ricerca», e invita «a considerare sistematicamente le alternative».[62] Le
alternative ad uno studio invasivo, o comunque potenzialmente dannoso, condotto su soggetti
vulnerabili rimangono la soluzione etica ideale al dilemma posto da molti trial che coinvolgono
questi gruppi di partecipanti. Ciò non di meno, queste alternative non sono sempre facilmente
escogitabili ed applicabili, e – anche se disponibili e fattibili – non tutti i ricercatori, le società, le
agenzie, i governi ed i cittadini sono preparati ad accettarle, soprattutto quando si ritiene che il
percorso verso i risultati biotecnologici e clinici attesi sia più lungo e/o più faticoso e costoso.
L'embrione umano è un soggetto estremamente vulnerabile?
La questione della vulnerabilità dell'embrione umano nel contesto della ricerca biomedica
emerge dalla evidente condizione di debolezza che caratterizza la vita embrionale, in modo
particolare quella dell'embrione umano in vitro. La precarietà propria della condizione
dell'embrione umano che si sviluppa al di fuori del grembo materno non può essere negata.
Anche da un punto di vista meramente biologico, che trascuri l'umanità dell'embrione in quanto
membro della famiglia umana, il concepito che si sviluppa in vitro è tra i più deboli e non
autosufficienti esseri umani descritti nella letteratura medica, la cui condizione fisica – per
quanto concerne la totale dipendenza da un sistema di supporto vitale –è paragonabile a quella
dei pazienti in condizioni acute di pericolo di vita, come il neonato gravemente prematuro in una
incubatrice, il paziente chirurgico durante l'anestesia totale ed il malato critico in terapia
intensiva.
Nonostante i continui sforzi per migliorarli,[63] i mezzi e le condizioni di coltura degli embrioni
sono lontani dall'essere ideali se confrontati con il naturale ambiente tubarico e uterino,[64] e lo
sviluppo embrionale in vitro è esposto ad una serie di rischi che includono il ritardo nella
crescita, le infezioni, la frammentazione dei blastomeri, la cavitazione parziale, una anomala
distribuzione delle cellule tra la massa cellulare interna ed il trofoblasto, le alterazioni della zona
pellucida ed il ritardo dell'hatching.[65] Inoltre, la crioconservazione in azoto liquido – una
159
procedura eseguita nel caso in cui l'embrione non venga trasferito in utero entro 5 o 6 giorni di
coltura – non è una condizione di sicurezza per la conservazione degli embrioni. In dipendenza
dello stadio di sviluppo embrionale, delle tecniche impiegate e della durata della
crioconservazione, un numero di embrioni viene danneggiato irreversibilmente o esposto al
rischio di morte.[66] Tutto considerato, l'embrione umano in vitro è completamente dipendente
dall'ambiente artificiale del laboratorio e dalla cura dei biologi e dei tecnici.[67] Ogni strumento
difettoso, mezzo di coltura alterato o mancanza di conformità alle regole di precauzione (come
quelle che riguardano la sterilità) può avere conseguenze drammatiche per la vita e l'integrità
dell'embrione.[68] Sebbene anche quello in utero non sia esente da rischi, lo sviluppo
embrionale in vitro è caratterizzato da una insolita esposizione a diverse cause di danno e, a
motivo di questo, l'embrione umano in vitro è un soggetto altamente vulnerabile.
Oltre ai rischi che sono comuni ad ogni procedura di fertilizzazione in vitro (IVF) e di coltura (EC)
e trasferimento (ET) di embrioni, i protocolli di ricerca aggiungono una ulteriore esposizione
degli embrioni a condizioni pericolose. Alcuni esperimenti, per la loro stessa natura, richiedono la
distruzione dell'embrione in fase di sviluppo. E' il caso della ricerca sulle cellule staminali
embrionali (ESC) pluripotenti,[69] ottenute rimuovendo la massa cellulare interna della
blastocisti a 5-6 giorni dalla fertilizzazione e coltivando le cellule, così ricavate, in presenza di
alcuni fattori di crescita.[70] Altri tipi di esperimenti, almeno in quanto tali, sono meno
distruttivi. Tra di essi sono da annoverare gli studi sul ciclo cellulare, sulla espressione dei geni
(sintesi di mRNA e proteine) e sul metabolismo degli embrioni allo stadio di segmentazione, di
morula e di blastocisti.[71] Al fine di compiere queste ricerche, un certo numero di cellule
vengono asportate dall'embrione o iniettate con sostanze traccianti ed analizzate mediante
tecniche microscopiche, immunochimiche o molecolari.[72] Per le cosiddette "ragioni di
sicurezza" – evitare la possibile nascita di un bambino con difetti congeniti – agli embrioni che
sopravvivono a questi esperimenti non viene però consentito di svilupparsi e di essere trasferiti
nell'utero. Da ultimo, la ricerca di nuove tecniche per la IVF microassistita[73] e la diagnosi preimpianto,[74] sebbene di natura meno invasiva e mirate alla generazione di embrioni che si
sviluppino normalmente, è gravata da un numero di insuccessi, inclusa la malformazione e la
morte degli embrioni stessi. «La sperimentazione sugli embrioni e sui feti comporta sempre il
rischio, anzi, il più delle volte la previsione certa di un danno per la loro integrità fisica o
addirittura della loro morte».[75]
Tuttavia, i danni fisici non sono in ogni caso il solo tipo di lesione che un embrione umano può
subire durante la sua generazione ed il suo sviluppo al di fuori del grembo materno e, ancor più,
se sottoposto ad uno studio sperimentale. La dignità dell'embrione umano in quanto individuo
umano (soggetto) – figlio o figlia di una donna e di un uomo, dotato della loro stessa dignità – è
minacciata quando altre persone esercitano un dominio incontrastato sulla vita e l'integrità del
concepito che si sviluppa. Per quanto appaiano importanti i dati scientifici e clinici ottenuti e sia
nobile ed umanitario lo scopo di uno studio sperimentale, esso non può ridurre l'embrione
umano ad un "oggetto" o "strumento". «L'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di
sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno
diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e a ogni persona».[76]
In secondo luogo, e nel contesto in cui usiamo il termine "vulnerabilità", esso ci ricorda che alcuni
ricercatori, consapevolmente o negligentemente, in modo scorretto hanno sfruttato a proprio
vantaggio la debolezza dell'embrione umano, conducendo esperimenti su un soggetto non
competente e "senza voce". Le ragioni per le quali l'embrione è molto suscettibile di venire
sfruttato in una ricerca biomedica non etica consentono di mettere in luce nuovamente la elevata
vulnerabilità di questo soggetto di ricerca. Sebbene la raccolta di un consenso libero e informato
non sia il solo criterio etico per giustificare una ricerca su soggetti umani, l'assenza della capacità
160
di decidere consapevolmente se partecipare oppure no ad uno studio sperimentale è considerata
unanimemente un sicuro indicatore di vulnerabilità. La vulnerabilità cognitiva, in presenza di un
rischio per i soggetti che sia superiore al "minimo", sarebbe sufficiente ad escludere
l'ammissibilità del consenso per procura in un contesto sperimentale non terapeutico. Questo
dovrebbe valere anche per l'embrione umano. «Nessuna finalità, anche in se stessa nobile, come
la previsione di una utilità per la scienza, per altri esseri umani e per la società, può in alcun
modo giustificare la sperimentazione sugli embrioni o sui feti umani, vitali o non, nel seno
materno e fuori di esso. Il consenso informato, normalmente richiesto per la sperimentazione
clinica sull'adulto, non può essere concesso dai genitori, i quali non possono disporre né
dell'integrità fisica né della vita del nascituro».[77]
Gli embrioni umani in utero sono sotto la potestà formale dei loro genitori (o della sola madre) se
questi sono competenti, mentre l'embrione in vitro può essere soggetto ai genitori legali che
hanno fornito i gameti per il processo di fertilizzazione o ad altre persone, come i medici, i
ricercatori e i giudici (embrioni eccedenti rispetto ai cicli di ETo generati esclusivamente per
scopi sperimentali). A motivo di questa subordinazione, gli embrioni umani sono vulnerabili
giuridicamente: essi sono sottoposti alla autorità di altri che possono avere un interesse che
trascura o risulta in conflitto con il "migliore interesse" del soggetto di ricerca.[78] Questa
particolare vulnerabilità solleva obiezioni sulla validità del consenso alla ricerca sugli embrioni
dato dai loro genitori o da altri soggetti coinvolti nella IVF-ET. «Una speciale preoccupazione
sorge quando coloro che esercitano l'autorità sono anche quelli che conducono o commissionano
la ricerca, oppure ne traggono in qualche modo un beneficio».[79]
L'embrione umano, in quanto soggetto della ricerca biomedica, risulta anche vulnerabile in modo
indiretto, cioè attraverso la vulnerabilità della persona a cui è chiesto di fornire il consenso per
procura. Tale persona può essere giuridicamente vulnerabile, come nel caso di una ragazza sotto
l'autorità dei propri genitori o di una donna affidata ad un tutore. Per esempio, i genitori possono
essere affetti da una vulnerabilità deferenziale in conseguenza di una forte pressione culturale e
sociale in favore dell'uso delle ESC per la ricerca sulla terapia cellulare di malattie gravi.[80] Essi
possono celare un desiderio interiore di non consentire ad una ricerca o trovarsi in forte
difficoltà a respingere una richiesta – che può riguardare, per esempio, la cosiddetta "donazione
di embrioni per la ricerca" – fatta dal proprio medico.
Un modo scorretto di risolvere la questione
Il modo più insidioso e pericoloso attraverso il quale un embrione umano diviene un soggetto di
ricerca altamente vulnerabile deriva dalla negazione della sua soggettività. Quando non è
riconosciuto come soggetto di ricerca – quale è ogni essere umano coinvolto nella ricerca
biomedica – non esistono ragioni cogenti per trattare l'embrione umano secondo gli stessi criteri
di rispetto e di protezione che dovrebbero essere adottati nei confronti di tutti gli individui
umani ai quali si attribuisce comunemente lo status morale e legale di persone. Al contrario, «la
Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che al frutto della generazione umana, dal primo
momento della sua esistenza, va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto
all'essere umano nella sua totalità e unità corporale e spirituale: "L'essere umano va rispettato e
trattato come una persona fin dal suo concepimento"[81]».[82] Nel contesto delle attuali
discussioni sulla ricerca biomedica, l'oblio della soggettività dell'embrione umano e le
implicazioni etiche che questo comporta sono spesso mascherate dalla argomentazione etica
della "protezione speciale (o adeguata)" che viene accordata al concepito. Un esempio di questo
approccio alla questione della ricerca sugli embrionipuò essere trovato nella Convenzione per la
protezione dei diritti umani e la dignità dell'essere umano in riferimento alle applicazioni della
161
biologia e della medicina(Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina) della Comunità
Europea, il cui articolo 18 recita: «Laddove la ricerca sugli embrioni in vitro è consentita dalla
legge, questa assicurerà una protezione adeguata all'embrione».[83] L'espressione riflette la
posizione quanti sostengono che, sebbene gli embrioni umani prima dell'impiantorichiedano una
certa protezione, essi tuttavia non devono venire rispettati come esseri umani.[84] Gli argomenti
in favore di questa opinione variano da un autore all'altro, e comprendono la supposta
discontinuità di sviluppo tra l'embrione in vitro e in utero, lo status non-personale o prepersonale dell'embrione umano, alcune versioni deboli dell'argomento di potenzialità,
l'approccio del "conflitto di interessi" alle questioni morali e sociali, e l'idea che l'embrione
umano possiede solo un "valore simbolico" che preclude la sua distruzione per ragioni
banali.[85] Le argomentazioni citate non saranno oggetto di discussione in questa sede.
Nell'ambito della vulnerabilità dei soggetti di ricerca, le nostre osservazioni conclusive si
focalizzeranno sul significato oscuro ed ambiguo – in riferimento alla sperimentazione sugli
embrioni umani – dell'espressione "protezione speciale (o adeguata)".
Nel linguaggio quotidiano, così come nell'ambito etico e giuridico, la frase "proteggere qualcuno o
qualcosa" richiama l'attenzione della gente alla necessità di preservare o salvare il protetto da un
pericolo presente o prevedibile. Se, da una parte, la natura e la gravità del pericolo possono
variare notevolmente e si può valutare da quali pericoli un soggetto o un oggetto debba essere
protetto, vi è tuttavia un consenso unanime nell'affermare che il minimo grado di protezione da
garantire ad una entità che abbia un certo valore sia il preservarla o il salvarla dalla morte e dalla
distruzione. Il livello successivo è la protezione della sua integrità e della sua attività
fondamentale. A prescindere da come l'embrione umanoin vitro venga considerato nell'attuale
dibattito – se un soggetto umano con piena dignità personale e tutti i diritti, oppure un'entità
biologica il cui valore si fonda sulla sua potenzialità di divenire una persona – la richiesta di
protezione dell'embrione nell'ambito della ricerca biomedica dovrebbe almeno mettere al bando
esplicitamente ogni sperimentazione che di sua natura e nelle intenzioni ne provoca la morte
(distruzione) o il deterioramento permanente della capacità intrinseca di sviluppo. Se non è
garantito il rispetto per la vita e l'integrità dell'embrione umano in qualunque situazione clinica o
sperimentale si trovi, come può essere accordata al concepito in vitro una "protezione speciale (o
adeguata)"?
Una delle interpretazioni proposte per questa affermazione è la seguente: gli embrioni umani, nel
loro complesso, meritano di essere adeguatamente protetti dalla distruzione, dal danno e dallo
sfruttamento nel corso di ricerche sperimentali condotte su di essi. Pertanto, solo un limitato
numero di embrioni umani, in speciali circostanze, può essere arruolato in protocolli di ricerca
non terapeutica che porteranno alla loro morte o ne pregiudicheranno lo sviluppo. Questo
concetto di rispetto collettivo considera gli embrioni umani come una specie da proteggere e non
come soggetti i cui diritti individuali devono essere salvaguardati da un oltraggio. In analogia a
quanto avviene per gli animali in via di estinzione, il valore della vita umana sotteso a questa
modalità di applicazione del principio della "protezione speciale" non sgorga dalla "dignità
speciale (unica)" – intrinseca ed inalienabile – di ogni essere umano, qualunque sia la sua
condizione personale, ma riflette il "ruolo speciale" accordato ai primi stadi della vita umana
individuale nel mondo o in una società. Poiché questo ruolo è associato alla nascita di un
bambino, i cosiddetti "embrioni sovrannumerari" (messi da parte nel corso dei cicli di IVF,
crioconservati oppure no) – qualora non più richiesti per un ET – perdono la loro "funzione" e
vengono considerati dei candidati ideali per le ricerche sperimentali. Così, si sente spesso
affermare che la generazione di embrioni umani mediante IVF realizzata esclusivamente per
finalità di ricerca è eticamente inaccettabile, mentre l'utilizzazione degli "embrioni
sovrannumerari" sarebbe meno discutibile.[86] Tuttavia, altri mettono in dubbio o addirittura
162
negano l'esistenza di una differenza morale tra le due procedure: «Non solo l'embrione è usato
strumentalmente in entrambi i casi, ma anche lo status morale dell'embrione è identico».[87]
L'argomentazione esibita da Annas et al.[88], secondo cui nei due casi l'intenzione di coloro che
mettono a disposizione i gameti al momento della fertilizzazione è fondamentalmente diversa,
risulta debole. «Anche nel contesto di una normale IVF, non ogni embrione è creato come un "fine
in sé stesso". L'obiettivo della IVF è una soluzione alla mancanza involontaria di figli, e la perdita
di alcuni embrioni in sovrannumero è calcolata preventivamente».[89]
Un secondo modo di affrontare la questione della "protezione speciale" dell'embrione umano
nasce dall'approccio proporzionalista e utilitarista ai dilemmi etici degli studi biomedici che
generano benefici per alcuni soggetti e provocano danni ad altri. Mentre esiste un ampio
consenso tra i fautori di questa concezione etica circa il fatto che il solo scopo accettabile della
ricerca sull'embrione umano debba essere un beneficio per la salute dell'uomo, le opinioni
riguardo all'applicazione di questo principio sono differenti.[90] La maggior parte degli autori
sottolinea che la ricerca sugli embrioni umani può essere giustificata solo nel caso in cui ci si
possa ragionevolmente attendere dei rilevanti e diretti benefici clinici per altri embrioni, per i
neonati o per gli adulti. Pochi autori, invece, sono disposti ad accettare anche la ricerca di
base.[91] In questo contesto, l'avvento della ricerca sulle ESC umane e delle ipotesi sul loro
possibile contributo alla terapia cellulare[92] ha avuto l'effetto di catalizzare la diffusione di
questo tipo di pensiero, secondo il quale il concetto di rispetto relativo dovrebbe sostituire l'idea
di "rispetto incondizionato" per la vita e l'integrità di ciascun embrione umano.[93]
Una terza soluzione che è stata adottata per rendere operativo il concetto di "protezione
speciale" fa ricorso al cosiddetto "principio di necessità" o di "sussidiarietà",[94] che conduce ad
una forma di rispetto revocabile per la vita e l'integrità dell'embrione umano. Secondo il principio
di necessità, gli embrioni umani possono venire arruolati in ricerche sperimentali solo se non
esistono delle valide alternative per raggiungere un obiettivo di altissimo valore nel campo della
medicina, come la cura di gravi malattie che minacciano la vita del paziente. Sia la Warnock
Commission (Regno Unito) sia la Royal Commission (Canada) hanno attribuito al termine
"necessità" il significato di una assenza (o di una inadeguatezza) dei modelli animali necessari
per condurre esperimenti analoghi e raggiungere i risultati attesi.[95] Un'area di ricerca per la
quale è stata invocata la "necessità" di usare gli embrioni umani è quella della terapia cellulare. I
sostenitori della tesi che la ricerca sulle ESC umane rappresenta l'opportunità più promettente di
entrare nell'era della "medicina rigenerativa" spesso negano che le cellule staminali di origine
diversa rispetto all'embrione allo stadio di blastocisti – quali quelle che provengono dal sangue
cordonale e dai tessuti fetali e postnatali – possano costituire un'efficace alternativa per la
terapia cellulare. Al contrario, vi è una solida e crescente evidenza che cellule staminali o
progenitrici, isolate da diversi tessuti e coltivate in vitro, sebbene non dotate di una illimitata
capacità di autorinnovamento e di un potenziale epigenetico amplissimo come le ESC, mostrano
una sorprendente capacità di differenziarsi o transdifferenziarsi in un numero di linee cellulari
differenti (plasticità cellulare). Si sta lavorando per confermare la plasticità funzionale delle
cellule staminali provenienti da alcuni tessuti dell'adulto, scoprire nuove fonti di cellule
staminali, dimostrare la ripopolazione clonale degli organi in cui sono state innestate le cellule di
derivazione staminale e identificare dei meccanismi per incrementare l'efficienza del loro
innesto.[96] Come ha ricordato Giovanni Paolo II nel suo discorso al 18th International Congress
of the Transplantation Society, «su queste vie dovrà avanzare la ricerca, se vuole essere rispettosa
della dignità di ogni essere umano, anche allo stadio embrionale».[97] Per quanto più lungo e
laborioso possa essere il percorso alternativo per raggiungere l'obiettivo della terapia cellulare,
la sua fattibilità scientifica di principio e l'assenza di controindicazioni assolute di natura clinica
ed etica non giustificano il ricorso al principio di necessità. A ben vedere, il principio stesso non è
163
applicabile nelle circostanze in cui, per soddisfare alle necessità di un soggetto, si richiede di
violare il rispetto dovuto alla vita e alla integrità di un altro individuo.
Il "rispetto", inteso secondo queste prospettive, viene ridotto ad una forma debole di protezione
ed applicato secondo una modalità che risulta appropriata per un oggetto (per quanto preziose,
le cose non hanno un valore intrinseco) ma inadeguata per un soggetto (il valore degli essere
umani non dipende da ciò che è estrinseco ad essi). Nel contesto della ricerca biomedica, la
dissoluzione della soggettività dell'essere umano conduce ad un drammatico aumento della sua
vulnerabilità.
Il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano
L'unica forma di protezione adeguata all'embrione umano come soggetto di ricerca è la piena
protezione dei suoi diritti individuali, che gli competono in quanto essere umano: «“Il frutto della
generazione umana, dal primo momento della sua esistenza, e cioè a partire dal costituirsi dello
zigote, esige il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua
totalità corporale e spirituale».[98] Ogni forma più debole di protezione non consente di
riconoscergli “i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano
innocente alla vita”.[99] Attualmente, la vita dell'embrione in vitro è esposta ad un rischio di
essere minacciata nel corso degli studi sperimentali che è superiore rispetto a quello della vita di
ogni altro essere umano. L'embrione umano è dunque uno dei soggetti di ricerca più vulnerabili.
La vulnerabilità richiede un’attenzione singolare per il vulnerabile, e questa cura deve essere
promossa dalla condotta etica degli scienziati e dei medici e garantita dalla legislazione nazionale
ed internazionale. Il soggetto vulnerabile è un soggetto povero di protezione, non di diritti. La
protezione dei poveri è un dovere morale e civile che non può essere trascurato nel corso della
ricerca biomedica. In una prospettiva cristiana, fedele alla cura particolare per i più piccoli che il
Vangelo esige, l'etica della ricerca biomedica deve porre una speciale attenzione ai diritti di
questi soggetti di ricerca: «Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, lo avete fatto a me». (Mt 25, 40)
164
[1] Nonostante la valutazione ottimistica, espressa dall'Advisory Committee on Human Radiation
Experiments, che «il 40-50% delle ricerche sui soggetti umani presentano solo minimi rischi
minimi di danneggiare i soggetti» coinvolti (Final Report, Washington, D.C.: U.S. Government
Printing Office, 1995, Chapter 17, Commentary following Finding 22), il dibattito sul cosiddetto
“rischio minimo stardard” ed il suo riverbero sull'etica e sul diritto dei trial clinici continua ad
essere acceso. Secondo l'U.S. Federal Policy for the Protection of Human Subjects del Department
of Health and Human Services, il “rischio minimo” si riferisce ad un contesto di ricerca nel quale
«la probabilità e la grandezza del danno o del disagio previsti nel corso dello studio non sono
maggiori, in sé stessi e per sé stessi, di quelle che si incontrano ordinariamente nella vita
quotidiana o durante lo svolgimento di esami o test di routine, fisici o psicologici». (Code of
Federal Regulations, Title 45, Part 46, § 102 (i) : Federal Register, June 18, 1991, 56: 28003)
Evidentemente, per quanto concerne i rischi della "vita quotidiana", non vi è nulla che sia comune
a tutti, ed ogni interpretazione del criterio proposto è discutibile. Per un'analisi critica della
classificazione delle ricerche che si fonda sul rischio minimo standard, si veda: Prentice E.D. and
Gordon B.G., Institutional Review Board Assessment of Risks and Benefits Associated with Research,
in: National Bioethics Advisory Commission, Ethical and Policy Issues in Research Involving
Human Participants, Bethesda, MD: National Bioethics Advisory Commission, 2001, vol. 2, pp. L1L16, alle pp. L7-L9.
[2] Evans D. and Evans M., A Decent Proposal. Ethical Review of Clinical Research, Chichester:
Wiley, 1996, p. 17.
[3] Blacksher E. and Stone J.R., Introduction to "Vulnerability" Issues of Theoretical Medicine and
Bioethics, Theoretical Medicine and Bioethics 2002, 23: 421-424, p. 422.
[4] Fox K., Hotep's story: Exploring the wounds of health vulnerability in the US, Theoretical
Medicine and Bioethics 2002, 23: 471-497, p. 472.
[5] Kipnis K., Vulnerability in research subjects: a bioethical taxonomy, in: National Bioethics
Advisory Commission,Ethical and Policy Issues in Research Involving Human Participants, op. cit.,
vol. 2, pp. G1-G13, p. G5; si veda anche Id.,Seven vulnerabilities in the pediatric research subject,
Theoretical Medicine and Bioethics 2003, 107-120, pp. 108-109.
[6] Kipnis K., Vulnerability in research subjects: a bioethical taxonomy, op. cit., p. G5.
[7] Negli ultimi anni, diversi autori hanno affrontato il tema dello sfruttamento nella ricerca
biomedica e nei trial clinici, con particolare riferimento ai paesi in via di sviluppo ed alla ricerca
sull'AIDS. Si veda, per esempio, Angell M., The ethics of clinical research in the Third World, The
New England Journal of Medicine 1997, 337: 847-849; Lurie P. and Wolf S.,Unethical trials of
interventions to reduce perinatal transmission of the human immunodeficiency virus in developing
countries, ibid.: 853-856; Varmus H. and Satcher D., Ethical complexities of conducting research in
developing countries,ibid.: 1000-1005; Savulescu J., On the commercial exploitation of participants
of research, Journal of Medical Ethics 1997, 23: 392; Resnick D., The ethics of HIV research in
developing nations, Bioethics 1998, 12: 286-306; Mbidde E.,Bioethics and local circumstances,
Science 1998, 279: 155; Benatar S.R., Avoiding exploitation in clinical research, Cambridge
Quarterly of Healthcare Ethics 2000, 9: 562-565; Bhagat K. and Nyazema N., Ethics and HIV
research in Zimbabwe, Central African Journal of Medicine 2000, 46: 105-107; Mullings A., Genetic
research in the Third World (developing) countries: science or exploitation?, St. Thomas Law
Review 2001, 13: 955-964; Miller F. and Brody H.,What makes clinical trials unethical?, American
Journal of Bioethics 2002, 2(2): 2-10; Resnik D.B., Exploitation and the ethics of clinical trials, ibid.:
28-30; Agrawal M., Voluntariness in clinical research at the end of life, Journal of Pain Symptoms
Management 2003, 25: S25-S32; e Lee S. and Kristjanson L., Human research ethics committees:
issues in palliative care research, International Journal of Palliative Nursing 2003, 9: 13-18.
165
[8] Macklin R., After Helsinki: unresolved issues in international research, Kennedy Institute of
Ethics Journal 2001, 11: 17-36, pp. 23.25.
[9] Resnik D.B., Exploitation in biomedical research, Theoretical Medicine and Bioethics 2003, 24:
233-259.
[10] Ivi, p. 234.
[11] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia (2
Dicembre 1984), 17, in: Acta Apostolicae Sedis 1985, 77: 185-275, p. 221; citata in: Id., Lettera
enciclica Veritatis splendor (6 Agosto1993), 80, in: Acta Apostolicae Sedis 1993, 85: 1133-1228, p.
1197.
[12] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes (7 Dicembre 1965), 27.
[13] Cf. Kant I., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Lipsia: Hartknoch, 1785 (Fondazione della
metafisica dei costumi [trad. di F. Gonnelli], Bari: Laterza, 2a ed., 2002, p. 91).
[14] Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 81, in: Acta Apostolicae Sedis 1993, 85, p. 1198.
[15] Reeve A. (ed.), Modern Theories of Exploitation, Beverly Hills, CA: Sage Publications, 1987;
Feinberg J., Harmless Wrongdoing, New York, N.Y.: Oxford University Press, 1988; Wood
A., Exploitation, Social Philosophy and Policy 1995, 12: 136-150; Holmstrom N., Exploitation,
Canadian Journal of Philosophy 1997, 7: 353-370; Carling A., Exploitation, in: Chadwick R.
(ed.), Encyclopedia of Applied Ethics, San Diego, CA: Academic Press, 1998, vol. 2, pp. 219-232;
Arneson R.,Exploitation, in: Becker L. and Becker C. (eds.), Encyclopedia of Ethics, New York, N.Y.:
Routledge, 2001, vol. 1, pp. 515-517.
[16] Secondo Wertheimer, sfruttare qualcuno in modo iniquo implica sempre trarre da costui un
vantaggio non giusto destinato allo stesso sfruttatore: Wertheimer A., Exploitation, Princeton, NJ:
Princeton University Press, 1996, p. 10.
[17] Resnik D.B., Exploitation in biomedical research, op. cit., p. 240.
[18] Ivi, p. 243.
[19] Edwards S.D., An argument against research on people with intellectual disabilities, Medicine,
Health Care and Philosophy 2000, 3: 69-73, p. 70.
[20] Cf. Evans D. and Evans M., A Decent Proposal, op. cit., p. 17.
[21] Agrawal M., Voluntariness in clinical research at the end of life, op. cit., p. S29.
[22] Una discussione utile sul concetto di rischio si trova in Van Ness P.H., The concept of risk in
biomedical research involving human subjects, Bioethics 2001, 15: 364-370, e nella bibliografia
citata dall'Autore.
[23] Berg J.W., Legal and ethical complexities of consent with cognitively impaired research
subjects: proposed guidelines, Journal of Law and Medical Ethics 1996, 24: 18-35, p. 24.
[24] Levine R., Balance of Harms and Benefit. Ethics and Regulation of Clinical Research, New
Haven: YaleUniversity Press, 2nd ed., 1988, pp. 37-65.
[25] Si veda, tra gli altri, The President’s Commission for the Study of Ethical Problems in
Medicine and Biomedical and Behavioural Research, Implementing Human Research Regulation:
The Adequacy and Uniformity of Federal Rules and of Their Implementations, Washington, D.C.: U.S.
Government Printing Office, 1983; National Bioethics Advisory Commission, Ethical and Policy
Issues in Research Involving Human Participants, op. cit., vol. 1.
[26] Lemberger L., Early clinical evaluation in man: the buck stops here, Xenobiotica 1987, 17:
267-273; Weijer C. and Fuks A., The duty to exclude: excluding people at undue risk from research,
Clinical and Investigative Medicine 1994, 17: 115-122; Elliott C., Doing harm: living organ donors,
clinical research and The Tenth Man, Journal of Medical Ethics 1995, 21: 91-96; Groudine S. and
Lumb P.D., At the coalface – medical ethics in practice. First, do no harm, Journal of Medical Ethics
166
1997, 23: 377-378; London A.J. and Kadane J.B., Placebos that harm: sham surgery controls in
clinical trials, Statistical Methods in Medical Research 2002, 11: 413-427.
[27] I danni psicologici includono anche l'angoscia, l'irritazione o il senso di colpa che possono
nascere dalla rivelazione di informazioni imbarazzanti, e l'ansia ed il timore che conseguono alla
scoperta della probabilità di sviluppare una malattia per la quale non esiste un trattamento
efficace: Glass, K.C., Weijer C., Lemmens T., Palmour R.M., and Shapiro S.H., Structuring the Review
of Human Genetics Protocols, Part II: Diagnostic and Screening Studies, IRB: A Review of Human
Subjects Research 1997, 19(3-4): 1-13; Marteau T.M. and Croyle R.T., Psychological Responses to
Genetic Testing, British Medical Journal 1998, 316: 693–696; Meiser, B., and Dunn
S., Psychological Impact of Genetic Testing for Huntington’s Disease: An Update of the Literature,
Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry 2000, 69: 574-578.
[28] Kessel E., Estimating risks and benefits in AIDS vaccine and drug trials, AIDS Public Policy
Journal 1990, 5: 186-188; Institute of Medical Ethics – Working Party on the Ethical Implications
of AIDS, AIDS, ethics, and clinical trials, British Medical Journal 1992, 305: 699-701; Beloqui J.,
Chokevivat V., and Collins C., HIV vaccine research and human rights: examples from three
countries planning efficacy trials, Health and Human Rights 1998, 3: 38-58; Leider P.A.,Domestic
AIDS vaccine trials: addressing the potential for social harm to the subjects of human experiments,
California Law Review 2000, 88: 1185-1232.
[29] Wertz D.C. and Fletcher J.C., Privacy and disclosure in medical genetics examined in an ethics
of care, Bioethics 1991, 5: 212-232; Weil J. and MacKay C.R., Howard: paternity and Pandora's box,
Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics 1993, 2: 229-237; Ross L.F., Disclosing misattributed
paternity, Bioethics 1996, 10:114-130; Ritter M.M., Genetic testing and paternity, Lancet 2001,
358: 241; Lucassen A. and Parker M., Revealing false paternity: some ethical considerations, Lancet
2001, 357: 1033-1035.
[30] Diamond A.L. and Laurence D.R., Compensation and drug trials, British Medical Journal 1983,
287: 675-677; Guest S., Compensation for subjects of medical research: the moral rights of patients
and the power of research ethics committees, Journal of Medical Ethics 1997, 23:181-185.
[31] Fitzgerald J.L. and Hamilton M., The Consequences of knowing ethical and legal liabilities in
illicit drug research, Social Science and Medicine 1996, 43: 1591-1600; Id., Confidentiality,
disseminated regulation and ethico-legal liabilities in research with hidden populations of illicit
drug users, Addiction 1997, 92: 1099-1107; Loxley W., Hawks D., and Bevan J., Protecting the
interests of participants in research into illicit drug use: two case studies, Addiction 1997, 92:10811085; Kinard E.M., Ethical issues in research with abused children, Child Abuse and Negligence
1985, 9: 301-311.
[32] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in America (22 Gennaio
1999), 57, in: Acta Apostolicae Sedis 1999, 91:737-815, p. 792. A questa concezione, che vede i
diritti umani profondamente radicati nella dignità di ogni individuo, si contrappone la
«“interests” theory of rights» – frequentemente proposta nel contesto del dibattito sull'aborto (si
veda, per esempio, Purdy L. and Tooley M., Is abortion murder?, in: Perkins R. (ed.), Abortion: Pro
and Con, Cambridge, Massachusetts: Schenkman, 1974, p. 144) – secondo cui un essere può avere
dei diritti solo se è in grado di avere "desideri coscienti" o "interessi". Su questo presupposto, gli
embrioni e i feti umani non sono titolari di diritti umani inalienabili, neppure del diritto alla vita,
allo sviluppo ed alla integrità fisica. Rifacendosi a questa teoria, Feinberg sostiene che qualcuno è
danneggiato solo quando i suoi interessi sono stati contrastati, umiliati, invasi o abbattuti
(Feinberg J., Harm to Others, New York: Oxford University Press, 1984, pp. 31–64). Questa
definizione permetterebbe di includere un numero virtualmente illimitato di danni che i soggetti
coscienti potrebbero lamentare e, invece, di escludere il danno più devastante inferto agli
individui non coscienti. L'approccio "per interessi" alla fondazione dei diritti mostra tutta la sua
167
debolezza quando è messo a confronto con la questione morale della obbligazione a riconoscere e
rispettare i diritti di un altro essere. Il solo fatto che qualcuno possiede, o è capace di avere,
desideri e interessi non è ovviamente una ragione sufficiente perché ciascuno di noi
accondiscenda a questi desideri e protegga questi interessi.
[33]Giussani L., Il senso religioso, Milano: Rizzoli, 1997, pp. 8-9.
[34] Ivi, p. 14.
[35] Kant I., Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., p. 91. Una lucida discussione intorno
a questa affermazione nel contesto della teoria morale di Kant si trova in Hill T.E. Jr., Humanity as
an end in itself, Ethics 1980, 91: 84-90 e in Cooper N, The Formula of the end in itself, Philosophy
1988, 63: 401-415.
[36] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 51.
[37] Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 50, in: Acta Apostolicae Sedis 1993, 85, p. 1173.
[38] Riportiamo, tra i molti, Brazier M. and Lobjoit M. (eds.), Protecting the Vulnerable: Autonomy
and Consent in Health Care, New York, N.Y.: Routledge, 1991; Thomasma D.C., A communal model
for presumed consent for research on the neurologically vulnerable, Accountability in Research
1996, 4: 227-239; Brody B., Research on the vulnerable sick, in: Kahn J.P., Mastrioanni A.C., and
Sugarman J. (eds.), Beyond Consent: Seeking Justice in Research, New York, N.Y.: Oxford University
Press, 1998, pp. 32-46; Dennis B.P., The origin and nature of informed consent: experiences among
vulnerable groups, Journal of Professional Nursing 1999, 15: 281-287; Udo, S., Protecting the
vulnerable: testing times for clinical research ethics, Social Science and Medicine 2000, 51: 969977; Nicholson R., Who is vulnerable in clinical research?, Bulletin of Medical Ethics 2002 (181):
19-24; Steinbock B., Arras J.D., and London A.J., Ethical Issues in Modern Medicine, Boston, MA:
McGraw-Hill, 2003; e Eckstein S. (ed.), Manual for Research Ethics Committees, Cambridge, UK –
New York, N.Y.: Cambridge University Press, 6th ed., 2003.
[39] Kipnis K., Vulnerability in research subjects: a bioethical taxonomy, op. cit., pp. G7-G12.
[40] Si veda, per esempio, National Bioethics Advisory Commission, Ethical and Policy Issues in
Research Involving Human Participants, op. cit., vol. 1, pp. 90-91.
[41] Grant V.J., Consent in paediatrics: a complex teaching assignment,Journal of Medical Ethics
1991, 17:199-204; Dorn L.D., Susman E.J., and Fletcher J.C., Informed consent in children and
adolescents: age, maturation and psychological state, Journal of Adolescent Health 1995, 16: 185190; Cohen D., Flament M., Taieb O., Thompson C., and Basquin M.,Electroconvulsive therapy in
adolescence, European Journal of Child and Adolescent Psychiatry 2000, 9: 1-6; Dickey S.B.,
Kiefner J., and Beidler S.M., Consent and confidentiality issues among school-age children and
adolescents, Journal of School Nursing 2002, 18: 179-186.
[42] Freedman R.I., Ethical challenges in the conduct of research involving persons with mental
retardation, Mental Retardation 2001, 39: 130-41.
[43] Keyserlingk E.W., Glass K., Kogan S., and Gauthier S., Proposed guidelines for the participation
of persons with dementia as research subjects, Perspectives in Biology and Medicine 1995, 38:319361; Karlawish J.H. and Casarett D.,Addressing the ethical challenges of clinical trials that involve
patients with dementia,Journal of Geriatric Psychiatry and Neurology 2001, 14: 222-228.
[44] Bruera E., Miller L., McCallion J., Macmillan K., Krefting L., and Hanson J., Cognitive failure in
patients with terminal cancer: a prospective study,Journal of Pain Symptomatology Management
1992, 7: 192-195; Appelbaum P.S., Grisso T., Frank E., O'Donnell S., and Kupfer D.J., Competence of
depressed patients for consent to research,American Journal of Psychiatry 1999, 156: 1380-1384;
Carpenter W.T. Jr, Gold J.M., Lahti A.C., Queern C.A., Conley R.R., Bartko J.J., Kovnick J., and
Appelbaum P.S., Decisional capacity for informed consent in schizophrenia research,Archives of
General Psychiatry 2000, 57: 533-538; Kim S.Y., Cox C., and Caine E.D., Impaired decision-making
ability in subjects with Alzheimer's disease and willingness to participate in research, American
168
Journal of Psychiatry. 2002, 159: 797-802; Kim S.Y., Karlawish J.H., and Caine E.D., Current state of
research on decision-making competence of cognitively impaired elderly persons, American Journal
of Geriatric Psychiatry 2002, 10: 151-165.
[45] Ashcroft R.E., Chadwick D.W., Clark S.R., Edwards R.., Frith L., and Hutton J.L., Implications of
socio-cultural contexts for the ethics of clinical trials, Health Technology Assessment 1997, 1(9): 165.
[46] Smithline H.A., Mader T.J., and Crenshaw B.J., Do patients with acute medical conditions have
the capacity to give informed consent for emergency medicine research?,Academic Emergency
Medicine 1999, 6: 776-780.
[47] Trout M.E.,Should research in prisons be barred?, Journal of Legal Medicine 1974, 2: 2-10;
DeRiemer T.A., Human research in Connecticut prisons, Connecticut Medicine 1975, 39: 387-391;
White L.P., Biomedical experimentation on prisoners, Western Journal of Medicine 1976, 124: 514516; Somerville M.A., Criminality, confinement, psychiatric care and consent: a dilemma
augmenting combination, Legal Medicine Quarterly 1981-1983, 5-7: 147-159; Dudley
H.A.,Research ethics committees and military defence, Journal of the Royal College of Physicians
(London) 1994, 28: 237-241; Regehr C., Edwardh M., and Bradford J., Research ethics and forensic
patients, Canadian Journal of Psychiatry 2000, 45: 892-898 [si vedano anche i commenti a questa
articolo apparsi sulla stessa rivista, 2002, 47: 384-386].
[48] Hewlett S., Consent to clinical research: adequately voluntary or substantially influenced?,
Journal of Medical Ethics 1996, 22: 232-237; Harrell J.S., Bradley C., Dennis J., Frauman A.C., and
Criswell E.S., School-based research: problems of access and consent, Journal of Pediatric Nursing
2000, 15: 14-21; Rothstein M.A., Ethical guidelines for medical research on workers, Journal of
Occupational and Environmental Medicine 2000, 42: 1166-1171; Hayman R.M., Taylor B.J., Peart
N.S., Galland B.C., and Sayers R.M., Participation in research: informed consent, motivation and
influence,Journal of Paediatric and Children Health 2001, 37: 51-54; Pentz R.D., Flamm A.L.,
Sugarman J., Cohen M., Daniel Ayers G., Herbst R., and Abbruzzese J.L., Study of the media's
potential influence on prospective research participants' understanding of and motivations for
participation in a high-profile phase I trial, Journal of Clinical Oncology 2002, 20: 3785-3791.
[49] Silverman H.J., Ethical considerations of ensuring an informed and autonomous consent in
research involving the critically ill. American Journal of Respiratory Critical Care Medicine, 1996,
154: 582-586; Casarett D., Beyond vulnerability: the ethics of end-of-life research, Journal of Pain
Symptoms Management 1999, 18: 143-145; Schutta K.M. and Burnett C.B., Factors that influence
a patient's decision to participate in a phase I cancer clinical trial, Oncology Nursing Forum 2000,
27: 1435-1438; Ellis P.M., Attitudes towards and participation in randomised clinical trials in
oncology: a review of the literature, Annals of Oncology 2000, 11: 939-945; Bosk C.L., Obtaining
voluntary consent for research in desperately ill patients, Medical Care 2002, 40(9 Suppl.): V64V68; Casarett D.J., Knebel A., and Helmers K.,Ethical challenges of palliative care research, Journal
of Pain Symptom Management 2003, 25: S3-S5; Karlawish J.H.T.,Conducting research that involves
subjects at the end of life who are unable to give consent, ibid.: S14-S24.
[50] Quanto lo sfruttamento della vulnerabilità economica, qualora associata alla vulnerabilità
sociale, potesse risultare facile e pervasivo fu messo in luce chiaramente dallo scandalo dello
studio sulla sifilide a Tuskegee(U.S. Department of Health, Education and Welfare, Final Report of
the Tuskegee Syphilis Study Ad Hoc Advisory Panel, Washington, D.C.: U.S. Government Printing
Office, 1973; Jones J.H., Bad Blood: The Tuskegee Syphilis Experiment, New York: Free Press, 2nd
ed., 1993; Pence G., Classic Cases in Medical Ethics, New York: McGrow-Hill, 2nd ed., 1995, pp.
225-252). Lo studio, iniziato nel 1932, si protrasse per 40 anni, coinvolgendo 600 uomini afroamericani che abitavano nel Macon Country (Alabama), dei quali 399 erano affetti da sifilide e
201 erano sani. I ricercatori sfruttarono l'elevato grado di vulnerabilità dei soggetti – dovuto a
169
indigenza, ignoranza e discriminazione razziale – senza fornire loro alcuna informazione sullo
studio in atto e senza richiedere il consenso ad esso. Gli uomini ricevettero, come compenso per
la partecipazione alla ricerca, l'accesso a cure mediche non legate alla malattia, alcuni pasti ed i
mezzi di trasporto gratuiti, e, nelle fasi più avanzate dello studio, un contributo di 50 dollari per
la sepoltura al fine di incoraggiare il consenso all'autopsia. La remunerazione per la
partecipazione ad una ricerca è una pratica comune ma poco discussa. Per una riflessione critica
sulla questione si veda Dickert N. and Grady C., What's the price of a research subject: approaches
to payment for research participation, The New England Journal of Medicine 1999, 341: 198-203 e
Anderson J.A. and Weijer C., The research subject as wage earner, Theoretical Medicine and
Bioethics 2002, 23: 359-376.
[51] Jayasuriya D.C., Law, ethics, and biomedical research involving human subjects in developing
countries, Journal of Clinical Research and Drug Development 1989, 3: 83-88; Beauchamp T.,
Jennings B., Kinney E., and Levine R.,Pharmaceutical research involving the homeless, Journal of
Medicine and Philosophy 2002, 27: 547-564.
[52] Weijer C., Protecting communities in research: philosophical and pragmatic challenges,
Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics 1999, 8: 501–513.
[53] National Bioethics Advisory Commission, Ethical and Policy Issues in Research Involving
Human Participants, op. cit., vol. 1, p. 90. Several aspects of social vulnerability are discussed in:
Weisstub D.N., Arboleda-Florez J., and Tomossy G.F., Establishing the boundaries of ethically
permissible research with special populations, Health and Law in Canada 1996, 17: 45-63; Dennis
B.P., The origin and nature of informed consent: experiences among vulnerable groups, Journal of
Professional Nursing 1999, 15: 281-287; Dyregrov K, Dyregrov A, Raundalen M., Refugee families'
experience of research participation, Journal of Trauma Stress 2000, 13: 413-426.
[54] Strong C., Ethical conflicts between mother and fetus in obstetrics, Clinical Perinatology 1987,
14: 313-328; Meyer K.C., Forced medical treatment in pregnancy: resolving the conflicting rights of
mother and fetus, Medical Staff Counseling 1990, 4: 53-58; Mattingly S.S., The maternal-fetal dyad.
Exploring the two-patient obstetric model, Hastings Center Report 1992, 22(1): 13-18; Pinkerton
J.V. and Finnerty J.J., Resolving the clinical and ethical dilemma involved in fetal-maternal
conflicts,American Journal of Obstetrics and Gynecology 1996, 175: 289-295; Chervenak F.A. and
McCullough L.B., The fetus as a patient: an essential ethical concept for maternal-fetal medicine,
Journal of Maternal and Fetal Medicine 1996, 5: 115-119; Flagler E., Baylis F., and Rodgers
S., Bioethics for clinicians: 12. Ethical dilemmas that arise in the care of pregnant women:
rethinking "maternal-fetal conflicts", Canadian Medical Association Journal 1997, 156: 17291732; Fasouliotis S.J. and Schenker J.G., Maternal-fetal conflict, European Journal of Obstetrics,
Gynecology and Reproductive Biology 2000, 89: 101-107.
[55] Kipnis K., Vulnerability in research subjects: a bioethical taxonomy, op. cit., pp. G1-G2.
[56] Krugman S., Experiments at the Willowbrook State School,Lancet 1971, I: 966-967; Id., The
Willowbrook hepatitis studies revisited: ethical aspects, Review of Infective Diseases 1986, 8: 15762.
[57] Faden R.R., Beauchamp T.L., and King N.M.P., A Historyand Theory of Informed Consent, New
York – Oxford: OxfordUniversity Press, 1986, pp. 161-167; MacKlin R., Mortal Choices, New York:
Pantheon, 1987, pp. 167-194.
[58] Benedek, T.G., The Tuskegee study of syphilis: analysis of moral versus methodological aspects,
Journal of Chronic Diseases 1978, 31: 35-50; King P.A., Edgar H., and Caplan A.L., Twenty years
after. The legacy of the Tuskegee Syphilis Study, Hastings Center Report 1992, 22(6): 29-38;
Corbie-Smith G., The continuing legacy of the Tuskegee Syphilis Study: considerations for clinical
investigation, American Journal of Medical Sciences 1999, 317: 5-8; White R.M., Unraveling the
170
Tuskegee Study of Untreated Syphilis,Archives of Internal Medicine 2000, 160: 585-598; Id., The
Tuskegee syphilis study, Hastings Center Report 2002, 32(6): 4-5.
[59] Moreno J.D., Protectionism in research involving human subjects, in: National Bioethics
Advisory Commission,Ethical and Policy Issues in Research Involving Human Participants, op. cit.,
vol. 2, pp. I1-I21.
[60] National Commission on the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioural
Research, Research Involving Children: Report and Recommendations, Washington, D.C.:
Department of Health, Education and Welfare, 1977; Id., Research Involving Those
Instituzionalized as Mentally Infirm: Report and Recommendations, Washington, D.C.: Department
of Health, Education and Welfare, 1978.
[61] National Commission on the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioural
Research, Research Involving Children: Report and Recommendations, op. cit., p. xx.
[62] National Commission on the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioural
Research, The Belmont Report: Ethical Principles for the Protection of Human Subjects of
Biomedical and Behavioural Research, Washington, D.C.: Department of Health, Education and
Welfare, 1978, Part C (Applications), no. 2.
[63] Menezo Y.J., Sakkas D., and Janny L., Co-culture of the early human embryo: factors affecting
human blastocyst formation in vitro, Microscopy Research Techniques 1995, 32: 50-56; De Silva
M., Culturing human embryos with and without glucose, Fertility and Sterility 1998, 69: 970-971;
Conway-Myers B.A., Co-culture update: creating an embryotrophic environment in vitro, Seminars
in Reproductive Endocrinology 1998, 16:175-82; Wiemer K.E., Cohen J., Tucker M.J., and Godke
R.A., The application of co-culture in assisted reproduction: 10 years of experience with human
embryos, Human Reproduction 1998, 13(Suppl 4): 226-238; Menezo Y., Veiga A., and Benkhalifa
M., Improved methods for blastocyst formation and culture, Human Reproduction 1998, 13(Suppl
4): 256-265; Mahadevan M.M., Optimization of culture conditions for human in vitro fertilization
and embryo transfer, Seminars in Reproductive Endocrinology 1998, 16: 197-208; Cooke S.,
Quinn P., Kime L., Ayres C., Tyler J.P., and Driscoll G.L., Improvement in early human embryo
development using new formulation sequential stage-specific culture media, Fertility and Sterility
2002, 78: 1254-1260; Blake D., Svalander P., Jin M., Silversand C. and Hamberger L., Protein
supplementation of human IVF culture media, Journal of Assisted Reproduction and Genetics
2002, 19: 137-143; Boiso I., Veiga A., and Edwards R.G., Fundamentals of human embryonic
growth in vitro and the selection of high-quality embryos for transfer, Reproductive Biomedicine
Online 2002, 5: 328-350.
[64] Loza Arredondo M.C. and Hicks, J.J., Influencia del medio tubario y uterino en el desarrollo
embrionario [Influence of tubal and uterine milieu in the embryonic development], Ginecologia y
Obstetricia Mexicana 1990, 58: 245-250; Pulkkinen M.O., Oviductal function is critical for very
early human life, Annals of Medicine 1995, 27: 307-310; Barnes F.L., The effects of the early
uterine environment on the subsequent development of embryo and fetus, Theriogenology 2000,
53: 649-658; Diaz-Cueto L. and Gerton G.L., The influence of growth factors on the development of
preimplantation mammalian embryos, Archives of Medical Research 2001, 32: 619-626.
[65] Cohen J., Elsner C., Kort H., Malter H., Massey J., Mayer M.P., and Wiemer K., Impairment of
the hatching process following IVF in the human and improvement of implantation by assisting
hatching using micromanipulation, Human Reproduction 1990, 5: 7-13; Hardy K., Apoptosis in the
human embryo, Review of Reproduction 1999, 4: 125-134; Alikani M., Calderon G., Tomkin G.,
Garrisi J., Kokot M., and Cohen J., Cleavage anomalies in early human embryos and survival after
prolonged culture in vitro, Human Reproduction 2000, 5: 2634-2643; Brison D.R., Apoptosis in
mammalian preimplantation embryos: regulation by survival factors, Human Fertility (Cambridge)
2000, 3: 36-47; Hardy K., Spanos S., Becker D., Iannelli P., Winston R.M., and Stark J., From cell
171
death to embryo arrest: mathematical models of human preimplantation embryo development,
Proceedings of the National Academy of Sciences USA 2001, 98: 1655-1660; Porter R.N., Tucker
M.J., Graham J., and Sills E.S., Advanced embryo development during extended in vitro culture:
observations of formation and hatching patterns in non-transferred human blastocysts, Human
Fertility (Cambridge) 2002, 5: 215-220.
[66] Van den Abbeel E., Camus M., Van Waesberghe L., Devroey P., and Van Steirteghem
A.C., Viability of partially damaged human embryos after cryopreservation, Human Reproduction
1997, 12: 2006-2010; Magli M.C., Gianaroli L., Fortini D., Ferraretti A.P., and Munne S., Impact of
blastomere biopsy and cryopreservation techniques on human embryo viability, Human
Reproduction 1999, 14: 770-773; Van Den Abbeel E. and Van Steirteghem A., Zona pellucida
damage to human embryos after cryopreservation and the consequences for their blastomere
survival and in vitro viability, Human Reproduction 2000, 15: 373-378; Edgar D.H., Jericho H.,
Bourne H., and McBain J.C., The influence of prefreeze growth rate and blastomere number on
cryosurvival and subsequent implantation of human embryos, Journal of Assisted Reproduction
and Genetics 2001, 18: 135-138; Machtinger R., Dor J., Levron J., Mashiach S., Levran D., and
Seidman D.S., The effect of prolonged cryopreservation on embryo survival, Gynecological
Endocrinology 2002, 16: 293-298; Guerif F., Bidault R., Cadoret V., Couet M.L., Lansac J., and
Royere D., Parameters guiding selection of best embryos for transfer after cryopreservation: a
reappraisal, Human Reproduction 2002, 17: 1321-1326.
[67] Scott L.A., In vitro fertilization: technology and methods, Clinical and Laboratory Medicine
1992, 12: 411-428; Yeung W.S. and Ng E.H.,Laboratory aspects of assisted reproduction, Hong
Kong Medical Journal 2000, 6: 163-168.
[68] Wiemer K.E., Anderson A., and Stewart B., The importance of water quality for media
preparation, Human Reproduction 1998, 13(Suppl 4): 166-172; Hall J., Gilligan A., Schimmel T.,
Cecchi M., and Cohen J., The origin, effects and control of air pollution in laboratories used for
human embryo culture, Human Reproduction 1998, 13(Suppl 4): 146-155; Dumoulin J.C., Meijers
C.J., Bras M., Coonen E., Geraedts J.P., and Evers J.L., Effect of oxygen concentration on human invitro fertilization and embryo culture, Human Reproduction 1999, 14: 465-469; Loutradis D.,
Drakakis P., Kallianidis K., Sofikitis N., Kallipolitis G., Milingos S., Makris N., and Michalas
S., Biological factors in culture media affecting in vitro fertilization, preimplantation embryo
development, and implantation, Annals of the New York Academy of Sciences 2000, 900: 325-335;
Stringfellow D.A. and Givens M.D., Infectious agents in bovine embryo production: hazards and
solutions, Theriogenology 2000, 53: 85-94; Catt J.W. and Henman M.,Toxic effects of oxygen on
human embryo development, Human Reproduction 2000, 15(Suppl 2): 199-206; Guerin P., El
Mouatassim S., and Menezo Y.,Oxidative stress and protection against reactive oxygen species in the
pre-implantation embryo and its surroundings, Human Reproduction Update 2001, 7: 175-189;
Farin P.W., Crosier A.E., and Farin C.E., Influence of in vitro systems on embryo survival and fetal
development in cattle, Theriogenology 2001, 55: 151-170; Geber S., Sales L., and Sampaio
M.A., Laboratory techniques for human embryos, Reproductive Biomedicine Online 2002, 5: 211218; Schultz R.M. and Williams C.J., The science of ART, Science. 2002, 296: 2188-2190; Cooke S.,
Tyler J.P., and Driscoll G., Objective assessments of temperature maintenance using in vitro culture
techniques, Journal of Assisted Reproduction and Genetics 2002, 19: 368-375.
[69] Trounson A.O., The derivation and potential use of human embryonic stem cells,
Reproduction, Fertility and Development 2001, 13: 523-532; Gepstein L.,Derivation and potential
applications of human embryonic stem cells, Circulation Research 2002, 91: 866-876; Amit M. and
Itskovitz-Eldor J., Derivation and spontaneous differentiation of human embryonic stem cells,
Journal of Anatomy 2002, 200(Pt 3): 225-232.
172
[70] Schuldiner M., Yanuka O., Itskovitz-Eldor J., Melton D.A., and Benvenisty N., Effects of eight
growth factors on the differentiation of cells derived from human embryonic stem cells, Proceedings
of the National Academy of Sciences USA 2000, 97: 11307-11312; Niwa H., Molecular mechanism
to maintain stem cell renewal of ES cells, Cell Structure and Function 2001, 26: 137-148; Ogawa
M., Embryonic stem cell differentiation: the role of growth factors, Nippon Rinsho 2003, 61:401405; Levenberg S., Huang N.F., Lavik E., Rogers A.B., Itskovitz-Eldor J., and Langer
R., Differentiation of human embryonic stem cells on three-dimensional polymer scaffolds,
Proceedings of the National Academy of Sciences USA 2003, 100: 12741-12746.
[71] Leese H.J., Metabolic control during preimplantation mammalian development, Human
Reproduction Update 1995, 1: 63-72; Devreker F. and Englert Y., In vitro development and
metabolism of the human embryo up to the blastocyst stage, European Journal of Obstetrics,
Gynecology and Reproductive Biology 2000, 92: 51-56; Gardner D.K., Pool T.B., and Lane
M., Embryo nutrition and energy metabolism and its relationship to embryo growth, differentiation,
and viability, Seminars in Reproductive Medicine 2000, 18: 205-218; Henderson J.K., Draper J.S.,
Baillie H.S., Fishel S., Thomson J.A., Moore H., and Andrews P.W., Preimplantation human embryos
and embryonic stem cells show comparable expression of stage-specific embryonic antigens, Stem
Cells 2002, 20: 329-337.
[72] Per alcuni esempi di queste tecniche, si veda Van Blerkom J., Davis P., and Alexander S., A
microscopic and biochemical study of fragmentation phenotypes in stage-appropriate human
embryos, Human Reproduction 2001, 16: 719-729; e Cobo A., Rubio C., Gerli S., Ruiz A., Pellicer A.,
and Remohi J., Use of fluorescence in situ hybridization to assess the chromosomal status of embryos
obtained from cryopreserved oocytes, Fertility and Sterility 2001, 75: 354-360.
[73] Patrat C., Wolf J.P., Epelboin S., Hugues J.N., Olivennes F., Granet P., Zorn J.R., andJouannet
P., Pregnancies, growth and development of children conceived by subzonal injection of
spermatozoa, Human Reproduction 1999, 14: 2404-2410; Tesarik J. and Mendoza C.,In vitro
fertilization by intracytoplasmic sperm injection, Bioessays 1999, 21: 791-801; Selva J., Assisted
hatching, Human Reproduction 2000, 4:65-67; Hardy K., Wright C., Rice S., Tachataki M., Roberts
R., Morgan D., Spanos S., and TaylorD., Future developments in assisted reproduction in humans,
Reproduction. 2002, 123: 171-183; Al-Nuaim L.A. and Jenkins J.M.,Assisted hatching in assisted
reproduction, British Journal of Obstetrics and Gynaecology 2002, 109: 856-862; Nagy Z.P.,
Oliveira S.A., Abdelmassih V., and Abdelmassih R., Novel use of laser to assist ICSI for patients with
fragile oocytes: a case report, Reproductive Biomedicine Online 2002, 4: 27-31.
[74] Wilding M., Fiorentino A., De Simone M.L., Infante V., De Matteo L., Marino M., and Dale
B., Energy substrates, mitochondrial membrane potential and human preimplantation embryo
division, Reproductive Biomedicine Online 2002, 5: 39-42; De Vos A. and Van Steirteghem
A., Aspects of biopsy procedures prior to preimplantation genetic diagnosis, Prenatal Diagnosis
2001, 21: 767-780; Wells D. and Delhanty J.D., Preimplantation genetic diagnosis: applications for
molecular medicine, Trends in Molecular Medicine 2001, 7: 23-30; Braude P., Pickering S., Flinter
F., and Ogilvie C.M.,Preimplantation genetic diagnosis, Nature Review Genetics 2002, 3: 941-953;
Bui T.H. and Harper J.C., Preimplantation genetic diagnosis, Clinical Obstetrics and Gynecology
2002, 45: 640-648, 730-732; Egozcue J., Santalo J., Gimenez C., Durban M., Benet J., Navarro J., and
Vidal F., Preimplantation genetic screening and human implantation, Journal of Reproductive
Immunology 2002, 55: 65-72.
[75] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sul rispetto della vita umana nascente e
la dignità della procreazione Donum vitae (22 Febbraio 1987), I, 4, in: Acta Apostolicae Sedis
1988, 80: 70-102.
[76] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae (25 Marzo 1995), 63, in: Acta
Apostolicae Sedis 1995, 87: 473.
173
[77] Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, I, 4, in: Acta Apostolicae Sedis 1988,
80, p. 82.
[78] L'espressione "nel migliore interesse del paziente" è spesso usata nei colloqui quotidiani
intorno al letto di degenza o nel contesto della ricerca biomedica. Tuttavia, se il "migliore
interesse" non è esplicitato, il significato della affermazione risulta ambiguo e talvolta anche
ingannevole. Per una utile discussione di questa espressione in differenti situazioni cliniche, si
veda Daniels K.R., Blyth E., Hall D., and Hanson K.M., The best interests of the child in assisted
human reproduction: the interplay between the state, professionals, and parents, Politics of Life
Sciences 2000, 19: 33-44; Cotler M.P., The "do not resuscitate" order; clinical and ethical rationale
and implications, Medicine and Law 2000, 19: 623-633; Ross L.F., Genetic testing of adolescents: is
it in their best interest?, Archives of Pediatric and Adolescent Medicine 2000, 154: 850-852;
Spencer K., The best interest principle as a standard for decision making in the care of neonates,
Journal of Advanced Nursing 2000, 31: 1286-1292; Allmark P., Mason S., Gill A.B., and Megone
C., Is it in a neonate's best interest to enter a randomised controlled trial?, Journal of Medical Ethics.
2001, 27: 110-113; Pham H.H. and Lerner B.H., In the patient's best interest? Revisiting sexual
autonomy and sterilization of the developmentally disabled, Western Journal of Medicine 2001,
175: 280-283; Miller G.H., The psychological best interest of the child is not the legal best interest,
American Academy of Psychiatry Law 2002, 30: 196-200; Mainous R.O., Conjoined twins: whose
best interest should prevail? An argument for separation, Pediatric Nursing 2002, 28: 525-529;
Wasserman D., Comment on "Whose best interest?" Judging and balancing the interests of conjoined
twins, Pediatric Nursing 2002, 28: 530-531; e Hirsch N.J.,In the patient's best interest: a call to
action, a call to balance, Bioethics Forum 2002, 18(1-2):24-29.
[79] Kipnis K., Vulnerability in research subjects: a bioethical taxonomy, op. cit., pp. G5.
[80] Per una discussione sulle pressioni culturali e sociali che condizionano la campagna sulle
ESC e la terapia cellulare, si veda Frist B., The promise and peril of embryonic stem cell research: a
call for vigilant oversight, Yale Journal of Health Policy, Lawand Ethics 2001, 2: 167-176; McLaren
A., Human embryonic stem cell lines: socio-legal concerns and therapeutic promise, Comptes
Rendus de Séances de la Société de Biologie 2002, 325: 1009-1012; Konsen A.H., Are we killing
the weak to heal the sick? Federally funded embryonic stem cell research, Health Matrix Cleveland
2002, 12: 507-555; Bruce A., The search for truth and freedom: ethical issues surrounding human
cloning and stem cell research, Journal of Law and Medicine 2002, 9: 323-335; Nippert I., The pros
and cons of human therapeutic cloning in the public debate, Journal of Biotechnology 2002, 98: 5360; Schmid R., Stem cells: a dramatic new therapeutic tool, Jounal of Gastroenterology and
Hepatology 2002, 17: 636-642; FitzGerald K.T., Questions concerning the current stem cell debate,
American Journal of Bioethics 2002, 2: 50-51; Baker R., Stem cell rhetoric and the pragmatics of
naming, American Journal of Bioethics 2002, 2: 52-53; McGee D.B., The idolatry of absolutizing in
the stem cell debate, American Journal of Bioethics 2002, 2: 53-54; MacDonald C., Stem cell ethics
and the forgotten corporate context, American Journal of Bioethics 2002, 2: 54-56; London
A.J., Embryos, stem cells, and the "strategic" element of public moral reasoning, American Journal of
Bioethics 2002, 2: 56-57; e Rosenthal N., Prometheus's vulture and the stem-cell promise, New
England Journal of Medicine 2003, 349: 267-274.
[81] Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, I, 1, in: Acta Apostolicae Sedis 1988,
80, p. 79.
[82] Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 60, in: Acta Apostolicae Sedis 1995, 87, p. 469.
[83] Council of Europe, Convention for the Protection of Human Rights and Dignity of the Human
Being with Regard to the Application of Biology and Medicine (Oviedo: April 4, 1997), Council of
Europe, ETS no. 164, art. 18.
[84] Si veda, tra gli altri, Hursthouse R., Beginning Lives, Oxford – Cambridge: Blackwell, 1987.
174
[85] Dunstan G.R., The moral status of the human embryo: a tradition recalled, Journal of Medical
Ethics 1984, 10: 38-44; Strong C., Ethics in Reproductive and Perinatal Medicine. A New
Framework, New Haven – London: YaleUniversity Press, 1977; Green R.M., The Human Embryo
Research Debates. Bioethics in the Vortexof Controversy, Oxford: OxfordUniversity Press, 2001. Per
una critica dell'argomento del "valore simbolico", si veda Quinn K.P., Embryonic stem cell research
as an ethical issue: on the emptiness of symbolic value, St. Thomas Law Review 2001, 13: 851-861.
[86] Coloro che non ritengono che l'embrione umano in vitro sia già un soggetto titolare di diritti
umani, ma affermano che esso «merita un rispetto speciale» e una «seria considerazione morale
in quanto rappresenta una forma di vita umana che si sta sviluppando», sono disposti ad
«approvare la ricerca sugli embrioni prodotti in sovrannumero nei tentativi di trattare la
infertilità di coppia attraverso la IVF, ma disapprovano la creazione e la successiva distruzione di
embrioni esclusivamente per scopo di ricerca. Secondo il loro pensiero, la pratica di creare
embrioni per la ricerca strumentalizza e priva del suo significato la vita umana, e come tale
dovrebbe essere proibita». (Robertson J.A., Symbolic issues in embryo research, Hastings Center
Report 1995, 25[1]: 37-38, p. 37)
[87] Pennings G. and de Wert G., Evolving ethics in medically assisted reproduction, Human
Reproduction Update 2003, 9: 397-404, p. 398. La distinzione non può essere giustificata
neppure assumendo che, prima dell'impianto, l'embrione umano non sia un soggetto titolare del
diritto a non essere ucciso o danneggiato: «Se gli embrioni sono troppo poco sviluppati
fisicamente per poter venire danneggiati, non dovrebbe risultare rilevante il fatto che i
ricercatori usino degli embrioni in sovrannumero derivati dalla IVF piuttosto che crearli
appositamente per la sperimentazione. In entrambi i casi, infatti, gli embrioni si trovano allo
stesso stadio di sviluppo». (Robertson J.A., Symbolic issues in embryo research,a.c., p. 37)
[88] Annas G., Caplan A., and Elias S., The politics of human embryo research: avoiding ethical
gridlock, The New England Journal of Medicine 1996, 334: 1329-1332.
[89] Pennings G. and de Wert G., Evolving ethics in medically assisted reproduction, op. cit., p. 398.
See also Iglesias T.,IVF and Justice. Moral, Social and Legal Issues related to Human In Vitro
Fertilisation, London: The Linacre Centre for Health Care Ethics, 1990.
[90] Cf. Pennings G. and de Wert G., Evolving ethics in medically assisted reproduction, op. cit., p.
398.
[91] ESHRE Task Force on Ethics and Law, The moral status of the preimplantation embryo,
Human Reproduction 2001, 16: 1046-1048.
[92] Ahmann J., Therapeutic cloning and stem cell therapy, National Catholic Bioethics Quarterly
2001, 1: 145-150; Shannon T.A., Human embryonic stem cell therapy, Theological Studies 2001,
62: 811-824; Hirai H., Stem cells and regenerative medicine, Human Cell 2002, 15: 190-198; Cai J.
and Rao M.S., Stem cell and precursor cell therapy, Neuromolecular Medicine 2002, 2: 233-249;
Lindvall O., Stem cells for cell therapy in Parkinson's disease, Pharmacological Research 2003, 47:
279-287. Strauer B.E. and Kornowski R., Stem cell therapy in perspective, Circulation 2003, 107:
929-934; Henningson C.T.Jr., Stanislaus M.A., and Gewirtz A.M., Embryonic and adult stem cell
therapy, Journal of Allergy and Clinical Immunology 2003, 111(2 Suppl): S745-S753; Terai S.,
Yamamoto N., Omori K., Sakaida I., and Okita K., A new cell therapy using bone marrow cells to
repair damaged liver, Journal ofGastroenterology 2002, 37 (14 Suppl):162-163; Partridge
T.A., Stem cell route to neuromuscular therapies, Muscle and Nerve 2003 27: 133-141; Hassink
R.J., Dowell J.D., Brutel de la Riviere A., Doevendans P.A., and Field L.J., Stem cell therapy for
ischemic heart disease, Trends in Molecular Medicine 2003, 9: 436-441; Hochedlinger K. and
Jaenisch R., Nuclear transplantation, embryonic stem cells, and the potential for cell therapy, New
England Journal of Medicine 2003, 349: 275-286.
175
[93] Una della prime dichiarazioni pubbliche che esprimono questa posizione è attribuita
al Ethics Advisory Boarddell'allora U.S. Department of Health, Education and Welfare. Nel 1979
l'Advisory Board dichiarò che l'embrione umano ha «diritto ad un profondo rispetto; ma questo
rispetto non comprende necessariamente i pieni diritti morali e legali attribuiti alle persone».
(Citato in: Callahan D., The puzzle of profound respect, Hastings Center Report 1995, 25[1]: 39-40,
p. 39). Se confrontato con il rispetto incondizionato che è dovuto ad una persona, anche il
"profondo rispetto" che è accordato agli embrioni si configura come un rispetto relativo e non
obbliga nessuno a rinunciare ad usare l'embrione umano come un mezzo per cercare nuove
possibili vie per la cura delle persone affette da gravi malattie.
[94] Cf. Pennings G. and de Wert G., Evolving ethics in medically assisted reproduction, op. cit., p.
398.
[95] «Nessuno dovrebbe intraprendere ricerche sugli embrioni umani il cui scopo possa verire
raggiunto attraverso l'impiego di altri animali o in qualche altro modo». (Department of Health
and Social Security, Report of the Committee of Inquiry into Human Fertilization and Embryology,
London: Her Majesty's Stationery Office, 1984, p. 63). Si veda anche Royal Commission on New
Reproductive Technologies (Canada), Proceed with Care: Final Report of the Royal Commission on
New Reproductive Technologies, Ottawa: Minister of Government Services, 1993, p. 630.
[96] Per una rassegna equilibrata delle ricerche in corso sulle cellule staminali e sulla terapia
cellulare, si veda: Cogle C.R., Guthrie S.M., Sanders R.C., Allen W.L., Scott E.W., and Petersen
B.E., An overview of stem cell research and regulatory issues, Mayo Clinic Proceedings 2003, 78:
993-1003.
[97] Giovanni Paolo II, Discorso al 18th International Congress of the Transplantation Society (29
Agosto 2000), in: Acta Apostolicae Sedis 2000, 92: 822-826, p. 826.
[98] Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, I, 1, in: Acta Apostolicae Sedis 1988,
80, p. 79.
[99] Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, I, 1, in: Acta Apostolicae Sedis 1988,
80, p. 79; citata in: Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 60, in: Acta Apostolicae Sedis 1995, 87, p.
469.
176
ANTONIO SPAGNOLO
COMITATI DI ETICA PER LA RICERCA:
PROCEDURE E QUALITÀ DELLA REVISIONE ETICA
LO SVILUPPO DELLA REVISIONE ETICA FORMALIZZATA DELLA RICERCA BIOMEDICA
I Comitati Etici per la Ricerca biomedica (d’ora in avanti CER) possono essere definiti come
organismi indipendenti composti da persone con diverse competenze, medico-scientifiche e non,
che hanno la responsabilità di assicurare che i progetti di ricerca biomedica che coinvolgono
soggetti umani siano conformi ai principi dell’etica biomedica.[1]
Questa esigenza della revisione etica formalizzata della ricerca biomedica deriva dal fatto che
proprio la sperimentazione ha rappresentato una di quelle esperienze morali che hanno turbato
profondamente le coscienze nella seconda metà del XX secolo e che possiamo collocare, insieme
con la tecnologizzazione della medicina e l’uso ideologico della stessa, fra le condizioni storicoculturali che sono all’origine della bioetica come movimento e come disciplina.[2]
All’indomani del Processo di Norimberga, infatti, emerse con sconcertante evidenza che la ricerca
medica poteva essere utilizzata, oltre che per curare, anche per commettere delitti, delitti oggi
conosciuti e raccolti dagli atti del Processo che rimangono come una testimonianza in negativo di
quanto possa essere fatto dal potere assoluto svincolato dalla morale o presunto detentore della
morale stessa, anche con la collaborazione di medici e ricercatori che si lasciarono
strumentalizzare dal potere politico, ritenendosi giustificati perché “costretti”[3]. Così,
nonostante che da sempre la ricerca biomedica fosse stata condotta in modo più o meno
controllato – anche in ossequio alle esigenze del metodo sperimentale - la preoccupazione
specifica degli aspetti etici implicati nella conduzione della ricerca si manifestò concretamente
proprio dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la documentazione delle atrocità commesse dai
medici nazisti in nome di questa ricerca. E il Codice di Norimberga (1947), con il richiamo alla
irrinunciabilità del consenso informato dei soggetti di sperimentazione e alla protezione
“oggettiva” di essi da parte dello sperimentatore rappresentò uno dei primi documenti di
bioetica ante litteram.
Due linee di normative si svilupparono a partire da quel momento tragico: la dottrina dei “diritti
dell'uomo”, culminata nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, e
l'approvazione via via aggiornata di linee-guida specifiche per l’etica della sperimentazione
emanati da organismi internazionali, come l'Associazione Medica Mondiale cui si deve la
famosa Dichiarazione di Helsinki, emanata nel 1964 e successivamente rivista più volte (l’ultima
ad Edimburgo nell’ottobre del 2000). Questa normativa sovranazionale necessariamente veniva
ad implicare e richiedere una fondazione teoretica e giustificativa dell’etica della ricerca
biomedica, facendo confluire di fatto tale fondazione fra gli ambiti di riflessione della bioetica, la
nuova disciplina, appunto, che stava per sorgere.
Ci volle un certo tempo prima che il Codice di Norimberga venisse implementato in termini di
sorveglianza formale della ricerca sull’uomo. E così anche dopo Norimberga la società nordamericana degli anni ‘50-‘60, dovette confrontarsi con la realtà di alcune ricerche che non
avevano nulla da invidiare a quelle compiute dai medici nazisti, abusi sistematicamente
organizzati di sperimentazione selvaggia sull'uomo che generarono profonda sofferenza morale.
Nel 1963, ad esempio, al Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklyn erano state iniettate, nel
corso di una sperimentazione, cellule tumorali in pazienti anziani, senza il loro consenso, al fine
di studiare le modalità di diffusione del tumore. L’età dei soggetti e la prospettiva che gli
177
eventuali effetti negativi di tale esperimento probabilmente non avrebbero fatto in tempo a
manifestarsi in loro, permettendo invece lo studio dei meccanismi di metastatizzazione delle
neoplasie, furono le ragioni addotte dai medici chiamati a risponderne in tribunale. O, ancora, nel
periodo 1965-1971 al Willowbrook State Hospital di New York vennero condotti una serie di
studi sull'immunizzazione contro l’epatite virale, inoculando il virus in alcuni bambini orfani,
psichicamente handicappati, ricoverati nell'ospedale.
Henry Beecher, professore di anestesiologia alla Facoltà di medicina dell’Università di Harvard
pubblicò circa venti anni dopo il Codice di Norimberga un famoso articolo nel quale riportava
alcune decine di esempi di ricercatori che avevano messo a rischio la vita e la salute di soggetti
umani senza informarli dei pericoli che la ricerca comportava e senza ottenere previamente il
loro consenso.[4] E l’anno dopo M.H. Pappworth[5] denunciò centinaia di sperimentazioni non
etiche molte delle quali pubblicate su prestigiose riviste scientifiche.
Sarebbe un errore, tuttavia, pensare che prima della introduzione formalizzata di una revisione
sistematica della ricerca non vi fosse alcuna attenzione alla sicurezza e agli interessi dei soggetti
coinvolti nella sperimentazione. Walter Reed che ha studiato a lungo la febbre gialla, introdusse
sin dal 1900 un vero e proprio consenso informato per i soggetti che partecipavano alla
sperimentazione su questa malattia, con la informazione previa su rischi e la documentazione del
consenso espresso.[6] E la Germania, forse primo paese al mondo, emanò nel 1931 delle linee
guida ufficiali, rivolte ai centri di ricerca universitari, che i medici avrebbero dovuto seguire per
l'uso di "nuove terapie" e per l'esecuzione di esperimenti scientifici. Fatto ancor più
sorprendente, tali raccomandazioni riguardanti la sperimentazione avevano già un precedente in
una direttiva emanata nel 1900 dal governo prussiano in seguito al dibattito acceso dal "caso
Neisser". Nel 1898 il prof. Albert Neisser, scopritore del batterio che causa la gonorrea - che
venne chiamato appunto Neisseria gonorreae - pubblicò i dati di una sperimentazione su pazienti
sifilitici. Tale pubblicazione fu accompagnata da discussioni e polemiche poiché Neisser per
raggiungere i suoi scopi scientifici aveva iniettato il siero proveniente da malati sifilitici a donne
dedite alla prostituzione e ad altri pazienti ricoverati per altre patologie, inconsapevoli e ignari di
tutto ciò.[7]
Nonostante le raccomandazioni contenute nelle Richtlinien possano essere considerate non meno
avanzate e cogenti, e in alcuni elementi anche più dettagliate di quelle del Codice di Norimberga e
della Dichiarazione di Helsinki, esse non ebbero la forza e l'incisività per impedire a diversi
medici di macchiarsi di orribili crimini contro persone inermi, vittime dell'abominio nazista nei
campi di concentramento.[8] Quello che era mancato in questi esperimenti era non solo il
consenso informato dei soggetti, ma anche la correttezza delle procedure del disegno
sperimentale, la protezione contro i rischi eccessivi a cui i soggetti erano esposti, la libertà di
potersi ritirare in qualsiasi momento dalla sperimentazione, e altri ancora. Furono perciò questi
aspetti che la comunità scientifica e sociale ritenne si dovessero valutare prima di dare inizio ad
una sperimentazione clinica ed è da qui che nasce sostanzialmente l’esigenza di una revisione
etica previa, sistematica e formale, di ogni progetto di ricerca da parte di una commissione
indipendente.
La nascita e la diffusione dei CER deriva, cioè, dall'esigenza di impedire il verificarsi di abusi come
quelli perpetrati in molte esperienze del passato attraverso sperimentazioni effettuate su
soggetti umani, frequentemente appartenenti a categorie particolarmente vulnerabili. Ma sia il
Codice di Norimberga sia la prima versione della Dichiarazione di Helsinki del 1964 non facevano
alcuna menzione ai comitati di revisione; in questi documenti la responsabilità della tutela della
salute e dei diritti dei soggetti coinvolti nella ricerca era fatta ricadere esclusivamente sul
ricercatore.
178
SISTEMA GIURIDICO VS. SISTEMA NON GIURIDICO DELLA REVISIONE ETICA DELLA
RICERCA
La formalizzazione della revisione etica delle ricerca da parte di Commissioni etiche seguì
sostanzialmente due diverse strade: quella del sistema giuridico che si sviluppò rapidamente
negli Stati Uniti (USA) e che sostenne su un piano legislativo federale ben codificato la istituzione
di queste commissioni indipendenti; e quella del sistema non giuridico, autoregolamentativo, che
è stato prevalente fino a pochi anni fa in Europa e in particolare nel Regno Unito (UK), in cui
linee-guida di organizzazioni scientifiche e non norme di legge davano indicazioni su come
costituire e far funzionare tali commissioni ai fini della revisione etica della ricerca.
Negli USA, la Federal Food, Drug and Cosmetic Act del 1938 permetteva ai medici di sperimentare
i nuovi farmaci senza che ci fosse una revisione etica del protocollo. Nel 1962 tale legislazione
venne emendata a seguito dei drammatici danni che aveva causato sui feti la sperimentazione
della talidomide nelle donne in gravidanza, e così per la prima volta al mondo venne
esplicitamente introdotto in una legislazione l’obbligo del consenso informato dei soggetti a cui
venisse somministrato un farmaco sperimentale (anche se questo non aveva impedito che si
attuassero tutte quelle sperimentazioni non etiche degli anni ’60 che abbiamo prima richiamato).
Un primo documento federale che richiedeva la revisione etica della ricerca da parte di una
Commissione indipendente fu emanato già nel 1953 (Group Consideration for Clinical Research
Procedures Deviating from Accepted Medical Practice or Involving Unusual Hazard). Tali lineeguida, però, erano applicabili solo a ricerche condotte in centri clinici pubblici presso i National
Institutes of Health (NIH)[9] che in quegli anni venivano ad essere istituiti e che erano finanziati
con fondi federali. Il Direttore dei NIH istituì una Commissione che esaminasse il sistema più
opportuno per una revisione etica.
Delle altre istituzioni di ricerca, come università e centri privati statunitensi si sa, invece, poco
circa la presenza in quegli anni di organismi di revisione per la sperimentazione. Nel 1961-62, fu
rilevato, attraverso questionari inviati a dipartimenti di medicina di università americane, che un
terzo di quelli che avevano risposto avevano dei comitati, e un quarto di essi aveva avviato le
procedure per istituirlo.
Nel 1966, il nuovo Direttore Generale Federale della Sanità degli Stati Uniti (Surgeon-General of
the United States Public Health Service, USPHS), il dr. William H. Stewart, emanò una disposizione
sulla responsabilità delle istituzioni riguardo alla attività di ricerca che si faceva all’interno di
esse. Egli sostenne infatti che, accettando i fondi pubblici per la ricerca, le scuole di medicina, gli
ospedali e le altre istituzioni di ricerca accettavano anche di condividere la responsabilità
pubblica del loro uso. Pertanto egli chiedeva che le istituzioni assicurassero all’USPHS che tutte le
proposte di ricerca che coinvolgessero soggetti umani fossero sistematicamente sottoposti ad
una revisione etica indipendente, sottolineando anche la necessità che si trattasse di persone
esterne qualificate sul piano scientifico[10]. Tale Commissione avrebbe dovuto esaminare i diritti
ed il benessere degli individui coinvolti, l'appropriatezza dei metodi utilizzati per richiedere il
consenso informato, i rischi ed i potenziali benefici medici della ricerca[11]. E negli NIH venne
istituito un apposito Ufficio che avrebbe dovuto dare attuazione alle disposizioni del Direttore
Generale Federale della Sanità (Office for Protection of Research Risk, OPRR).
Ma nonostante queste indicazioni per la ricerca pubblica, ancora nel 1972 un nuovo shock
sconvolse l’opinione pubblica, quando venne alla luce il tristemente famoso “Taskegee Study”, la
ricerca – iniziata alcuni decenni prima - che aveva lasciato senza trattamento antibiotico circa
300 braccianti negri dell’Alabama affetti da sifilide, per valutare l’evoluzione naturale della
malattia.
179
Come reazione pubblica a questo studio, nel 1974 il Presidente Nixon firmò la legge sulla
ricerca[12] nella quale, alla sezione 474, si chiedeva l’istituzione degli Institutional Review
Boards (IRBs) in tutte le sedi dove si faceva ricerca con fondi pubblici di carattere biomedico e
comportamentale che coinvolgeva soggetti umani, affinché venissero protetti i diritti di questi
ultimi nel corso della ricerca. Tali commissioni dovevano essere presente nello stesso istituto
dove si conduceva la sperimentazione. Fu regolamentata, così, una realtà già molto diffusa in
molti istituti di ricerca negli Stati Uniti[13]. La stessa legge istitutiva anche una “Commissione
Nazionale per la protezione dei soggetti umani nella ricerca biomedica e comportamentale” che
avrebbe avuto il compito di fornire linee-guida etiche per la ricerca (in particolare su soggetti
vulnerabili come prigionieri, bambini, malati mentali, ecc.), come pure indicazioni per il
funzionamento degli IRBs incaricati della revisione dei protocolli di sperimentazione e la
formulazione di alcuni princìpi etici fondamentali che avrebbero dovuto guidare la
sperimentazione sull’uomo. La Commissione lavorò dal 1974 al 1978, producendo il famoso
Rapporto Belmont che venne pubblicato nel Registro Federale il 18 aprile 1979[14] nel quale
vennero riportati i principi fondamentali a cui i ricercatori dovevano ispirarsi: principio del
rispetto delle persone, principio di beneficità, principio di giustizia, e alla luce dei quali gli IRBs
dovevano valutare i protocolli presentati per l’approvazione.[15]
A fronte di questo sistema statunitense di revisione etica della ricerca rigidamente controllato
dalla legislazione federale, oltre oceano, in particolare nel Regno Unito, la costituzione dei
Comitati Etici per la ricerca (Research Ethics Committees,RECs) fu il risultato di una iniziativa
promossa dalle società professionali e non di disposizioni da parte delle autorità: il Ministro della
sanità, anzi, si astenne dall'intervenire ritenendo che si trattasse di materia di natura
squisitamente etico-professionale.
Nell’ambito di questo sistema non giuridico, il Royal College of Physicians (RCOP) già nel 1967
aveva raccomandato che tutte le sperimentazioni cliniche fossero previamente approvate da un
gruppo di medici comprendente persone esperte nella sperimentazione clinica: "all projects were
approved by a group of doctors including those experienced in clinical investigation. This group
should satisfy itself of the ethics of all proposed investigations"[16]. Negli anni successivi, pur con
una notevole variabilità nella composizione e nelle modalità di funzionamento, si costituirono
comitati per l'etica della sperimentazione ovunque nel Regno Unito. Perciò, il RCOP nel 1984
ritenne opportuno pubblicare delle linee guida che suggerissero una certa uniformità di obiettivi,
strutture e procedure per un miglior funzionamento dei RECs.[17]
Anche sul piano degli organismi internazionali, lo sviluppo dei CER avvenne inizialmente nel
senso di un sistema non giuridico. E la prima menzione di un comitato con funzioni di revisione
della ricerca in un documento internazionale inerente la ricerca clinica, risale alla Dichiarazione
di Helsinki dell’Assemblea Medica Mondiale, nella revisione di Tokyo del 1975 (non vi era invece
traccia del riferimento a un comitato di revisione per la sperimentazione clinica nella
dichiarazione originaria del 1964). In tale revisione fu stabilito che “il progetto e l’esecuzione di
ogni fase della sperimentazione riguardante l’uomo debbono essere chiaramente definiti in un
protocollo sperimentale che deve essere sottoposto ad un Comitato indipendente nominato
appositamente a tale scopo” (I, 2).
Come si vede tale comitato non era ancora connotato con il termine “etico”, ma nella maggior
parte delle nazioni dove via via andavano costituendosi, questi comitati vennero denominati
Comitati Etici per la Ricerca (CER) o più semplicemente Comitati etici (CE).
Negli Stati Uniti, dove la denominazione "comitato etico" (o, meglio, comitato di etica, Ethics
Committee) viene utilizzata generalmente per i comitati afferenti ad un ospedale e che hanno
funzioni di consulenza etica per la prassi clinica - e quindi sono di supporto alle decisioni cliniche
al letto del malato - la legge federale con cui sono stati istituiti li ha denominati, come abbiamo
180
visto, richiamando la loro esclusiva autorità e responsabilità nell'autorizzare la conduzione di
sperimentazioni in cui sono coinvolti soggetti umani[18].
Successivamente i CER si diffusero in tutte le nazioni dove si svolgeva ricerca clinica, con diversa
denominazione ma con il compito preciso di revisione della ricerca: in Canada, alcuni anni dopo
gli USA fu istituito il Comité Deontologique de la Recherche (1978), con responsabilità simili circa
l'autorizzazione delle sperimentazioni, ma anche per offrire "una valutazione, un commento e
una guida"[19]; in altre nazioni comparvero con vari nomi: Commissions Facultaires d'Ėthique in
Belgio (1984); Ethik Kommissionen in Germania (1984); Comité Consultatif de Protection des
Personnes dans la Recherche Biomédicale in Francia (1988)[20].
In Spagna i comitati che si occupavano di etica della sperimentazione clinica incominciarono a
sorgere dopo l'emanazione della legge 3 agosto 1982 che obbligava ogni ospedale ad istituire un
proprio comitato per la sperimentazione con ben definite caratteristiche e funzioni[21].
In Italia l’obbligo di sottoporre alla valutazione di un CER i protocolli di sperimentazione clinica è
venuto dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Decreto del Ministro della Sanità del 27
aprile 1992 che ha recepito la Direttiva della Comunità Europea 91/507 relativa alle "norme di
buona pratica clinica" (GCP), finalizzate a stabilire i principi standard nella conduzione dei trials
per la sperimentazione su soggetti umani di nuovi prodotti farmaceutici. Così, a seguito di tale
Direttiva, i CER hanno cominciato a diffondersi nei vari luoghi di ricerca anche se non era ancora
prevista una regolamentazione della istituzione e del funzionamento di tali organismi i quali
hanno, perciò, continuato a sorgere in modo spontaneo ed improvvisato, senza coordinazione fra
loro fino alla emanazione, nel 1997-1998, di nuovi Decreti che hanno in qualche modo
regolamentato l’attività dei CER[22].
Oggi, come vedremo, il loro ruolo di revisione della ricerca venne previsto da tutte le linee-guida
internazionali riguardanti la sperimentazione sull’uomo e considerato irrinunciabile ai fini
dell’attuazione della sperimentazione stessa.
LA QUALITÀ DEI CER: DALLO STATUTO ALLE PROCEDURE OPERATIVE DI REVISIONE
ETICA
Storicamente, dunque, l'oggetto fondamentale della valutazione del CER è stato quello della tutela
dei diritti e del benessere dei soggetti umani inclusi nelle sperimentazioni, attraverso la richiesta
del loro consenso informato, affinché la partecipazione fosse consapevole, libera e volontaria, e
l'analisi dei rischi e dei benefici. Nel 1978 la National Commissionaggiunse come ulteriore
requisito l'equità nella selezione dei soggetti di ricerca[23]. La National Commission era
particolarmente preoccupata della tutela dei soggetti più vulnerabili rispetto all'eventualità di un
loro utilitaristico coinvolgimento nelle sperimentazioni. Successivamente, allorché la
partecipazione ad alcuni tipi di sperimentazioni vennero percepite come un possibile beneficio
(ad es., nel caso del rischio di patologie cardiovascolari nelle donne in età menopausale o delle
terapie anti-AIDS) ai CER fu richiesto di assicurare un equo accesso a tali benefici alle categorie di
persone più svantaggiate e bisognose di maggiore protezione sociale[24].
L'attività dei CER è quindi da sempre primariamente e spesso esclusivamente dedicata a cercare
di assicurare che la ricerca clinica e scientifica, che costituisce di per sé un valore positivo e da
promuovere per le ricadute benefiche che può dare nel progresso biomedico e sociale, non si
rivolga contro l'uomo stesso che ne è direttamente coinvolto e che vi contribuisce in modo
fondamentale, sia conforme ad una serie di requisiti rilevanti ai fini del giudizio di eticità.
Un carattere simile avevano, fino al 1973[25], i comitati che stabilivano il rischio di vita per la
madre in vista della richiesta di praticare l'aborto. La finalità ristretta e il carattere vincolante
della decisione di questi comitati non hanno avuto seguito nei comitati di etica ospedalieri
181
istituiti negli Stati Uniti negli anni '80, dopo un pronunciamento dellaPresident's Commission for
the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research che
raccomandava la costituzione in tutti gli ospedali di comitati di etica che svolgessero tre attività
fondamentali: la consulenza etica di casi clinici, la redazione di linee-guida e raccomandazioni e la
formazione sugli aspetti etici della prassi clinica[26].
Per il compito di salvaguardia della sicurezza, dell'integrità e dei diritti delle persone coinvolte
nella sperimentazione e per evitare il ripetersi di abusi e prevaricazioni di carattere scientifico ed
economico, il CER rappresenta un organo di garanzia etica ma anche deontologica e legale,
essendo riconosciuta la sua attività di revisione nelle normative e regolamenti nazionali e
internazionali. Tale espressione di garanzia, in effetti, ha un valore fondamentale ed una ricaduta
positiva e foriera di benefici anche per la qualità della ricerca clinica in generale e delle singole
sperimentazioni.
Nel 1996 l'Unione Europea, insieme a Stati Uniti e Giappone con l’emanazione delle International
Conference on Harmonisation – Good Clinical Practice (ICH-GCP)[27], poi recepite dalle singole
nazioni, intendevano conseguire proprio questo duplice obiettivo: promuovere lo sviluppo e la
qualità della ricerca clinica utilizzando al meglio le risorse disponibili, e garantire la sicurezza e la
tutela dei diritti dei soggetti partecipanti. Il principale e determinante strumento applicativo di
queste nuove linee guida veniva riaffermato, con più forza, essere il CER (definito in quel
documento Comitato Etico Indipendente), dopo le precedenti linee guida europee del 1991.
I CER sono chiamati, dunque, ad assolvere un compito fondamentale per il bene, prima di tutto,
delle persone coinvolte, poi della società e del progresso biomedico, attraverso un'efficacia
operativa ancora maggiore, che va oltre la necessaria legittimazione ufficiale e i rigori formali. È
importante, allora, che il CER acquisisca il riconoscimento del valore della sua attività di revisione
e delle sue decisioni in forza della dimostrazione della sua indipendenza ed autonomia, della sua
competenza e del perseguimento del principale e fondamentale obiettivo della tutela della vita e
della dignità dei soggetti di sperimentazione, prima che del progresso della ricerca clinica.
Le disposizioni normative vigenti, oltre ai documenti internazionali di riferimento eticodeontologico, implicano per i CER alcuni impegni irrinunciabili: la conformazione del proprio
statuto ai principi fondamentali contenuti nelle linee guida e l'organizzazione operativa
necessaria ad un adeguato funzionamento del CER stesso.
Rimane determinante e centrale, però, il recupero e la promozione del ruolo "etico", rispetto
all'attività di revisione ma anche a quella di formazione, del CER disgiungendolo da quello
burocratico-amministrativo, che le stesse disposizioni di legge prevedono e forse enfatizzano.
Infatti, l'attribuzione di un potere decisionale a carattere vincolante ha reso plausibile il rischio di
trasformare questo organismo in un comitato di controllo amministrativo piuttosto che in un
luogo di revisione e di riflessione scientifica ed etica sulla sperimentazione e di supporto per i
ricercatori[28].
Diventano, dunque, fondamentali nell'attività del CER l'atto istitutivo, con il riferimento ai
principi e finalità predefiniti nello statuto, e le modalità di funzionamento preventivamente
organizzate ed eventualmente perfezionabili secondo le singole esperienze e necessità. Anche
la World Health Organization attraverso l'emanazione nel 2000 delle Operational Guidelines for
Ethics Committees That Review Biomedical Research (d’ora in avanti WHO Operational
Guidelines)richiama la necessità di stabilire per i CER procedure che "assicurino coerenza e
facilitino la cooperazione" (n. 3)[29].
L'atto costitutivo di un CER, da parte di un'istituzione sanitaria e di ricerca (ospedale, azienda
sanitaria, università, …), potrebbe essere preceduto e facilitato da una commissione promotrice
di esperti (che non faranno parte del CER), in parte interni alla stessa struttura e in buona parte
esterni (per salvaguardare l'indipendenza), con il compito di emanare lo statuto (in concordanza
182
con le norme vigenti e con i principi dell'istituzione) e di individuare le persone competenti a
svolgere il ruolo di componente rispetto alla professionalità richiesta.
L'indicazione a procedere innanzitutto con l'elaborazione dello statuto deriva da un'esigenza di
trasparenza e visibilità dell'attività, di coerenza e lealtà rispetto ai criteri di riferimento dell'ente
promotore e del CER stesso. La dichiarazione pubblica dei principi ispiratori, dei criteri e delle
linee guida di riferimento, delle priorità da perseguire, qualificano la natura non solo ideologica
ma anche operativa del CER; perciò sarebbe opportuno che l'emanazione di tale documento
preceda la costituzione del CER, pur rimanendo la possibilità di verifica successiva dell'idoneità
delle modalità costitutive e l'eventuale proposta di elementi correttivi e migliorativi.
I riferimenti, oltre a quelli ovvi alla normativa nazionale vigente, ai principali Documenti
internazionali come la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo (ONU, 1948) e soprattutto a
quelli relativi alla sperimentazione sull'uomo, come la Dichiarazione di Helsinki nella versione
più recente, le ICH-GCP dell'Unione Europea, le International Guidelines del CIOMS (2002), la
Convenzione europea sui diritti dell'uomo e la biomedicina del Consiglio d'Europa (1996), i
Codici di deontologia medica, i documenti dei Comitati Nazionale per la Bioetica, costituiscono un
elemento imprenscindibile al perseguimento delle finalità proprie del CER. Inoltre, nel caso di
un'istituzione sanitaria di ispirazione religiosa o che intende caratterizzarsi per il rispetto di
determinati valori e principi morali, lo statuto dovrebbe contenere il riferimento a tali principi
(ad esempio, in una istituzione sanitaria cattolica potrebbe essere opportuno il riferimento alle
indicazioni del Magistero cattolico[30]); tale sottolineatura non rappresenta una mera formalità
ma un elemento fondamentale che contraddistingue quella particolare istituzione sanitaria e
l'attività dello stesso CER, un elemento dirimente e da far valere soprattutto in eventuali
contenziosi fra la legge civile e i suddetti principi (vedi più avanti).
Oltre a principi ispiratori e finalità, lo statuto dovrebbe indicare la composizione e tutti quegli
elementi necessari all'operatività dei membri che non possono essere stabiliti dagli stessi nel
regolamento interno: gli aspetti economici, l'autorità che approverà e istituirà il CER. Per l'Italia,
il Decreto Ministeriale del 15 luglio 1997 stabilisce che i comitati etici per la valutazione delle
sperimentazioni cliniche sono istituiti dall'organo di amministrazione delle strutture sanitarie
che intendono eseguire sperimentazioni cliniche (art. 3)[31]. Insieme al requisito della
multidisciplinarietà e della composizione multisettoriale, dovrebbe essere ribadita nello statuto
l'esigenza fondamentale dell'indipendenza del CER da ogni influenza, interna ed esterna
all'istituzione, per cui anche la composizione dovrebbe riflettere tale volontà. A questo proposito,
l'European Forum for Good Clinical Practice (EFGCP) nelle Guidelines and Recommendations for
European Ethics Committees (una proposta di linee guida e raccomandazioni per i comitati etici
europei coinvolti nella valutazione della ricerca biomedica) raccomanda che i comitati etici non
siano nominati da persone o istituzioni che possano avere interessi specifici nella
sperimentazione, come sponsor o sperimentatori (2.A)[32], mentre, più realisticamente, le WHO
Operational Guidelines richiedono, laddove tale conflitto di interessi sia inevitabile, che vi sia
trasparenza e siano resi noti tali interessi (4.1.3). Entrambi i documenti raccomandano
comunque di prevedere una procedura per la nomina che includa oltre al nome della struttura o
del responsabile della nomina, anche la procedura per selezionare i candidati e il metodo per la
scelta del candidato (ad esempio, se per consenso, per voto di maggioranza, per scelta diretta). Le
modalità della nomina dovrebbero includere, al minimo, oltre alla durata e alla condotta per il
rinnovo, anche le procedure per le dimissioni, per la ricusazione, per la sostituzione. Insieme ai
componenti effettivi del CER, un importante contributo alla revisione dei protocolli di
sperimentazione può venire da consulenti esterni e indipendenti che possono essere invitati ad
hoc o, come suggeriscono le WHO Operational Guidelines, essere scelti e inclusi in una lista
permanente: tali consulenti, che possono anche fornire solo un commento scritto (6.1.5) possono
183
essere esperti di specifici aspetti del protocollo o di patologie o di metodologie, o anche
rappresentanti di associazioni o di particolari gruppi di pazienti, e le modalità di consultazione
dovrebbero essere precedentemente definite (4.6). Naturalmente, anche i consulenti esterni
invitati a collaborare con il CER sono esplicitamente vincolati, come i componenti del CER,
all’obbligo della segretezza sulle informazioni che verranno a conoscere nello svolgimento del
proprio incarico.
La valutazione etica di un protocollo di sperimentazione implica un giudizio relativo al rispetto
dei diritti dei soggetti per quanto concerne l’integrità fisica, psichica e morale, dei principi di
giustizia e pari opportunità, dei diritti delle persone che accedono alla struttura per motivi
assistenziali e che, pur non essendo direttamente coinvolti nel protocollo, possono risentire delle
conseguenze, del diritto del medico partecipante a svolgere il proprio compito primario di
terapeuta senza condizionamenti. Perciò il CER ha anche la funzione di verificare la compatibilità
delle sperimentazioni non solo con le normative ed i regolamenti vigenti, ma anche con le
caratteristiche culturali ed il background etico-morale e religioso della popolazione locale, con le
condizioni operative della struttura dove si svolgerà la sperimentazione, con i diritti
fondamentali della persona.
Le già menzionate Guidelines del 1997 dell’EFGCP contengono le indicazioni sulle disposizioni che
dovrebbero essere prestabilite dal CER circa le competenze auspicabili per una idonea revisione
del protocollo, oltre al quorum minimo dei componenti. L’EFGCP (come le ICH-GCP) raccomanda
che un minimo di cinque persone costituisca il quorum e rileva, per quanto concerne il numero
massimo, che non dovrebbe essere superiore a dodici, poiché con un grande numero di persone è
più difficile pervenire alle decisioni. Nello stesso documento si raccomanda che nel quorum siano
rappresentati soggetti di entrambi i sessi, un’ampia fascia di età, l’espressione culturale della
comunità locale, ed inoltre siano presenti almeno i seguenti membri: due medici che abbiano
esperienza e pratica corrente di ricerca clinica secondo le GCP, indipendenti dall’istituzione dove
è condotta la sperimentazione, un componente “laico”, un giurista e un paramedico
(2.E)[33].Oltre alla competenza ed esperienza professionale nell’area specificamente richiesta, le
persone cui viene richiesto di collaborare nel CER dovrebbero essere, anche per ovvi motivi di
credibilità esterna, di riconosciuto valore etico ed integrità professionale.
Una questione che è connessa con i membri del CER è la loro indipendenza nei confronti
dell’istituzione: certamente una significativa presenza (e l’eventuale presidenza) di componenti
non dipendenti dalla istituzione potrebbe rappresentare un elemento determinante nella
salvaguardia del CER da influenze indebite[34]. Tale misura non dovrebbe essere sottovalutata,
dato che l’interesse a condurre sperimentazioni cliniche non è solo animato da motivi scientifici o
accademici ma anche e soprattutto di natura economica (gli introiti economici previsti dagli
sponsor non sono solo per gli sperimentatori ma anche per l’istituzione) che potrebbero
condizionare le decisioni in caso di presidenti professionalmente dipendenti (soprattutto se
direttamente coinvolti nell’amministrazione) della stessa istituzione in cui opera il CER.
Un'altra misura da porre in essere per quanto concerne l’imparzialità della decisione è
l’allontanamento dalla riunione e l’astensione dal partecipare alla discussione e alla decisione
riguardante protocolli o questioni da parte del componente del CER che vi abbia un qualche
interesse o condizionamento. Come si evince dalle raccomandazioni dell’EFGCP (2.C.i) e della
WHO (7.1), nel caso di conflitto di interesse, tale procedura di esclusione (e prima ancora di
comunicazione e registrazione per iscritto di tale condizione) dovrebbe essere stabilita nello
statuto o nel regolamento del CER, e sottoscritta dai singoli componenti all’atto di accettazione
della nomina. Occorre considerare, inoltre, che il conflitto di interesse può essere diretto o
indiretto, come il coinvolgimento nella progettazione o nella conduzione della sperimentazione, i
rapporti di cointeresse o di dipendenza con lo sperimentatore, i rapporti di consulenza con
184
l’azienda produttrice del farmaco[35]. Complessa è in particolare la questione relativa al
cointeresse economico rispetto soprattutto alle grandi aziende farmaceutiche internazionali,
spesso quotate in borsa e coinvolte in investimenti economici, cui potrebbe partecipare, sotto
forma di prodotto finanziario, un qualsiasi cittadino, quindi anche un componente del CER.
Nello statuto deve essere, infine, fatto riferimento al funzionamento del CER, rimandando alle
procedure operative che dovranno essere in seguito definite nel regolamento interno.
Dopo l'approvazione dello statuto e la nomina dei componenti del CER da parte dell'autorità
competente, è indispensabile, come indicato nelle WHO Operational Guidelines (4.4), per un
adeguato funzionamento, l'istituzione di un ufficio di segreteria che abbia la responsabilità
dell'organizzazione tecnica delle riunioni, della tempestiva distribuzione ai componenti dei
documenti da esaminare, dell'archiviazione della documentazione, dei contatti con i componenti
e con gli utenti esterni, da qui l'esigenza di pianificare anche la spesa, per dotare delle necessarie
risorse tale ufficio. Perciò per contribuire a coprire tali costi viene generalmente prevista una
tassa a carico dello sponsor per l'istruzione della pratica.
Un tema importante che dovrebbe essere sottolineato anche nello statuto del CER è quello
dell'educazione continua e dell'aggiornamento dei membri. Nella dichiarazione di accettazione
dell'incarico ogni componente del CER dovrebbe sottoscrivere anche questo particolare impegno
a partecipare a occasioni di formazione e di aggiornamento. La disponibilità a ricevere uno
specifico training introduttivo e ulteriori successivi aggiornamenti per contribuire a migliorare il
lavoro del CER viene anzi indicata dalle WHO Operational Guidelines come una condizione da
accettare al momento della nomina (4.7).
Dopo aver visionato lo statuto e eletto le principali cariche (presidente e vicepresidente), occorre
dunque procedere all'elaborazione delle procedure operative, definite in un regolamento che
sarà vincolante per i membri del CER e per coloro che sottoporranno una richiesta di parere etico
su una sperimentazione clinica. Queste procedure, che dovranno essere il più possibile funzionali,
flessibili, trasparenti e standardizzate, costituiscono lo strumento che traduce in un certo senso
tutta l'attività multidisciplinare di revisione del CER, dal momento della richiesta fino alla
comunicazione del parere. L'applicazione standardizzata delle procedure operative contribuisce,
inoltre, a garantire imparzialità e coerenza nella valutazione, continuità di riferimento e
uniformità di lavoro sia per coloro che richiedono il parere sia per gli stessi componenti del CER
sia per altri CER chiamati a valutare le stesse sperimentazioni.
L'aderenza alle procedure, come la continua revisione dell'efficacia di esse, permettono al CER di
funzionare in modo regolare e idoneo, tenendo conto delle opportunità per aumentare la qualità
della valutazione.
Di certo la prova della condotta appropriata ed equilibrata del CER è rappresentata proprio dalla
risultante dell'attività di discussione e valutazione e cioè il parere scritto, motivato, sulle singole
sperimentazioni. Per pervenire all'emanazione del parere il CER dovrà affidarsi ad una
componente rigida o burocratica - i vincoli operativi fondamentali e le formalità, in genere
richiesti dalle norme vigenti, per la validità delle riunioni, l'emissione dei pareri, l'istruttoria del
protocollo, ecc. - ed una più interessante ed impegnativa componente dinamica delle procedure.
Quest'ultima, che dovrà tenere conto di esigenze e caratteristiche locali, potrà trasformare
indicazioni e raccomandazioni di ordine generale in una guida flessibile di lavoro e stimolare il
CER ad un continuo confronto tra i criteri costitutivi e la realtà in cui opera. Questa particolare
capacità di adattamento del CER potrà facilitare una evoluzione delle sue qualità e renderne più
efficace il lavoro, aumentando, quindi, innanzitutto la garanzia di protezione dei pazienti (ad
esempio, nell'evidenza di ripetute necessità di particolari competenze, potrebbe essere
modificata la composizione), e svolgendo una funzione pedagogica per i ricercatori. Utili
indicazioni potrebbero derivare anche per gli sponsor farmaceutici, oltre ad ottenere i pareri in
185
tempi ragionevoli. È importante, perciò, che le procedure stesse prevedano una continua autovalutazione.
Indispensabili indicazioni per l'elaborazione delle procedure operative vengono oltre che da leggi
e regolamenti delle singole nazioni (che in genere derivano da recepimenti e adattamenti dalle
linee guide internazionali), dalle già citateWHO Operational Guidelines e Guidelines dell'European
Forum for Good Clinical Practice, oltre che dalle ICH GCP, nel paragrafo relativo ai comitati di
etica. Utili suggerimenti possono derivare anche da associazioni o altri organismi che si occupano
di etica della sperimentazione.
I punti fondamentali considerati in questi documenti e che dovrebbero essere parte integrante
delle procedure istitutive ed operative del CER possono confluire in uno schema generale che
comprende le procedure per le riunioni, le cariche e l'avvicendamento dei membri, le procedure
per presentare la richiesta e per la revisione del protocollo di sperimentazione, le procedure per
la formulazione e la comunicazione del parere, le procedure per il monitoraggio della
sperimentazione, le procedure per la documentazione e l'archiviazione e, infine, quelle per la
revisione dell'attività dello stesso CER.[36]
Il momento centrale dell'attività del CER è costituito dall'esame del protocollo di
sperimentazione, dall'analisi di tutte le sue parti, dalla discussione sui molteplici aspetti, e
soprattutto quelli problematici, che lo caratterizzano, anche se la revisione non è limitata al solo
protocollo ma include anche altri documenti allegati (ad esempio, i pareri eventualmente già
emessi da altri CER).
Per quanto riguarda le procedure per la valutazione del protocollo, dopo la distribuzione della
documentazione ai componenti prima della riunione, può essere utile eseguire, prima dell'analisi
complessiva degli aspetti etici e scientifici del protocollo, una revisione contenutisticostrutturaleper accertare, da parte della segreteria, la completezza della documentazione. Quindi
una valutazione di validità scientifica e fattibilità tecnica potrebbe essere preventivamente
(rispetto alla riunione collegiale) condotta da un nucleo - un subcomitato tecnico-scientifico,
eventualmente implementato da consulenti esterni - del CER ed infine, nell'ambito della riunione
collegiale, disponendo già di dati tecnici se non di un giudizio sulla validità scientifica, può aver
luogo la valutazione complessiva di eticità - con l'analisi degli aspetti scientifici ed etici,
assicurativi, etc., attraverso la discussione ed i contributi individuali dei vari membri. Lo
sperimentatore potrebbe anche essere invitato a presentare la ricerca o a chiarire particolari
aspetti di essa.
Uno schema degli elementi da considerare ai fini della valutazione etica del protocollo di ricerca è
riportato nella Tab. 1 e riprende integralmente il punto 6.2 delle WHO Operational Guidelines.
Il CER potrebbe anche prevedere delle procedure per revisioni "accelerate" (expedited review)
dei progetti di ricerca, stabilendo le condizioni di applicabilità di tale modalità e il carattere della
decisione presa in tale evenienza[37].
Imprescindibile dalla valutazione del CER non è solo la validità scientifica della sperimentazione,
ma anche l'adeguatezza delle condizioni di protezione dei soggetti, la conformità alle GCP, alla
Dichiarazione di Helsinki e alle norme vigenti, e la fattibilità nella struttura in oggetto. In
particolare, la decisione sulla validità scientifica implica l'onere e la responsabilità del giudizio
tecnico-scientifico di diverse e specifiche figure che devono necessariamente possedere adeguata
competenza, per i riflessi determinanti che avrà il loro parere nel corso della valutazione e del
parere complessivo.
186
Tab. 1 - Elementi di revisione etica di una ricerca (WHO, Operational Guidelines for Ethics Committees that
review biomedical research, Geneva 2000, 6.2)
Disegno scientifico e conduzione dello
studio
 l’appropriatezza del disegno
dello studio in relazione agli
obiettivi, alla metodologia
statistica (inclusa le dimensioni
del campione) e la possibilità
di raggiungere valide
conclusioni con il più piccolo
numero di soggetti di ricerca;
 la giustificazione dei rischi e
degli inconvenienti prevedibili
soppesati in rapporto ai
benefici attesi per i soggetti di
ricerca e le comunità coinvolte;
 la giustificazione dell’uso di un
gruppo di controllo;
 i criteri per il ritiro anticipato
dei soggetti di ricerca;
 i criteri per la sospensione o la
conclusione di tutta la ricerca;
 l’adeguatezza dei
provvedimenti che saranno
presi per monitorare e valutare
la conduzione della ricerca,
inclusa la costituzione di un
comitato per il monitoraggio
dei dati sulla sicurezza (CMDS);
 l’adeguatezza della struttura,
incluso lo staff di supporto, le
risorse disponibili e le
procedure di emergenza;
 le modalità con cui i risultati
della ricerca saranno
comunicati e pubblicati;

le cure mediche che saranno
 l’adeguatezza, completezza e
fornite al soggetto di ricerca
comprensibilità della
durante e dopo la ricerca
informazione scritta e
stessa;
verbale che sarà data ai
soggetti di ricerca e, se del
 l’adeguatezza della
caso, ai loro legali
supervisione medica e il
rappresentanti;
supporto psico-sociale per i
soggetti di ricerca;
 una chiara giustificazione se
si intende includere nella
 le azioni che saranno
ricerca soggetti che non
intraprese se i soggetti di
possono acconsentire e una
ricerca si ritirano
completa descrizione delle
volontariamente durante lo
modalità di ottenimento del
svolgimento della ricerca;
consenso o l’autorizzazione
 i criteri per un accesso esteso,
per la partecipazione di tali
per emergenza e/o per un uso
soggetti;
compassionevole del prodotto
 la garanzia che i soggetti di
in studio;
ricerca riceveranno le
 le modalità, se del caso, per
informazioni che si
informare il medico curante
renderanno disponibili nel
(medico di famiglia) del
corso della ricerca e che
soggetto di ricerca incluse le
saranno rilevanti ai fini della
procedure per acquisire il
loro partecipazione (incluse
consenso dei soggetti di
quelle relative ai loro diritti,
ricerca per fare ciò;
alla sicurezza e al benessere);
 la descrizione di come si
 le disposizioni per ricevere e
renderà disponibile ai
rispondere alle domande e
soggetti di ricerca il prodotto
alle lamentele da parte dei
in studio una volta conclusa la
soggetti di ricerca o dei loro
ricerca;
rappresentanti durante lo
 la descrizione di qualsiasi
svolgimento del protocollo di
costo economico per i soggetti
ricerca;
di ricerca;
 i compensi e i rimborsi per i
Considerazioni sul piano sociale
soggetti di ricerca (sia in
 l’impatto e la rilevanza della
denaro, sia in servizi e/o
ricerca sulla comunità locale
regali);
come pure sulle comunità
Reclutamento dei soggetti di ricerca
 le modalità di indennizzo o
interessate da cui sono
trattamento medico in caso di
 le caratteristiche della
reclutati i soggetti di ricerca;
popolazione da cui saranno
danni, disabilità o morte del

i passi che sono stati
presi i soggetti di ricerca
soggetto di ricerca attribuibile
intrapresi per consultare le
(inclusi sesso, età, scolarità,
alla partecipazione alla
comunità interessate durante
aspetti culturali ed etnici, stato
ricerca;
la fase della progettazione
economico);
 l’assicurazione e le
della ricerca;
 i mezzi mediante i quali sarà
disposizioni per il

l’influenza della comunità sul
attuato il contatto inizialee il
risarcimento dei danni;
consenso dei singoli soggetti
reclutamento dei soggetti;
di ricerca;
 i mezzi mediante i quali sarà Protezione della riservatezza dei

le modalità di consultazione
soggetti
di
ricerca
fornita l’informazione ai
della comunità nel corso
potenziali soggetti di ricerca o
della ricerca;
ai loro rappresentanti;
 descrizione delle persone che

l’ambito in cui la ricerca può
avranno
accesso
ai
dati
 i criteri di inclusione e di
contribuire alle sue
personali dei soggetti di
esclusione dei soggetti di
possibilità costruttive, come
ricerca, inclusa la cartella
ricerca;
187
Cura e protezione dei soggetti di
clinica e i campioni biologici;
ricerca
 le misure intraprese per
assicurare la riservatezza e la
 l’adeguatezza della
qualificazione ed esperienza
e la sicurezza delle
del/i ricercatore/i nell’ambito
informazioni personali
dello studio proposto;
riguardanti i soggetti di
ricerca;
 ogni previsione di sospensione
o non inizio delle terapie
standard a motivo della ricerca,Procedure del consenso informato
e giustificazione di tale
 completa descrizione delle
condotta;
procedure per ottenere il
consenso informato, inclusa la
identificazione di coloro che
saranno responsabili di
questo;


il miglioramento della sanità
locale, della ricerca e della
capacità di rispondere ai
bisogni di sanità pubblica;
la descrizione della
disponibilità e possibilità di
usufruire del prodotto
sperimentato con successo
da parte delle comunità
interessate, alla fine della
ricerca;
le modalità con cui i risultati
della ricerca saranno resi
disponibili ai partecipanti
alla ricerca e alle comunità
interessate.
Anche nell'analisi dei rischi-benefici, nelle misure per limitare o evitare i rischi, nei criteri per la
sospensione o l'interruzione della partecipazione dei soggetti, in tutti quegli aspetti in cui è
assolutamente necessaria una competenza tecnica specialistica sarà il parere dei membri
"tecnici" ad assumere un rilievo fondamentale, mentre i membri con competenze non medicoscientifiche saranno chiamati a porre particolare attenzione agli aspetti etici, legali, ma anche
psicologici, per l'impatto che la sperimentazione può avere sulle persone partecipanti (ad
esempio, valutando se la partecipazione alla sperimentazione condizionerà eccessivamente
situazioni già difficili o precarie dovute alla patologia) ma anche sulla comunità locale.
Ampio spazio deve essere dato nelle procedure alle modalità di revisione della informazione e
della dichiarazione di consenso dei soggetti. Per questo elemento del protocollo, spesso carente,
il CER potrebbe redigere una guida per lo sperimentatore affinché le schede di informazione e
consenso presentate per l'approvazione contengano almeno gli elementi di eticità previsti dalla
normativa e dalle linee guida internazionali. L'ampiezza e completezza dell'informazione non è
condizione sufficiente, da sola, di eticità: occorre tenere conto delle diversità culturali e
soggettive, quindi porre attenzione alla chiarezza e scorrevolezza del testo[38], alla
comprensibilità dei termini, alla caratterizzazione del linguaggio (né terroristico, né persuasivo).
Oltre a quelli propri del protocollo, altri aspetti da prevedere nelle procedure di valutazione della
sperimentazione sono: l'idoneità del ricercatore, in relazione alla sua qualificazione ed
esperienza, e della sede, gli oneri economici che non devono gravare sulla struttura,
l'adeguatezza della supervisione medica e del follow-up dei soggetti e la polizza assicurativa.
Tutti questi elementi devono essere vagliati prima della formulazione del parere, che dovrebbe
seguire un metodo ben definito ed uniforme. È certamente auspicabile che il CER emetta un
parere che esprima il più ampio consenso o dissenso dei membri, anche se, qualora l'accordo sarà
improbabile, dovrà essere previsto il voto e la decisione a maggioranza (due terzi dell'assemblea)
e la possibilità per i dissenzienti di aggiungere la loro opinione. Il parere, se sub conditione, deve
specificare i requisiti da acquisire, e se negativo deve essere supportato da chiare motivazioni.
Nelle procedure di comunicazione del parere deve essere sottolineata la necessità di esprimersi
in modo chiaro e inequivocabile sull'esito della valutazione. A questo proposito vi sono precise
indicazioni nelle ICH-GCP, che devono essere riprese nelle procedure del CER. Anche per questa
procedura il CER può predisporre un modulo standard per il parere scritto con tutti i punti che
devono essere presenti: titolo e data della sperimentazione, i documenti esaminati, il nome e le
qualifiche dei componenti, l'esplicitazione della decisione raggiunta, eventuali prescrizioni
188
vincolanti per il parere positivo, eventuali raccomandazioni aggiuntive, le motivazioni del parere
negativo o di sospensione. È importante - anche per dare un contributo al miglioramento della
qualità della ricerca clinica - fornire tutti elementi di critica che hanno condotto a un parere
negativo, e che potrebbero essere successivamente considerati e corretti in vista di una nuova
presentazione.
L'emanazione del parere, dopo l'approvazione della sperimentazione, non conclude i compiti di
revisione del CER: perciò, dovranno essere previste dal CER anche delle procedure che
permettano di eseguire delle verifiche periodiche sull’andamento della sperimentazione fino alla
sua chiusura formale. Tali verifiche, che richiederanno una segreteria efficiente per
l’aggiornamento della documentazione nel corso dello studio e per lo scadenzario, riguardano
essenzialmente, oltre al follow-up dello studio, gli emendamenti, la valutazione degli eventi
avversi seri, la chiusura dello studio. Le verifiche dovrebbero essere ancora più accurate
soprattutto per quegli aspetti che possono avere conseguenze sulla sicurezza dei soggetti. Perciò
il CER ha il compito di valutare con rigore anche tutte le notifiche che possono pervenire da altri
CER o da altri centri di sperimentazione, e rinnovare o ritirare l’approvazione già espressa sul
protocollo.
Oltre alle procedure per un’idonea registrazione e archiviazione della documentazione, dei pareri
sulle sperimentazioni e dei verbali e della corrispondenza del CER, che potranno essere
sottoposti alle verifiche delle autorità regolatorie o di altri che potranno accedere, secondo le
modalità precedentemente stabilite, un’ultima considerazione va fatta sulle procedure di
revisione dell’attività ed efficienza del CER stesso (la verifica annuale della periodicità delle
riunioni, il numero di protocolli esaminati, il tempo di attesa per il parere, la necessità di
sostituire qualche componente o di inserire delle nuove competenze, ecc.). Il CER dovrebbe,
infatti, avere in se, grazie alla presenza al suo interno di figure qualificate professionalmente e
moralmente, all’adeguata presenza di membri esterni alla struttura, alle competenze
multidisciplinari e nel perseguimento di un continuo miglioramento della qualità del proprio
lavoro, un forte stimolo all’auto-critica e un impegno per la revisione delle proprie procedure
operative e delle attività svolte.
CONCLUSIONI: DARE FIDUCIA MA VERIFICARE
Sebbene il sistema di revisione dei CER sia radicato sulla fiducia nei ricercatori, collaborando con
loro e presupponendo le loro migliori intenzioni, vin sono però importanti responsabilità da
parte del CER di verificare che le intenzioni di proteggere i soggetti di ricerca siano in pratica
messe in atto. Riportando i risultati di alcuni anni di ispezione agli IRB, un ispettore dell’FDA,
George Grob, ha fornito una serie di interessanti osservazioni che possono servire per capire in
quale direzione dovrebbero muoversi tali organismi di revisione della ricerca e quale
trasformazione dovrebbero, dunque, avere.[39]
Grob rileva che vi sono almeno sei elementi principali che contraddistinguono l’attuale situazione
degli CER:
1) In passato la ricerca era condotta per lo più in singole istituzioni universitarie e ospedaliere,
da parte di un singolo ricercatore, con un piccolo numero di soggetti, per cui i CER avevano un
minor carico di lavoro e più tempo per esaminare attentamente i protocolli e valutarne i rischi.
Oggi, la ricerca è condotta spesso da sponsor commerciali, che premono per avere subito
l’approvazione da parte dei CER, trattandosi di studi multicentrici, e vedono di cattivo occhio le
loro richieste di modifiche di tali protocolli. A ciò si aggiunga che la ricerca riguarda spesso dati
genetici e che vi è una forte pressione da parte degli stessi potenziali soggetti di ricerca ad
189
entrare in uno studio, per cui i CER devono accertarsi che vi sia un’adeguata informazione che
assicuri la comprensione dei soggetti della differenza tra ricerca e trattamento.
2) Sebbene il monitoraggio della ricerca dopo l’approvazione costituisca un mezzo importante
per proteggere i soggetti partecipanti, l’enorme mole di lavoro impedisce ai CER di esercitare tale
ruolo, dedicando in genere solo pochi minuti nel corso della riunione.
3) La stessa numerosità dei protocolli da rivedere, e dunque la necessità di fare presto per
esaminarli tutti, rappresenta un motivo di poca attenzione e di superficialità nella valutazione,
rinunciando spesso a convocare un esperto nel settore specifico di ricerca.
4) Né i CER né gli organismi governativi pongono molta attenzione alla necessità di valutare
l’efficacia del lavoro dei CER: migliora effettivamente la modalità di informazione ai fini del
consenso? I soggetti di ricerca hanno effettivamente ricevuto il meglio nella loro condizione? I
CER hanno controllato se le modifiche da loro richieste sono state effettivamente attuate?
5) Spesso, molti dei membri del CER hanno interessi di diversa natura relativamente al
protocollo che essi sono chiamati a valutare e spesso ci sono pochi membri esterni alla istituzione
a garantire l’imparzialità del parere.
6) I CER e le istituzioni di appartenenza forniscono troppo poco aggiornamento e formazione ai
ricercatori e ai componenti stessi del CER.
In conseguenza di questi rilievi viene perciò raccomandato che i CER rivedano le loro procedure
operative e tutto il loro lavoro al fine di ovviare alle carenze riportate e migliorare sempre di più
la protezione per i soggetti di ricerca, nonché il valore e la validità scientifica della ricerca stessa.
Si inserisce a questo punto il recente dibattito che si è sviluppato riguardo al significato che
hanno le sempre più numerose linee guida emanate nell’ambito della sperimentazione sull’uomo
in generale. Richiamando i termini della questione, Jonathan Moreno[40] ha evidenziato come
all’inizio del XX secolo le linee guida sulla sperimentazione, compresa la Dichiarazione di
Helsinki, si basassero sostanzialmente sulla discrezione del ricercatore. Con il tempo, però, si è
andati sempre più verso un’imposizione dall’esterno degli elementi etici che devono essere
salvaguardati nella ricerca. Si sarebbe passati, cioè, attraverso tre diversi gradi di protezione: 1.
debole: tutto veniva affidato alle qualità morali (virtù) del ricercatore; 2. moderata: le virtù
personali erano importanti ma non erano considerate sufficienti, per cui si cominciò a richiedere
il rispetto di alcune linee-guida; 3. forte: la protezione è stabilita per legge ma manca
l’incentivazione per il ricercatore ad esercitare le sue virtù.
La domanda di Moreno è: siamo sicuri che aumentare la protezione da parte di enti esterni sia il
modo migliore per condurre eticamente la ricerca? Con una protezione forte, infatti,
sembrerebbe che i soggetti siano più tutelati, ma nella realtà i codici etici, le linee-guida, il
consenso informato, i Comitati Eticisono solo punti di partenza, certamente irrinunciabili, ma che
non sostituiscono la coscienza etica del ricercatore, che è la migliore garanzia di sicurezza per i
soggetti di ricerca. Ed è alla formazione di questa coscienza che deve puntare anche il CER il
quale non può rinunciare alla sua funzione pedagogica nei confronti dei ricercatori.
190
[1] Foster C., Research Ethics Committees, in Chadwich Ruth (ed.) Encyclopedia of Applied Ethics,
London: Academic Press 1998, 3: 845-852.
[2] Jonsen A.R.The Birth of Bioethics, New York: OxfordUniv.Press; 1998: 125-165
[3] Spagnolo A.G., voce Bioetica, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (a cura di G.
Tanzella-Nitti e A. Strumia), Urbaniana University Press, Roma 2002 pp. 196-214.
[4] Beecher H.K., Ethics and clinical research, The New England Journal of Medicine 1966,
274(24): 1354-1360.
[5] Pappworth M.H., Human guinea pigs, Beacon Press, Boston 1967.
[6] Evans D., Evans M., A decent proposal. Ethical review of clinical research, J. Wiley & Sons,
Chichester 1996, p. 2.
[7] Volmann J., Winau R., The Prussian regulation of 1900: early ethical standards for human
experimentation in Germany, IRB, 1996, 18(4): 9-11; Sass H.M., Reichsundschreiben 1931: preNuremberg German Regulation concerning new therapy and human experimentation, J. Med.
Philos., 1983, 8(2): 99-111.
[8] Spagnolo A.G., Minacori R., Il consenso informato alle sperimentazioni mediche prima e dopo
Norimberga.In: A, Tarantino e R. Rocco (a cura di), Il processo di Norimberga a Cinquant'anni dalla
sua celebrazione (Atti del simposio internazionale, Lecce 5-7 dicembre 1997), Giuffrè Editore,
Milano 1998, pp. 173-191.
[9] Lipsett M.B., Fletcher J.C., Secundy M., Research Review at NIH, HastingsCenter Report, 1979,
9(1): 18-21.
[10] Foster, Research Ethics Committees, p. 846.
[11] Curran W., Governmental Regulation of the Use of Human Subjects in Medical Research: The
Approach of Two Federal Agencies, in Freund P.A. (ed.), Experimentation with Human Subjects,
George Braziller, New York 1970, pp. 402-454.
[12] National Research Act Public Law 93-348, July 12, 1974
[13] U.S. National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and
Behavioral Research, Institutional Review Boards, DHEW Publication No. (OS) 78-0008,
Washington 1978.
[14] The National Commission for the Protection of Human Health Subject of Biomedical and
Behavioral Research: The Belmon Report: Ethical Principles and Guidelines for the Protection of
Human Subject of Research.U.S. Office for Protection from Research Risks (OPRR), National
Institutes of Health (NIH), Public Health Service (PHS), Human Health Service (HHS).
Washington, D.C., 1979.
[15] Come è noto, tali principi vennero poi estesi da Beauchamp e Childress dall’ambito limitato
della sperimentazione sull’uomo a tutti i campi della bioetica (cfr. Spagnolo A.G., I principi della
bioetica nord-americana e la critica del “principlismo”, Camillianum 1999, 20: 225-246.)
[16] Supervision of the Ethics of Clinical Investigations in Institutions. Report of the Committee
appointed by the Royal College of Physicians of London, Br. Med. J., 1967, 3, 429-430.
[17] Royal College of Physicians of London,Guidelines of the Practice of ethics Committees in
Medical Research, London 1984.
[18] National Commission for The Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral
Research, Report and Recommendations: Institutional Review Boards, Publication n. (OS) 78-0008.
Washington D.C: Department of Health, Education and Welfare.
[19] Medical Research Council of Canada, Guidelines on Research Involving Human Subjects,
Ottawa 1987.
[20] Viafora C., Comitati etici: la bioetica all'interno delle istituzioni sanitarie, in A Bompiani (a
cura di ), Bioetica in medicina, CIC Edizioni internazionali, Roma 1996: 434-450.
191
[21] Herranz G., Il Comitato centrale di deontologia spagnolo, in Spinsanti S. (a cura di), I comitati
di etica in ospedale, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1988: 141-148.
[22] Spagnolo A.G., Bignamini A.A., De Franciscis A., I Comitati di Etica fra linee-guida dell'Unione
Europea e decreti ministeriali, Medicina e Morale 1997, 6: 1059-1098.
[23] Levine R.J., Ethics and Regulation of Clinical Research, 2d ed., Urban and Schwarzenberg,
Baltimore 1986.
[24] Levine C., Has AIDS Changed the Ethics of Human Subjects Research?, Law, Medicine and
Health Care, 1988, 16(3-4): 167-173.
[25] L'accesso all'aborto negli Stati Uniti, dopo la sentenza Roe versus Wade del 1973, è stato
riconosciuto come diritto di privacy della donna, e quindi sottratto al controllo dei comitati.
[26] US President's Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical
and Behavioral Research,Deciding to Forego Life-Sustaining Treatment, US Government Printing
Office, WashingtonDC 1983.
[27] International Conference on Harmonisation of Technical Requirements for Regulation of
Pharmaceuticals for Human Use, Tripartite guidelines for good clinical practice, International
federation of Pharmaceutical manufacturers Association, Geneva 1996.
[28] Cfr. A.G. Spagnolo - D. Sacchini - G. Torlone - A.A. Bignamini, Il laboratorio del Comitato Etico.
Istituzione e procedure operative standard, Medicina e Morale, 1999, 2: 221-263.
[29] World Health Organization, Operational Guidelines for Ethics Committees That Review
Biomedical Research, Geneva 2000.
[30] Ad esempio, la Carta per gli Operatori Sanitari, emanata dal Pontificio Consiglio per la
Pastorale degli Operatori Sanitari o le Ethical and Religious Directives for Catholic Health Care
Services.
[31] Ministero della Sanità, Decreto Ministeriale 15 luglio 1997, Recepimento delle linee guida
dell'Unione europea di buona pratica clinica per la esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei
medicinali, Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, serie generale, suppl. ord., 18 agosto 1997.
[32] European Forum for Good Clinical Practice, Guidelines and Recommendations for European
Ethics Committees, revised edition 1997; pubblicata anche nella traduzione in italiano su
Medicina e Morale, 1998, 5:1037-1057.
[33] In Italia, i CER “dovrebbero preferibilmente includere: due clinici, un biostatistico, con
documentata esperienza e conoscenze sui trias clinici randomizzati, un farmacologo, e, come
componenti ex officio, un farmacista, il direttore sanitario o il direttore scientifico della struttura
stessa e un esperto in materia giuridica; gli altri componenti dovrebbero avere qualifiche e
competenze in medicina generale, bioetica, settore infermieristico, volontariato (Ministro della
Sanità, Decreto 18.3.1998 Linee guida di riferimento per l’istituzione e il funzionamento dei
comitati etici, gazzetta ufficiale della repubblica italiana, serie generale, n.122, 28.5.1998).
[34] É quanto raccomanda, ad esempio, per l’Italia il DM del 18.3.1998: “È opportuna una
significativa presenza di componenti non dipendenti dalla istituzione che si avvale del Comitato e
di componenti estranei alla professionalità medica e alle professionalità tecniche correlate.
L’esigenza di rendere manifesta l’assoluta imparzialità dell’organo richiede, inoltre, che la
presidenza del Comitato venga preferibilmente affidata a componente non dipendente dalla
istituzione”.
[35] Tale evenienza viene esplicitamente enunciata nella situazione italiana, ad esempio, nel DM
del 18.3.1998.
[36] La stessa OMS successivamente al documento Operational Guidelines ha emanato un nuovo
documento che si propone di fornire delle linee-guida su come valutare le pratiche di revisione
etica da parte dei CER (WHO, Surveying and Evaluating Ethical Review Practices. A complemetary
guideline to the Operational Guidelines for Ethics Committees that review biomedical
192
research, Geneva, February 2002). E contemporaneamente, l’European Forum for Good Clinical
Practice ha fornito le European Guidelines for Auditing Independent Ethics Committees, EFGCP
2002, www.efgcp.org)
[37] World Health Organization, Operational Guidelines for Ethics …, n. 6.3.
[38] Berto D., Peroni M., Milleri S., Spagnolo A.G., Evaluation of the readability of information
sheets for healthy volunteers in phase-I trials, Eur. J. Clin. Pharmacol 2000, 56: 371-374.
[39] Grob G., Institutional Review Boards:a time for reform, US Department of Health and Human
Services, Office of Inspector General, 1998.
[40] Moreno J.D., Goodbye to all that. The end of moderate protectionism in human subjects
research. HastingsCenter Report 2001; 31(3): 9
193
JUAN DE DIOS VIAL CORREA
L’ETICA DELLA SPERIMENTAZIONE SUGLI ANIMALI
Gli animali sono stati spesso maltrattati fino alla crudeltà. Capita spesso che la caccia, le guerre, la
nostra necessità di nutrimento e di sperimentazioni, la manipolazione industriale, ecc. siano
andate ben oltre ogni limite ed abbiano procurato estreme ed inutili sofferenze agli animali, per
non parlare della estinzione di alcune specie animali, del degrado dell’ambiente e
dell’impoverimento di tutte le vite, inclusa ovviamente quella umana.
La biologia sperimentale si è sviluppata prima che fossero conosciuti anche i più rudimentali
metodi di anestesia. Per fare solo un esempio particolarmente incisivo, il ruolo fisiologico del
dolore localizzato nella zona delle fibre nervose delle radici posteriori, fu stabilito in
sperimentazioni su animali non anestetizzati, che fece sottolineare a Müller[1]: “Diese Versuche
sind bei hoheren Thieren die grausamsten die man erdenken kann”. Le condizioni di custodia
degli animali sono state spesso pessime e nella maggior parte dei casi sembra che il nutrimento
ed il mantenimento generale sia stato tenuto allo stretto necessario per assicurare risultati
sperimentali attendibili. Comunque, dal XIX secolo in poi, sono stati fatti grandi sforzi in molti
paesi per prevenire la crudeltà sugli animali, non solo nella vita di tutti i giorni ma sempre di più
negli animali utilizzati per le sperimentazioni. Gli ovvi vantaggi arrecati dall’utilizzazione degli
animali (nella sperimentazionea salvaguardia della vita e della salute degli esseri umani; il
risparmio in termini di costi e di tempi per la ricerca), sono stati sempre più bilanciati rispetto
alle sofferenze inflitte. Come conseguenza sono state applicate regolamentazioni più forti ed è
stata fatta maggiore attenzione, nello stesso momento in cui è stato fatto il possibile per spiegare
all’opinione pubblica (l’opinione pubblica in generale, i legislatori ed i media) la necessità di
ricorrere alla sperimentazione animale.
Comunque lo sviluppo delle biotecnologie pone nuovi interrogativi e un nuovo accento sulla
sperimentazione animale. La clonazione a scopo industriale e gli xenotrapianti possono essere
citati tra gli aspetti che hanno suscitato notevoli interessi. Anche l’ambito più generale della
manipolazione genetica, degli animali transgenici, ecc. merita di essere preso in considerazione.
Anche solo per una maggiore consapevolezza sociale, siamo oggi ad un punto in cui lo statuto
etico degli animali da sperimentazione deve essere preso in considerazione in maniera più
approfondita rispetto al passato.
L’etica riguarda “il perchè” delle azioni umane, in risposta alla domanda “cosa dobbiamo fare”?
Alla base di ogni giudizio etico[2] risiede una esperienza morale che è paragonabile ad un dato
empirico appreso dalla ragion pratica. L’azione può essere giudicata come approvata all’interno
della mia tradizione, esperienza, ad una prima considerazione e ad un primo approccio, in breve
potrei sentirmi inclinato all’azione. Un passo successivo corrisponde all’intelligenza che raffinerà
questo giudizio e cercherà di identificare che cosa è che attira, quali sono i valori positivi, quali gli
aspetti della realtà percepita che richiedono la mia approvazione. Questo sforzo porterà anche
all’identificazione dei valori negativi, nel senso che attraggono in quanto realtà fallaci. Il giudizio
attraverso l’inclinazione viene così trasformato in un giudizio di valore.
Questo approccio è più vicino ad una saggezza pratica che ad un ragionamento discorsivo e
richiede un’apertura al bene della realtà, ad es. una disposizione a lasciarsi attrarre o diventare
desideroso della pienezza dell’essere. Quando questa disposizione è profondamente radicata,
l’azione fluisce dalla nostra esperienza. Questa propensione dell’anima verso le azioni giuste è ciò
che intendiamo con il termine “virtù”.
194
Nel caso dell’atteggiamento da tenersi verso gli animali, noi avvertiamo l'inclinazione a prenderci
cura di loro, a rispettarli e anche ad amarli. La crudeltà o la trascuratezza gratuita verso gli
animali suscita, d’altra parte, sentimenti di disapprovazione. Se sottoponiamo questa
“inclinazione” ad una analisi più sottile, scopriamo motivazioni biologiche, psicologiche e
culturali che stanno alla base di tale sentimento e lo rafforzano. Scopriamo “valori” in certi
atteggiamenti nei confronti degli animali.
Allargano la prospettiva ad altri ambiti della nostra esperienza, ci accorgiamo di situazioni che
hanno a che fare con il nostro rapporto con gli animali. Di questo tipo sono gli atteggiamenti
verso gli animali selvatici, o anche gli esseri viventi in generale. Scopriamo un valore nella
multiforme realtà che chiamiamo “vita”, e percepiamo che ciascuna delle sue manifestazioni
lancia una particolare sfida al comportamento dell’uomo. Questo è strettamente connesso alla
scoperta che in qualche modo siamo legati ad ogni vita e che dipendiamo dalla vita per vivere.
Comunque al livello dell’analisi dei valori, la questione del maltrattamento degli animali è
diventata profondamente connessa con alcune delle questioni filosofiche e scientifiche più
urgenti e dibattute del nostro tempo, cioè quelle che riguardano la vita in generale e l’ambiente. Il
giudizio pratico e la ricerca di valori sono sostituiti da argomentazioni ideologiche. In questa
prospettiva si tratta di offrire una spiegazione razionale circa le relazioni fra l’uomo, la vita e
l’ambiente.Particolarmente pressante è la richiesta di fondazione per un'etica del
comportamento umano rispetto agli esseri viventi (ed in minor misura rispetto ai non-viventi).
“L’etica dell’ambiente” ed anche la "filosofia dell’ambiente" stanno diventando argomenti di
ampia discussione negli ambienti scientifici soprattutto fra le generazioni più giovani. Anche se
non è questo il contesto per una trattazione sistematica dell’argomento, può essere utile parlarne
brevemente a causa di un crescente consenso basato suposizioni completamente incompatibili
con l’etica Cristiana.
Un giudizio di valore richiede una delucidazione sullo statuto dell’animale e degli esseri viventi
più in generale. Questo è reso più urgente dal momento che sia negli ambienti scientifici, sia
nell’opinione pubblica ferve una corrente culturale che interpreta l’esistenza dell’uomo come un
prodotto dell’evoluzione biologica nell'ambito di una visione totalmente materialistica. In questa
concezione ampiamente diffusa, non possono essere a rigore invocate differenze qualitative per
distinguere l’uomo dal resto delle cose viventi. Non ci sono dubbi che in questo modo la specifica
dignità dell’uomo risulta soppressa, e che il risultato finale non consista tanto nel dare maggiore
dignità agli animali, quanto nel ridurre quella dell’uomo.
La storia dell’evoluzionismo materialistico getta una luce sul significato di alcune delle presenti
considerazioni sullo statuto degli animali. Durante il XIX secolo l'insorgere del materialismo
trovò un potente appoggio nell’idea della selezione naturale come il meccanismo che guida la
differenziazione nel mondo degli esseri viventi. Il carattere graduale e non finalistico
dell’evoluzione sembrò essere in armonia con la radicalità della interpretazione materialistica
della realtà. I Primati non umani, non venivano più visti come qualitativamente differenti dagli
uomini, e questo pose le basi per una nuova e probabilmente più alta considerazione della
condizione degli animali. Spesso si trascura il fatto che questa pretesa rivalutazione degli animali
nella prospettiva dell’evoluzione in realtà è accompagnata da una svalutazione della condizione
umana. Questo era comunque perfettamente chiaro ai grandi apologisti dell’evoluzione monistica
e materialistica nel XIX secolo. Ernst Haeckel, insigne biologo tedesco, così afferma: "[pensiero e
razionalità] si trovano certamente nei vertebrati superiori, soprattutto nei mammiferi placentati,
la classe da cui è derivato l’uomo. Il grado di coscienza dei primati, dei cani, degli elefanti ecc.,
differisce da quella degli uomini soltanto per grado, non qualitativamente, ed il grado di
coscienza che separa questi placentati “razionali”, dalla più bassa razza degli uomini ( i Vedda
ecc.,), è minore del corrispondente intervallo tra le razze non civilizzate ed i più alti modelli di
195
profonda umanità ( ad es. Spinoza, Goethe, Lamarck, Darwin ecc.)…”[3] ( E’ ben noto che idee
come queste hanno ispirato crudeli sperimentazioni etnologiche, come lo erano le esposizioni
degli indiani del sud America nei musei e nei giardini zoologici in Europa. Inoltre esse hanno
avvalorato l’idea che qualsiasi specifica considerazione dello statuto dell’uomo sia
insostenibile).[4]
Una delle tesi più influenti proposte in questa prospettiva è espressa nella massimadi Peter
Singer“Tutti gli animali sono uguali”, in cui naturalmente s’intende comprendere gli uomini tra gli
animali. [5]
Un approccio utilitaristico verso gli animali richiederebbe quindi l’identificazione di un “interesse
comune” che dovrebbe essere ugualmente considerato per tutti e per ciascuno individuo. Singer
respinge come sostanzialmente irrilevante l’usuale confronto fra gli animali sulla base del loro
potere cognitivo e adotta l’idea di Jeremy Bentham secondo cui la domanda realmente rilevante
rispetto agli animali- se ci si sta interrogando circa la bontà del trattamento cui sottoporli -, è
“..possono soffrire?” [6] .
Sembra ovvio che gli animali possano soffrire e che reagiranno con forza contro qualche forma di
dolore o sofferenza. Ma sembra che non ci siano valide ragioni per equiparareil loro “tipo” di
sofferenza con quella degli uomini, inestricabilmente collegata con riverberi di tipo cognitivo e
morale. Sembra che le valutazioni di Singer implichino un antropomorfismo infondato.
Singer ha presentato un caso eloquente contro l’uccisione degli animali sia in vista del nostro
sostentamento, sia a scopi scientifici, così come in rapporto alle crudeli condizioni di
allevamento. Secondo questa prospettiva gli animali considerati individualmente sono assimilati
agli esseri umani, senza che risulti un particolare interesse nella difesa delle specie. La
valutazione si focalizza solo sui singoli animali e sulle loro sofferenze.
Questa posizione è stata aspramente messa in discussione, tra gli altri, da Regan [7] . Egli sostiene
che l’uguaglianza della condizione non è logicamente seguita da nessun dovere di equità di
trattamento, ed inoltre che sarebbe normalmente impossibile fare una valutazione attendibile di
ciò che è bene e male rispetto ad una qualsiasi azione sugli animali. Se non è garantito nessun
diritto assoluto su nessuno, sarebbe giusto che la sofferenza di uno possa essere un mezzo
perfettamente accettabile per assicurare il benessere di un numero più grande. Regan afferma
che le deficienze dell’etica utilitarista in difesa degli animali possono essere superate solo dal
riconoscimento dei diritti del singolo animale.
Entrambe queste posizioni hanno in comune l'assimilazione dello statuto degli animali,
considerati individualmente, con quello degli uomini.
Queste posizioni devono essere distinte rispetto ad altre teorie filosofiche che pongono l’uomo
come uno dei tanti elementi integrati nel complesso degli esseri viventi ( e non viventi). Di questo
tipo è l’etica della terra di Leopold[8] e la “deep ecology” di Naess[9] e altri. Questi approcci
olistici non hanno una relazione diretta con il trattamento degli animali, proprio perché la
sofferenza è una parte del corso naturale della vita di ogni animale. E’ comunque importante
ricordarli in questo momento per due ragioni principali. Prima di tutto essi sono il retroterra
culturale dell’etica relativa agli interventi sulla Natura dei nostri giorni; ed in secondo luogo essi
condividono con l’etica sopra citata di Singer e Regan la prospettiva che per principio depriva
l’uomo di ogni speciale considerazione. Il pensiero di Leopold esige che la considerazione morale
sia estesa alle categorie che sono state tradizionalmente escluse, e comincia a tracciare un
percorso verso la valorizzazione di un equilibrio dell’ecosistema.Naess (ibid) va oltre,
sottolineando le relazioni biologiche piuttosto che quelle individuali che sono viste come
subordinate ad una rete d’interazioni.
Nonostante i loro pregiudizi depersonalizzanti, le etiche fondate sulla Natura sono di un certo
interesse per il fatto che esse rappresentano un tipo di reazione contro le etiche prevalenti,
196
soprattutto quelle di tendenza utilitaristica. La Natura non è vista come un oggetto da depredare
attraverso lo sfruttamento tecnologico. Se l'aspetto positivo di queste etiche della natura è di
regolare l’azione dell’uomo, questo significa che si stanno riscoprendo da molti valori
oggettivamente buoni, nonostante il fatto che questi valori sembrano essere grossolanamente
distorti, ed esasperati.
Autori come Singer e Regan cercano quindi di estendere agli animali- almeno agli animali
superiori- la specifica dignità conferita agli uomini, mentre l’approccio ecologico integra l’uomo
nell'insieme della natura, le cui leggi comprendono quelle di ogni essere vivente.
Di conseguenza, mentre secondo la prospettiva di Singer la sofferenza dell’animale è un male da
minimizzare, in quella di Leopold, questafa parte integrante dellecomplesse dinamiche della vita.
L’approccio di Singer porta con sé il segno delle sue radici individualistiche ed inevitabilmente va
contro l’approccio olistico.
Le prospettive utilitaristiche ed olistiche sono deformazioni di sistemi di valore che richiedono di
essere integrati in una rinnovata prospettiva antropocentrica, e che spaziano dalla compassione
per gli animali e la ripugnanza per lesofferenze inflitte loro inutilmente, alla partecipazione
dell’uomo nell’insieme della vita della terra.
Per quanto distanti da una prospettiva Cristiana, tutte queste etiche suggeriscono un rispetto per
la vita più profondamente radicato. E’ il valore della vita in se che emerge da questeconfuse
"fondazioni filosofiche". Sottoforma del rispetto della vita emerge una nuova consapevolezza del
fatto che esistano atteggiamenti ed azioni che sono oggettivamente giuste o sbagliate. Il ruolo
della Natura tende a supplire quello dello stesso Dio, ma in questo modo si richiede
inevitabilmente un'indagine più approfondita sul significato della vita umana. Questo
atteggiamento indica l'affermarsi di una sorta di “religione naturale” che esige l'abbandono del
ruolo autocratico ed ateo tanto spesso assunto dall’uomo[10].
La Bibbia presenta una prospettiva ben diversa da quella di qualsiasi “religione naturale”. L’uomo
è stato creato ad immagine di Dio, con il mandato, ricevuto dal suo Creatore, di soggiogare e di
dominare la terra[11]. All’uomo era stato affidato l’intero Creato sapientemente disposto
dall’onnipotenza di Dio[12]. La creazione era stata considerata da Dio come "cosa buona"[13] ed
il potere conferito all’uomo non poteva essere interpretato come il diritto di spadroneggiare e
depredare, quanto di adempiere ad un mandato che “ riflette l’azione stessa del Creatore
dell’universo”[14]. Il volere di Dio è riaffermato nella Genesi quando l’uomo è posto nel Giardino
dell’Eden per coltivarlo e custodirlo[15]. L’uomo è responsabile della creazione di Dio nei
confronti dello stesso Dio.
I recenti sviluppi sperimentali, soprattutto quelli riguardanti la manipolazione del genoma hanno
nuovamente portato alla luce il bisogno di una particolare attenzione verso gli animali sia per
evitare inutili crudeltà nei loro confronti sia per evitare impatti dannosi sull’ambiente e causa di
una incontrollata manipolazione del genoma. In particolare bisognerebbe essere attenti alle
nuove questioni derivate dagli animali transgenici, animali il cui assetto genetico è alterato dalla
introduzione di uno o più geni esogeni.In questo caso non è solo la condizione dell’animale
sperimentale ad essere oggetto di particolare interesse, compresa la necessità di risparmiare
inutili sofferenze, ma anche la condizione della progenie, l’attenzione ad evitare l’alterazione
della biodiversità ed un possibile impatto sull’ambiente.
La Pontificia Accademia Per la Vita ha pubblicato un documento sugli xenotrapianti, che affronta
anche i problemi etici della transgenesi e della sperimentazione sugli animali più in generale.
Come afferma il documento: “…va riaffermato il diritto ed il dovere dell'uomo, su mandato del
suo Creatore e mai contro l'ordine naturale da Lui stabilito, di agire sul creato e nel creato, anche
servendosi di altre creature, per raggiungere il fine ultimo di tutta la creazione: la gloria di Dio e
la realizzazione piena e definitiva del suo Regno, attraverso la promozione dell'uomo. Risuonano
197
ancora in tutta la loro verità le parole di S. Ireneo di Lione: «L'uomo vivente è la gloria di Dio e
vita dell'uomo è la visione di Dio» ” (Adv.Haereses,4,20,7)[16].
"L'uguaglianza tra animali e uomini” postulata da Singer, ed i “diritti degli animali” di Regan sono
espressioni adoperate in un senso naturale e giustificabile, ma è solo nella specie umana che si
possono trovare individui capaci di rendersi conto di esse e di aderire agli obblighi che
potrebbero imporre. Analogamente, è solo l’uomo ad essere consapevole degli obblighi nei
confronti della natura e questa consapevolezza lo pone in una posizione unica di fronte
all’universo. L’uomo può sentirsi responsabile del sano ed armonioso sviluppo della vita, ma egli
richiede a pieno titolo di essere il soggetto di diritti inviolabili. L’uomo trascende l’insieme degli
esseri e tutte le analogie tra la sua condizione e quella degli altri esseri hanno un valore molto
relativo.
Come afferma il documento sopra citato sugli Xenotrapianti (16) “...un semplice sguardo alla
lunga vicenda umana sulla Terra è sufficiente per far emergere con tutta evidenza un dato
inconfutabile: è l’uomo che, da sempre, governa le realtà terrene, gestendo gli altri esseri, viventi
e non, secondo determinate finalità. In particolare, l’uomo si è sempre servito degli animali per i
suoi bisogni primari (alimentazione, lavoro, vestiario, ecc.), in una sorta di «cooperazione»
naturale che ha costantemente segnato le varie tappe del progresso e dello sviluppo della
civiltà…”.
La coscienza di questa condizione potrebbe indurre erroneamente l’uomo a trasformare questa
unicità in una relazione di dominio della Natura. La ragione umana condannerà comunque ogni
crudeltà o inutile maltrattamento degli esseri viventi. “…il sacrificio degli animali può essere
giustificato solo se richiesto dal raggiungimento di un bene rilevante per l'uomo…Tuttavia (in
ogni) caso è eticamente richiesto che, nell'usare gli animali, l'uomo osservi alcune condizioni
quali: evitare agli animali stessi sofferenze non necessarie, rispettare i criteri di vera necessità e
ragionevolezza, evitare modificazioni genetiche non controllabili che possano alterare in modo
significativo la biodiversità e l'equilibrio delle specie nel mondo animale. Dal punto di vista
teologico e morale…si lasciano aperte le valutazioni sulla diversità di sensibilità tra animali di
specie differenti…” (16).
L’appropriato rispetto nei confronti degli animali e l'attenzione ad evitarne inutili sofferenze
sono atteggiamenti che aiutano a riconoscere lo splendore della vita e che, se inadempiuti,
risultano degradanti ed autodistruttivi per l’uomo stesso. Allo stesso tempo chi si prende cura
degli esseri viventi imita il Creatore al cui posto soltanto, l’uomo può agire per contribuire al
progresso universale. Il prendersi cura della vita e degli esseri viventi è un modo di conoscere il
debito dell’uomo verso Dio.
198
[1] MÜLLER JOHANNES.Handbuch der Physiologie des Menschen Ersten Bandes zweit Abtheilung
Coblenz Verlag von J Hölseher, 1833, pp. 649-650.
[2] MARITAIN JACQUES.An introduction to the basic problems of moral phiosophy Magi Books Inc.
Albany, N.Y. (1988).(Translated from Neuf leçcon sur les notions premières de la philosphie
morale, first published in Paris, 1950 by Pierre Taqui) Chapters 2 and 3.
[3] HAECKELERNST.The Riddle of the Universe.Published 1899, translatedfrom Die Welträthsel,
1899 by Joseph McCabe, Prometheus Books, 1992), p. 182.
[4] AGUILERA NELSON, CLAUDIA ESPINOZA. Presencia de indígenas de Fuego. Patagonia en
teritorio europeo. In Boletín surdelsurpatogonia.com/erase una vez/pueblos, 66n1.htm.
[5] SINGER PETER.All animal are equal.Originally published in Philosophic Exchange, vol I, n5:
243-257 (1974).Reproduced in Environmental Philosophy.Zimmermann HE, Callicott JB,
Sessions G, Waqrren Kj; Clark J. Editors.Prentice Hall, N.J., 26-40 (2002).
[6] Cit. In (5), p.30.
[7] REGAN TOM. Animal rights, human wrongs.Originally appeared in Environmental ethics.Vol 2,
n2, 99-120 (1980).Reproduced in Environmental Philosophy.Zimmermann HE, Callicott JB,
Sessions G. Warren KJ, Clark J. Editors.Prentice Hall, N. J. 41-55 (2001), p.48.
[8] LEOPOLD ALDO.Originally appeared as The Land Ethic.In “A sand country almanac and
asketches here and there”,Oxford University Press, 1949.Reproduced in Environmental
Philosophy.Zimmermann HE. Callicott JB, Sessions G. Waqrren KJ, Clark J. Editors, Prentice Hall,
N.J., 97-110 (2001), pp 109-110.
[9] NAESS ARNE.The deep ecological movement: some philosophical aspects. Originally appeared
in Philosophical Inquiry 8: 1-2 (1986).Reproduced in Environmental Philosophy.Zimmermann
HE, callicott JB, Sessions G. Waqrren KJ, Clark J. Editors, Prentice Hall, N.J., 185-203 (2001), pp
189-190.
[10] FISSO MARIA BEATRICE, ELIO SGRECCIA.Etica dell’ambiente.Medicina e Morale
1996/6:1057-1082, pp 1068 and 1074.
[11] H.H.JOHN PAUL II.Encyclical Letter Laborem Exercens n4.
[12] Gen. 1:26-28.
[13] Gen.1.
[14] H.H.JOHN PAUL II.Encyclical Letter Laborem Exercens n4.
[15] Gen. 2:15.
[16] PONTIFICAL ACADEMY FOR LIFE.Prospects for Xenotransplantation.Librería Editrice
Vaticana (2991), nn.7, 8,15.
199
ADRIANA LORETI-BEGHE’
Normativa internazionale e ricerca biomedica
Conquiste attuali e prospettive future
Sommario:
1. Introduzione
2. Libertà di ricerca scientifica e tutela dei diritti umani
3. La Convenzione di Oviedo e il Protocollo addizionale sulla ricerca biomedica
4. Manipolazioni genetiche e clonazione
5. Il diritto all’integrità psico-fisica nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
6. Conclusioni.
1. Se e vero che la “rivoluzione” scientifica e tecnologica che ha caratterizzato l’ultimo decennio
del secolo trascorso (e senz’altro segnerà gli anni a venire) passa anche attraverso l’elaborazione
di idonee norme giuridiche che disciplinino le applicazioni delle moderne tecnologie (non solo di
diritto interno, ma anche e soprattutto di diritto internazionale e comunitario), i giuristi possono
legittimamente fregiarsi del (o almeno condividere il) titolo di “architetti del futuro”.
Personalmente, faccio mia questa osservazione per una riflessione più profonda. Sono infatti
convinta che le dimensioni assunte dalla ricerca biomedica evidenzino l’esigenza di assicurare
efficaci forme di garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo, ma al contempo sono anche convinta
che la disciplina giuridica e la tutela giurisdizionale non esauriscono la gamma delle garanzie
possibili. Al riguardo, vorrei ricordare che la norma giuridica raccoglie bisogni, spinte e
valutazioni che nascono prima e fuori dal mondo del diritto, sulla base di un processo
preliminare di formazione del consenso sociale. Se il consenso costituisce la base per qualsiasi
disciplina giuridica, ne consegue che anche il riconoscimento esplicito dei diritti fondamentali e
la possibilità di esperire rimedi giurisdizionali a loro tutela devono essere preceduti (o integrati)
da specifiche misure volte a garantire ed attuare tali diritti anche mediante l’abolizione di
ostacoli di natura anzitutto “culturale”, come dimostra, ad esempio, l’esperienza acquisita nel
campo delle discriminazioni fondate sul sesso.
Mi sembra quindi necessario introdurre o perfezionare, accanto ai divieti di selezioni eugenetiche
e di utilizzo a fini discriminatori delle tecniche di ingegneria genetica, solo per citare alcuni
esempi, i processi di educazione ed informazione atti a garantire una piena trasparenza nella
comunicazione degli obiettivi della ricerca e della sperimentazione biomedica e ad assicurare, in
modo durevole, la fiducia e la partecipazione pubblica ai programmi di indagine genetica.
Occorre, in altri termini, stimolare e sondare adeguatamente il consenso sull’orientamento
complessivo della ricerca scientifica e tecnologica, perché la gestione della conoscenza e del
sapere tecnico-scientifico nella società contemporanea richiede una sempre maggiore possibilità
di partecipazione e di “condivisione” democratica.
Nel contesto descritto è particolarmente avvertita l’esigenza di assicurare forme di garanzia
dell'eticità e della legittimità della ricerca e della sperimentazione biomedica ulteriori e diverse
da quelle tradizionali, anche mediante la “associazione” dell’opinione pubblica e dei massmedia nella fase di elaborazione delle decisioni politiche o legislative concernenti gli sviluppi e le
applicazioni delle tecniche di ingegneria genetica. Il rischio insito nello sviluppo senza controllo
della biomedicina e delle biotecnologie è sempre più avvertito dagli individui e,
conseguentemente, il diritto di conoscere (“right to know”) dei cittadini rappresenta sempre più
un’esigenza imperativa. In questa prospettiva, vanno individuate modalità e procedure adeguate
200
delle scelte tecnico-scientifiche che sono alla base delle trasformazioni più avvertite dalla società,
allo scopo di rendere effettivo il diritto all’informazione ed alla partecipazione ai processi
decisionali relativi ai temi della scienza e della ricerca applicata[1].
Un esempio importante in tal senso è costituito dalla istituzione di specifici gruppi di lavoro nel
quadro delle iniziative collegate alla attuazione del Libro bianco sulla governance europea,
presentato dalla Commissione europea nel 2000. Nel contesto di tali iniziative, volte a colmare il
lamentato deficit democratico del metodo di governo comunitario, sono stati infatti previsti due
gruppi di esperti, uno incaricato di formulare proposte nel campo della democratizzazione del
sapere scientifico, particolarmente nei settori della salute e della sicurezza, l’altro responsabile
per le iniziative connesse alla partecipazione della società civile[2].
Ai fini indicati, grande rilievo assume anche la diffusione a livello internazionale, europeo,
nazionale e locale di organismi di vigilanza e di forum consultivi, imparziali e indipendenti (quali i
Comitati etici, su cui tornerò più avanti), che possano farsi espressione della “sostenibilità”
complessiva delle sperimentazioni in linea con i principi di sussidiarietà (nel senso lato di
avvicinare il più possibile i cittadini ai gangli decisionali) e di precauzione. In particolare, il
principio di precauzione, rapidamente assurto al rango di principio generale di diritto (in specie
di diritto comunitario), implica l’adozione di una strategia strutturata di adozione delle decisioni
che vede nella valutazione preventiva, nella gestione e nella comunicazione dei rischi
configurabili, nonché nel coinvolgimento di tutte le parti interessate, i suoi elementi essenziali.
Tale principio, come è stato rilevato, può considerarsi un esempio applicativo di un modo per
interpretare il sapere scientifico e si applica quando lo stato delle conoscenze scientifiche in un
determinato settore non permette di apprezzare compiutamente i rischi collegati o conseguenti
alle applicazioni tecnologiche delle scoperte scientifiche e le probabilità che essi hanno di
verificarsi, anche sotto il profilo temporale[3].
Un preciso obbligo giuridico deriva, in tal senso, agli Stati parti della Convenzione di Oviedo
dall’art. 28 dell’Accordo, che pone a carico dei Paesi contraenti l’obbligo di vigilare affinché i
problemi fondamentali posti dallo sviluppo e dalle applicazioni della biologia e della medicina
formino oggetto di consultazione e dibattito pubblico appropriati, in particolare alla luce delle
implicazioni mediche, sociali, economiche, etiche e giuridiche pertinenti. La sensibilizzazione e
l’educazione del pubblico sono dunque obblighi positivi assunti dagli Stati che hanno ratificato lo
strumento internazionale. D’altra parte, appare realmente necessario introdurre nuove forme di
mediazione tra scienza e società, soprattutto in società multiculturali e multietniche come quella
contemporanea, poiché è diffusamente avvertito il progressivo “scollamento” tra scienza e
società e l’assenza di comuni fondamenti di eticità e di legittimità della ricerca scientifica. Ciò
rischia, evidentemente, di minare alle basi i diritti fondamentali dell’uomo, con riferimento sia al
loro riconoscimento, che alle forme ed agli strumenti di tutela, primi tra tutti l’azionabilità diretta
da parte dell’interessato.
Può dirsi, pertanto, che la regolazione giuridica delle questioni bioetiche non può precedere la
maturazione, nel corpo sociale, di scelte morali e di opzioni etiche sufficientemente condivise e
consolidate sulle soluzioni da perseguire, alla cui realizzazione il diritto è chiamato ad offrire il
supporto degli strumenti più idonei. Sarà così possibile non solo contemperare le esigenze
individuali di controllo sull’uso del materiale genetico (e, segnatamente, delle informazioni in
esso contenute) con le più generali esigenze di tutela pubblica delle risorse genetiche, ma anche
fornire un contenuto più preciso alle nozioni di “patrimonio comune dell’umanità” e di
“responsabilità intergenerazionale”.
2. La libertà di ricerca scientifica è un principio ampiamente affermato sia nelle costituzioni dei
singoli Stati che negli strumenti internazionali.
201
E’ vero, però, che non sempre è agevole distinguere tra ricerca pura (che consiste essenzialmente
nell’ampliamento delle conoscenze dei fondamenti che sono alla base dei fenomeni osservabili) e
ricerca applicata (l’attività di investigazione rivolta sì all’acquisizione di nuove conoscenze, ma
finalizzata ad obiettivi precisi), trattandosi di due fasi del medesimo processo cognitivo, che, per i
caratteri della scienza moderna, si presenta necessariamente come sperimentale e da cui
derivano, in molti casi, non solo conseguenze pratiche ed applicative, ma implicazioni di rilievo
per lo sviluppo ulteriore della ricerca scientifica pura.
E’ altrettanto vero che i risultati senza precedenti del progresso scientifico e tecnologico,
succedutisi negli ultimi anni ad un ritmo travolgente, sembrano destinati a penetrare i segreti
dello spazio, della materia e della vita e ad incidere sempre più, in futuro, sull’ambiente,
l’ecosistema e l’habitat dell’uomo. Da questo punto di vista, va appena precisato che la biologia
molecolare e le tecniche di ingegneria genetica (le c.d. scienze della vita) costituiscono i settori
maggiormente fecondi di novità davvero rivoluzionarie. Le biotecnologie, segnatamente, si
differenziano dalle altre moderne tecnologie pure sviluppatesi in anni recenti: basti rilevare, in
proposito, il fabbisogno di materie prime particolarissime e diverse rispetto a quelle tradizionali
(i geni, considerati “l'oro verde” del XXI secolo), i significativi riflessi sulla salute umana derivanti
dalle applicazioni della ricerca biotecnologica o ancora la possibilità che le biotecnologie
influenzino i valori posti a fondamento della civile convivenza verso sviluppi non del tutto
conformi ai principi dello stato di diritto, come anche l'opinione pubblica sembra ormai percepire
chiaramente. In particolare, i progressi conseguiti in questo settore destano la preoccupazione,
evidenziata dal Parlamento europeo fin dal 1989, circa il possibile utilizzo discriminatorio dei
risultati delle biotecnologie, soprattutto a fini di controllo sociale e demografico[4]. In tal senso
possono essere interpretate anche le osservazioni di chi lamenta i rischi derivanti da una
«seconda Genesi», concepita artificialmente nei laboratori di biotecnologia dei Paesi
industrializzati e intesa a ripopolare la biosfera terrestre secondo criteri di selezione
eugenetica[5].
I rischi collegati e conseguenti all’utilizzo improprio dei risultati della ricerca scientifica,
evidenziati da fenomeni celebri quanto tragici (da Hiroshima alla crisi della “mucca pazza”),
dimostrano non solo la duplice valenza del progresso tecnico-scientifico, ma anche l’esigenza di
disciplinare l’esercizio delle attività che sono alla base di tale progresso in modo da indirizzarne
gli sviluppi futuri verso il conseguimento di risultati vantaggiosi per l’intera umanità e utili al
rafforzamento delle basi della civile convivenza. In questo contesto, la tutela internazionale dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali è assurta al centro di un’ampia riflessione, in quanto
l’avvento delle moderne tecnologie, soprattutto in campo biomedico, suscitano preoccupazioni ed
incertezze, comportando nuove minacce alla libertà degli individui, e sviluppano un articolato
dibattito sulla esistenza di nuovi diritti e sulla esigenza di garantirne il rispetto: si pensi, ad
esempio, alle modificazioni genetiche le cui “ricadute” possono interessare non solo i soggetti
direttamente interessati, ma anche le generazioni successive.
Le esigenze richiamate trovano maggiore rispondenza, come è naturale, sul piano del diritto
internazionale. Numerosi sono, infatti, i fattori che spingono verso una crescente
“mondializzazione” delle attività di ricerca, così come numerose appaiono gli obiettivi da
promuovere e realizzare mediante idonee norme internazionali. Salvo tornare nel prosieguo
della trattazione sui diversi profili evidenziati, occorre fin d’ora rilevare che gli accordi conclusi
in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a partire dalla fine della seconda guerra
mondiale, allo scopo di disciplinare la collaborazione internazionale in materia di ricerca
scientifica, hanno contribuito soprattutto a fornire attuazione, in tale settore, al generale obbligo
di cooperazione contenuto nello Statuto dell’ONU, alla luce degli obiettivi fondamentali da esso
202
individuati: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, da una parte, il rispetto
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dall’altra.
Già nel preambolo della Carta delle Nazioni Unite, adottata a San Francisco nel 1945, gli Stati
avevano riaffermato la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità, nel valore della
persona umana. La celeberrima Dichiarazione dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea
generale delle NU nel 1948, ha avuto il merito di trasferire per la prima volta in uno strumento
internazionale la considerazione e la salvaguardia dei valori naturali, universali, indivisibili e
irrinunciabili dell’essere umano. Tale strumento, anche se redatto in forma declaratoria e quindi
privo di efficacia vincolante, è stato il primo di numerosi atti volti a far assumere dagli Stati
impegni pattizi di carattere positivo allo scopo di tutelare i diritti dell’uomo e le libertà
fondamentali, tra cui significativo rilievo ha assunto il principio dell’autonomia dell’individuo
nella gestione della propria corporeità. Vincolanti per gli Stati contraenti sono invece i Patti sui
diritti civili e politici e quelli sui diritti economici, sociali e culturali del 1977. Il Patto sui diritti
civili fissa l’obbligatorietà di un preventivo libero consenso informato dell’individuo allo
svolgimento di esperimenti medici o scientifici (art. 7), mentre il Patto sui diritti economici
contiene un preciso riferimento, tra l’altro, al diritto individuale a godere dei benefici del
progresso scientifico e delle sue applicazioni (art. 15). Un cenno a parte, per la loro diversa
efficacia, meritano infine le norme deontologiche adottate dall’Assemblea medica mondiale (la
Dichiarazione di Helsinki del 1949, modificata da ultimo a Edimburgo nel 2000) e dal Consiglio
delle organizzazioni internazionali di scienze mediche (CIOMS), che fissano i principi etici
applicabili alla ricerca biomedica sugli esseri umani. Si tratta di norme che hanno orientato e
disciplinato le applicazioni delle tecnologie mediche secondo valori e criteri universali e oggettivi
di rigore scientifico e correttezza etica, divenuti oggi presupposti imprescindibili per la
valutazione e l’approvazione di una ricerca biomedica.
Il legame tra ricerca scientifica e diritti umani è stato ribadito in diverse occasioni dall’Assemblea
generale delle Nazioni Unite, che ha adottato numerose risoluzioni e altri atti non vincolanti in
materia. Può ricordarsi, in particolare, la risoluzione n. 38/135 del 19 dicembre 1983, sui diritti
dell’uomo e il progresso della scienza e della tecnica, con cui l’Assemblea generale ha invitato
tutti gli Stati, gli organismi delle Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali,
governative e non governative, ad adottare le misure necessarie affinché i risultati del progresso
scientifico e tecnologico fossero utilizzati esclusivamente nell’interesse della pace internazionale
e a beneficio dell’umanità, promovendo e incoraggiando il rispetto universale dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali[6]. Con particolare riferimento all’ambito della ricerca
biomedica, è possibile ricordare, inoltre, le risoluzioni adottate nel marzo e nel dicembre 1993
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, intitolate rispettivamente «Diritti umani e bioetica»
e «Diritti umani e progresso della scienza e della tecnica». Con tali risoluzioni, le Nazioni Unite
hanno espresso l’auspicio che il progresso scientifico potesse svilupparsi nel rispetto dei diritti
fondamentali dell’uomo, mediante l’elaborazione di una «etica delle scienze della vita» a livello
nazionale ed internazionale. A tal fine, le Nazioni Unite hanno invitato i governi, gli istituti
specializzati e le altre organizzazioni internazionali, anche a livello regionale e non governativo,
ad informare il Segretario generale dell’ONU delle misure adottate per assicurare lo sviluppo
delle scienze della vita nel rispetto dei diritti dell’uomo, ivi compresa la costituzione di organismi
consultivi nazionali e la promozione degli scambi di esperienza tra istituzioni[7].
3. Il principale strumento vincolante di natura internazionale posto a tutela della dignità e
dell’integrità dell’essere umano nei confronti della biomedicina è costituito dalla «Convenzione
del Consiglio d’Europa sulla protezione dei diritti umani e della dignità dell’essere umano con
riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (c.d. Convenzione sulla biomedicina)»,
203
adottata il 19 novembre 1996 dal Comitato dei ministri di quell’Organizzazione, firmata a Oviedo
il 4 aprile 1997 ed entrata in vigore, sul piano internazionale, il 1º dicembre 1999.
Pur espressamente dedicata alla tutela della dignità e dell’integrità dell’essere umano con
riguardo alle «applicazioni» della biomedicina (art. 1), la Convenzione di Oviedo contiene anche
norme relative alla tutela dell’essere umano con riguardo alla ricerca scientifica in sé considerata.
Al riguardo, la Convenzione compie anzitutto una chiara scelta di principio sancendo, all’art. 2, il
primato de «l’interesse e del bene dell’essere umano … sull’interesse della società o della
scienza». Si tratta di una rilevante affermazione di principio, che, trovando collocazione tra le
Disposizioni generali dell’Accordo, dovrebbe condizionare l’interpretazione e l’applicazione dello
stesso, nel senso di garantire il rispetto dell’essere umano in ogni stadio della sua formazione e
del suo sviluppo. Siffatta ispirazione garantista dell’essere umano è ribadita dalla Convenzione
nel quadro della disciplina della ricerca medica e biologica (Capo V, artt. 15-18), il cui «libero
esercizio» è subordinato all’osservanza delle disposizioni pattizie e delle altre disposizioni
giuridiche che assicurano, appunto, la protezione «dell’essere umano» (art. 15).
Meno garantiste appaiono, invece, le norme della Convenzione concernenti la protezione
sostanziale dell’embrione, quali l’art. 18 sulla ricerca scientifica sugli embrioni in vitro, che offre
un livello di tutela palesemente insufficiente. Tale disposizione, infatti, rimette alle legislazioni
nazionali la scelta di autorizzare o meno la ricerca scientifica sugli embrioniin vitro, limitandosi a
stabilire che, ove tale ricerca sia ammessa dalla legge nazionale, quest’ultima debba assicurare
«un livello di protezione adeguato». Va aggiunto che la palese insufficienza di questa disposizione
appare appena bilanciata dal divieto di creazione di embrioni umani a fini di ricerca, sancito dallo
stesso art. 18, che peraltro non esclude la sperimentazione sugli embrioni umani prodotti a scopi
di fecondazione assistita ma rimasti inutilizzati e crio-conservati (c.d. embrioni soprannumerari).
Si ricordano, in proposito, gli orientamenti assunti dal Regno Unito, dagli Stati Uniti d’America e
dalla Francia, intesi a legittimare l’utilizzo a fini di ricerca (condotta con fondi privati) degli
embrioni soprannumerari. In particolare, va qui ricordato il disegno di legge sulla bioetica
approvato dall’Assemblea nazionale francese, in prima lettura, il 22 gennaio 2002. L'elemento di
maggior portata “rivoluzionaria” del progetto di legge, che dovrebbe assicurare alla Francia il
ruolo di leader europeo nel campo della ricerca biomedica e porla su un piano di competitività
con l’Inghilterra e gli Stati Uniti, è il discutibile “via libera” accordato alle ricerche sugli embrioni
c.d. soprannumerari, e cioè sugli embrioni crio-conservati a scopi di riproduzione assistita. Tale
previsione è giustificata, nelle intenzioni dell’Assemblea, dalla necessità di consentire il
progresso delle ricerche in campo medico necessario a debellare quelle malattie (come il cancro
o il morbo di Parkinson) nei confronti delle quali le attuali conoscenze mediche appaiono
insufficienti.
Come è agevole intuire, il rischio collegato alla scelta di sostenere tale forma di sperimentazione
(c.d. clonazione terapeutica) è quello di avallare, dal punto di vista morale e nel più lungo
periodo, la clonazione tout court di esseri umani (c.d. clonazione riproduttiva), attualmente
vietata da fonti normative internazionali ed nazionali. Tale rischio è stato stigmatizzato dalla
Risoluzione del Parlamento europeo del 7 settembre 2000, in cui l’Assemblea di Strasburgo ha
denunciato l’utilizzo di «una nuova strategia semantica» intesa ad «indebolire il significato
morale della clonazione umana» allo scopo di favorire ulteriori sviluppi della produzione e
dell’utilizzo di embrioni a scopo di ricerca. Per il Parlamento europeo, al contrario, «non vi è
alcuna differenza tra clonazione a fini terapeutici e clonazione a fini di riproduzione» (è bene
tuttavia precisare che la Risoluzione in parola è stata approvata con una strettissima
maggioranza: 237 voti a favore contro 230 voti contrari e 43 astensioni)[8].
Le altre norme della Convenzione di Oviedo concernenti la protezione delle persone, anche
incapaci, che si prestano ad una ricerca, sono quelle contenute negli artt. 16 e 17. Si tratta
204
essenzialmente di norme volte ad assicurare la protezione della dignità e dell’integrità fisica e
psichica dell’essere umano mediante l’applicazione del tradizionale strumento di tutela
dell’autonomia individuale in campo medico (il consenso libero ed informato, espresso in forma
scritta) ed una serie di principi e criteri ormai consolidati (proporzionalità tra rischi e benefici
attesi dalla ricerca; approvazione preventiva dei profili scientifici ed etici della ricerca da parte di
«istanze competenti»; inesistenza di un metodo alternativo alla ricerca su esseri umani e di
efficacia equivalente).
Non va poi dimenticato che, essendo la Convenzione un vero e proprio accordo-quadro, che
stabilisce obiettivi e norme di principio, essa rimanda, per gli aspetti più sensibili della materia,
all’adozione di strumenti giuridici ulteriori. Tra questi, si ricorda il Protocollo addizionale sul
divieto di clonazione di esseri umani, firmato a Parigi il 12 gennaio 1998, nonché i progetti di
Protocolli dedicati ai trapianti d’organo e tessuti umani, alla ricerca biomedica, alla tutela
dell’embrione umano, alla genetica umana e, da ultimo, agli xenotrapianti. A ciò si aggiunga che,
al fine di tener conto degli sviluppi scientifici, la Convenzione prevede la possibilità di
riesaminare le norme introdotte entro cinque anni dalla loro entrata in vigore, e cioè entro la fine
del 2004.
Tra i progetti di Protocollo poc’anzi ricordati, particolare rilievo assume quello dedicato alla
ricerca biomedica. Anche se il testo del Protocollo (in corso di avanzata elaborazione) non è
ancora definitivo, mi sembra opportuno ricordare i punti salienti dello strumento internazionale,
che prende le mosse dalla constatazione della transnazionalità e della transdisciplinarietà della
ricerca biomedica.
Il progetto di Protocollo si articola in undici Capitoli, dedicati all’oggetto e al campo di
applicazione; ai principi generali; ai Comitati etici; all’informazione e consenso; alla protezione
delle persone incapaci; alle c.d. situazioni particolari; alle ricerche in situazioni di gravidanza o
allattamento; alla sicurezza e sorveglianza della ricerca; alla riservatezza e diritto
all’informazione; alle ricerche condotte dagli Stati terzi rispetto al Protocollo, alle disposizioni
finali. Numerosi sono gli articoli del progetto volti a tutelare gli esseri umani che si prestano ad
una ricerca biomedica, ivi compresi gli embrioni in vivo (ma non in vitro). Particolare attenzione è
fornita, inoltre, sul piano delle garanzie offerte ai soggetti partecipanti alle ricerca, alle persone
incapaci, sono previste norme specifiche per tutelare le persone in situazioni di dipendenza o
vulnerabilità, allo scopo di evitare ingiustificabili pressioni all’atto di espressione del consenso
alla ricerca (art. 13).
Competenze dettagliate, ai fini indicati, sono attribuite ai Comitati etici, ai quali è affidato
anzitutto il compito di condurre l’esame pluridisciplinare degli obiettivi della ricerca, l’analisi
scientifica del Protocollo e la sua accettabilità dal punto di vista etico. A tal fine, i Comitati
adottano pareri obbligatori e motivati (ma non vincolanti). Come già previsto dalle c.d. norme di
buona pratica clinica, il progetto di Protocollo indica le informazioni che devono essere fornite ai
Comitati, con particolare riferimento alla competenza ed all’idoneità dei ricercatori, nonché
all’indicazione dei soggetti responsabili sia sul piano clinico che finanziario. Usuali obblighi di
informazione sono anche quelli aventi ad oggetto il metodo di ricerca, le procedure d’indagine e
l’analisi statistica, che devono essere indicati nei protocolli di ricerca unitamente ad un riassunto
del progetto medesimo.
Una novità è invece costituita dall’obbligo del ricercatore di informare gli altri centri di ricerca, il
Comitato etico e l’autorità nazionale competente sugli sviluppi della ricerca che possano
giustificare un suo riesame sul piano etico (art. 26). I risultati della ricerca, infine, devono
formare oggetto di un rapporto finale al Comitato etico o all’autorità nazionale competente (art.
30). Sotto questo profilo, occorre rilevare che il progetto di Protocollo avrebbe potuto rivelarsi
più incisivo qualora avesse previsto l’obbligatorietà della pubblicazione e della diffusione dei
205
risultati delle ricerche anche in caso di esito negativo, pur essendo comprensibili le reticenze che
i ricercatori potrebbero esprimere al riguardo. Come è agevole osservare, infatti, la storia delle
conquiste scientifiche è la storia di ipotesi di ricerca che trovano conferma, o meno, nella
sperimentazione: in particolare, la moderna tecnologia appare come un “processo” in continua
evoluzione, in cui è difficile “fissare” strumenti metodologici e concettuali definitivi. Monitorare
una strada che non conduce a risultati positivi e mettere a disposizione della comunità scientifica
i dati di tali ricerche permetterebbe quindi non solo di evitare sperimentazioni ripetitive e
superate (oltre che costose), ma anche di rendere più manifesta la natura di “patrimonio
comune” della ricerca scientifica, ove la verità (come gli errori) non è mai tale, ma costituisce
soltanto il frutto più elevato che è possibile raggiungere con le conoscenze scientifiche di cui si
dispone in un particolare momento. Pertanto, sono da salutare con favore iniziative quali la
pubblicazione di apposite riviste specializzate: si ricorda, per tutte, il Journal of Negative
Observations of Genetic Onocology (NOGO)[9].
Un giudizio positivo può invece esprimersi con riferimento alla previsione di indicare, nei
progetti di ricerca, l’utilizzo dei risultati, dai dati e del materiale biologico a scopi commerciali
(art. 12).
Si segnala, da ultimo, la novità relativa alle ricerche condotte nei Paesi che non saranno parti del
Protocollo, quando questo entrerà in vigore. Ai sensi dell’art. 31, infatti, le norme etiche e le
fondamentali garanzie di sicurezza enunciate dal Protocollo saranno applicate anche alle ricerche
eseguite sugli esseri umani cittadini di Paesi terzi. Non può tuttavia farsi a meno di rilevare che,
per garantire una più efficace protezione giuridica dei cittadini dei Paesi terzi (soprattutto se
Paesi in via di sviluppo), sarebbe stato opportuno introdurre la figura del “mediatore culturale”,
cittadino dello Stato terzo, anche allo scopo di assicurare la reale e completa informazione e
comprensione dei rischi e dei benefici collegati e conseguenti alla ricerca. Diversamente, ben si
potrà dubitare che il consenso, fornito anche per iscritto, sia un consenso realmente informato e
consapevole dei rischi della sperimentazione, in ossequio al principio di autonomia dell’individuo
nella gestione della propria corporeità.
4. Un tema di peculiare rilevanza bioetica, che la Convenzione di Oviedo affronta espressamente,
è quello della ricerca sul genoma umano e delle potenziali manipolazioni genetiche. In questo
campo, infatti, è da tempo avvertito il timore circa il possibile utilizzo discriminatorio e lesivo
della dignità umana dei progressi della biomedicina, timore che alimenta, in particolare, il
dibattito sulla necessità di regolamentare le applicazioni delle tecniche di ingegneria genetica e
delle biotecnologie. Si avverte, in altri termini, il rischio collegato e conseguente ad un “ritorno”
all’applicazione di criteri di selezione eugenetica, dopo i drammatici episodi accaduti nel corso
dell’ultimo conflitto mondiale[10].
Tenendo conto di tali preoccupazioni, la Convenzione e il Protocollo addizionale di Parigi vietano
gli interventi volti alla modificazione del genoma umano che non siano giustificati da ragioni
preventive, diagnostiche o terapeutiche (art. 13)[11], nonché la clonazione degli esseri
umani[12]. Quest’ultima tecnica, avente come scopo deliberato la creazione di un essere umano
«geneticamente identico» ad un altro essere umano, costituisce un «uso improprio della biologia
e della medicina» ed è espressamente qualificata come «contraria alla dignità dell’uomo»
(Preambolo del Protocollo, punto V)[13]. E’ significativo osservare che i divieti in parola tengono
particolarmente conto della necessità, affermata dal Preambolo e dall’art. 13 della Convenzione,
di rispettare l’essere umano sia come individuo che come membro della specie umana e di
utilizzare i progressi della biomedicina a beneficio delle generazioni presenti e future. In tal
senso, può dirsi che la Convenzione recepisce il principio della responsabilità intergenerazionale,
206
già indicato come cardine del c.d. sviluppo sostenibile dalla Convenzione sulla diversità biologica
(c.d. biodiversità), firmata a Rio de Janeiro nel giugno 1992[14].
Precise indicazioni in quest’ottica emergono anche dalle esigenze di solidarietà formalizzate dalla
Dichiarazione universale dell’UNESCO sul genoma umano e i diritti dell’uomo, adottata l’11
novembre 1997[15]. La Dichiarazione, infatti, proclama simbolicamente il genoma umano
«patrimonio comune dell’umanità», per sottolineare l’unità fondamentale di tutti i membri della
famiglia umana e la dignità inerente ciascuno di essi (art. 1)[16]. La Dichiarazione ribadisce,
inoltre, le esigenze di tutela della dignità e dei diritti dell’individuo, indipendentemente dalle
caratteristiche genetiche dello stesso (art. 2), e precisa che il genoma umano, per sua natura
soggetto ad evoluzione, contiene potenzialità in grado di esprimersi differentemente a seconda di
fattori mutevoli, quali l’educazione, le condizioni di vita, l’alimentazione, lo stato di salute e, più in
generale, il rapporto tra ciascun individuo ed il proprio habitat naturale e sociale (art. 3). Emerge
chiaramente, così, l’approccio fatto proprio dalla Dichiarazione universale, volto ad escludere
ogni forma di “determinismo genetico” che porti ad identificare l’essere umano con il proprio
patrimonio genetico e con le informazioni ivi racchiuse[17].
Occorre tuttavia rilevare che la Convenzione di Oviedo (art. 21) e la Dichiarazione dell’UNESCO
(art. 4) vietano la commercializzazione del corpo e del genoma umano «nel suo stato naturale»,
senza perciò precludere la possibilità di instaurare, ad esempio, un regime normativo di tutela
brevettuale delle invenzioni biotecnologiche, come è effettivamente avvenuto a livello
comunitario con l’adozione della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 98/44 (che
fa leva sostanzialmente sulla nozione di invenzione, cui si ricollegano i tradizionali requisiti della
novità, della attività inventiva e dell’applicazione industriale)[18]. Pur non potendo in questa
sede esaminare compiutamente l’atto comunitario e la problematica ad esso sottesa, deve
tuttavia precisarsi che la solenne proclamazione del genoma umano come patrimonio comune
dell’umanità mal si concilia con una realtà in cui l’enorme potenziale economico sotteso alla
brevettazione dei risultati della ricerca biomedica orienta quest’ultima, come è agevole intuire,
secondo logiche di profitto poco compatibili con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali
dell’uomo e, in particolare, di una vera e propria “identità biologica”.
In materia si registra da tempo, del resto, una vera e propria corsa all’oro: al giugno 2002
risultavano presentate circa 720.000 richieste di esclusiva su sequenze genetiche umane (si
ricorda che può formare oggetto d'invenzione un materiale biologico isolato dal suo ambiente
naturale o prodotto tramite un procedimento tecnico, anche se preesistente allo stato naturale).
Le sollecitazioni di natura economica che costituiscono il presupposto del regime di tutela
brevettale possono peraltro indurre a commettere, con riferimento alle biotecnologie, clamorosi
“errori”: basti ricordare l’“incidente” costituito dalla decisione dell’Ufficio europei dei brevetti
(UEB)[19] di concedere all’Università di Edimburgo, in data 8 dicembre 1999 (n. EP 0695351),
un brevetto concernente «method of preparing a transgenic animal», ove, nell’inglese scientifico, il
termine «animal» può applicarsi anche agli esseri umani. Questa decisione è apparsa in contrasto
con lo stesso Regolamento di esecuzione della Convenzione di Monaco, il quale esclude la
possibilità di concedere brevetti «in respect of biotechnological inventions wich … concern …
processes of cloning human beings»[20], tanto da indurre lo stesso UEB a rilasciare una
dichiarazione in cui affermava di essere incorso in errore (sic!) e che, pur non rientrando nei suoi
poteri la rettifica del brevetto ormai accordato[21], l’ambito della protezione accordata non
poteva ritenersi esteso alla clonazione umana[22].
5. Esaminati brevemente gli strumenti giuridici destinati a rafforzare, sul piano universale, la
tutela dei diritti fondamentali alla luce degli sviluppi scientifici e tecnologici (la Convezione di
Oviedo e la Dichiarazione dell’UNESCO), è possibile ora ricordare, sul piano del diritto
207
comunitario, che la Comunità europea segue da tempo le problematiche collegate o conseguenti
agli sviluppi della biologia molecolare ed all’applicazione delle tecniche di ingegneria genetica,
come dimostra l’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata
solennemente, a Nizza, dai presidenti di Parlamento europeo, Consiglio e Commissione il 7
dicembre 2000 (anche se, per il momento, sprovvista di efficacia giuridica vincolante)[23].
Per quanto concerne gli aspetti di maggior rilievo in questa sede, è anzitutto significativo rilevare
che, al punto 2 del Preambolo, l’Unione europea dichiara di porre «la persona al centro della sua
azione» e di basarsi sui principi della libertà, della democrazia e dello stato di diritto, già posti a
fondamento dell’Unione medesima dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam[24]. A tali principi,
il Preambolo della Carta aggiunge un riferimento ai valori della dignità umana, dell’uguaglianza e
della solidarietà, espressamente qualificati «indivisibili e universali» nella consapevolezza del
«patrimonio spirituale e morale» dell’Unione[25]. Altra importante affermazione di principio è
quella contenuta nell’art. 1, che sancisce l’inviolabilità della dignità umana.
E’ poi significativo rilevare che l’art. 3 della Carta riconosce il diritto all’integrità fisica e psichica
di ciascun individuo nei confronti delle applicazioni della medicina e della biologia[26]. Tale
diritto è garantito, oltre che dal tradizionale strumento di tutela dell’autonomia individuale in
campo medico (il consenso libero ed informato), da una serie di divieti: di pratiche eugenetiche
selettive, di clonazione riproduttiva di esseri umani e di trarre fonte di profitto dal corpo umano e
dalle sue parti. Si noti che il divieto di «pratiche eugenetiche … aventi come scopo la selezione
delle persone», nonché il divieto di «clonazione riproduttiva di esseri umani», sono stati così
formulati per recepire le proposte del Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove
tecnologie contenute nel documento Droits des citoyens et nouvelles technologies: un defi lance a
l’Europe, Rapport sur la Charte des droits fondamentaux en relation avec l’innovation technique
demandé par le President Prodi le 3 février 2000, Bruxelles, 23 mai 2000.
Grande importanza riveste anche l’art. 21 della Carta, che vieta qualsiasi forma di
discriminazione, tra cui quelle fondate sulle caratteristiche genetiche dell’individuo. Tale divieto
si ricollega, con tutta evidenza, a quello sancito dall’art. 13 del Trattato di Roma, introdotto ex
novo dal Trattato di Amsterdam, che attribuisce al Consiglio dell’Unione la competenza per
adottare i provvedimenti volti a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza e
l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. E’
agevole intuire, infatti, che la disposizione in parola costituisce la cornice ideale entro cui
ricondurre un futuro divieto convenzionale di “discriminazione genetica”, tenendo anche conto,
in prospettiva, dell’esigenza di recepire nel corpus dei Trattati i contenuti della Carta dei diritti
fondamentali[27].
6. Il vertiginoso progresso della tecnica costituisce una realtà alla quale occorre
responsabilmente porsi e confrontarsi. La tecnica moderna, a differenza di quanto avveniva in
passato, non mira a raggiungere un punto di equilibrio, ma diventa l’occasione per passi ulteriori.
Oggi l’innovazione scientifica e lo sviluppo tecnologico si diffondono velocemente nel mondo
intero, anche in forza del c.d. processo di globalizzazione e delle interconnessioni individuali,
suscitando preoccupazioni e incertezze per quanto concerne sia l’oggi che il futuro delle nuove
generazioni.
Particolarmente significativo è quindi il risveglio di una riflessione etica intorno alla vita umana,
con la nascita e lo sviluppo della bioetica, che favorisce la riflessione e il dialogo tra credenti,
anche di diverse religioni, sui problemi etici fondamentali concernenti la vita dell’uomo. Come ha
affermato Giovanni Paolo II nell’Evangelicum Vitae, occorre altresì mobilitare e formare le
coscienze di tutti per arrivare ad un comune sforzo etico volto a costruire una nuova cultura della
vita. Nuova perché in grado di affrontare e risolvere gli inediti problemi di oggi circa la vita
208
dell’uomo, nuova perché fatta propria con più salda e operosa convinzione da parte di tutti i
cristiani, nuova perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto culturale con tutti.
Suscitare, sostenere, addirittura fondare un sentimento per la umanità è dunque un
importantissimo compito educativo ed intellettuale per il mondo di domani[28].
[1] Colloque international “Science et Societé”, Paris, 30 novembre 2000, in
http://www.recherche.gouv.fr/discours/2000/dsciences.htm.
[2] Si vedano i lavori di tali organismi in http://europa.eu.int/comm/governance.
[3] Così Tallacchini M.C., Politica della scienza e diritto: epistemologia della identità europea,
Politeia, 2001, 62: 6-21.
[4] Cfr. la risoluzione sui problemi etici e giuridici della manipolazione genetica, adottata il 16
marzo 1989, in Guce n. C96 del 17 aprile 1989, p. 165.
[5] Così Rifkin J., Il secolo delle biotecnologie, in Internazionale, n. 229, 1998: p. 17 e ss. Sul punto
si rimanda anche a Fantini M., Il fantasma dell'eugenica, in Rodotà S. (a cura di), Questioni di
bioetica, Bari: Laterza, 1993: 301-331, nonché Santosuosso A., La genetica: problemi di
legittimazione medica e di controllo sociale, in Barni M.- SantosuossoA. (a cura di), Medicina e
diritto. Prospettive e responsabilità della professione medica oggi, Milano, 1995: p. 330 e ss.
[6] Come è noto, le risoluzioni delle organizzazioni internazionali, che di per sé non hanno
efficacia vincolante, possono acquistare tale efficacia solo se trasformate in fonti di diritto
internazionale generale (consuetudine) o particolare (convenzioni e trattati). Vero è che le
risoluzioni, comunemente ricondotte alla sfera del c.d. diritto morbido (“soft law”), non sono del
tutto improduttive di effetti giuridici e vengono in rilievo ai fini dell’accertamento del diritto
internazionale consuetudinario. Sotto il primo profilo, B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli:
Editoriale scientifica, 2001, 178, parla di «effetto di liceità», intendendo con ciò, in buona
sostanza, l’operare della risoluzione internazionale come causa di esclusione dell’illecito
eventualmente posto in essere da uno Stato che, per eseguire una risoluzione, tenga un contegno
contrario ad obblighi derivanti da fonti consuetudinarie o convenzionalmente assunti. Sotto il
secondo profilo, di maggiore interesse in questa sede, va precisato che le risoluzioni possono
costituire manifestazioni autorevoli dell’opinio juris degli Stati e contribuire così, coniugandosi
con analoghi elementi della prassi internazionale, alla ricostruzione delle norme di diritto
internazionale generale.
[7] Si ricorda, in questo contesto, anche la risoluzione adottata dalla Conferenza generale
dell’UNESCO il 16 novembre 1999, dal titolo Dichiarazione sulla scienza e l’utilizzo del sapere
scientifico e l’Agenda per la scienza – Quadro d’azione.
[8] Vedi la risoluzione in Guce n. C135 del 7 maggio 2001, p. 263.
[9] Cfr. http://www.path.jhu.edu/NOGO.
[10] Ma non solo. E’ noto, infatti, che tentativi di manipolare il patrimonio genetico umano sono
stati condotti non solo nei campi di concentramento nazisti, come dimostrano gli atti del
processo di Norimberga, ma anche, fino ad anni recenti, in ospedali e carceri degli Stati Uniti
d’America e della ex-Unione Sovietica. Anche a seguito della scoperta di episodi eclatanti (quali il
Tuskegee Syphilis Study, un esperimento relativo alla diffusione della sifilide avviato negli anni
Trenta su una comunità di neri del Sud degli Stati Uniti e continuato anche dopo la scoperta della
penicillina; o le sperimentazioni approvate dal Committee on Medical Research creato allo
scoppio della seconda guerra mondiale) e dell’avvio della riflessione etica sulla medicina e la
ricerca scientifica, venne creata negli USA, nel 1974, la National Commission for the Protection of
209
Human Subject of Biomedical and Behavioural Research. Come già ricordato nel Capitolo I, sulla
scorta del risultato dei lavori di tale Commissione ha visto la luce il rapporto intitolato Ethical
Principles and Guidelines for the Protection of Human Subject of Research (c.d. Belmont Report), in
cui sono stati enunciati i principi che hanno successivamente ispirato l’analisi dei problemi
bioetici in ambito medico e sanitario.
[11] Si noti che la Convenzione di Oviedo si preoccupa anche di vietare l’utilizzo di tecniche di
assistenza medica alla procreazione qualora lo scopo di tali interventi sia di determinare il sesso
del nascituro, eccezion fatta per l’ipotesi di evitare una malattia grave legata al sesso (art. 14). Per
quanto riguarda il possibile utilizzo discriminatorio dei risultati della ricerca sul genoma, invece,
la Convenzione pone un divieto di discriminazione in ragione del patrimonio genetico (art. 11) e
disciplina l’impiego dei c.d. test genetici predittivi (art. 12).
[12] Gli obiettivi del Protocollo sono chiaramente enunciati dal Preambolo dell’Atto, in cui gli
Stati membri del Consiglio d’Europa, pur mostrandosi consapevoli dei progressi che le tecniche di
clonazione possono apportare alle conoscenze scientifiche ed alle applicazioni terapeutiche,
condannano, poiché contraria alla dignità dell’uomo ed anche in considerazione delle difficoltà di
ordine medico, psicologico e sociale derivanti dall’utilizzo deliberato di tale pratica biomedica, la
«strumentalizzazione dell’essere umano attraverso la creazione deliberata di esseri umani
geneticamente identici». Nell'ordine delle conseguenze del divieto sancito dal Protocollo
addizionale devono essere fatte rientrare, tra l’altro, le attività dirette alla commercializzazione o
all'offerta di gameti, di cellule somatiche di embrioni o di altro materiale genetico umano a fini di
clonazione, nonché le relative forme di pubblicità.
[13] Nello stesso senso si veda anche l’art. 11 della Dichiarazione universale sul genoma umano e
i diritti dell’uomo dell’UNESCO, su cui si tornerà tra breve. Va precisato che per clonazione umana
(o animale) si intende la produzione di embrioni umani (o animali) geneticamente identici,
ottenuti mediante replicazione non sessuata di un unico altro essere vivente umano (o animale),
a qualsiasi stadio del suo sviluppo e della sua vita, a partire dallo zigote (cellula-uovo fecondata,
prima che inizi il processo di segmentazione) o dopo la sua morte. Sugli aspetti scientifici ed etici
della clonazione si rimanda a Comitato nazionale per la bioetica, La clonazione, Roma: IPZS, 1997,
ed alla bibliografia ivicitata. Si ricorda, in proposito, che già la Raccomandazione dell’Assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa 1046 (1986), del 24 settembre 1986, relativa all’utilizzo di
embrioni e feti umani a fini diagnostici, terapeutici, scientifici, industriali e commerciali, invitava i
governi dei Paesi membri ad adottare le misure necessarie per vietare la «création d’êtrs
humains identiques par clonage ou par d’autres méthodes» (in Textes du Conseil de l’Europe en
matière de biéthique, cit., p. 19). Il contenuto di tale Raccomandazione, ribadito dalla
Raccomandazione 1100 (1989) del 26 gennaio 1989, è stato ripreso dall’art. 20 del Rapporto
sulla procreazione umana artificiale, adottato nel 1989 dal Comitato ad hocdi esperti sul
progresso delle scienze biomediche del Consiglio d’Europa, secondo cui «l’utilisation des
techniques de procréation humaine artificielle afin de créer des être humains identiques par
clonage ou par toute autre méthode doit être interdite» (ibidem, p. 149). Da ultimo, anche il Piano
d’azione adottato al termine del secondo summit dei capi di Stato e di governo del Consiglio
d’Europa, tenutosi a Strasburgo nell’ottobre 1997, impegnava gli Stati membri
dell’Organizzazione a vietare le tecniche di clonazione, conferendo al Comitato dei ministri il
mandato necessario per l’approvazione di un Protocollo addizionale alla Convenzione di Oviedo
(ibidem, p. 137). Anche nell’ambito delle Comunità europee la clonazione umana ha fatto oggetto
di “condanna”, in particolare da parte della Dichiarazione del Consiglio europeo tenutosi ad
Amsterdam il 16-17 giugno 1997 (cfr. l’allegato IV delle Conclusioni della Presidenza), che
richiama espressamente il parere sugli aspetti etici delle tecniche di clonazione del Gruppo
europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie (cfr. il parere n. 9 del 28 maggio 1997),
210
nonché le Risoluzioni del Parlamento europeo del 1993 e del 1997 dedicate alla clonazione
umana e di embrioni umani (in Guce n. C315 del 22 novembre 1993, p. 224, e n. C115 del 14
aprile 1997, p. 92, cui si sono aggiunte le Risoluzioni del 1998 e del 2000 pubblicate in Guce n.
C34 del 2 febbraio 1998, p. 164, in Guce n. C378 del 29 dicembre 2000, p. 95, e in Guce n. C135 del
7 maggio 2001, p. 263). Nell’ultima Risoluzione citata, del 7 settembre 2000, il Parlamento
europeo ha incisivamente affermato che la c.d. clonazione terapeutica «pone un profondo
dilemma etico, costituisce un passo senza non ritorno per quanto riguarda le norme della ricerca
e si pone in contrasto con l’impostazione in materia di ordine pubblico e buon costume adottata
dall’Unione europea».
[14] Secondo l’art. 13 della Convenzione di Oviedo «un intervento che ha come obiettivo di
modificare il genoma umano non può essere intrapreso se non per ragioni preventive,
diagnostiche o terapeutiche e solamente se non ha come scopo di introdurre una modifica nel
genoma dei discendenti». Si ricorda che la Convezione sulla diversità biologica è stata adottata,
insieme alla Dichiarazione sull'ambiente e lo sviluppo, alla Convenzione sui cambiamenti
climatici ed alla c.d. Agenda 21, dalla Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo
(UNCED) tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992. Si tratta di importanti atti di natura
internazionale, intesi a formalizzare la volontà degli Stati partecipanti alla Conferenza di Rio di
conseguire uno sviluppo economico e sociale compatibile con la salvaguardia dell'ambiente (per
un esame di tali atti si veda, per tutti, G. Garaguso-S. Marchisio (a cura di), Rio 1992: vertice per la
Terra, Milano: Franco Angeli, 1993). L'Agenda 21, in particolare, ha assegnato all'Assemblea
generale delle Nazioni Unite il compito di procedere alla verifica quinquennale dei risultati
conseguiti nel quadro dell'attuazione degli impegni assunti a Rio, cui ha provveduto la XIX
sessione speciale dell'Assemblea generale (UNGASS) tenutasi a New York nel giugno 1997. Sui
risultati raggiunti in tale sede, si veda S. Marchisio et al., Rio cinque anni dopo, Milano: Franco
Angeli, 1998, nonché United Nations Environment and Development, Earth Summit II, Outcomes
and Analysis, London, 1998.
[15] La Dichiarazione dell’UNESCO si articola in un Preambolo e sette capitoli: Dignità umana e
genoma umano (artt. 1-4); Diritti delle persone interessate (artt. 5-9); Ricerche sul genoma
umano (artt. 10-12); Condizioni di esercizio dell’attività scientifica (artt. 13-16); Solidarietà e
cooperazione internazionale (artt. 17-19); Promozione dei principi della Dichiarazione (artt. 2021); Attuazione della Dichiarazione (artt. 22-25). Si ricorda che il contenuto della Dichiarazione
dell’UNESCO è stato ripreso in toto dalla Risoluzione sui diritti umani e il genoma, adottata
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1998 (A/RES/53/152). Va precisato
che la Dichiarazione dell’UNESCO e la Risoluzione delle Nazioni Unite, pur essendo dotate di una
portata più ampia della Convenzione di Oviedo (in ragione del diverso numero di Stati membri
delle tre Organizzazioni), sono sprovviste di efficacia vincolante.
[16] La nozione di “patrimonio comune dell’umanità” è ormai diffusa nel diritto internazionale
per indicare le esigenze collegate o conseguenti alla responsabilità (internazionale ed
intergenerazionale) di promuovere e realizzare lo sfruttamento di risorse naturali esauribili a
beneficio dell’intera umanità. Tale nozione si rinviene, in particolare, nelle risoluzioni
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e nell’art. 136 della Convenzione di Montego Bay del
10 dicembre 1982, concernenti lo sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo marino
oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali (c.d. mare internazionale), nonché nelle risoluzioni
dell’Assemblea generale dell’ONU concernenti l’utilizzo delle risorse dell’Antartide. Per una
ricostruzione di tale nozione nell’ambito qui in esame si rimanda a G.B. Kutukdjian,Le génome
humain: Patrimoine Commun de l’Humanité, in Héctor Gros Espiell Amicorum Liber, Bruxelles,
1997, I, 601.
211
[17] Si veda espressamente, in tal senso, l’art. 2, lett. b, della Dichiarazione universale. L’art. 12
della Dichiarazione precisa che «ognuno dovrebbe avere accesso ai progressi della biologia, della
genetica e della medicina, concernenti il genoma umano, nel rispetto della propria dignità e dei
propri diritti….Le applicazioni della ricerca, soprattutto quelle in biologia, genetica e medicina,
concernenti il genoma umano, devono tendere ad alleviare la sofferenza ed a migliorare la salute
dell’individuo e dell’umanità intera». Precise esigenze di solidarietà e cooperazione
internazionale sono inoltre sancite dalla Dichiarazione agli artt. 17-19, secondo cui gli Stati
dovrebbero, anzitutto, incoraggiare le ricerche destinate ad identificare, prevenire e curare le
malattie di natura genetica, come pure le malattie rare o endemiche che colpiscono una parte
importante della popolazione mondiale. Nei rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in via di
sviluppo (PVS), la Dichiarazione prevede poi che i primi dovrebbero incoraggiare la cooperazione
scientifica e culturale con i secondi, favorendo la diffusione internazionale della conoscenza
scientifica sul genoma umano, sulla diversità umana e sulle ricerche genetiche, nonché rafforzare
la capacità di ricerca biologica dei PVS, permettendo a questi ultimi di trarre beneficio dai
progressi della biomedicina.
[18] Va ricordato, in proposito, il caso ormai di scuola del Sig. Moore, affetto da una rara forma di
leucemia, al quale venne asportata la milza presso l’Università di San Diego (California). A tale
prelievo ne seguirono molti altri (sangue, pelle, midollo osseo e liquido seminale) diretti al
monitoraggio della malattia, ma anche alla produzione di una linea cellulare successivamente
brevettata dall’equipe medica che aveva in cura il Sig. Moore e posta in commercio in forma di
prodotti farmaceutici di successo nel trattamento di molteplici e gravi affezioni. Gli sviluppi
giudiziari della vicenda videro riconoscere al Moore, in secondo grado, un generale diritto di
proprietà sulle proprie cellule e sulle altre parti del corpo, mentre, nell’ultimo grado del giudizio
(1989), tale diritto di proprietà venne escluso, riconoscendosi al paziente un più limitato diritto
al risarcimento del danno per aver omesso il medico di informarlo, al momento dei prelievi, circa
l’esistenza di un suo interesse personale al trattamento ed alla commercializzazione dei materiali
biologici prelevati. Si noti tuttavia che, più di recente, l’azione di pressione esercitata da
associazioni e fondazioni sorte spontaneamente per difendere i diritti dei pazienti, soprattutto
negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito, sta indirizzando la giurisprudenza di quei Paesi
verso risultati affatto diversi da quelli raggiunti nel caso Moore: cfr., con particolare riferimento
al Terry Case del 2000, A. Santosuosso, Il gene dell’azionariato diffuso, in Il Sole 24Ore del 10
giugno 2001, p. IX. In generale, sulla proprietà di parti del corpo umano e sulla tutela dei diritti
che attengono ai caratteri genetici dell'uomo, si veda Paganelli M., Alla volta di Frankestein:
biotecnologie e proprietà (di parti) del corpo umano (nota a Corte di appello della California 31
luglio 1988), in Il Foro italiano, 1989, IV, 417-421; Edelman H., Discutendo il caso Moore, in Rivista
critica di diritto privato, 1989: 469-482; Martin L., Le droit de tirer profit de ses caracteristiques
personnelles, notamment genetiques, est-il illimité?, in Journal International de Bioéthique, 1996,
4: 296-321.
[19] Si tratta, occorre precisare, di un Ufficio del tutto indipendente dalla Comunità europea,
essendo stato istituito nel 1977 nel quadro della Convenzione di Monaco sulla concessione di
brevetti europei.
[20] Cfr. l’art. 23D della versione modificata ed integrata dalla decisione dell’Administrative
Council del 16 giugno 1999, che ha provveduto ad inserire un nuovo capo sulle invenzioni
biotecnologiche conforme alla disciplina introdotta dalla Direttiva comunitaria n. 98/44. Si noti
che il brevetto rilasciato dall’UEB appariva in contrasto anche con l’art. 6 di tale Direttiva, che
proibisce la clonazione umana.
[21] Rispetto al quale restava comunque salva la facoltà di presentare opposizione, secondo
quanto previsto dalla Convenzione di Monaco.
212
[22] Sul punto si è pronunciato anche il Parlamento europeo con la Risoluzione del 30 marzo
2000 (in Guce n. C378 del 29 dicembre 2000, p. 95), nonché il Comitato Nazionale per la Bioetica
con la Dichiarazione del 25 febbraio 2000.
[23] Si noti che, nel corso dei lavori preparatori, diversi Paesi membri (tra cui l’Italia), nonché le
istituzioni comunitarie (e in particolare il Parlamento europeo), avevano auspicato l’integrazione
della Carta nei Trattati. In particolare, nelle ultime fasi del negoziato, era stata presentata la
proposta di inserire nell’art. 6, par. 2, del Trattato di Maastricht un riferimento esplicito alla
Carta, formalizzando così la sua posizione nel quadro dell’Unione ed inserendola tra i principi
generali del diritto comunitario. Tali richieste non possono che essere condivise, soprattutto ove
si consideri il fatto, ormai paradossale, che il Trattato di Maastricht continua a fare riferimento
esclusivo ad un testo (quale la CEDU) elaborato in seno ad una organizzazione internazionale
diversa dalle Comunità (il Consiglio d’Europa), mentre oggi le Comunità e l’Unione dispongono di
un proprio catalogo di diritti fondamentali. Il mancato accoglimento delle richieste in parola
appare appena bilanciato dal fatto che il dispositivo della Carta appare formulato in modo tale da
poter essere utilizzato, in prospettiva, come strumento giuridicamente vincolante.
[24] Oltre al Preambolo, la Carta comprende sette Capitoli, dedicati alla Dignità umana (artt. 1-5),
alla Libertà (artt. 6-19), all’Uguaglianza (artt. 20-26), alla Solidarietà (artt. 27-38), alla
Cittadinanza (artt. 39-46), alla Giustizia (artt. 47-50), nonché alle Disposizioni generali (le c.d.
norme orizzontali di cui agli artt. 51-54).
[25] E’ significativo ricordare che, nel corso dei lavori preparatori, era stato proposto un
riferimento «al patrimonio culturale, umano e religioso» dell’Unione. Tuttavia, secondo alcuni
Stati (ed in particolare la Francia), tale espressione si prestava a costituire un fattore di
potenziale discriminazione.
[26] Si ricorda, in proposito, che l’art. 13 della Carta proclama anche la libertà della ricerca
scientifica.
[27] Si ricorda che il divieto di discriminazione genetica è già sancito dall’art. 11 della
Convenzione di Oviedo e dall’art. 6 della Dichiarazione dell’UNESCO, sopra esaminate. Rileva, in
proposito, la formulazione utilizzata dal Protocollo addizionale alla CEDU n. 12 del 2000, che
proibisce non solo le discriminazioni fondate sul «sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione,
le opinioni politiche, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la
proprietà, la nascita», ma anche quelle fondate su «altri status».
[28] Secondo le attuali parole di Jonas H., Tecnica, medicina e etica, Torino: 1997.
213
PIERMARCO AROLDI
IL COINVOLGIMENTO DEL GRANDE PUBBLICO
SULLO SVILUPPO DELLA RICERCA BIOMEDICA
IL RUOLO DEI MASS-MEDIA
IL QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO
Il tema di queste pagine suggerisce un esercizio di riflessione sul confine tra due territori, quello
rappresentato dalla ricerca biomedica e dal suo sviluppo e quello del sistema dei media e della
comunicazione sociale.
Si tratta di un confine che unisce più di quanto separi, ricco di varchi e di passaggi attraverso i
quali, sempre più frequentemente, transitano soggetti, idee e problemi. Nel corso di questa
relazione si tenterà sinteticamente di tracciare alcuni dei passaggi più transitati e delle questioni
più significative che attraversano i due territori.
Se questa intenzione definisce in partenza i limiti entro cui si muoverà il discorso, il quadro
teorico in cui esso si iscrive richiede un respiro più ampio. Per non ridursi a una descrizione più o
meno fedele del panorama, lo sguardo ha bisogno di punti di riferimento, di categorie mentali che
permettano di riconoscere e nominare i fenomeni, di cogliere somiglianze, analogie, differenze.
Da questo punto di vista, la riflessione etica sulla biomedicina, da una parte, e sulle
comunicazioni sociali, dall’altra, costantemente sollecitate dal Magistero, forniscono alcune
indicazioni comuni a entrambi i territori che vale la pena evocare sinteticamente.
Diversi autori, in anni recenti, hanno non a caso colto significative analogie tra quanto sta
avvenendo nell’ambito della ricerca scientifica e medica e la brusca accelerazione che la
telematica ha inferto al sistema globale dei media, proponendo o discutendo metafore che, spesso
in modo suggestivo, operano per slittamento semantico tra questi due campi[1].
Le problematiche sollevate da questi mutamenti sono ricche di conseguenze pratiche spesso
rilevanti, al punto che, da più parti, si è suggerita l’istituzione di Comitati di Videoetica o di Etica
dei media sul modello di quelli adottati in ambito biomedico, e che le Istituzioni politiche hanno
avvertito la necessità di costituire la figura del Garante per le comunicazioni.
Al di là di queste analogie, su alcune delle quali varrà forse la pena tornare, sono però altri i
fondamenti –fra loro intimamente connessi- che è bene richiamare brevemente come categorie
utili a affrontare entrambi i campi di riflessione: si tratta delle nozioni -centrali nella tradizione
del pensiero cristiano- di persona umana e di verità. Dalla prima deriva la
tradizione personalista che, come ricorda Antonio Spagnolo, “affonda le sue radici nella ragione
stessa dell’uomo e nel cuore della sua libertà”: l’uomo è persona perché capace di riflessione su di
sé, di autodeterminazione, di scoprire il senso delle cose e attribuirlo alle proprie espressioni; “in
ogni persona umana il mondo tutto si ricapitola ed acquista senso, ma il cosmo è nello stesso
tempo travalicato e trasceso. In ogni uomo sta racchiuso il senso dell’universo e tutto il valore
dell’umanità: la persona umana è unità, un tutto e non una parte di un tutto […] una ‘unitotalità’
di corpo e spirito che rappresenta il suo valore oggettivo, di cui la soggettività si fa carico”[2].
L’essere umano così concepito a immagine e somiglianza del suo Creatore può essere sempre
solo fine e mai mezzo. Questa nozione, così familiare alla tradizione culturale di questa
Accademia, guida anche la riflessione nell’ambito dell’etica della comunicazione; la
comunicazione, infatti, come ricorda Guido Gatti, “si iscrive nell’ambito dei rapporti
interpersonali di cui rappresenta una fattispecie di particolare rilievo; è un tipo di rapporto
interpersonale particolarmente intimo e, più di ogni altro, specifico della condizione di persone e
214
della appartenenza al mondo dello spirito di coloro che vi partecipano. Nella comunicazione gli
uomini entrano in un rapporto di reciproco scambio […] creando in questo modo una reale unità
interpersonale”[3].
Anche la comunicazione operata dai mass-media si iscrive in questa prospettiva, come sintetizza
il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali quando osserva che “in tutte e tre le aree,
messaggio, processo, questioni strutturali e sistemiche, il principio etico fondamentale è il
seguente: la persona umana e la comunità umana sono il fine e la misura dell'uso dei mezzi di
comunicazione sociale. La comunicazione dovrebbe essere fatta da persone a beneficio dello
sviluppo integrale di altre persone”[4]. A un’etica della prima persona, cioè della responsabilità
personale, rimandano autori come Spaemann, Abbà e Rhonheimer, cui fanno riferimento, tra gli
altri, Bettetini e Fumagalli nel proporre le loro “idee per un’etica delle comunicazione”[5].
Ancor più sintetico dovrà essere il riferimento al secondo principio, connesso al primo, quello
di verità: così centrale nella riflessione bioetica a partire dalla verità ontologica, la verità della
persona appena ricordata e che l’enciclica Veritatis splendor pone alla base stessa dell’etica, la
questione della verità è, forse ancor più evidentemente, fondamentale nella riflessione sulla
comunicazione.Qui non è solo in gioco la verità dei soggetti personali coinvolti nel processo
comunicativo, ma anche la loro veridicità –intesa meno come “oggettiva corrispondenza del
messaggio espresso nei confronti di una precisa realtà fattuale”, cioè come verità logica, che non
come “soggettiva corrispondenza del messaggio col pensiero del comunicante e la volontà del
comunicante di esprimere la verità del proprio pensiero senza infingimenti e senza schermi
intenzionali”[6]. Ne deriva non solo la negatività intrinseca della menzogna, ma anche la
dimensione pragmatica della verità dell’atto comunicativo stesso, sperimentato prima di tutto
come forma di inter-azione tra persone. Se, infatti, la verità logica non è sempre prerequisito
fondamentale della comunicazione, almeno in quanto l’errore in buona fede fa parte dei rischi
della comunicazione, l’autenticità dei soggetti (potremmo dire la loro deontologia) e l’autenticità
della loro relazione personale costituisce un elemento strutturale della autentica comunicazione,
anche nell’ambito dei mass-media[7].
Ricordati questi riferimenti di fondo, vale ora la pena avvicinarsi all’universo della
comunicazione sociale o di massa (vorrei usare i due termini come sinonimi, pur nella
consapevolezza della loro differenza storica e semantica) per rilevarne, innanzitutto, la portata
di ambiente culturale: se il termine medium significa, infatti, tanto canale quantoambiente,
dobbiamo dire che ormai è questo secondo aspetto a prevalere. Ciò è evidente tanto a livello delle
tecnologie impiegate, quanto a quello della loro capacità di produrre significati sociali.
Sul primo livello (che costituisce, come si è visto, elemento in comune tra ambito comunicativo e
ricerca biomedica) si esprime con grande chiarezza Francesco Botturi quando osserva che, a
differenza della antica tecnica, la moderna tecnologia “precede ed eccede il soggetto e le sue
intenzioni. Il soggetto certamente utilizza e innova le tecniche, ma ne dispone limitatamente;
molto più ne è disposto, perché la tecnologia è un fatto sempre meno settoriale, ma è un
amplissimo insieme di dispositivi, che con la sua pervasività e capillarità dà forma a gran parte
del contesto vitale e dell’orientamento mentale dell’uomo contemporaneo, cioè costituisce
ambiente”[8] entro cui egli fa esperienza di sé, degli altri e del mondo. Con una serie di metafore
particolarmente suggestive il cardinale Carlo Maria Martini parlava, a questo proposito, di
“un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato. Noi
stiamo in questo mondo di suoni, di immagini, di colori, di impulsi e di vibrazioni come un
primitivo era immerso nella foresta, come un pesce nell’acqua. E’ il nostro ambiente, […] un
nuovo modo di essere vivi”[9].
Proprio perché luogo dell’esperienza quotidiana, seppur mediata, i mezzi di comunicazione
finiscono per costituire un ambito privilegiato per la produzione e la riproduzione della cultura,
215
una fitta rete di discorsi pubblici e privati all’interno della quale diventa difficile isolare singoli
messaggi o singoli testi e che facilmente si propone come orizzonte reale, seppur simbolico, entro
il quale situare i percorsi di attribuzione di senso, di riconoscimento dei valori, di coordinamento
dell’azione individuale e collettiva. Da questo punto di vista, senza certo voler ridurre la ricchezza
culturale delle nostre società alla cultura di massa espressa dai media, è inevitabile cogliere
profonde consonanze tra le forme del pensiero apparse nella modernità radicalizzata e le forme
culturali rappresentate dai flussi comunicativi che attraversano le reti dell’informazione,
dell’intrattenimento, della divulgazione. Ciò significa, ai fini del nostro tema, che se da una parte,
come osserva Claudio Giuliodori a proposito della bioetica, i media sono il luogo in cui le
tematiche specialistiche assumono dignità e cittadinanza sociale[10], dall’altra essi definiscono il
principale contesto culturale e il set di linguaggi possibili entro cui le questioni più rilevanti per la
persona e per la comunità vengono pensate, affrontate, rappresentate, discusse, valorizzate e
giudicate.
Questa considerazione porta con sé alcune conseguenze problematiche rilevanti, che saranno
indicate nella seconda parte di questo intervento; ma prima ancora preme sottolineare questa
ulteriore analogia o continuità tra i territori della ricerca biomedica e della comunicazione di
massa: entrambi sono luoghi di una produzione culturale rapidamente e radicalmente mutati
dalle tecnologie, entro i quali la riflessione su alcuni temi decisivi come la nozione di naturale e
artificiale, la percezione della corporeità e dei suoi limiti, il nodo dell’identità –biologica e
culturale- viene sviluppata alla luce –giocoforza un po’ crepuscolare- del tramonto delle
neutralità. Finito il mito della neutralità della scienza e della tecnologia, accantonato quello della
neutralità dell’informazione, i media possono divenire facilmente lo spazio simbolico in cui,
anche a causa della pluralità dei soggetti coinvolti, si confrontano, non sempre consapevolmente,
paradigmi divergenti, assiologie contrastanti e a volte contraddittorie, strategie di sviluppo e di
controllo: basti pensare, per esempio, come l’informazione televisiva sia, almeno in Italia, uno
degli ambiti di discorso socialmente più rilevanti in cui convivono quotidianamente voci e
tendenze, per così dire, “naturalistiche” (ambientalismo, animalismo, biologismo etc…) e opposte
spinte “artificialistiche” (biotecnologie, controllo dei processi riproduttivi etc…).
La cultura dei media, intesi non tanto come sistema ma come insieme dei discorsi sociali che lo
attraversano e lo articolano, dimostra così facilmente una profonda e inconsapevole
contraddittorietà; la contraddizione insita in posizioni che non accettano la sperimentazione su
animali ma accetterebbe quella sugli embrioni umani, o i timori nei confronti delle biotecnologie
che convivono con l’assunto della loro utilità ai fini della scoperta di terapie contro diverse
malattie ne sono solo alcuni esempi.
Ma proprio perché ambiente socio-culturale, i media sono, dunque, non solo il luogo di principale
manifestazione delle contraddizioni e delle tensioni che attraversano i diversi campi del sapere e
dell’agire sociali, ma anche lo spazio di una loro possibile negoziazione, l’ambito della costruzione
del consenso, l’agorà in cui si confrontano competenze differenti. Sono, in poche parole, l’arena in
cui si gioca l’opinione pubblica, non più intesa come giudizio articolato razionalmente in funzione
di strumento di controllo e stimolo sull’operato di governo, ma come doxa, sentire comune, gioco
di specchi in cui riconoscersi o da cui prendere le distanze.
In virtù della crescente complessità del sistema, inoltre, gli opposti fenomeni di autoreferenzialità
e di interattività suggeriscono come i media possano essere anche soggetti o luoghi privilegiati
non solo della parola e del discorso ma anche dell’intervento, dell’azione, del mutamento: i primi
rendono conto di come una notiziafalsa possa circolare per anni, ripresa da un medium all’altro,
nonostante le smentite ufficiali; o di come posizioni in realtà minoritarie possano avere più
successo nei media che nella cosiddetta “realtà dei fatti”. Le risposte più o meno indirette
innescate dai flussi di comunicazione provocano, a loro volta, azioni e reazioni, cambiamenti di
216
rotta, prese di posizione. Il caso Di Bella costituisce, da questo punto di vista, un esempio da cui,
forse, non sono ancora state tratte tutte le lezioni necessarie.
Per tutti questi motivi può essere utile osservare più da vicino, seppure schematicamente,alcuni
snodi del rapporto tra media e ricerca medico-scientifica.
PER UNA SISTEMATIZZAZIONE DELLA QUESTIONE
Per meglio affrontare la questione può essere utile procedere facendo riferimento a una formula
schematica che scompone il sistema delle comunicazioni di massa nei suoi elementi
fondamentali: il riferimento sarà qui, per amore di sintesi, al paradigma di Lasswell. Come è noto,
infatti, esso occupa un posto di rilievo nella tradizione della communication research proprio in
quanto, fornendo una descrizione statica della catena comunicativa, ha permesso di isolare
diversi settori specifici di ricerca, contribuendo così ad articolare gli studi sulla comunicazione in
modo più ricco e complesso. Come osserva Mauro Wolf, “lo schema di Lasswell ha organizzato la
nascente communication research intorno a due dei suoi temi centrali e di maggior durata –
l’analisi degli effetti e l’analisi del contenuto- e nel contempo ha individuato gli altri settori di
sviluppo del campo”[11].
Poco importa, in questo contesto, la mancanza di processualità e lo schiacciamento su un modello
unidirezionale, intenzionale e trasmissivo della comunicazione, ampiamente superata sia dalle
tecnologie dei media, sia dalle teorie della comunicazione sviluppatesi a partire dagli anni
Sessanta sulla scorta dei contributi della linguistica e della semiotica: ai nostri fini esso presta
solo una matrice per isolare i diversi ambiti -disciplinari e processuali- della comunicazione nei
quali il tema posto a oggetto di queste pagine si rivela particolarmente pertinente e ricco di
conseguenze.
Nelle parole di Lasswell, come si ricorderà, “un modo appropriato per descrivere un atto di
comunicazione è rispondere alle seguenti domande:
chi
dice cosa
attraverso quale canale
a chi
con quale effetto ?
Lo studio scientifico del processo comunicativo tende a concentrarsi su uno o l’altro di tali
interrogativi”[12]. A partire da questa schematizzazione è possibile isolare, dunque, l’area
degli emittenti (il primo “chi” del modello), storicamente indagato da una omonima sociologia,
l’area dei contenuti (dice “cosa”), tradizionalmente oggetto della content analysis, l’area dei mezzi
(i “canali”), analizzata soprattutto dai cosiddetti teorici dei media –da Innis a McLuhan, a de
Kerckhove-, l’area dei pubblici (il secondo “chi”), terreno degli audience studies, per finire con la
lunga sequela delle teorie sugli effetti individuali e sociali dei media.
Le prossime pagine tenteranno di analizzare alcuni degli snodi più problematici del rapporto tra
ricerca biomedica e comunicazioni di massasulla base di questa sistematizzazione, descrivendo
ora le modalità, ora le conseguenzedell’operare dei media.
Chi ?
Il primo ambito di analisi è, dunque, quello studiato dalla sociologia degli emittenti. In questa
tradizione di ricerca figurano studi che hanno sviluppato metodologie di indagine anche molto
diverse per comprendere, da una parte, i processi di formazione e di socializzazione
professionale degli operatori della comunicazione, dall’altra i meccanismi di negoziazione che
presiedono alla costruzione sociale della notizia.
217
Chiaramente, entrambi i temi hanno connessioni molto strette con il coinvolgimento
dell’opinione pubblica su questioni di grande complessità quali quelle implicatedalla ricerca
biomedica. Sul primo versante, infatti, è rilevante la formazione culturale e la preparazione
professionale –generale e specifica- del giornalista o del comunicatore che svolge la funzione di
mediazione tra la comunità scientifica e il grande pubblico, mentre sul secondo acquistano
rilevanza le routine produttive in cui si articola quotidianamente la sua prassi professionale e le
relazioni che egli è in grado di instaurare con le sue fonti.
In via preliminare varrà anche la pena ricordare come il complesso di studi in questo ambito
tendano a polarizzarsi intorno a due letture dei fenomeni analizzati; le si può definire, sempre
per semplicità, teorie del complotto e teorie della distorsione involontaria. La prima lettura tende a
enfatizzare la dimensione ideologica del controllo sui media operato da una élite (qualificata, di
volta in volta, in modo differente, ma sempre in grado di sovradeterminare, nella pratica, la
produzione omologata di informazione), la seconda a svalutare il peso dell’intenzionalità dei
soggetti coinvolti a vantaggio di un condizionamento strutturale e operativo incorporato nelle
routine di produzione dell’informazione.Nelle prossime pagine le due prospettive saranno messe
in dialogo l’una con l’altra per evitare sia il rischio di una visione ingenua dei rapporti di forza che
stanno all’origine del processo informativo, sia quello di una semplicistica riduzione del
fenomeno.
Una prima questione rilevante sembra essere legata, dunque, alla natura negoziale della
comunicazione, e dell’informazione in particolare. Secondo una battuta famosa, infatti, la risposta
alla domanda “cosa è una notizia ?” è “ciò che il giornalista ritiene tale”. Ma, come tutta la ricerca
sul newsmaking[13] ha messo in luce l’aleatorietà di questa risposta rende conto di un complesso
processo di costruzione sociale della notizia, in cui giocano diversi fattori e diversi soggetti.
E’ possibile elencare alcuni di questi fattori per meglio comprendere i diversi livelli di
contrattazione in gioco: si tratta di fattori professionali, dipendenti dal processo di
socializzazione cui i giornalisti sono soggetti all’interno del proprio gruppo di lavoro (cultura e
pratiche professionali, gioco delle aspettative di ruolo etc.); di criteri più o meno oggettivi di
notiziabilità (relativi ai fatti e ai soggetti coinvolti, al prodotto, alla concorrenza, al pubblico etc.);
di routines produttive (mix di tempo, mezzi e accesso alle fonti, ruolo delle agenzie, rigidità dello
scadenziario etc.); di procedimenti consequenziali (selezione, editing, tematizzazione etc.).
Ma, come ricorda Carlo Sorrentino, “ancor prima di essere definita dalle logiche professionali e
organizzative la trasformazione di ogni fatto in notizia è un processo sociale; una negoziazione
che si compie fra diversi attori sociali che mettono in gioco risorse politiche, economiche,
culturali […] un intenso processo di scambio fra più attori sociali diversamente coinvolti:
protagonisti dell’evento, fonti, media-men, lettori”[14]. Alcune fasi di questo processo negoziale
meritano di essere
approfondite, in particolare –come si vedrà- la relazione che si instaura tra il giornalista e le sue
fonti.
A proposito delle routine di produzione, vale la pena ricordare, con Sorrentino, che “l’intrinseca
imprevedibilità della materia trattata dall’informazione richiede l’individuazione di precise
procedure”[15], una sorta di burocratizzazione della professione giornalistica basata su
operazioni standardizzate e sull’organizzazione del lavoro. E’ questa organizzazione che
permette di fare fronte, mediante costrizioni pratiche razionali, all’improvvisazione e alla
discontinuità del reale. Tutto ciò si traduce in una gestione della catena produttiva della notizia
che, spesso in modo inavvertito dagli stessi operatori, finisce per condizionare strutturalmente il
lavoro di selezione e di rappresentazione dei risultati della ricerca scientifica.
Nell’ambito degli studi sui processi di newsmaking, il contributo della sociologa Dorothy
Nelkin[16] costituisce un punto di riferimento in grado di evidenziare la pertinenza di alcuni dei
218
meccanismi produttivi dell’informazione con le modalità di copertura del settore della scienza e
della ricerca biomedica; in particolare, la Nelkin osserva come l’ideologia della notizia –che pure
sembra essere coerente con la visione della prassi di ricerca scientifica come fonte di scoperte
continue, cioè di novità dal punto di vista dell’informazione- contraddica, in realtà, alcuni tratti
fondamentali della ricerca stessa, a partire proprio dal fatto che la scienza, di solito, produce le
sue novità in tempi lunghi, non sempre prevedibili, sulla scorta di indagini e ipotesi destinate a
rimanere tali fino al riconoscimento –anch’esso non immediato- da parte della comunità
scientifica. I tempi stretti di lavorazione, invece, la fame di aggiornamento costante e la necessità
di cavalcare l’attualità propri degli apparati informativi spesso impediscono una elaborazione
adeguata degli argomenti scientifici, e implicano anche il rischio di diffondere notizie precipitose
o del tutto false.
In modo analogo, l’aspettativa nutrita da parte dei giornalisti circa i caratteri che un fatto
scientifico deve possedere per diventare notizia (i cosiddetti criteri di notiziabilità) tende a
privilegiare ciò che può colpire l’attenzione o la fantasia del pubblico, o per la sua eccentricità o
per le controversie che può scatenare a livello di discorsi sociali. Da quest’ultimo punto di vista,
inoltre, l’autrice individua due comportamenti opposti: da una parte la tendenza a minimizzare le
precauzioni normalmente adottate dai ricercatori nel divulgare gli esiti del proprio lavoro,
enfatizzando la certezza della scoperta scientifica nella convinzione che al pubblico interessino
fatti e non ipotesi; dall’altra parte, in caso di controversia, la prassi di presentare tutte le opinioni
possibili, equiparando, di fatto, quelle più fondate con quelle prive di qualsiasi legittimità in nome
di una discutibile interpretazione del criterio di obiettività. Spesso, così, il contenuto della notizia
finisce per essere la controversia stessa, rispetto alla quale, però, il pubblico si trova sprovvisto di
parametri di valutazione.
Un ultimo aspetto riguarda la dipendenza del lavoro giornalistico dalle fonti; su questo tema si
tornerà più avanti, ma per ora è utile riportare l’osservazione di Gabriel Galdòn Lòpez[17]
secondo il quale l’ambito della divulgazione scientifica è particolarmente esposto, a causa
dell’esiguità del numero delle fonti autorevoli, al rischio della omogeneizzazione, della
standardizzazione e della reiterazione. L’esigenza di tenere desta l’attenzione su un certo tema
scientifico -o perché incontra il favore del pubblico o perché le pagine dedicate alla ricerca hanno
una programmazione periodica fissa che non corrisponde alla reale possibilità di disporre
quotidianamente di vere e proprie novità- e la necessità di non “bucare”, come si dice in gergo,
una notizia riportata dai media concorrenti, conducono così talvolta a un lavoro di ripetizione o
di artificiale enfatizzazione del tema.
Ma la questione probabilmente più spinosa riguarda proprio la dipendenza dalle fonti
informative. Si tratta, come si vedrà, di una questione ricca di conseguenze, sia per il lavoro in
redazione, sia per la formazione dell’opinione pubblica. Come è noto, infatti, le fonti costituiscono
il primo anello della catena informativa, il luogo in cui avviene la prima selezione dei fatti e la
prima codifica dei materiali destinati a divenire notizia. Nel caso dei media destinati al grande
pubblico, la copertura informativa della ricerca scientifica –nel nostro caso biomedica- dipende
quasi totalmente dalle fonti e dalla loro accessibilità entro i vincoli già ricordati delle routine
redazionali. Nel sistema dei media, poi, che cosa sia una fontedipende dal medium stesso e dal
tipo di prodotto che esso confeziona. Fonti per antonomasia sono le Agenzie di informazione
nazionali e internazionali (che hanno a loro volta il problema di trovare i fatti notiziabili sulla
base della propria rete di corrispondenti, delle riviste internazionali, specializzate e no, delle
altre Agenzie), i collaboratori esterni (ricercatori o giornalisti scientifici), gli Uffici Stampa delle
Istituzioni che presiedono alla ricerca scientifica e delle aziende collegate, Internet. Come si può
notare, alcune fonti sono attive, altre passive[18]: le prime producono di loro iniziativa materiale
informativo, le seconde si limitano a rispondere alle richieste delle redazioni. E’ anche intuibile,
219
visti i condizionamenti dettati dalle routine di produzione che lasciano poco tempo per forme di
giornalismo investigativo o di reportage a carattere scientifico, che le fonti attive saranno
privilegiate. La prima selezione verrà dunque operata soprattutto da quei soggetti istituzionali,
pubblici o privati, dotati di potere e, quindi, di grande peso negoziale nei confronti delle
redazioni, in grado di spingere l’informazione verso gli apparati mediali secondo un principio di
convergenza tra i propri interessi e le routine professionali.
Il ruolo delle fonti si rivela decisivo non solo in fase di selezione ma anche durante quel processo
di negoziazione con gli apparati informativi che avvia la costruzione sociale della notizia. Alle
relazioni istituzionali si affiancano, infatti, le relazioni personali tra singoli giornalisti e
rappresentanti delle istituzioni. Solo per dare un’idea della complessità della negoziazione,
basterà ricordare come la stretta frequentazione delle fonti da parte dei giornalisti –non solo
scientifici- sia criticata da una parte degli osservatori e degli stessi operatori dell’informazione in
quanto causa di una eccessivasocializzazione, una vera e propria convergenza sociale e culturale
che può trasformarsi in “un rapporto fiduciario utile ma anche potenzialmente pericoloso”[19];
rispondendo alle accuse di un sostanziale appiattimento sulle posizioni delle proprie fonti, i
giornalisti tendono, al contrario, a motivare frequentazioni molto strette con la necessità di
andare oltre la facciata ufficiale e di comprendere a fondo le logiche istituzionali proprio per
evitare il rischio di essere strumentalizzati[20]. Entro questo rapporto di fiducia continuamente
rinegoziato, un tipico “rituale strategico” di resistenza all’interpretazione suggerita dalle fonti è lo
spostamento del piano del discorso verso ambiti limitrofi o marginali, dirottando il preferred
meaning delle fonti su un registro emotivo, curioso o sensazionale. Probabilmente l’aumento
di soft news a carattere scientifico, registrato anche in occorrenza di gravi crisi a carattere
sanitario o alimentare[21], ha in questo fenomeno una delle sue spiegazioni. Infine bisogna
ricordare che più un giornalista frequenta le sue fonti, meno è sottoposto ai processi di
socializzazione professionale attivati dalla redazione; cresce la sua familiarità con il mondo della
ricerca scientifica, i suoi problemi e le tematiche specialistiche, ma più facilmente perde il senso
del prodotto comunicativo nel suo complesso e il rapporto con il pubblico. I suoi referenti
principali diventano le fonti stesse e i colleghi delle testate concorrenti[22].
Nel caso della divulgazione scientifica, inoltre, la catena delle fonti conosce un passaggio
intermedio di grande importanza: le riviste scientifiche specializzate a carattere internazionale;
destinate a un pubblico di specialisti, ricercatori o medici, esse costituiscono il vero punto di
riferimento del settore per tutti coloro che si occupano di divulgare i risultati della ricerca
biomedica attraverso i media. La centralità di queste pubblicazioni nel processo di costruzione
della notizia le rende un luogo privilegiato per individuare anche i limiti e i rischi della pratica
comunicativa.
Il rischio più evidente si chiama conflitto di interesse: nelle parole di D.F. Thompson possiamo
definirlo come un insieme di condizioni in cui il giudizio professionale che riguarda un interesse
primario (come la salute di un paziente o la validità di una ricerca) tende a essere indebitamente
influenzato da un interesse secondario (come un guadagno economico o vantaggio
personale)[23]. Come è stato più volte osservato, si tratta di una condizione prima ancora che di
uncomportamento, e come tale può replicarsi in ambiti differenti. In questo contesto interessa
soprattutto il conflitto che può evidenziarsi al momento della pubblicazione di una ricerca su una
rivista scientifica. Come osserva Drummond Rennie, editor del prestigioso Journal of American
Medical Association, “le informazioni scientifiche non esistono finché non vengono pubblicate e
diffuse”; la pubblicazione costituisce, cioè, il momento di effettiva valorizzazione della ricerca e
dei suoi risultati. Costituisce, dunque, anche il momento di massima esposizione a un rischio di
conflittualità che coinvolge i ricercatori, i loro colleghi, gli sponsor e i finanziatori, le Istituzioni di
cura e universitarie di appartenenza, i direttori stessi delle riviste. Il tutto è particolarmente
220
accentuato nel momento in cui l’industria farmaceutica investe grandi risorse economiche per la
ricerca clinica, sostituendosi, di fatto, molte volte, all’intervento pubblico.
Diversi casi di conflitto di interesse che legava i ricercatori ai loro sponsor condizionando
l’integrità dei risultati pubblicati sono stati denunciati nell’ultimo decennio; si è trattato ora di
casi eclatanti che hanno sollevato scalpore anche al di fuori della comunità scientifica[24], ora di
studi sistematici che hanno evidenziato la diffusione di questa condizione potenziale a gran parte
delle pubblicazioni scientifiche[25]. Il “continuum tra un potenziale conflitto che, per la sua
modestia, non interferisce con il proprio giudizio e un conflitto attuale, economicamente
rilevante, che condiziona pesantemente il giudizio”[26] può esprimersi in forme molto diverse e
giungere alla manipolazione dei dati di ricerca per ottenere la pubblicazione nella
consapevolezza che i risultati positivi vengono accolti più favorevolmente di quelli negativi.
Drummond Rennie elenca, al proposito, “l’influenza commerciale dovuta all’esistenza –per il
ricercatore- di interessi economici diretti nell’industria farmaceutica, la remunerazione diretta
per il reclutamento dei pazienti nei clinical trial, i discutibili criteri con cui vengono inseriti o
eliminati i nomi di autori di editoriali e revisioni, i simposi sponsorizzati e i proceedings che ne
derivano, la trasparenza nel modo di riportare i risultati dei clinical trials e la successiva
condivisione dei dati, la frequente mancanza di trasparenza nella valutazione economica dei
farmaci e delle tecnologie, la pubblicazione selettiva dei risultati degli studi positivi e la influenza
e intimidazione verso autori di studi i cui risultati non sono graditi agli sponsor. Sono tutte facce
possibili del conflitto di interesse nel processo di pubblicazione dei risultati”[27].
Ovviamente, la cosa più interessante, a questo proposito, è che la centralità delle pubblicazioni
scientifiche nella catena informativa determina, alla lettera, un “inquinamento della fonte” che si
ripercuote, amplificato, sull’intero sistema della comunicazione: i media attingeranno alla fonte e
estenderanno i danni prodotti a pubblici più ampi e ad altri media più popolari.
Una situazione molto simile si replica, d’altra parte, più avanti lungo la catena informativa,
quando testate destinate al grande pubblico si trovano, per esempio, a offrire informazioni circa
farmaci e terapie e, contemporaneamente, a ospitare sulle proprie pagine le campagne
pubblicitarie delle aziende che producono quegli stessi farmaci.
Infine, la pluralità delle fonti attive, impegnate a spingere la propria informazione verso i media
in modo concorrenziale, congiunta alla centralità, nel processo di produzione della notizia, di un
numero limitato di riviste scientifiche che finiscono per agire, di fatto in modo determinante,
come un filtro di selezione, può dare origine anche in ambito medico-scientifico al problema
dell’accesso. Si tratta di una questione ben nota in ambito di partecipazione socio-politica, dove il
diritto alla libertà di espressione si scontra talvolta con una strutturale resistenza degli apparati
mediali a dare voce a tutti i soggetti coinvolti e a tutte le voci titolari di tale diritto, e dove, non a
caso, l’accesso ai principali media viene talvolta regolamentato per legge[28]. Non è, possibile, a
questo proposito, evitare di porre almeno a livello teorico l’eventualità che la convergenza di
interessi tra istituzioni scientifiche, industria farmaceutica e apparati mediali –fonti intermedie
comprese- provochi di fatto, se non intenzionalmente, una riduzione della possibilità di accesso ai
mezzi di comunicazione da parte di quei settori della ricerca meno allineati sulle posizioni di
maggior potere contrattuale. Come si vedrà più avanti a proposito delle teorie degli effetti, una
tale limitazione dell’accesso può avere conseguenze molto importanti sul coinvolgimento
dell’audience e sulla formazione dell’opinione pubblica.
Tutto ciò suggerisce di vedere l’ambito della negoziazione della notizia come un terreno
accidentato, in cui complessivi fenomeni di “distorsione involontaria” non escludono singole,
locali, responsabilità personali. Entro questo processo, dunque, c’è ampio spazio perché si
riproduca quello che altrove è stato definito “conflitto di interessi”. Appare infatti evidente che,
sia a livello macro che microstrutturale, i punti di contatto e di intreccio tra sistema dei media,
221
sistema industriale farmaceutico, sistema pubblicitario, sistema della ricerca, sistema
ospedaliero e sistema politico sono moltissimi e tutti potenziali luoghi di contrattazione della
notizia. Quando tra ricercatore e giornalista (per rimanere al solo caso dell’informazione) si
inserisce il cosiddetto “terzo pagante”, chiunque egli sia, le derive comunicative sono
difficilmente prevedibili.
Cosa ?
Per quanto riguarda l’area dei contenuti della comunicazione, la tradizione di ricerca sui media
suggerisce alla nostra attenzione un’ipotesi particolarmente interessante che va sotto il nome
di agenda setting; sulla scorta di questa ipotesi, il potere dei media non sta tanto nel “dire alla
gente cosa pensare” quanto nel “dire alla gente intorno a cosa avere un pensiero”. Secondo una
formulazione più corretta, potremmo dire che “la gente tende a includere o escludere dalle
proprie conoscenze ciò che i media includono o escludono dal proprio contenuto”[29].
Se, dunque, da una parte, l’ipotesi dell’agenda setting rientra a pieno titolo tra quelle teorie degli
effetti di cui si parlerà più avanti, d’altra parte essa richiama l’attenzione sul contenuto dei media
-frutto, a sua volta, di quel lavoro di selezione, gerarchizzazione e scrittura che abbiamo visto
precedentemente- come un luogo strategico di costruzione della visibilità sociale e della
legittimazione discorsiva dei temi della ricerca scientifica e della prassi medica. Come sintetizza
ancora Mauro Wolf, “sempre nuovi aspetti della realtà vengono posti al centro della
(momentanea) attenzione, divengono issuessulle quali si organizza transitoriamente il dibattito
pubblico, punti di riferimento al costituirsi incessante di climi d’opinione”[30].
L’aspetto più interessante di tutto ciò, al di là della costruzione sociale di realtà operata da questa
attribuzione divisibilità, è forse da cercarsi nella dinamica innovativa che regge l’ideologia della
notizia e che, come si è detto, sembra particolarmente coerente con il procedere per conquiste
successive proprio della scienza (o di una sua rappresentazione sociale particolarmente diffusa
ed efficace). In questo senso l’emergere provvisorio di tematiche, problemi, tensioni, soggetti
collettivi sostenuto dai media costituisce non solo “un movimento che coagula interessi e
organizza prospettive in confronto, in conflitto, ruotanti su valori contrapposti”[31], ma
soprattutto una spinta in grado di accelerare il mutamento sociale attraverso la sua
rappresentazione.I media contribuiscono a rendere possibile il mutamento “per il fatto di
costruire le condizioni mediante le quali il mutamento stesso diventa visibile, diventa un punto di
riferimento pubblicamente noto, una meta socialmente legittima”[32].
Una volta entrato nel contenuto discorsivo dei media (e nei relativi discorsi sociali che
attraversano il sistema della comunicazione e i suoi pubblici), un tema tende così ad acquistare
legittimazione sociale secondo un meccanismo di rinforzo reciproco offerto dai vari mezzi di
comunicazione. Non è, infatti, solo il genere informativo (stampa quotidiana, Telegiornali,
divulgazione medico-scientifica etc.) il luogo di costruzione della visibilità: la fiction e
l’intrattenimento, soprattutto di parola come il talk-show, giocano, sotto questo aspetto, un ruolo
ancor più importante perché incorporano le tematiche specialistiche nel tessuto dell’esperienza
quotidiana, o in quanto saperi pratici, utili ad affrontare situazioni di crisi (per esempio la
malattia), o in quanto spunti narrativi e situazioni drammatiche intorno alle quali articolare la
produzione di storie.
Quest’ultimo aspetto merita un’osservazione particolare: il fatto che i media costituiscano il
principale sistema di story telling della modernità ne fa uno dei più importanti apparati simbolici
grazie al quale gruppi e società sono messi in condizione di pensarsi riflessivamente, di
riconoscere, confermare o modificare i propri sistemi di valore, di progettare il proprio sviluppo.
La “narrazione comune” implica riferimenti identitari e appartenenze, suggerisce stereotipi,
codifica emozioni, legittima comportamenti e media il mutamento sociale. Da questo punto di
222
vista, probabilmente, il successo delle molte fiction televisive che hanno per ambientazione i
luoghi della cura e per protagonisti i membri del personale medico-sanitario non è solo il
prodotto legittimo di alchimie di genere particolarmente felici, riconducibili a logiche di
grammatica e di sintassi narrativa, (ambiente chiuso, set di personaggi ampio, fisso nei suoi
elementi principali –i medici- me sempre vario in quelli secondari –i pazienti-, tematiche di
interesse umano etc.), ma può essere letto come sintomo del bisogno di un discorso sociale sui
temi della salute, della malattia, del dolore, del rapporto medico-paziente, della morte (e del suo
senso) che prende le forme di una narrazione diffusa e seriale. Temi come l’eutanasia, i trapianti
o la prevenzione dell’Aids, per fare qualche esempio particolarmente drammatico, attingono
probabilmente più legittimazione sociale da questo tipo di discorsi che dalla informazione
specialistica, dalla divulgazione scientifica o dai dibattiti etico-politici che si accompagnano
all’apertura di nuove frontiere della ricerca. E non a caso, infatti, l’attenzione delle lobbies e dei
gruppi di pressione si è storicamente concentrata sulla fiction cinematografica e televisiva forse
in modo ancor più massiccio di quanto non abbia fatto nei confronti dell’informazione[33].
A chi ?
Il pubblico costituisce una variabile particolarmente interessante entro il processo comunicativo,
anche se –almeno dal punto di vista che interessa queste pagine- forse meno problematica di
altre. La sua pertinenza nel condizionare l’informazione biomedica sembra rilevante a due livelli
differenti. Il primo livello è, per così dire, strutturale: lacostruzione di un pubblico di lettori,
ascoltatori, spettatori o utenti è il primo obiettivo di ogni apparato informativo; questo obiettivo
è tanto più rilevante quanto più l’organo di informazione opera in un regime economico di
concorrenza; l’informazione è, da questo punto di vista, un settore dell’industria culturale che
risente di tutte le leggi del mercato in cui opera.
Fare audience, mantenere e accrescere nel tempo il proprio pubblico, significa per qualsiasi
mezzo di comunicazione fare i conti con i suoi interessi, le sue passioni, i suoi gusti, le sue
esigenze, gli usi peculiari che esso fa dell’informazione offerta. Il successo (l’attenzione, la
curiosità, l’investimento economico sempre crescenti etc.) che l’audience decreta a temi e
argomenti a carattere scientifico e sanitario non comporta solo l’espansione quantitativa delle
testate e degli spazi dedicati alla ricerca, alla salute e alla medicina, che pure costituisce uno dei
fenomeni editoriali più rilevanti degli ultimi anni; comporta soprattutto la
definizione qualitativa di alcune aree tematiche privilegiate a scapito di altre; facilita
l’affermazione di vere e proprie mode culturali anche nell’ambito della divulgazione scientifica;
contribuisce a tratteggiare le condizioni di rilevanza pubblica di certi filoni di ricerca piuttosto
che di altri e disegna un ambiente comunicativo più o meno favorevole alla circolazione dei
rispettivi risultati. In altre parole, il pubblico costituisce –come in altri ambiti dell’informazioneuno dei criteri di notiziabilità mediante i quali avviene la selezione e la gerarchizzazione dei fatti
scientifici destinati a divenire notizie.
Ma l’audience costituisce una variabile rilevante anche a un secondo livello; se, infatti, il pubblico
contribuisce a chiudere il circuito informativo attribuendo senso alle notizie e interpretando i
contenuti della comunicazione, bisogna considerare come differenti segmenti del pubblico
producano significati differenti sulla scorta della propria preparazione culturale, delle proprie
competenze, della propria esperienza. Ciò significa soprattutto, ai fini del nostro discorso, che
esistono pubblici che, per circostanze contestuali, sono particolarmente sensibili alla
comunicazione sui temi della salute, della medicina, delle terapie. Basti pensare, per esempio, ai
malati e ai loro familiari che, sulla base della propria esperienza diretta, possono tendere a
reinterpretare le informazioni entro un frame di immediata applicazione al proprio caso,
maturando speranze o andando incontro a delusioni. In un contesto ridefinito a partire dalla
223
condizione della malattia, l’insieme dei processi comunicativi subisce un riorientamento
funzionale i cui effetti, a livello sociale, saranno tratteggiati più avanti ma che, a livello personale,
hanno tutti i tratti di un forte coinvolgimento emotivo e fiduciario.
Su quale canale ?
Abbiamo già detto come i media siano da intendersi sempre più come ambienti e sempre meno
come canali in grado di trasmettere un contenuto. Interrogarsi sulla natura di questi canali
implica, dunque, ragionare su quelle caratteristiche strutturali o di linguaggio che fanno di un
medium un ambiente simbolico più o meno favorevole alla sopravvivenza e alla circolazione di
idee, concetti, rappresentazioni della realtà.
Una di queste forme di rappresentazione è, ovviamente, il macrogenere divulgazione scientifica:
diverse ricerche[34] hanno messo a fuoco, negli ultimi anni, i differenti modelli di divulgazione
della scienza (e della stessa scienza) che si sono succeduti, anche storicamente, a guida della
prassi discorsiva dei mass media. Varrà qui la pena ricordare solo come una visione progressista
e cumulativa della ricerca scientifica, in grado di produrre conoscenze certe e incontrovertibili e
necessariamente volte a migliorare l’esperienza vitale dell’uomo sia stata affiancata più
recentemente da una versione probabilistica (e problematica) del sapere scientifico.
Contemporaneamente, forme divulgative ispirate al modello pedagogista e parascolastico dei
media (soprattutto della Tv) sono state superate da format più spettacolari, in grado di accogliere
le istanze comunicative di generi diversi e di tradurre la necessaria operazione
di semplificazione entro i loro linguaggi specifici.
Da questo punto di vista, ovviamente, non tutti i media sono uguali. Almeno due elementi vale la
pena tenere presenti per meglio comprendere le trasformazioni avvenute nell’ambito della
formazione dell’opinione pubblica negli ultimi due decenni.
Il primo riguarda la progressiva trasformazione dell’ambiente costituito dai media elettronici di
broadcasting: lo sviluppo impetuoso della televisione commerciale in Europa, la moltiplicazione
dei canali e dell’offerta complessiva, la finalizzazione della programmazione alla costruzione
dell’audience e la crisi di parte della stessa nozione di servizio pubblico in ambito televisivo e
radiofonico hanno di fatto indebolito sia gli atteggiamenti di tipo pedagogico (i media come luogo
di emancipazione culturale e di democratizzazione del sapere), sia quelli di tipo partecipativo (i
media come luogo del confronto pubblico e di costruzione della pubblica opinione
habermasianamente intesa). Per contro, la complessità del reale è andata via via crescendo,
chiedendo ai cittadini di dotarsi di strumenti concettuali sempre più difficili da padroneggiare
per essere adeguati alla sua comprensione e al suo governo.
Il risultato è che tematiche come quelle che ci interessano in queste pagine, dalle implicazioni
etiche e antropologiche spesso complesse, vanno incontro a due destini diversi e spesso
complementari: da una parte la crescita di complessità richiede, se si vuole salvaguardare ciò che
resta della funzione (pedagogica e partecipativa) del servizio pubblico, di accentuare la
componente tecnico-specialistica del dibattito, moltiplicandola sul numero delle diverse
posizioni concettuali registrate. La figura dell’esperto, che -come è noto- costituisce una figura
chiave della retorica mediale, non produce più un “expertise monolitico, fattuale e
incontrovertibile”[35]; la tradizionale e indiscussa autorevolezza dello scienziato è ricondotta a
un modello discorsivo dialettico o conflittuale che prevede la possibilità di più opinioni in
disaccordo tra loro ma tutte ugualmente legittimate dal riferimento al sapere scientifico.
Quest’ultimo è, in pratica, spesso ridotto a un sapere tecnico-operativo di natura quasi politica.
D’altra parte, le stesse questioni finiscono per essere rappresentate con linguaggi (format
narrativi e visivi, per esempio) ed entro contesti di relazione con il grande pubblico (abitudini di
consumo mediale, aspettative, precomprensioni etc.) che, di fatto, ne obliterano gli aspetti più
224
rilevanti per enfatizzarne altri, più immediatamente trattabili, cioè gli aspetti più emotivi e
spettacolari. In altre parole, radio e televisione si comportano sempre più come macchine delle
emozioni alle prese con una innovazione scientifica e sociale che viene ricondotta alla dimensione
del senso comune, quando non del sentimento e degli affetti.
Questo non significa che il discorso dei media sia sottratto alle regole del dibattito pubblico;
significa che le sue regole sono più complesse, più stratificate, e che i diversi livelli a cui esse si
attestano (il discorso specialistico e quello emotivo) sono in grado di interagire tra di loro. Come
osserva ancora Bucchi, se ancora qualche tempo fa era possibile mantenere distinti i piani del
senso comune e quello della divulgazione scientifica che tendeva a illuminarlo, oggi la
problematizzazione della conoscenza scientifica fa saltare questa stessa distinzione e
contrapposizione. In particolare, a fronte delle situazioni che possono destare allarme sociale
(per esempio il tema della clonazione) “si potrebbe osservare che non vi è più un ambito del
senso comune in cui le situazioni di emergenza vengono affrontate e percepite secondo il
linguaggio del pericolo che è proprio di questo ambito e un ambito scientifico in cui vengono
tradotte nel codice delrischio”[36].
E’ possibile provare a elencare alcune emergenze linguistico-espressive di questa commistione di
discorsi, in cui i pareri scientifici invadono l’area del senso comune e viceversa:
la retorica partecipativa, per esempio, realizza l’istanza -sempre più diffusa nei media elettronicidi coinvolgere il pubblico nella definizione della situazione e nella costruzione sociale della sua
consapevolezza. Interviste a comuni cittadini, sondaggi d’opinione, racconto in prima persona dei
protagonisti di una certa vicenda medica (malati e loro familiari), contributi telefonici dal
pubblico a casa sono solo alcuni esempi di forme espressive che obbediscono a questa strategia
contribuendo a dare una visione competente degli spettatori; in modo analogo funziona il
coinvolgimentopragmatico dello spettatore come agente, caricato retoricamente della possibilità
di intervenire concretamente modificando la situazione, per esempio largendo fondi per la
ricerca scientifica o mobilitandosi a livello associativo.
la personalizzazione delle posizioni concettuali è, d’altra parte, una strategia complementare alla
precedente, basata sul principio della umanizzazione del problema. In alcuni casi sono i soggetti
deboli a subire questo processo per aumentare il livello patemico del discorso; in altri sono
invece gli esperti, che sono invitati ad abbandonare l’impersonalità asettica del loro ruolo per
essere costruiti -talvolta con il loro assenso, altre volte in modo involontario- secondo un profilo
individuale più marcato, al limite della creazione di un vero e proprio personaggio televisivo.
Entrano qui in gioco fattori come la capacità comunicativa dell’esperto, la sua simpatia, la
possibilità di incarnare, anche fisicamente, una serie di valori in conflitto entro l’arena della
dialettica concettuale. Quanto più un personaggio televisivo “funziona” entro i limiti espressivi
del mezzo, tanto più facilmente la sua presenza sarà ricercata in trasmissioni analoghe,
autoconfermandosi nel ruolo fino ad assumere la funzione di icona immediatamente riconoscibile
di un tema o di una posizione teorica.
Non bisogna poi dimenticare come la pratica della personalizzazione sia particolarmente
coerente con l’esigenza, da parte degli apparati informativi, di possedere una rubrica di esperti
non solo competenti ma anche facilmente raggiungibili, disponibili a cooperare entro i vincoli di
tempo e di spazio in cui si gioca il lavoro della redazione, e che possibilmente abbiano già dato
buona prova di sé in video, in audio, in una intervista o come consulenti. Tutte queste
caratteristiche congiunte rendono l’esperto una risorsa preziosa e non facilmente sostituibile, che
garantisce autorevolezza e, nello stesso tempo, un buon margine di sicurezza in fase di
produzione.Spesso, inoltre, la negoziazione tra l’apparato informativo e l’esperto è faticosa e
complessa: è quindi più conveniente mantenere i rapporti già consolidati piuttosto che
inaugurarne di nuovi. Tutto ciò, evidentemente, contribuisce alla cristallizzazione della figura
225
dell’esperto in relazione a un certo tema scientifico e alla posizione culturale che egli
rappresenta.
la polarizzazione narrativa, spesso combinata con gli elementi precedenti, contribuisce a definire
un quadro più semplice, e dunque più comprensibile, della vicenda. E’ più facile raccontare un
fenomeno complesso se lo si può ricondurre, retoricamente e narrativamente, a uno scontro tra
un protagonista e un antagonista. Moltissime metafore, dallo sport al conflitto politico o militare,
fino alla mobilitazione dell’immaginario romanzesco, possono articolarsi intorno a questa
semplificazione. Da questo punto di vista, un dato particolarmente significativo con cui fare
consapevolmente i conti sembra essere la predominante natura narrativa dei media, anche di
quelli a carattere informativo. La fine, forse troppo celebrata, dei “grandi racconti” ha lasciato
ampio spazio a una narrativizzazione diffusa; una miriade di “piccole storie”, destinate a
diventare “good stories” e dunque altamente notiziabili, si affollano intorno ad alcuni schemi
narrativi che finiscono per darsi come paradigmatici. Spesso l’origine di questi modelli è a sua
volta mediale, mutuata dal cinema o dalla letteratura, come nel caso esemplare dei riferimenti
fantascientifici o gotici puntualmente mobilitati quando si parla di clonazione.
Altrettanto spesso, poi, questi modelli nascondono narrazioni, per così dire, mitologiche tutt’altro
che scomparse insieme ai grandi racconti ideologici. Meno evidenti, forse, ma per questo ancora
più efficaci, operano –per esempio- il mito salvifico della scienza, il racconto stereotipo della
inconciliablità tra fede e ragione, il luogo comune dell’integralismo e così via. Queste e simili
narrazioni sono particolarmente potenti perché fanno insensibilmente da sfondo, da cornice
interpretativa per attribuire, con poco sforzo, familiarità, comprensibilità e senso a questioni
spesso molto complesse; lo stereotipo è, infatti, un comodo strumento concettuale di riduzione
della complessità.
Il secondo elemento di trasformazione del panorama dei media è da cercare nello sviluppo delle
nuove tecnologie della comunicazione basate sull’informatica e sulla telematica; questo sviluppo,
infatti, ha progressivamente imposto un nuovo modello di relazione tra i soggetti sociali coinvolti
nel processo informativo, modificandone ruoli e poteri. L’interattività resa possibile da queste
tecnologie ha eroso la distinzione tra chi produce informazione e chi la consuma, contribuendo a
ridefinire la funzione stessa dei professionisti della comunicazione in quanto mediatori.
Le conseguenze sono particolarmente visibili su due fronti: il primo è quello della trasformazione
della professione giornalistica, sottoposta a un numero crescente di fonti e a una massa
esorbitante di informazioni, non sempre controllabili; il secondo è quello della
professionalizzazione del consumatore, da una parte autorizzato a farsi egli stesso fonte (o
contro-informatore), dall’altra sollecitato ad compiere in prima persona il lavoro
di newsgathering, cioè la raccolta delle informazioni che gli servono per orientarsi praticamente e
culturalmente nella complessità dell’esperienza quotidiana.
In concreto, per il tema che interessa queste pagine, le trasformazioni appena ricordate
significano una disponibilità sempre crescente (sia dal punto di vista quantitativo, sia da quello
della sua accessibilità) di informazione scientifica e biomedica ma, contestualmente, una minore
possibilità di discriminare al suo interno sulla base della attendibilità istituzionalizzata delle fonti
o dell’autorevolezza delle figure di mediazione. Il processo di costruzione sociale della notizia
diviene così meno controllabile (dunque più libero, ma anche più rischioso) e, per certi versi, più
permeabile a fenomeni di rumore (con la conseguente perdita di visibilità di parte
dell’informazione) e di disinformazione (è il caso, per esempio, delle false notizie che circolano in
Internet in modo quasi virale).
Per inciso, varrà la pena ricordare come questo processo di disintermediazione reso possibile
dalla rete agisca, contemporaneamente, nei confronti degli operatori dell’informazione tanto
quanto nei confronti della stessa categoria professionale dei medici, se è vero che Internet
226
costituisce una delle prime fonti di consultazione nella prassi di automedicina e soprattutto nel
ricorso alle medicine alternative: modificare gli strumenti di accesso al sapere (scientifico,
medico, specialistico …) tende a modificare, come si vedrà nel prossimo paragrafo, i rapporti
sociali e le pratiche quotidiane che dalla diversa distribuzione dei saperi e delle competenze
prendono forma.
Con quali effetti ?
L’ambito di studio degli effetti sociali dei media è stato attraversato, a partire dagli anni Settanta,
da diversi fermenti che hanno contribuito a definire meglio la capacità di influenza che i mezzi di
comunicazione esercitano sul corpo sociale[37]; in estrema sintesi, si tratta della capacità di
interagire, per accumulo sul medio e lungo periodo, sulla dimensione cognitiva dei loro
destinatari, incidendo sugli schemi mentali, sulle precomprensioni, sulle categorie concettuali e
sui processi logici con cui ogni soggetto percepisce la realtà che lo circonda, vi riflette sopra e
agisce per modificarla. Non si tratta tanto, dunque, di una forza direttamente persuasiva o
manipolatrice, quanto di un insieme dirappresentazioni del mondo, a carattere informativo o
narrativo, che contribuiscono a orientare le modalità con cui il mondo stesso si dà come oggetto
di pensiero, di esperienza, di valutazione. A questa interpretazione ecologicadell’influenza dei
media contribuiscono diverse teorie che analizzano come i mezzi di comunicazione “creano la
cultura e l’ambiente simbolico e conoscitivo nei quali l’individuo vive e costituiscono una risorsa
che egli usa nelle interazioni sociali per situare e rendere significativo il proprio agire”[38].
Nel contesto di questo processo di costruzione sociale della realtà e delle condizioni della sua
pensabilità, un motivo di riflessione particolarmente significativo in relazione al tema di queste
pagine è suggerito dalla teoria che Noelle Neumann ha definito “spirale del silenzio”; secondo
questa visione, “il processo di formazione dell’opinione pubblica è principalmente l’interazione
tra il monitoraggio che l’individuo compie sull’ambiente sociale circostante e gli atteggiamenti ed
i comportamenti dell’individuo stesso”[39]; il consenso all’interno di un gruppo umano sarebbe
così il frutto di un continuo lavoro sociale fatto di costanti processi di allineamento attraverso i
quali i soggetti cercano di evitare il proprio isolamento culturale.
Si attiva così un meccanismo circolare e ricorsivo che condanna alla scomparsa dall’orizzonte del
dibattito pubblico quelle posizioni culturali che nell’ambiente socio-simbolico dei media vengono
rappresentate come minoritarie: nelle parole della Noelle Neumann l’opinione pubblica è quindi
“l’opinione dominante che costringe alla conformità di atteggiamento e comportamento nella
misura in cui minaccia di isolamento l’individuo che dissente o di perdita del sostegno popolare
l’uomo politico”[40].
Se a questa “pressione ambientale” esercitata dai mezzi di comunicazione “alla quale le persone
rispondono sollecitamente, con acquiescenza o con il silenzio”[41] si aggiungono la selettività
nell’accesso al sistema dei media e la sua forte autoreferenzialità si capirà come i temi e i soggetti
sociali più dotati di visibilità mediale tenderanno ad acquisirne sempre di più, mentre quelli poco
presenti, scarsamente visibili o comunque minoritari vedranno progressivamente ridotta a zero
la loro possibilità di influenzare la costruzione dell’opinione pubblica.
Chiaramente, tutta la portata del coinvolgimento di maggiori o minori fette di questa pubblica
opinione si manifesta con ricadute significative sugli stessi sviluppi della ricerca scientifica e
della pratica medica. Una prima conseguenza di quanto detto sin qui è l’effettiva pertinenza del
tema indicato dal titolo di questa relazione. Non solo il coinvolgimento del grande pubblico
intorno al dibattito sulla ricerca biomedica è un dato di fatto, testimoniato dal crescente numero
di trasmissioni televisive e di rubriche giornalistiche dedicate –certo in modo generale- ai temi
della salute, della medicina, della ricerca scientifica[42]; ma, soprattutto, questo coinvolgimento è
funzionale alla comparsa di un soggetto sociale consapevole in grado di intervenire, in modi
227
diversi, sullo sviluppo stesso della ricerca. Due mi sembrano le principali direttrici di questo
intervento.
In primo luogo, la costruzione del consenso intorno alle politiche di ricerca da adottare si realizza
principalmente attraverso i media, soprattutto in una società come la nostra in cui i corpi
intermedi della partecipazione sociale e politica sembrano segnare il passo rispetto al processo di
disintermediazione sviluppato dai mezzi di comunicazione di massa. Le grandi iniziative volte a
raccogliere fondi da destinare alla ricerca passano necessariamente attraverso i percorsi della
comunicazione di massa dove diventa talvolta difficile operare i distinguo necessari; la
complessità della ricerca passa in secondo piano rispetto all’emotività spettacolare che governa il
successo di pubblico ed economico di questi grandi eventi.
Anche i sondaggi sono, sempre da questo punto di vista, un potente strumento di indagine che
facilmente si trasforma, secondo il modello della profezia che si autorealizza, in strumento di
controllo. Il grande pubblico costituisce così sia il prodotto sia lo strumento di una aggregazione
d’opinione da intercettare politicamente con iniziative legislative e politiche che, a loro volta,
saranno oggetto di comunicazione.
D’altra parte non bisogno dimenticare che le modalità con cui la formazione dell’opinione
pubblica si traduce in consenso intorno alle politiche di ricerca sono più complesse e meno
lineari di quanto si possa pensare; come osservano Bucchi e Neresini, “due decenni di ricerche
internazionali sulla comunicazione e consapevolezza pubblica della scienza mostrano con grande
chiarezza come a livelli più elevati di informazione non corrisponda affatto una maggiore
disponibilità a sostenere la ricerca. Anzi, proprio tra le fasce più informate della popolazione e
più sensibili ai temi medico-scientifici si riscontra la maggiore propensione alla mobilitazione
critica”[43]. Per contro, i dati riportati dal Censis per l’Italia (Censis 2001) evidenziano una
correlazione positiva tra capitale culturale disponibile, consumo di informazione e atteggiamento
favorevole nei confronti delle biotecnologie: dopo una fase di ottimismo distratto e superficiale e
una di delega crescente, “nella fase attuale l’assenso e il consenso nei confronti degli sviluppi
delle biotecnologie appaiono sempre più vincolati rispetto al passato […] alla richiesta esplicita di
informazione e di trasparenza da attuare ad opera dell’amministrazione pubblica, dell’industria e
del mondo stesso della ricerca”[44].
Probabilmente bisogna tenere conto di tensioni e retroazioni complesse: più diminuisce il gap di
conoscenza tra specialisti e opinione pubblica, più aumentano le istanze valutative da parte di
quest’ultima; più il processo è condotto secondo modalità consensualiste, più facilmente la
valutazione si traduce in un atteggiamento di fiducia, più spazio ottengono le voci conflittualiste,
più l’opinione pubblica è portata a utilizzare il margine di conoscenza ulteriore in funzione di
controllo o di mobilitazione sociale. In entrambi i casi, quella che sembra affermarsi è comunque
una volontà di partecipazione, un recupero di protagonismo da parte dei soggetti interessati, una
esigenza di maggiore consapevolezza e informazione:
In secondo luogo, e in modo forse ancora più diretto, la crescente mole di informazione medicoscientifica consumata da telespettatori e lettori finisce per modificare, come un elemento
condizionante talvolta in positivo, talaltra in negativo, il mercato stesso della prassi medica:
ridefinisce le relazioni medico-paziente su nuove basi di competenze e di fiducia (o di sfiducia),
opera una sorta di legittimizzazione sociale tanto della malattia (si pensi ai discorsi pubblici
sull’Aids) quanto della cura (ancora il caso italiano della somatostatina o delle cosiddette
medicine alternative), ingenera aspettative -e a volte pretese- che possono difficilmente essere
corrisposte, può stimolare un “consumismo funzionale solo a un pervicace accanimento
diagnostico e terapeutico”[45].
Più che approfondire questo tema è opportuno segnalare la sua stretta connessione con la
dimensione culturale dei media che ho ricordato inizialmente: come è stato
228
osservato da più parti, sono la nuova, diffusa, “cultura del farmaco” e “la medicalizzazione di
qualsiasi disturbo o disagio esistenziale, che nella medicina vede la soluzione e che alla medicina
garantisce una rendita di posizione” a costituire “il fertile terreno su cui matura ogni genere di
conflitto di interesse”[46].
Una questione centrale rispetto all’intero sistema riguarda, dunque, le due categorie,
fondamentali per la nostra società almeno secondo analisi come quella di Anthony Giddens[47],
di rischio e di fiducia. Tutti i meccanismi di disaggregazione (disembedding) e di distanziamento
spazio-temporale tipici della modernità come le tecnologie, i sistemi esperti e i mezzi di
comunicazione di massa (anche sotto questo aspetto ricerca e prassi biomedica e media rivelano
un tratto in comune) implicano una dose crescente di fiducia, a fronte di una altrettanto
crescente dose di rischio.
Secondo Roger Silverstone, i media hanno a che fare con la nostra sicurezza ontologica,
“rafforzano la nostra volontà di fidarci di altri sistemi astratti e ci offrono una struttura per
fidarci l’uno dell’altro”, ma la “fiducia è come l’informazione: non si esaurisce con l’uso. Più ce n’è
più è probabile che ce ne sia; al contrario, si esaurisce se non viene utilizzata. I media del mondo
moderno offrono entrambe, ma in un’epoca di mutamento la loro capacità di farlo è
notevolmente indebolita”[48].
Un discorso a parte meriterebbero poi i cosiddetti nuovi media; Internet, per esempio, costituisce
un ambiente simbolico –il cosiddetto Cyberspazio- in cui il bene fiducia è fondamentale. Le
comunità virtuali vivono di fiducia reciproca; l’informazione che circola liberamente nella rete è
insieme incontrollabile (spesso non se ne conoscono le fonti e dunque è impossibile applicare
criteri di legittimazione autorevole) magarantita dall’appartenenza alla stessa comunità
deicybernauti.[49]
A volte, poi, i due termini di rischio e fiducia sono in diretta relazione, come quando i media di
massa sono delegati o investiti della funzione di rappresentare e gestire socialmente le situazioni
di pericolo sociale (catastrofi, azioni di terrorismo, allarme alimentare, epidemie etc.).
Chiaramente, la questione è di grande rilievo quando il tema è così delicato quale quello della
salute e dello sviluppo della medicina. In questo caso l’investimento emotivo e fiduciario che
tramite la struttura confidenziale dei media viene riversato sul mondo della ricerca e della
medicina è inferiore solo alla delusione e al disinganno che derivano dalla scoperta di aver mal
riposto la propria fiducia.
Secondo alcuni osservatori, la crisi di fiducia che il nostro sistema sanitario sta attraversando
sarebbe da ricollegare proprio a una eccessiva amplificazione delle potenzialità della ricerca
medica e alle conseguenti, irrealistiche aspettative del pubblico,necessariamente deluse. Antidoto
contro una informazione falsata sarebbe, però, solo un’informazione migliore: “l’effetto
regolatorio di un circuito informativo nel campo ella salute e della sanità dipenderà, dunque, […]
dalla qualità delle informazioni”e dal modo in cui le informazioni circolano e sono messe a
disposizione; “per avere un effetto positivo ciò dovrà avvenire in forma per lo più mediata,
attraverso soggetti sociali di varia natura, in parte già esistenti e in parte del tutto nuovi”[50]
come le associazioni di malati e i gruppi i pressione. Di contro, l’emersione di casi clamorosi di
conflitto di interesse potrebbero minare alle fondamenta il meccanismo stesso della attribuzione
di fiducia, scompaginando in modo conflittuale il rapporto tra i diversi attori al suo interno. Non
sarà inutile ricordare, a questo proposito, come anche il consenso informato, per non ridursi a
una formale dismissione di responsabilità da parte del medico per ridurre i possibili contenziosi,
debba alimentarsi costantemente di una relazione fiduciaria; se poi, come si ricorda da più parti,
la fiducia costituisce non solo il quadro relazionale in cui si deve inserire il rapporto (anche
comunicativo) medico-paziente, ma addirittura il primo placebo, a entrare in crisi è la stessa
possibilità di cura.
229
PER CONCLUDERE
Nelle pagine precedenti si è tentato di individuare i diversi snodi del sistema comunicativo che
possono rivelarsi problematici rispetto a un corretto uso dei media nel coinvolgimento del
grande pubblico e alla possibilità di affermare una visione cristiana su questioni legate alla
ricerca biomedica. Alla luce di questa riflessione è possibile tentare, in sede conclusiva, qualche
indicazione operativa, sia a livello delle professionalità e delle routine produttive
dell’informazione, sia in relazione a una più vasta e generale sfida culturale rappresentata dal
panorama delle comunicazioni di massa.
Sul primo versante, come si è detto, lo spazio della costruzione sociale della notizia costituisce
anche lo spazio in cui possono riprodursi condizionamenti non solo diretti, sulla scorta degli
investimenti pubblici o privati alla ricerca, ma anche indiretti, in grado di creare artificialmente
consenso intorno a certi farmaci o certe terapie. E’ in questo spazio che si insinua la possibilità di
strumentalizzazioni demagogiche e populiste, sia a carattere economico, sia a carattere
ideologico.
Tornare alla considerazione iniziale delle affinità radicali tra etica della ricerca biomedica ed
etica delle comunicazioni di massa può essere utile per suggerire una prospettiva operativa a
questo proposito. Come osserva Claudio Giuliodori, infatti, “una vera comunicazione delle
problematiche bioetiche non può prescindere dalla dimensione propriamente etica […]
Arriviamo così a individuare il nocciolo del problema, ossia la necessità che si sviluppi una vera e
propria ‘etica della comunicazione’”[51]. Il coinvolgimento del grande pubblico in un dibattito
cristianamente ed eticamente orientato sullo sviluppo della ricerca biomedica passa,
innanzitutto, attraverso una comunicazione intrinsecamente etica, naturalmente rispettosa dei
valori della verità e della persona.In questo quadro, anche le singole questioni sollevate nel corso
di questa riflessione possono essere affrontate in termini di deontologia professionale o di etica
pragmatica, ma probabilmente richiedono anche la considerazione di livelli di intervento che
superano un’“etica della prima persona”.
Si tratterà, per esempio, di sviluppare una riflessione sulla qualità dell’informazione, almeno
entro alcuni comparti particolarmente sensibili come quello dell’informazione medica e sanitaria;
ancora, si tratterà di ragionare in termini digaranzie di sistema capaci di escludere in modo
efficace il rischio di conflitti di interesse.
Per questo motivo è necessario pensare a interventi correttivi che agiscano almeno su due livelli
contemporaneamente: da una parte si tratterà, come suggerisce Ron Collins, di sviluppare
strumenti di controllo che forniscano costantemente all’opinione pubblica la possibilità di
conoscere quali rapporti contrattuali intercorrono tra le aziende interessate e gli scienziati o i
centri di ricerca universitaria[52]; dall’altra si tratta di configurare codici di comportamento per
le diverse professionalità coinvolte nella fase della pubblicazione dei risultati di ricerca che
impongano, per esempio, al ricercatore che ha rapporti di consulenza con un’azienda di
dichiararli negli articoli sulle riviste, nelle interviste alla stampa, alle agenzie governative e così
via[53].
A questo proposito, traducendo la questione in termini deontologici, vale la pena ricordare
l'opportunità di iniziative come il “Codice di deontologia del medico e del giornalista per
l’informazione sanitaria”[54]; in esso si raccomandano la formazione specifica e permanente del
giornalista che si occupa di materia biomedica e bioetica, la completezza dell’informazione che
non deve “creare false aspettative nei malati” (capo 3, art. 9), la distinzione da qualsiasi forma di
pubblicità, la rinuncia all’enfatizzazione eccessiva; anche l’omissione di informazione dettata da
interessi economici è considerata violazione (art. 17). Particolarmente interessanti sono poi le
230
norme sulla informazione in ambito di ricerca farmacologica, che impongono tra l’altro la
citazione delle fonti e l’esclusione di notizie che possano risultare promozionali nei confronti di
farmaci in fase di sperimentazione, e gli articoli relativi alla rappresentazione del progresso
scientifico in sanità che raccomandano la collaborazione tra medici ricercatori e giornalisti
scientifici e tra questi e le fonti di natura pubblica.
Infine sarà necessario investire in formazione sul versante degli operatori della comunicazione,
con particolare attenzione nei confronti della prassi della divulgazione medico-scientifica e dei
suoi linguaggi. Centrale è, infatti, la competenza dei divulgatori e dunque la loro formazione sia
etica che scientifica; ma c’è anche un problema di linguaggio, che suggerisce la necessità di
individuare modalità di comunicazione che permettano la semplificazione senza il tradimento del
senso profondo, tenendo conto anche del fatto che la confusione genera disaffezione e distacco da
parte dell’opinione pubblica.
La sfida si sposta così sul versante culturale. Per stringere ancora più nettamente sul tema che ci
sta a cuore bisogna ricordare infatti un’ampia area problematica: è la questione del grado di
compatibilità di un discorso cristiano volto a orientare eticamente la ricerca biomedica con
l’ambiente culturale rappresentato dai media, soprattutto a fronte di un’alta dose di attenzione
esercitata dai mezzi di comunicazione nei confronti della ricerca stessa.
Si tratterà, allora, di sondare con maggiore analiticità i singoli snodi del dibattito culturale in cui
possono annidarsi occasioni di equivoco, fraintendimenti, strumentalizzazioni; si tratterà di
guardare con consapevolezza ai limiti e ai vincoli degli strumenti in modo da non soggiacere
passivamente alle predeterminazioni iscritte nel loro uso. Alcuni tratti strutturali del sistema
sembrano decisamente contraddittori: la sua natura commerciale, la sudditanza alle leggi
dell’ascolto e del mercato pubblicitario, l’endemica drammatizzazione delle notizie pongono
gravi ostacoli. Ancora più difficile sembra, per esempio, un confronto tra la nozione di verità
intesa antropologicamente e filosoficamente come base del discorso etico proprio della
tradizione cristiana e l’accezione di verità legittimata dal sistema dei media che, come è stato
spesso osservato, oscilla tra relativismo soggettivo e consenso della maggioranza. In modo
analogo, non bisogna confondere la pluralità di voci e posizioni rappresentate dai media con una
loro ipotetica neutralità: qualunque discorso sui valori, per esempio, non può prescindere dalla
consapevolezza che, in ambito mediale, l’ostacolo non sta tanto nella loro mancanza ma,
paradossalmente, nella loro abbondanza priva di qualsiasi gerarchia, nella loro fungibilità, nella
loro equivalenza, nella loro alternanza non stabilmente traducibile in assiologia.
Infine, la formazione del pubblico è richiesta su più fronti: quello mediale (media education) per
fornire gli strumenti di un uso critico e consapevole delle risorse informative e culturali messe a
disposizione dal sistema; quello scientifico, per consentire una migliore comprensione del reale
spessore delle questioni in gioco, al di là dei riduzionismi operati dai media; quello morale, per
formare cittadini responsabili e impegnati sul versante delle proprie scelte in ambito di
partecipazione sociale agli indirizzi della ricerca.
Realizzare una simile pluralità di livelli e di modalità di intervento significherebbe operare per
una ricomposizione culturale unitaria, rimettere al centro della comunicazione la persona come
“principio di unità intorno al quale riannodare tutti i fili della conoscenza”[55].
231
[1] Un esempio per tutte, la nozione informatica di rete neurale, o quella di global brain per
indicare lo sviluppo di Internet e delle sue potenzialità conoscitive. Cfr. BETTETINI G. et al. I
nuovi strumenti del comunicare, Milano: Bompiani, 2001.
[2] Spagnolo A., voce “Bioetica” in Tanzella-Nitti G., Strumia A. (a cura di), Dizionario
interdisciplinare di scienza e fede, Città del Vaticano: Urbaniana University Press; Roma: Città
Nuova, 2002: 196-213.
[3] Gatti G., Etica della comunicazione in Lever F., Rivoltella P., Zanacchi A.(a cura di) La
comunicazione. Il dizionario di scienze e tecniche, Roma: Eri-Elledici, 2002:452-461.
[4] Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Etica nelle comunicazioni sociali, Città del
vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2000 n. 21.
[5] Bettetini G., Fumagalli A., Quel che resta dei media. Idee per un’etica della comunicazione,
Milano: Angeli, 1998.
[6] Gatti G., Etica …p.455.
[7] Cfr. Bettetini G., L’occhio in vendita, Venezia: Marsilio, 1985.
[8] Botturi F., Tecnologia ed esperienza, in AROLDI P., SCIFO B. (a cura di), Internet e l’esperienza
religiosa in rete, Milano: Vita e Pensiero, 2002: 97-104.
[9] Martini C.M., Il lembo del mantello, Milano: Centro ambrosiano, 1991.
[10] Cfr. Giuliodori C., Bioetica e comunicazione in Sgreccia E., DiPietro M.L. (a cura di), Bioetica e
formazione, Milano: Vita e Pensiero, 2000:117-126.
[11] Wolf M., Teorie delle comunicazioni di massa, Milano: Bompiani, 1985:25.
[12] LASSWELL H.D., The structure and function of communication in society, in BRYSON L. (a cura
di), The communication of ideas, New York: Harper; ora in SCHRAMM W., ROBERTS D., The
process and effects of mass communication, Chicago; University of Illinois Press, 1972:84-99.
[13] Per una sintesi di questa tradizione di ricerca sui media cfr. Wolf M., Teorie …; Sorrentino
C., I percorsi della notizia, Bologna: Baskerville, 1995.
[14] Sorrentino C., I percorsi…pp.13-14.
[15] ibid., p.150
[16] cfr. Nelkin D., Selling science. How the press covers science and technology, New York, 1987;
ID, Medicine and the media: an uneasy relationship: the tensions between medicine and the media,
The Lancet, 1996, 347:1600-1603.
[17] Cfr. GALDON LOPEZ G., Desinformcion. Metodo, aspectos y soluciones, Ediciones Universidad
de Navarra, 1994; trad. it. Informazione e disinformazione. Il metodo nel giornalismo, Roma:
Armando, 1999.
[18] cfr. Cesareo G., RODI P., Il mercato dei sogni, Milano: Bruno Mondadori, 1996.
[19] Sorrentino C., I percorsi… p.182.
[20] Sorrentino cita a questo proposito la seguente dichiarazione di un cronista: “se non le
conosci e non le blandisci non riesci a costruire un meccanismo di difesa dalle fonti” (Ibid., p.182)
[21] Per esempio il caso “mucca pazza” secondo la ricostruzione di BUCCHI M., Vino, alghe e
mucche pazze. La rappresentazione televisiva delle situazioni di rischio, Roma: Rai Vqpt, 1999.
[22] Sorrentino C., I percorsi… p.188.
[23] THOMPSON DF. Understanding financial conflict of interest, New England Journal of
Medicine, 1993, 329:573-576; su questo tema vd. anche Catananti C., Medicina, valori e interessi
(dichiarati e nascosti), Milano: Vita e Pensiero, 2002:74.
[24] Pietro Dri cita, per esempio, il caso dei farmaci anoressizzanti (New England Journal of
Medicine del 29 agosto 1996); il caso tiroxina (Journal of the American Medical Association del
16 aprile 1997); il caso calvizie (New England Journal of Medicine del 23 settembre 1999). Cfr
DRI P., Conflitti di interesse: basta chiarirli ?, Tempo medico, 666, 2000.
232
[25] Cfr. Krimsky et al., Scientific journals and their authors’ financial interests: a pilot study,
Psychotherapy and Psychosomatics, 1998, 67:194-201.
[26] ANONIMO, I medici di fronte al conflitto di interesse, Bollettino di informazione sui farmaci, 7,
gennaio-febbraio 2000, 1:2.
[27] RENNIE D., Riviste scientifiche e confitto di interessi, intervento alla V Riunione Annuale
Network Cochrane Italiano “Evidence-based medicine e conflitti di interesse”, Milano, 5-6 ottobre
2000; disponibile
all’url:http://www.isi.it/research/2000/lifescience/projects/Conflitto_interessi_e_EBM.pdf.
[28] E' il caso, per esempio, della propaganda politica in campagna elettorale.
[29] SHAW E., Agenda-setting and mass communication theory, Gazette International Journal for
Mass Communication Studies, 1979, XXV, 2:96-105.
[30] WOLF M., Le discrete influenze, in JACOBELLI J. (a cura di), Quali poteri la Tv ?, Bari: Laterza,
1990:150-154.
[31] Ibid. p.151.
[32] Ibid
[33] cfr. Bettetini G., Fumagalli A., Quel che resta ...; BUCCHI M., NERESINI F., Un Nobel a Sanremo
(ma la scienza rimane sconosciuta), Problemi dell’informazione, 2, 2000:233-250
[34] cfr. BETTETINI G.. GRASSO A., Lo specchio sporco della televisione, Torino: Fondazione
Agnelli, 1988.
[35] BUCCHI M., Vino, alghe …, p.101.
[36] Ibid., p.103.
[37] WOLF M., Gli effetti sociali dei media, Milano: Bompiani, 1992.
[38] Ibid., p.73.
[39] Ibid., p.67.
[40] NOELLE NEUMANN E., The spiral of silence. A theory of public opinion, Journal of
Communication, Spring, 1974:43-52.
[41] Ibid., p.51.
[42] Cfr. i dati riportati dal Censis, Cultura scientifica e informazione, Milano: Angeli, 2001.
[43] BUCCHI M., NERESINI F., Un Nobel…p.????
[44] Censis, Cultura scientifica …p.188
[45] Catananti c., Medicina …
[46] Ibid.
[47] Cfr. Giddens a., The consequences of Modernity, Cambridge: Polity Press, 1990; trad. it. Le
conseguenze della modernità, Bologna: Il Mulino, 1994.
[48] Silvestone R., Why study the media ?, London: Sage, 1999; trad. it. Perché studiare i media,
Bologna: Il Mulino, 2002:194.
[49] Esempio ne siano le mail a catena che hanno per oggetto la richiesta di aiuto (non
economico ma informativo) su patologie gravi e particolarmente rare.
[50] Satolli R., Una buona informazione, questo è il rimedio, Telèma, III, 1997:14-18.
[51] Giuliodori C., Bioetica e …
[52] Uno strumento di questo tipo reso disponibile dal "Centre for science in the public interest"
è il progetto Integrity in Science guidato dallo stesso Ron Collins; si tratta di un database che
contiene migliaia di nomi di scienziati che hanno qualche forma di legame economico con le
aziende.
[53] Cfr. intervista a Ron Collins realizzata per la trasmissione “Le oche di Lorenz” disponibile
all’url http://www.radio.rai.it/radiotre.html.
[54] Elaborato dalla Commissione di bioetica dell’Ordine Provinciale di Roma dei Medici
Chirurghi e degli Odontoiatri in collaborazione con la Commissione Culturale del Consiglio
233
Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti; consultabile all’url
http://www.numedi.it/asmi/intesal/codice.html.
[55] Gargantini M., Divulgazione in Tanzella-Nitti G., StrumiaA. (a cura di), Dizionario
interdisciplinare …
234
ELIO SGRECCIA
LA POLITICA DELLA RICERCA BIOMEDICA
VALORI E PRIORITÀ
DEFINIZIONE DEI TERMINI E AMBITI DELLA TRATTAZIONE
La ricerca
Il New Shorter Oxford English Dictionary dà la seguente definizione della ricerca: “ A search or
investigation undertaken to discover facts and reach new conclusions by the critical study of a
subject or by a course of scientific inquire” [1]. Noi intendiamo parlare in modo specifico della
ricerca biomedica, che può coinvolgere soggetti umani ed è destinata a beneficio di soggetti
umani: si tratta di ricerca fatta dallo scienziato per l’uomo, talora in laboratorio, talora sull’uomo
e con l’uomo. Anche la ricerca sull’animale, di cui parleremo più avanti, può avere delle
connessioni importanti con l’ambito biomedico.
Da questo tipo di ricerca si attendono, come la storia della scienza ha dimostrato, grandi e
continui vantaggi soprattutto nella identificazione delle cause delle malattie.
Come ricorda C.Weijer [2], la caratteristica della ricerca biomedica è rappresentata da due
elementi che si implicano: la intenzione di produrre qualcosa che possa essere applicata e
accettata comunemente e inoltre che abbia come oggetto ambiti della biomedicina o ad essa
riferibili. Tali ambiti non sono facilmente suscettibili di delimitazione, perché possono
comprendere una grande varietà di elementi: sostanze chimiche, radiazioni, strumenti chirurgici,
materiali per protesi, geni, agenti biologici (microrganismi), le condotte comportamentali, metodi
psicodiagnostici e psicoterapeutici, lo stesso corpo umano e le sue funzioni.
E’ chiaro che ognuno di questi territori della ricerca biomedica comporta approcci metodologici
diversi [3]. Le principali tipologie di ricerca biomedica sono raggruppabili dentro le seguenti
denominazioni: lo studio di case series: consiste nello studio retrospettivo di casi in cui una
procedura (ad es. chirurgica) è stata applicata su soggetti che presentano una analoga patologia e
richiedono un’identica tecnica d’intervento, per considerarne e compararne gli esiti.
L’observational study: una coorte di casi viene scelta in base ad analoghe caratteristiche e viene
seguita con un trattamento, per ricavarne in prospettiva dei risultati, senza randomizzazione.
Il case control study: si tratta di studi retrospettivi, in cui due gruppi di casi sono presi in
considerazione in base alla presenza/assenza di una caratteristica che si vuol prendere come
oggetto di analisi, per poi paragonare e controllare i dati rilevati per l’accertamento di un
possibile legame causa-effetto. E’ frequente l’impiego di questo genere negli studi epidemiologici.
I Trials clinici ben noti nella sperimentazione farmacologica; in essi il disegno, o programma
sperimentale, può prevedere il gruppo di controllo, la randomizzazione, con o senza il “cieco” o
“doppio cieco”. E’ lo studio più conosciuto in ambito clinico.
La ricerca genetica: a partire dalle scoperte della biologia molecolare la ricerca genetica ha
rappresentato una vera rivoluzione nell’ambito della ricerca biomedica: la identificazione delle
malattie cromosomiche e dei difetti genetici ha stimolato progetti sempre più vasti per la
mappatura, il sequenziamento e la identificazione dell’intero genoma umano. Questo ambito di
ricerca, tuttora in rapido e continuo sviluppo, ha una sua metodica che può essere rivolta alla
conoscenze dei geni, ma può anche consentire l’intervento sperimentale con intenti terapeutici o
anche manipolatori. Negli ultimi anni è iniziata la fase della ricerca farmacogenetica volta a
stabilire le differenze interindividuali, di natura genetica, nell’azione dei farmaci.
235
Una distinzione che viene correntemente presa in considerazione divide in due grandi ambiti la
ricerca: la ricerca di basee la ricerca clinica. La prima si svolge prevelentemente in laboratorio (su
molecole, geni, tessuti, microrganismi) e l’altra sull’individuuo sano o malato. Per la preparazione
del farmaco abbiamo una fase di ricerca di base e successivamente una fase clinica [4]. Bisogna
ricordare che oggi anche l’embrione umano viene fatto oggetto di ricerca di base in laboratorio,
con conseguenze usualmente soppressive e misconoscimento della sua propria dignità.
Un’altra distinzione, che è di ovvia comprensione, è quella che connota il finanziamento: si parla
di ricerca pubblicaprogrammata e finanziata dallo Stato attraverso i suoi organi specifici
(Ministero o Istituti di Ricerca deputati dallo Stato e da esso finanziati, come i National Institutes
of Health (NIH) negli USA, l’Istituto Superiore di Sanità in Italia) e la ricerca privata che è
programmata e finanziata dalla iniziativa e/o dall’industria privata, come avviene nella industria
farmaceutica e nelle industrie biotecnologiche. Ci sono forme miste in cui la iniziativa è privata,
ma gode di finanziamento dello Stato come gli Istituti Universitari o quelli a carattere scientifico
che si qualificano per determinate ricerche ed ottengono un riconoscimento dallo Stato. La
distinzione, consona con un regime di libertà della ricerca, ha anche una portata etica notevole
come vedremo, per la maggiore sensibilità per il profitto economico che è propria della ricerca
privata.
LA POLITICA DELLA RICERCA
Non è facile cogliere l’esatto significato di questa espressione anche per la portata semantica
diversa che si riscontra nelle varie lingue della parola “politica”: mi pare di poter constatare che
nella lingua italiana il significato prevalente viene collegato con l’esercizio del potere pubblico,
mentre nel linguaggio anglosassone (Policy) la parola ha un significato più ampio e designa la
programmazione in senso ampio operata da una qualsiasi impresa di un certo respiro, e include
anche l’insieme delle regolamentazioni anche esterne alla ricerca, non riguarda cioè soltanto i
finanziamenti ma anche le norme deontologiche ed etiche [5].
Per essere più precisi e riferendomi alla letteratura specifica, si possono identificare i seguenti
significati relativi alle politiche della ricerca:
a) Il primo significato, riportato dalla Encyclopedia of Bioethics è così definito: “refers to policy
that establiches a program for a general course or plan of action intended to reach a desired
target or goal. In biomedical research the goal or target is usually specified in terms of a program
relevant to the diagnosis, prevention, treatment, or cure of a specific desease or condition” [6]. In
questo significato policy significa programmazione in senso ampio, tale che può prevedere anche
un insieme di protocolli di ricerca rivolti alla messa a punto di una terapia, come ad es. quella di
preparare un vaccino per l’AIDS, oppure per individuare la causa di una infezione il cui agente sia
sconosciuto. Tale programmazione più facilmente può essere impostata e finanziata dall’autorità
pubblica, ma può rientrare anche nell’interesse della ricerca privata.
Nell’ottica di questo significato rientra anche l’impegno di stabilire la priorità dei programmi e
del modo di stabilire tali priorità [7]. Naturalmente stabilire queste priorità rappresenta anche
un momento di eticità. Come anche costitutisce materia di riflessione etica l’assegnazionedelle
risorse per la ricerca biomedica sia come percentuale del Prodotto interno lordo (PIL) sia nello
stabilire i criteri di ripartizione ai vari settori della ricerca. Un problema particolare di carattere
etico e politico è costituito dal coinvolgimento del pubblico nel determinare questa priorità.
b) Un secondo significato “refers to policy that imposes conditions or restraints on biomedical
research investigators or their institutions” [8] In questo
senso policy significa regolamentazione o l’insieme delle condizioni prescritte per attuare la
ricerca.
236
Tali condizioni o restrizioni dovranno comportare una complessa armonizzazione: la protezione
dei soggetti della sperimentazione, gli obblighi e gli interessi dei ricercatori [9] e la esclusione dei
conflitti di interesse da parte degli stessi [10], l’uso degli animali, l’inclusione delle donne o delle
minoranze etniche; il perseguimento del bene comune compreso quello dei soggetti che sono
colpiti da malattie gravi ma rare. In questa armonizzazione è compreso il contributo della
industria e delle università. E’ in questa fase applicativa che intervengono molti problemi etici di
grande rilevanza, problemi che sono oggetto dei codici che guidano la sperimentazione.
Tra i compiti“politici” dello Stato in quanto tale (analogamente quelli delle autorità
internazionali) c’è quello di stabilire i processi di approvazione delle ricerche presentate dai
ricercatori e ciò sia per quanto riguarda i farmaci sia per quanto riguarda gli strumenti chirurgici
(devices) e inoltre è compito dell’autorità politica formulare le procedure operative [11] degli
organismi di controllo.
c) Un terzo significato più estensivamente “politico” viene sempre più ultimamente preso in
considerazione attualmente ed è quello che si riferisce alla presa di coscienza da parte degli Stati
singoli e della comunità internazionale della rilevanza decisiva che ha la ricerca scientifica in
rapporto al futuro sviluppo non soltanto di una nazione ma dell’umanità nel suo insieme. Si tratta
della messa in relazione dei termini “Ricerca scientifica e Sviluppo” (R/D:
Research/Developement) su base mondiale su base mondiale.
In questa ottica emergono le istanze volte ad evitare il monopolio dello Stato nella ricerca [12]
l’eccesso della sua politicizzazione che storicamente ha fatto registrare le aberrazioni di certi
regimi e d’altra parte si delinea sempre di più un problema di globalizzazione della ricerca
mondiale nella faticosa costruzione dello sviluppo giusto, sostenibile e pacifico [13]).
In questa ottica esiste anche una posizione di critica verso il c.d. “messianismo scientifico”, critica
fondata sul rischio della ingovernabilità delle applicazioni tecnologiche. In questo ambito si parla
della caduta dell’utopia del progresso e si invoca l’affermarsi della bioetica come appello verso un
governo del progresso scientifico e tecnologico globale [14].
Nel nostro tempo si assiste a questo sincronico e bilanciato atteggiamento: da una parte la
considerazione della rilevanza decisiva del progresso scientifico per lo sviluppo della società e
della umanità nel rapporto R-D (Research and Development); d’altra parte la riflessione
sull’ambivalenza dello stesso progresso, specialmente quando viene considerato non più soltanto
come “sapere”, ma anche come “potere”. A questa congiunzione “sapere-potere” si attribuisce la
pericolosità della scienza e della tecnologia e la possibile deriva dello stesso progresso.
E’ certo che la fiducia nella scienza non è più oggi quella “illuministica” nel senso
dell’automatismo ottimistico, fondato sul presupposto che la ragione non sbaglia mai; oggi il
progresso è percepito come ambivalenza e le popolazioni rimangono sempre di più sensibilizzate
dall’alternanza del successo e della paura.
Anche per questo motivo si spiega e si giustifica l’inclusione dell’etica all’interno dello
stesso management politico della ricerca.
E’ necessario ora passare all’analisi di questi tre diversi significati della politica della ricerca.
LA POLITICA DELLA RICERCA INTESA COME PROGRAMMAZIONE
L’esame dei problemi etici nell’ambito delle politiche della programmazione e della ricerca sono
numerosi e riguardano sia la ricerca di base sia quella clinica.
Tenendo presente il programma di questa Conferenza, alcuni di questi temi saranno appena
accennati, perché hanno uno sviluppo in altre relazioni: tali ad es. sono il tema relativo alle
normative internazionali della ricerca sperimentale, il tema del conflitto d’interessi che può
riguardare il ricercatore, il tema della sperimentazione farmacologica e il tema della
237
sperimentazione animale. Ma anche così delimitato il panorama dei temi etici rimane molto
ampio e complesso.
Anzitutto va considerato il fatto del finanziamento pubblico della ricerca, e s’impone l’esame delle
conseguenti responsabilità del potere politico e dei suoi rapporti con il finanziamento privato.
L’interessamento dello Stato nella ricerca, dopo la pagina “nera” della esperienza nazista durante
l’ultima guerra, ha assunto nel mondo democratico una duplice funzione: quella promozionale in
relazione allo sviluppo e alla qualità di vita e quella regolativa in rapporto ai diritti del paziente e
in relazione anche alla libertà della ricerca privata e universitaria [15]. Il modello di questa
gestione (promozionale-regolativa; pubblica-privata) è stato offerto anzitutto dagli Stati Uniti da
cui hanno preso ispirazione gli Stati industrializzati anche di altri continenti.
La constatazione del peso decisivo che aveva avuto la risorsa della scienza nel determinare le
sorti e la fine della 2ª guerra mondiale aveva convinto l’autorità politica degli USA a dare
incentivi alla ricerca scientifica come fattore di sviluppo sia nel campo della tecnologia in
generale sia nel campo biotecnologico e biomedico. Ancor prima della esperienza bellica
mondiale tuttavia il Congresso degli USA, già nel 1887, aveva creato un organismo per lo studio
del colera e di altre malattie infettive (The Staten Island Hygenic Laboratory) e nel 1930 l’aveva
rinnovato e incrementato nelle competenze creando il NIH cui fu aggiunto nel 1937 il National
Cancer Institute. Questi Istituti venivano provvisti dal Congresso dell’autorità di coordinamento
della ricerca e del budget necessario. Dopo la II guerra mondiale il budget dell’NIH si espande
enormemente: dal 1946 al 1949 passa dal 180.000 a 800 milioni di dollari. Nel 1993 lo stesso
Istituto ha avuto il budget di 9.8 bilioni di dollari e nel 1994 11 bilioni: nello stesso tempo attorno
all’NIH si sono coagulate altre 17 istituzioni tra cui la National Library of Medicine.
Il programma “politico” di ricerca prevede 4 fasi: a) l’authorization che è atto del Congresso che
stabilisce il programma e i limiti degli stanziamenti; b) l’appropriation: assegnazione della
disponibilità annua; c) allocation: la distribuzione per i singoli programmi;
d) obbligation: liquidazione dell’importo. Nel 1985 uno speciale programma prevedeva
l’arruolamento di 6 mila ricercatori.
Nell’assegnare i fondi il Congresso stabilisce talora anche i limiti etici dell’impiego ad es. nel 1993
erano vigenti restrizioni sopra l’impiego per ricerche sull’aborto o sull’Ru486.
Ho voluto dilungarmi nello spiegare il funzionamento delle politiche delle ricerche negli USA,
perché tale modello è in qualche modo ripetuto negli altri Stati (salvo che per l’ammontare delle
somme stanziate!). Va aggiunto che nella funzione regolativa le autorità degli USA, quando
pongono restrizioni di natura etica per l’impiego di fondi pubblici, non impongono tali restrizioni
– direttamente almeno – alle industrie private.
Altra differenza sta nel fatto che molti Stati industriali come il Canada, il Regno Unito, Germania,
Giappone ed altri, designano una percentuale fissa del budget di tutta la ricerca destinandolo alla
sanità per il sosteno della ricerca biomedica e si destina in genere una cifra (set-aside) agli Istituti
di ricerca medica (MRCs) [16]. Ciò può meglio garantire la depoliticizzazione della ricerca
biomedica.
L’ammontare dell’impegno statale nella ricerca ha un significato non soltanto politico ma anche
etico, perché nei confronti degli investimenti privati in generale l’impegno pubblico è chiamato a
porre attenzione alle esigenze sociali e di bene comune, mentre gli investimenti privati risentono
dell’aspettativa del profitto per la industria stessa.
Per avere un’idea di quella che è oggi la politica degli investimenti pubblici offro qualche dato che
ho attinto a diverse fonti, con non lieve difficoltà. Recentemente il CENSIS [17] ha fornito alcuni
dati che riguardano la ricerca in generale e comprendono anche la ricerca biomedica e
farmacologica [18]: si tratta perciò di dati che possono offrirci un’idea generale. Secondo questi
dati nel mondo il valore medio della spesa publica per la Ricerca e lo Sviluppo (R-S) è del 3.5%
238
riservata alle biotecnologie, in Italia è dello 0.4% , nel Belgio del 13.8% e nel Canada del 10.1%.
Per queste ricerche si sono sviluppate alleanze regionali e internazionali; sul totale delle alleanze
nel 1998 il 48.3% erano alleanze a carattere internazionale e l’altra parte era a livello
intraregionali. Di quelle internazionali la maggioranza riguardava le alleanze USA-Europa. I dati
statistici relativi alle pubblicazioni scientifiche vedono nella classifica il primato USA; seguono
Giappone, e di seguito Regno Unito, Canada, Germania, Francia, Spagna, Olanda, Italia. In
generale, come vedremo nell’ultima parte della relazione, l’investimento di stanziamenti nei
Paesi Sviluppati per la Ricerca collegata allo sviluppo tende al rialzo e al collegamento mondiale.
Countries
USA
Giappone
Germania
Francia
Italia
Regno Unito
OCSE
CEE
1975
2.3
2.0
2.2
1.8
0.8
2.2
1.9
1.8
1987
2.8
2.8
2.7
2.4
1.3
2.3
2.4
2.7
Un quadro degli stanziamenti di alcuni Paesi Europei per un priodo più recente con calcolo in
Ecu-1995 lo ritroviamo in una elaborazione dell’Ispri – Istituto Superiore di Sanità (Italia) su dati
Eurostat nella seguente tabella:
Paesi
1990
Danimarca 26
Germania 197
Grecia
10
Spagna
Irlanda
10
Italia
Regno Unito
1991
19
197
7
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
279
7
11
25
58
10
23
157
378
16
58
14
14
140
453
16
84
12
13
174
461
17
92
13
437
21
88
15
27
173
412
19
139
430
20
126
438
28
148
26
196
21
226
45
242
149
Circa la domanda dei brevetti, i dati desunti dal Rapporto OCSE 2001 per il periodo 1990-97 sul
totale delle domande di brevetti depositate presso l’EPO (European Patent Office) mostrano un
incremento del 5.7% per l’Unione Europea (UE), del 4.8% per gli USA, dell’1.1% per il Giappone.
Tali brevetti riguardano sia il settore informatico sia quello Biotecnologico: il tasso di crescita
della prima categoria è stato dell’8% , nel secondo di oltre il 10%.
Nel periodo 1990-97 il maggior tasso di crescita delle domande di brevetti biotecnologici
depositate presso l’EPO spetta al Canada (37%) e Corea (32%); nella fascia intermedia si
collocano Gran Bretagna e Danimarca (15%) e Spagna (14%) e Belgio (13%), Italia (8%).
Un dato significativo può essere desunto dal Rapporto Mondiale sullo sviluppo Umano 2002 per
quando riguarda la Ricerca collegata allo Sviluppo (RD), che comprende la ricerca biomedica, le
biotenologie, le tecnologie informatiche e le nanotecnologie); la statistica riguarda tutti i Paesi e
segnala la incidenza del budeget relativo alla R/D sul PIL di ogni Paese. Si possono confrontare i
dati nel prospetto che riportiamo in appendice, ove tuttavia si constata che molti Paesi non
hanno inviato i dati.
239
Una tendenza che si registra nei Paesi sviluppati riguarda la crescita dell’intervento del settore
privato rispetto all’intervento pubblico per quanto riguarda sempre la ricerca in ambito
biotecnologico, compreso quello medico. Lo stesso rapporto CENSIS segnala che dal 1983 al 1985
la quota dei finanziamenti industriali si raddoppia (dal 2.9 al 5.7) mentre la quota pubblica
scende dal 94% al 85.6%. Attualmente negli USA l’industria privata fornisce il 60% della
partecipazione nella ricerca biomedica [19].
Un intervento rilevante del finanziamento pubblico, come è stato accennato, è prevedibilmente
garanzia di maggiore equità nella distribuzione dei finanziamenti, specialmente in quei settori di
ricerca per i quali l’industria privata non manifesta interessi economici, settori che comunque
sono bisognosi di sostegno sociale (malattie rare e farmaci orfani) [20]. Spetta allo Stato il
compito di stabilire le priorità nella ricerca in base alle esigenze sociali.
L’intervento pubblico ha anche grande peso nella organizzazione delle strutture di ricerca, nel
finanziamento della Università e dei Centri di Ricerca nonché nella preparazione dei ricercatori.
Nei Paesi in cui non vi è una organizzazione di ricerca valida si determina la c.d. “fuga di cervelli”,
il che segna un depauperamento di quei Paesi rispetto al fattore umano più rilevante.
Sarebbe importante, anche per le considerazioni di tipo etico, avere dati significativi sulla ricerca
nei Paesi in via di sviluppo, per cui è programmata un’apposita Conferenza a Bruxelles. Poco ho
potuto raccogliere anche dai contatti diretti con alcuni nostri membri dell’Accademia. Un
esempio: il finanziamento statale in Costa d’Avorio per la ricerca è rivolto prevalentemente
all’agricoltura, per circa venti laboratori il budget per la ricerca è saltuario, iregolare e quando è
esistito si è aggirato intorno ai 7 milioni (moneta locale) per anno. Tutta la ricefca, di vario tipo,
ottiene dallo 0,1 allo 0.3 sul badget generale. Nel quadro dell’ONU, riportato in appendice, alcuni
Paesi africani figurano con un altyo indice di investimento, ma non ne conosciamo la provenienza
(pubblica o privata, estera o nazionale).
Gli aspetti eticamente rilevanti per quanto concerne la promozione della ricerca sono molteplici.
L’autorità pubblica, oltre al dovere di promuovere la ricerca, ha anche quello di organizzare il
raccordo fra i vari attori dell’impresa investigativa: i ricercatori, le Università e i Centri qualificati
di ricerca e i soggetti su cui si può svolgere la ricerca.
Non tutti questi soggetti operano conpari possibilità di conoscenze e d’intervento ed è compito
dello Stato assicurare la difesa del soggetto debole che è il cittadino, il quale è soggetto
cooperante con la ricerca, per garantirlo dal rischio e per assicurargli la partecipazione cosciente
mediante il consenso informato [21]
Di solito si ritiene che gli interessi dei ricercatori coincidano con quelli della comunità e dello
Stato: in realtà questo non avviene sempre ed è compito della stessa autorità pubblica vigilare,
non soltanto per reprimere il dolo o gli abusi nella ricerca [22], ma anche per impedire
l’instaurarsi di conflitti d’interessi privati al di fuori della difesa del giusto salario e del
riconoscimento del merito intellettuale. Sono state evidenziate le situazioni di conflitto
d’interesse ad es. là dove i ricercatori possono avere quote azionarie nelle industrie che
commissionano la ricerca stessa [23]. C’è chi segnala questo conflitto chiedendone la repressione
con urgenza per evitare che i pochi fondi destinati alle ricerche vengano indirizzati più al profitto
dei ricercatori che al bene delle popolazioni [24].
Esiste poi l’immenso problema etico, di cui parleremo nell’ultima parte della relazione, della
grande differenza di possibilità della ricerca - quanto ai mezzi, alle strutture e alle persone – tra i
Paesi sviluppati e quelli invia di sviluppo: è uno dei più gravi problemi politici ed etici.
Il compito di assicurare la correttezza dei ricercatori e quello di armonizzazione dei vari attori
nell’intento di conseguire il bene comune sono compiti di alto significato sociale ed etico, ma non
rendono il potere pubblico a sua volta immune da comportamenti etici non corretti. Tali sono le
autorizzazioni date dalla autorità degli Stati per finanziare ricerche sperimentali che mettono in
240
questione la vita dell’essere umano ad es. nei programmi concernenti la procreazione artificiale,
le sperimentazioni sugli embrioni, quelle relative alla clonazionene e alla “pillola del giorno
dopo”, come è avvenuto nel Regno Unito da parte dell’Authority preposta a questi compiti e come
sta avvenendo in altri Stati.
Si deve denunciare in questa ottica la complicità anche di molti Stati nel finanziamento dei
programmi di Agenzie internazionali (Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, OMS etc.)
che hanno sviluppato e sviluppano tuttora programmi di ricerca che comportano la
pianificazione famigliare artificiale, la sterilizzazione, l’aborto chimico. Sappiamo come la ricerca
mondiale a partire dal ’68 ha dato appoggio, finanziamento e sudditanza ad una vera e propria
“congiura” internazionale contro la vita, mettendo a punto sostanze farmacologiche e tecniche
appropriate per tale fine politico. I lavori del Prof. Schooyans hanno potuto documentare queste
complicità. L’eco scaturita dalle Conferenze promosse dalle Nazioni Unite al Cairo (1994)ne è
sufficiente riprova [25].
Anche la prassi dell’autorità politica in alcuni Stati consistente nel negare il finanziamento
pubblico per certe ricerche ritenute illecite, ma nel lasciare libere le istituzioni private di
partecipare a tali sperimentazioni, è da ritenere un’ambiguità che non si può giustificare con il
principio della libertà di ricerca.
Questo problema è vivo attualmente negli USA a proposito dell’impiego delle cellule staminali di
origine embrionale [26] e si sta ponendo anche in ordine al finanziamento dei programmi della
ricerca all’interno dei programmi dell’Unione Europea.
LA POLITICA DELLA RICERCA INTESA COME REGOLAMENTAZIONE: CODICI ETICI E
PERCORSI ORIENTATIVI
Come abbiamo ricordato all’inizio d questa relazione dando la definizione di “Politica della
ricerca”, rientra in questo ambito e sotto questa denominazione anche il compito proprio delle
istituzioni di delineare la regolamentazione dal punto di vista etico della ricerca biomedica.
La politica regolativa della ricerca sull’uomo – e anche sull’animale – ha attinto a diverse sorgenti
e da fonti convergenti: quella degli USA si concretizzò nelBelmont Report, quella europeaprese il
via dal Codice di Norimberga e quella internazionale si espresse nel Codice di Helsinki emanato
dall’Associazione Medica Mondiale e in seguito si è espressa nelle Convenzioni ispirate ai Diritti
dell’uomo come la Convenzione Europea sui Diritti dell’uomo e la Biomedicina del 1996 e con
la Dichiarazione dell’UNESCO sul Genoma umano e i Diritti dell’Uomo (1997).
Altre relazioni toccheranno il tema delle normative, ma mi sembra utile accennare alle principali
tappe di questa politica regolamentativa anche per rilevarne i principii etici ispiratori ed anche
quelle che si sembrano, tuttora, le insuficienze e le contraddizioni dei codici e delle legislazioni
vigenti.
A imporre la regolamentazione della ricerca in diverse parti del mondo primariamente sono state
le notizie relative alle ricerche condotte durante la 2ª guerra mondiale dai Nazisti nei campi di
concentramento su Ebrei, Russi, prigionieri politici, omosessuali etc., per una vasta gamma di
indagini abusive: tecniche di sterilizzazione, metodi di sterminio di massa, esperimenti di
ipotermia condotte a Dacau (il 25% di soggeti morirono) [27]. Ma non sono state soltanto le
pratiche sperimentali naziste a sollecitare la necessità delle norme etiche. Il più noto esperimento
illecito, condotto negli USA, è stato il The Tuokegee syphilis experiment su un progetto preparato
dal Public Health Service: furono sottoposti a sperimentazione cittadini USA di colore, e di essi il
20% morirono a seguito di trattamenti invasivi continuati; anche quando la penicillina era ormai
disponibile la sperimentazione continuò [28].
241
Un ufficio apposito, l’Office for Research Integrity (ORI) in un rapporto del 1993 in Canada rilevò
che un chirurgo, in una ricerca sul cancro della mammella, falsificò i dati di 99 donne sulle 1511
sottoposte a sperimentazione; tale falsificazione rimase nascosta e il ricercatore, il dott. Roger
Poisson, aveva utilizzato un milione di dollari [29]. Si potrebbero aggiungere altri esempi di
sperimentazioni condotte negli Stati Uniti su anziani e su bambini senza consenso e con
conseguenze di danni infettivi.
Nel 1947 è stato pubblicato il Codice di Norimberga con i suoi 10 principi tra i quali il divieto di
condurre esperimenti senza il consenso del soggetto. Lo stesso principio del consenso sugli
interventi ed i trattamenti fisici sull’individuo è compreso anche nella Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo. Il più famoso ed ancor attuale Codice deontologico è la Dichiarazione di
Helsinki del 1964 rivisto più volte in relazione alle questioni nuove che si ponevano: in questo
Codice, oltre alla richiesta del consenso, emerge il principio di evitare il danno al paziente. Il
documento è emanatodall’Associazione Medica Mondiale e tuttora viene preso come base per i
trials clinici. Altro importante documento internazionale che riguarda la sperimentazione
è l’International Ethical Guidelines for Biomedical Research involving Human Subjects pubblicato
dal Consiglio delle Organizzazioni Internazionali delle Scienze Mediche (CIOMS) del 1993. La
stessa organizzazione aveva pubblicato sulle sperimentazioni in ambito epidemiologico il
documento intitolato International Guidelinesfor Ethical Rewiev of Epidemiological Studies (1999).
In ambito regionale europeo bisogna ricordare le Good Clinical Practices [30] che sono state
recepite dagli Stati membri dell’Unione Europea. Norme che riguardano la sperimentazione sono
contenute, come abbiamo accennato, nellaConvenzione Europea dei diritti dell’uomo e la
biomedicina[31], e per quanto riguarda la sperimentazione in ambito genetico si deve tener
presente la Dichiarazione Universale sul Genoma Umano dell’UNESCO [32].
Sul piano nazionale si può dire che molte autorità ministeriali, Ordini dei Medici e Associazioni
specialistiche hanno prodotto i loro documenti normativi (Codici Deontologici Nazionali).
Rimane storicamente rilevante il Belmont Reportnegli USA pubblicato nel 1974 ad opera
della National Commission costituita proprio in reazione alla rivelazione delle sperimentazioni
selvagge: in questo documento vengono sottolineati i principi del rispetto per le persone, il
principio della beneficienza-non maleficenza e di giustizia. Negli USA nel 1980 fu anche costituita
la President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Biomedical and Behavioral
Research che pubblicò un insieme di documenti orientativi nei campi più avanzati della ricerca
biomedica: ingegneria genetica, procreazione artificiale, trapianti di organi. Tale commissione
può essere considerata come il primo Comitato Etico Nazionale; seguirà l’iniziativa del Presidente
Mitterand in Francia nel 1984 con la costituzione del Comité National Consultatif d’Ethique.
Questi esempi saranno poi seguiti in tutti i Paesi (in Italia nel 1990). I Comitati Etici Nazionali
emettono pareri non soltanto sul terreno assistenziale ma prima di tutto nei campi della
innovazione e della ricerca. I comitati nazionali trovano ora una proposta di coordinamento da
parte dell’UNESCO.
La istituzione dei comitati etici, nazionali, internazionali (Consiglio d’Europa, Unesco),
istituzionali e locali rappresenta in efffetti l’altro presidio per la tutela dei soggetti e dell’etica
della ricerca. La Chiesa dal canto suo ha promosso attivamente con il suo Magistero istanze etiche
che spesso sono entrate a far parte dell’etica medica e degli stessi codici deontologici [33].
La presenza dei centri di etica applicata è accompagnata dallo sviluppo della Bioetica come
disciplina d’insegnamento e di giustificazione delle norme e dei principi etici. Istituti, Centri di
Bioetica, pubblicazioni e dibattiti continuano a sottolineare nuovi principi e a indicare nuove
dimensioni dei problemi etici. Negli USA anche dopo la pubblicazione del Belmont Report, si
continuò ad evidenziare altri principi a garanzia della politica della ricerca: fra questi ovviamente
l’esigenza che è intrinseca alla ricerca sperimentale, e cioè la validità scientifica che viene
242
identificata come un “prerequisito” e fa appello soprattutto alla metodologia. Insieme alla validità
si sottolinea il valore che la ricerca deve rappresentare in ordine alla scienza, la medicina e la
società [34]: ci può essere una ricerca metodologicamente corretta ma di scarso valore; chi fa
parte anche oggi dei comitati etici per la sperimentazione dei farmaci sa che molti trials hanno
scarso peso innovativo e spesso si poggiano su piccole varianti di farmaci già in commercio con il
solo risultato di assorbire le risorse messe a disposizione dallo Stato.
Valore e validità sono rilevanti anche per giustificare la proporzionalità del rischio che si può
chiedere al soggetto sano.
Nella letteratura etica si insiste anche sull’accuratezza ed onestà nel rispettare i risultati, le
procedure e i metodi usati nel momento della pubblicazione della ricerca stessa.[35]
Un ulteriore elemento che è stato portato ultimamente all’attenzione è costituito dal c.d. respect
of communities che consiste nel prendere in considerazione i valori, le credenze e le strutture
politiche delle comunità isolate e primitive, quando vi si volesse condurre una
sperimentazione[36]. In questi casi si richiede di acquisire previamente un’accurata
informazione sugli usi e costumi e tradizioni della comunità; di conseguenza si propone che,
prima di avvicinare i singoli individui di queste popolazioni per ricevere il consenso alla
sperimentazione, sia chiesto il consenso della autorità legittima della comunità (il cui assenso
non deve tuttavia sostituire quello del soggetto singolo); in terzo luogo si dovrebbe garantire che
il progetto abbia a rispondere dalle necessità del luogo, o comunque,comporti appropriati
vantaggi alla comunità, rimanendo ovviamente prescritto, come per tutti i soggetti, l’obbligo di
evitare danni e rischi; infine si suggerisce che la popolazione locale, mediante suoi rappresentanti
possa partecipare alla discussione del disegno, alla conduzione della sperimentazione e all’analisi
e pubblicazione dei risultati.
Nuove esigenze emergono sempre più evidenti nella ricerca di tipo genetico e sul piano
internazionale vengono evidenziate da Documenti che hanno attinenza con i Diritti dell’uomo
[37]; riguardano la segretezza dei dati, la eventuale comunicazione ai membri della famiglia che
potrebbero avere gli stessi rischi, nonché i divieti di discriminazione che possono emergere
da screening sui lavoratori, sulle famiglie e sui cittadini. Vedremo poi anche i limiti che
presentano queste norme etiche codificate per questi speciali temi.
Argomenti che vengono portati all’attenzione delle politiche di ricerca riguardano anche la
inclusione nelle sperimentazioni di popolazioni o gruppi di individui che non godono dei diritti
umani e di sufficienti condizioni di libertà: queste ricerche spesso vengono a ricevere
l’approvazione da autorità che non rispettano i diritti umani così che le ricerche potrebbero
svolgersi su popolazioni vulnerabili come, ad esempio, i rifugiati privi di protezione. In questi
casi, prima di procedere alla sperimentazione, si suggerisce di acquisire una conoscenza esatta
sulle condizioni politiche e umanitarie relativamente all’osservanza dei diritti umani, per
esaminare a quali codizioni possa essere condotta una eventuale sperimentazione.
Tra le condizioni si suggerisce la istituzione di un Indipendent Istitutional Review Board, si
indicano i casi in cui la considerazione delle condizioni politiche possano avere rilevanza nella
determinazione del rischio o nella compromissione con attività criminose o quanto alla
obiettività della ricerca o alle conseguenze negative per i soggetti intervistati: vengono citati i
casi delle ricerche sugli effetti della tortura, sulle conseguenze psicologiche nei bambini inseriti in
attività illegali. Queste condizioni sono state rilevate in Nord Corea e in Cina [38].
La discussione è anche divenuta rilevante sulla esclusione delle donne nella ricerca scientifica. La
politica dell’NIH e nel resto dei Paesi sviluppati è di includere le donne nei programmi di ricerca:
la esclusione non sembrerebbe giustificata da ragioni scientifiche, perché con la esclusione
potrebbero venire a mancare dati importanti per la ricerca [39]. Ovviamente rimane l’obbligo
della esclusione delle donne nel caso di gravidanza per il rischio sul feto od anche delle donne in
243
età fertile per il fatto che si può verificare la gravidanza durante la sperimentazione. Per questa
ultima evenienza i protocolli spesso, allo scopo di poter mantenere la donna nel trial, chiedono
che si impieghi il“contraccettivo efficace”. In proposito la posizione cattolica si oppone a questa
clausola obbligante e chiede che sia sostituita nei programmi di sperimentazione con una formula
che non imponga la contraccezione, ma, fermo restando l’obbligo ad evitare il concepimento, lasci
aperta la possibilità di accesso a metodi che prevedono l’astinenza o a metodi naturali [40].
L’uso dell’animale viene generalmente consentito dalle pratiche regolamentative della
sperimentazione nonostante l’opposizione sempre più forte dei gruppi animalisti estremi. Non si
potrebe sperare in molti casi il progresso della medicina e della chirurgia senza la
sperimentazione sull’animale.Basta pensare ai progressi della chirurgia dei trapianti [41]. Il tema
coinvolge la posizione dell’uomo nell’universo dei viventi e la inconciliabilità della posizione
antropocentrica, anche nella sua versione moderata e cristiana con le teorie biologiste che
negano la differenza ontologica e assiologica tra l’uomo e l’animale o difendono i paritari diritti
tra animali e uomini [42]. Ovviamente le norme che regolano la sperimentazione sull’animale
prevedono che si evitino sofferenze non necessarie (l’anestesia) ed altre regole che si riferiscono
alla custodia dell’animale da esperimento.
Accanto alle politiche di regolamentazione espresse nei codici e nei comitati, la letterautra
registra anche lo sforzo compiuto per inculcare un ideale del ricercatore e configurare una sorta
di “summa” delle sue attitudini e qualità essenziali, quello che A.Bompiani chiama l’ethos del
ricercatore[43].
E’ stato soprattutto il Marton a proporre un paradigma ideale del ricercatore [44]. Questo autore
elenca alcune qualità proprie del ricercatore o dei ricercatori per garantirne più che altro la
validità della loro ricerca: il Comunismo (mettere insieme i risultati), l’Universalismo (nel
valutare i risultati raggiunti), il Disinteresse (per quanto riguarda le motivazioni non cognitive),
l’Organized Scepticism (scietticismo organizzato come metodo); tali qualità vengono riassunte
nell’anagramma CUDOS, che per alcuni doveva comprendere anche l’Originalità – con la
sostituzione di organized scepticism con originality– ed altri aggiunsero ancora, l’Umiltà e il
Riconoscimento (dei meriti altrui) arrivando all’acronomo arricchito CUDOSUR.
D’altra parte, come nota sempre Bompiani, queste doti di etica “estrinseca” vengono influenzate
sempre più da vicino dalle esigenze della ricerca di base e dall’intervento dell’industria privata
per cui al CUDOSUR si sostituisce spesso un altro acronimo il PLACE e cioè la ricerca diventa
anche Privata (riservata), Locale (circoscritta), Autorevole (sostenuta dall’autorità del
ricercatore), Commissionata ed Esperta (affidata a gruppi riconosciuti come tali) [45]. Alle
insufficienze evidenti e alle altrettanti evidenti genericità di questi requisiti altri autori hanno
aggiunto ulteriori formulazioni come il Cannavò [46] che ha proposto un ulteriore acronimo
SHIPS (le navi) ad indicare nuove istanze di ricerca riferite alla necessità che la ricerca sia
Strategica, Innovativa, Pubblica, Scettica.
Da quanto abbiamo scorso sotto questo profilo si vede che anche questo tipo di riflessione sulle
qualità del ricercatore o dell’impresa investigativa, pur raccogliendo utili connotazioni di tipo
descrittivo, non può fondare un’etica della ricerca, mancando alla base una valida epistemologia
ed una compiuta antropologia.
LIMITI ETICI DEI CODICI REGOLATIVI IN ORDINE ALL’ETICA
Tenedo presenti le istanze poste dalla filosofia della scienza [47] ed anche quelle del Magistero
della Chiesa, pur riconoscendo lo sforzo e i positivi risultati raggiunti nella elaborazione dei
codici deontologici, nella definizione dei compiti dei comitati etici e nella elaborazione del profilo
ideale del ricercatore, si impone tuttavia, a nostro avviso, la esigenza di una riflessione
244
epistemologica più compiuta sui rapporti fra scienza sperimentale ed etica e nello stesso tempo si
richiede un riferimento più esplicito ad una antropologia che dia sostanziale significato al
frequente richiamo alla “dignità della persona”.
Per quanto riguarda il rapporto fra la ricerca sperimentale in campo biomedico e l’etica, bisogna
tenere presente che, il metodo sperimentale è, per la sua struttura stessa, di carattere
“riduzionistico”: questo significa che ciò cheè sperimentalmente valutabile è il dato biologico o
biochimico o fisico concernente determinati processi iscritti nella corporeità, e ciò ovviamente
nell’ordine del quantificabile: l’esperimento non può dire nulla circa la natura ontologica del
soggetto e il valore etico di un intervento biomedico. La verità di fonte scientifica sperimentale
dovrà essere perciòintegrata in duplice senso: anzitutto con altre verità di ordine fisico,
biologico, rimanendo sempre nell’ordine della scienza, in un processo di integrazione circolare,
ma, soprattutto, dovrà essere riferita alla verità ontologica globale(quando si tratta dell’uomo
dovrà fare appello alla antropologia) perché si possa valutare di conseguenza la dimensione etica
degli interventi. E’ il procedimento che si può definire di integrazione triangolare[48] Non è
possibile da un punto di vista epistemologico passare direttamente dalla osservazione empirica,
o scientifico-sperimentale, alle conclusioni etiche, tenendo in conto in questo senso la nota legge
di Hume, secondo la quale dai fatti non si può inferire il discorso sui valori[49]. Lo sottolineano
anche gli epistemologi moderni. Mi piace ricordare uno per tutti D.Antiseri che afferma: “La
scienza non produce (logicamente) etica. Dalle proposizioni descrittive non è possibile dedurre
asserti prescrittivi. La grande divisione fra fatti e valori – la così detta legge di Hume – ci dice che
dall’ “è” non deriva il “deve”, dall’essere non si deriva il “dover essere”. Tutto il valore, tutto il
sapere sientifico non può produrre valori né può smentirli [50].
Il voler sostenere che dalla scienza si possa avere l’etica comporterebbe tutt’al più la riduzione
dell’etica al semplice dovere di “conoscere sempre più” o ad una “funzione di etica intrinseca” che
si concretizzerebbe soltanto negli obblighi di scrupolosità, altruismo, comunicazione veritiera, il
che non rappresenta tutta l’etica implicata nella ricerca scientifica, perché si può sempre
condurre un’indagine scrupolosa, ma non eticamente corretta.
Se, per esempio, si vuole indagare circa l’eticità della fecondazione in vitro applicata all’uomo si
dovrà anzitutto esporre in che cosa consista, in che differisce da quella naturale, quali siano gli
effetti che ne derivano (angolo A del triangolo), ma sarà necessario poi domandarsi quale
significato tale tecnologia procreativa comporti per la dignità dell’uomo, cioè per la vita e la
dignità dell’embrione, per la dignità dei genitori e dello stesso atto procreativo (angolo B del
triangolo, il vertice) e soltanto a questo momento si potranno avere i dati validi per porre il
problema etico e si potrà porre il discorso dei valori compromessi o compatibili (angolo C).
Per altro sappiamo che la conoscenza della realtà non può essere intesa come omologa ma come
analogica: un conto è la conoscenza propria delle scienze sperimentali; un conto è la conoscenza
propria delle scienze c.d. umane, (come la filosofia e la metafisica che riguarda la struttura
ontologica dell’essere e può essere raggiunta soltanto dalla riflessione filosifica), un conto è la
conoscenza etica che riguarda la rispondenza dei comportamenti con il bene dell’uomo. Se poi,
come è proprio delle fede cristiana, vogliamo attingere alla luce della Rivelazione, da questa
sorgente si riverbera tutta una nuova dimensione conoscitiva sulla realtà indagata dalla ragione
naturale sia essa scientifica sia filosofica sia etica, perché la realtà umana (la sua dignità) viene
collegata con la dignità stessa del Creatore e con l’opera della salvezza soprannatuale. La
insufficienza della visione scientista e l’esigenza dell’apporto della ragione nonché della visione
di fede sono illustrate chiaramente dalla Enciclica “Fides et Ratio”.
Parlando del “pericolo dello scientismo” Giovanni Paolo II afferma nella Enciclica “Fides et Ratio”:
“Questa concezione filosofica si rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da
quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione
245
sia la conoscenza religiosa e teologica sia il sapere etico ed estetico” [51] ... E continua a
propostito della cosiderazione dei valori etici che è propria dello scientismo: “In questa
prospettiva, i valori sono relegati a semplici prodotti dell’emotività e la nozione di essere è
accantonata per fare spazio alla pura e semplice fattualità. La scienza quindi si prepara a
dominare tutti gli aspetti dell’esistenza umana attraverso il progresso tecnologico. Gli innegabili
successi della ricerca scientifica e della tecnologia contemporanea hanno contribuito a diffondere
la mentalità scientista, che sembra non aver più confini, visto come è presentata nelle diverse
culture e quali cambiamenti radicali vi ha apportato” [52].
Abbiamo seguito con attenzione la costruzione dei codici deontologici ed etici relativi alla ricerca,
ma non possiamo negare che in alcuni punti, non secondari per la dignitàe la vita dell’essere
umano il pensiero scientista ha sopraffatto ed emarginato la considerazione del valore
antropologico ed etico. Si pensi al fatto che il Consiglio d’Europa nella “Convenzione sui diritti
dell’uomo e la biomedicina” nell’articolo 18 proibisce nel pararafo “a” la produzione degli
embrioni con il fine unico della sperimentazione, ma nel punto “b” tollera che alcuni Stati che
hanno già consentito tale sperimentazione possano mantenerla pur sotto la inefficace e parvente
“protezione” dell’embrione da parte della legge stessa. Icodici deontologici non hanno impedito
nè bandito la sperimentazione per la preparazione dei contragestativi (come la RU 486) e degli
intercettivi (o pillola del giorno dopo) né la messa al bando di tecniche abortive meccaniche o dei
dispositivi intrauterini. Sappiamo inoltre che la stessa “Dichiarazione dell’UNESCO sul Genoma
Umano e i Diritti dell’uomo” non chiarisce se i divieti di alterazione del genoma o di
discriminazione degli individui in base alle caratteristiche genetiche valgano anche per
l’embrione o soltanto per il soggetto già nato: manca al fondo una antropologia. Seguendo il
prevalente influsso dello scientismo risulta che “accanonata ... la critica proveniente dalla
valutazione etica, la mentalità scientista è riuscita a far accettare da molti l’ideasecondo cui ciò
che è tecnicamente fattibile diventa per ciò stesso anche moralmente ammissibile”[53].
Non è infrequente riscontrare nelle soluzioni etiche che si adottano in tema di bioetica una
visione pragmatica che diventa il principale criterio orientativo. Il pragmatismo, come ancora
ricorda la “Fides et Ratio”, è “l’atteggiamento proprio di chi, nel fare le sue scelte, esclude il
ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su principi etici”
La ricaduta di questo riduzionismo scientista e del pragmatismo è che “è la stessa antropologia
ad essere fortemente condizionata, mediante la proposta di una visione unidimensionale
dell’essere umano, della quale esulano i grandi dilemmi etici, le analisi esistenziali sul senso della
sofferenza e del sacrificio, della vita e della morte”[54]. Anche quando si parla di antropologia
medica o di scienze antropologiche si rimane nell’orizzonte descritivo e “una più generale
concezione sembra oggi costituire l’orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso congedo
dal senso dell’essere” e Giovanni Paolo II aggiunge per precisione: “Intendo riferirmi alla lettura
nihilista che è insieme rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva”[55].
Senza ripetere considerazioni presenti in altri interventi, non si può non constatare che tutto il
processo che concerne il declassamento dell’embrione umano, per cui si sta legalizzando la sua
soppressione e la sperimentazione distruttiva, nonché la ricerca sulle cellule staminali embrionali
umane e la clonazione c.d. “terapeutica”, denunciano la carenza di una antropologia sottostante e
in particolare la carenza della ontologia nell’ambito della concezione della persona umana.
Perciò, una vera politica regolativa della ricerca sull’uomo non può essere mantenuta all’interno
del rispetto della “dignità umana”, se non si dà un’impostazione valida al discorso epistemologico
e alla antropologia filosofica di riferimento. E’ questo il compito della Bioetica quando questa
disciplina voglia prendere a cuore l’uomo nella sua verità e voglia compiere un percorso
conciliabile – quanto meno – con la teologia e la morale della Chiesa: chiarire fino in fondo il
246
problema dell’incontro fra sapere scientifico sperimentale e sapere filosofico ed etico e restituire
la pienezza della dignità all’uomo dal concepimento alla morte.
Giovanni Paolo II nel Discorso tenuto in occasione della Sessione Plenaria della Pontificia
Accademia delle Scienze (13 nov. 2000) ha approfondito quello che egli chiama il “triplice
significato” della “dimesione umanistica della scienza”. Egli scrive: “quando si parla della
dimensione umanistica della scienza, il pensiero corre per lo più alla responsabilità etica della
ricerca scientifica a motivo dei riflessi che ne derivano per lo più per l’uomo. Il problema è reale
ed ha suscitato una preoccupazione costante, specie nella 2^ parte del XX sec. Ma è chiaro che
sarebbe riduttivo limitare la riflessione sulla dimensione umanistica della scienza ad un semplice
richiamo a questa preoccupazione. Ciò potrebbe persino condurre qualcuno a temere che si
prospetti una sorta di controllo umanistico sulla scienza quasi che, sul presupposto di una
tensione umanistica fra questi due ambiti del sapere fosse compito delle discipline umanistiche
dirigere e orientare in modo estrinseco le aspirazioni e i risultati delle scienze naturali, protese
verso la progettazione di sempre nuove ricerche e verso l’allargamento di sempre nuovi orizzonti
applicativi”[56].
Il Pontefice aggiunge che “da un punto di vista dell’osservatore il discorso della dimensione
antropologica della scienza evoca soprattutto una precisa problematica epistemologica: si vuole
sottolineare cioè che l’osservatore è sempre parte in causa nell’osservazione dell’oggetto
osservato”. Il punto di vista dell’osservatore e “la particolare prospettiva filosofica dello
scienziato può influire in modo significativo sulla descrizione del cosmo”[ 57].
Per quanto riguarda questo terzo significato di questa espressione il Pontefice afferma: “Infine si
parla di umanesimo della scienza o umanesimo scientifico per sottolineare l’importanza di una
cultura integrata e completa, capace di superare la frattura fra le discipline umanistiche e le
discipline scientifico-sperimentali. Se tale separazione è importante nel momento analitico e
metodologico di una qualsiasi ricerca essa è assai meno giustificata e non priva di pericoli nel
momento sintetico, quando lo scienziato si interroga sulle motivazioni più profonde del suo fare
scienza e delle ricadute umane delle nuove conoscenze acquisite” [58]
La libertà e l’autonomia dello scienziato non sono minacciate dalla visione antropologica per il
fatto che la scelta è illuminata dai valori, perché i valori non sono estranei alla libertà: è tutto
l’uomo che si deve far carico del suo simile ed opera scegliendo il meglio che ha a disposizione in
vista del bene del suo simile.
In questa ottica si può parlare di autonomia e responsabilità dello scienziato.
Come ho ricordato in una precedente pubblicazione condividendo in buona parte il pensiero di
Agazzi e di Pellegrino[59], esistono tre livelli e modalità in cui si può parlare di autonomia della
scienza e dello scienziato:
a)Il primo livello consiste nel fatto che ogni scienza ha un suo ambito o campo specifico di
riflessione, ha inoltre una sua metodologia di ricerca e infine ha dei propri criteri di validazione.
Un criterio valido dal punto di vista economico potrebbe non essere altrettanto valido
politicamente o moralmente parlando. Interrompere le terapie ad un paziente di tumore può
essere ritenuto economicamente vantaggioso, ma eticamente potrebbe non esserlo.
In questo senso l’autonomia delle singole scienze è comunque ritenuta legittma: anche il Concilio
Ecumenico Vaticano II ammette che le scienze e le arti nell’ambito proprio di ciascuna si servono
dei propri principi e di un proprio metodo: in questo ogni scienza gode legittimamente di una
propria autonomia, che è relativa, perché chiamata sempre a confrontarsi con altri saperi [60].
b) Esiste un altro significato in cui si parla dell’autonomia della scienza e della ricerca: tale
significato è proposto nell’ambito dello scientismo: si vuole intendere che la ricerca e la scienza
sono “values free”. Si parla di libertà dai valori, dai controlli e nelle scelte. Alcuni sostengono la
necessità dell’autonomia dai valori e dai controlli, ma non nell’azione in cui ammettono la
247
legittimità dell’intervento della società [61] ed altri arrivano ad ammettere anche i controlli, ma
soltanto per la salute pubblica.
Di fronte alla ricerca biomedica – in particolare si pensi a quella genetica – questo tipo di
autonomia dal giudizio etico, e ancora più dal controllo della legge e nell’esecuzione dei progetti,
non è sostenibile; oltre tutto la ricerca nell’ambito biomedico e biotecnologico può avere
dimensioni e conseguenze di tipo planetario. In questo campo la lezione di Jonas e il suo richiamo
al principio di responsabilità conservano tutto il loro peso [62].
c) C’è un terzo modo di concepire l’autonomia della scienza, intesa soprattutto come autonomia
dello scienziato ed è quella in cui appunto il ricercatore si fa liberamente e responsabilmente
carico dei fini, dei mezzi e metodi e delle conseguenze di un determinato programma di ricerca.
Questo modello è capace di congiungere insieme il sapere scientifico e il sapere morale, e di
coniugare insieme libertà e responsabilità. Tale modello suppone che lo scienziato sia
consapevole dei valori morali in gioco, si regoli di conseguenza e con coerenza e sappia
eventualmente confrontarsi con esperti e comitati di etica. La responsabilità dello scienziato vale,
non soltanto nel settore della ricerca applicata ove le conseguenze sono più evidenti, ma anche
per la ricerca di base ove fini, metodi e mezzi devono sempre essere valutati ed essere resi noti ai
membri della stessa equipe dei collaboratori, i quali possono evidentemente avanzare obiezione
di coscienza di fronte a procedure ritenute non lecite.
Collocare un ricercatore o un tecnico a lavorare, ad es., in un laboratorio su cellule staminali
comporta l’obbligo di palesarne da parte del direttore, la provenienza e lo scopo, perchè il
ricercatore possa assumere liberamente e responsabilmente le proprie responsabilità.
Un fatto che viene posto all’attenzione oggi è che la ricerca applicata viene spesso coordinata a
livello multinazionale e in modo complesso. Due fattori sono stati segnalati: Jonas parla di
“espropriazione dei risultati” nel senso che i risultati delle ricerche, una volta comunicati ed
acquistati dell’industria, possono essere applicati in modi che il ricercatore non immaginava al
momento della ricerca e della comunicazione dei risultati [63]. Di qui l’obbligo di una formazione
etica dei ricercatori e di una loro accresciuta responsabilità per non finire in una catena di
montaggio il cui prodotto finale sia utilizzato in modo contrario alla loro conoscenza e al bene
dell’uomo. Jonas dice che siamo come i passeggeri che salgono sul treno: liberi di salire, ma non
di arrestare il treno o di cambiarne destinazione.
Altro fattore da tener presente è il rapporto fra ricerca e potere politico, quando appunto il
potere politico finanzia i grandi progetti di ricerca nei quali l’nsieme dei risultati diventa come
anonimo e componibile: le banche dati e i brevetti diventano come casseforti e forzieri a cui il
potere politico può attingere per un suo disegno non inteso dai ricercatori.
Per questo la presenza dei controlli applicativi da parte degli scienziati stessi e della società, sia a
livello nazionale che internazionale, sono giustificati e doverosi.
La armonizzazione della libertà con la responsabilità dello scienziato si può dunque realizzare: a)
nel rispetto della legittimità di ogni disciplina; b)nella composizione armoniosa e nella ingrazione
dei saperi con l’assunzione di una corretta epistemologia e una compiuta antropologia; c)
nell’accettazione della piena responsabilità da parte degli scienziati sia di fronte alle applicazioni
possibili sia di fronte al potere politico; d) nella necessità di controlli di natura etica che possano
essere attuati non soltanto nei confronti dei laboratori e nel momento dell’approvazione dei
protocolli di ricerca, ma anche nei confronti dei possibili sviluppi successivi operati dal potere
pubblico o da quello economico.
La politica della ricerca ha così dei doveri nei confronti della stessa autorità politica, anche
quando questa finanzia i progetti di ricerca. “Verità, libertà e responsabilità sono collegate nella
esperienza dello scienziato; egli infatti nell’intreprendere il suo cammino di ricerca, comprende
che deve attuarlo non solo con l’imparzialità richiesta dall’oggettività del suo metodo, ma anche
248
con l’onestà intellettuale, la responsabilità e direi con una sorta di riverenza quali si addicono allo
spirito umano nel suo accostarsi alla verità” [64]
LA DIMENSIONE MONDIALE DELLA POLITICA DELLA RICERCA
Un documento di riferimento obbligato per trattare questa parte del tema è la “Déclaration sur la
science et l’utilisation du savoir scientifique”pubblicato alla conclusione della Conferenza mondiale
sulla scienza svoltosi a Budapest (Ungheria) dal 26 giugno al 1 luglio 1999 con il titolo: “La
science pour le XXI siècle: un nouvel engagement”[65]. La Conferenza fu promossa dall’UNESCO e
dal Consiglio Internazionale per la scienze (CIUS), cui fece seguito l’elaborazione di un piano
d’azione.
Sappiamo come le proclamazioni contenute in documenti come questo rischino di rimanere prive
di applicazioni concrete, tenendo conto che questi organismi mancano spesso dell’appoggio
concreto dei Paesi che più sarebbero coinvolti nelle conclusioni; tuttavia rappresentano sempre
un fatto culturalmente rilevante e capace di costituire prima o poi un punto di riferimento, anche
là dove mostrano limiti e necessità di miglioramento.
Fatta questa premessa, il Documento citato offre quanto meno la enunciazione di molti principi di
carattere positivo per l’orientamento di una politica della ricerca scientifica a livello mondiale.
Anzitutto sul piano della costatazione si conferma il fatto che “le savoir scientifique a conduit à
des innovations remarquables qui ont étés très bénéfiques pour le gendre humain”: ci si riferisce
alla scoperta dei rimedi per numerose malattie con il conseguente allungamento delle speranze
di vita, l’aumento della produzione agricola che ha consentito di rispondere ai bisogni crescenti
dell’alimentazione delle popolazioni in diverse regioni del mondo; il progresso tecnologico e
l’utilizzazione di nuove fonti di energia, con il grande potenziale industriale che consente
l’alleggerimento da fatiche pesanti per il lavoro e la facilitazione nelle comunicazioni e
nell’intensificazine dei rapporti fra gli uomini [66].
Da questa costatazione emerge nello stesso documenton la necessità che tutte le nazioni possano
essere coscienti di questi benefici e che queste risorse debbano essere al servizio dell’intera
umanità[67].
D’altra parte alla luce dei fatti negativi in cui si è constatato l’abuso della scienza, viene superato
il concetto illuminista e utopico per cui ogni progresso scientifico sia da ritenere
automaticamente liberatorio e benefico; si ammette al contrario che il progresso scientifico tecnologico ha già provocato il degrado dell’ambiente, rischia di provocare catastrofi e squilibri
sociali ulteriori ed ha reso possibile la costruzione di armi atomiche, chimiche e biologiche, per
cui la scienza oggi è chiamata a riconvertire molte energie belliche in strumenti di pace e di
progresso autentico [68].
Si enuncia quindi come ulteriore premessa il principio relativo alla necessità di instaurare un
duplice dialogo: tra le scienze umane e le scienze sperimentali per far fronte ai problemi etici,
sociali e culturali messi in atto dal progresso scientifico e tecnologico e nello stesso tempo il
dialogo tra i legislatori, gli scienziati e il pubblico all’interno di un dibattito democratico intorno
alla utilizzazione del sapere scientifico[69].
Sempre in premessa il documento denuncia il fatto della ripartizione ineguale delle risorse della
scienza anche a motivo della circostanza che, essendo le scoperte scientifiche fattore di
produzione della ricchezza, molti Paesi poveri vengono contemporaneamente ad essere esclusi
dalla ricchezza e dalle fonti di creazione delle risorse tecnologiche.
In base a queste constatazioni preliminari il Documento offre una serie di “consideranda” [70]
che mettono in luce: i benefici possibili provenienti dalla ricerca scientifica sulla società, il ruolo
delle conoscenze scientifiche per la elaborazione dei programmi politici, la necessità che l’accesso
249
al sapere scientifico faccia parte del diritto all’educazione di ogni uomo e di ogni donna per la
loro maturazione e per creare una capacità scientifica endogena e inoltre le ricadute benefiche
per la ricerca per il superamento della povertà e il progresso della umanità, il processo di
mondializzazione di tali conoscenze, l’urgenza di colmare il fossato tra i paesi sviluppati e quelli
in via di sviluppo in ordine alla capacità di ricerca e alla infrastrutture a ciò deputate. D’altro
canto si sottolinea anche la necessità delle politiche di controllo sulla ricerca e le sue applicazioni
per le minacce che possono venire dalle applicazioni rischiose per la stessa sopravvivenza della
umanità, e conseguentemente si sottolinea la necessità di un riferimento all’etica e ai diritti
dell’uomo e infine si afferma l’urgenza di un nuovo legame fra la scienza e la società per la
risoluzione di urgenti problemi, quali la povertà, la fame, l’insufficienza delle cure sanitarie,
l’insicurezza in fatto di cibo e di acqua e la crescita della popolazione [71].
Su queste premesse e istanze, il Documento propone alcune linee di programma politico:
La promozione della ricerca scientifica fondamentale e applicata è essenziale per il progresso
“endogeno” ai singoli Paesi (legame fra scienza-sapere-progresso). Pertanto i governi devono
riconoscere il fondamentale ruolo della ricerca scientifica per l’acquisizione del sapere, la
formazione degli scienziati e l’educazione del pubblico. La ricerca finanziata dai privati va
ritenuta importante, ma non può sostituire la ricerca pubblica: i due settori devono agire in
collaborazione e con obiettivi a lungo termine [72].
La ricerca scientifica è chiamata a contribuire alla costruzione della pace e per questo si deve
garantire il principio del libero accesso alla informazione e ai dati e la ricerca scientifica dovrà
sottostare alle indicazioni etiche e la dovere della informazione al pubblico. Inoltre si dovrà
favorire tra gli scienziati la solidarietà morale e intellettuale che è fondamento per la cultura della
pace. “La collaborazione degli scienziati del mondo intero costituisce un prezioso contributo per
la sicurezza globale e lo sviluppo delle pacifiche relazioni fra le nazioni, le società e le culture”. I
governi devono far sì che le scienze e il sapere contribuiscano alla promozione dei diritti
dell’uomo e a eliminare le cause dei conflitti [73].
Particolare attenzione viene posta dal Documento nel definire il rapporto fra ricerca scientifica e
sviluppo riaffermando il dovere di perseguire una sviluppo durevole e sostenibile, la protezione
delle risorse naturali, della biodiversità e i sistemi di sopravvivenza del pianeta; si richiama
l’impegno a eliminare la discriminazione e la disuguaglianza tra Paesi ricchi e Paesi in via di
sviluppo in fatto di sapere scientifico e ricerca, insistendo sulla promozione della cultura
scientifica di base, sul ruolo delle università con rispetto ai valori morali; si fa appello alla
cooperazione internazionale in tema di ricerca scientifica e tecnologica e alla necessità di evitare
la c.d. “fuga di cervelli” per motivo delle condizioni negative per la ricerca esistenti in certi Paesi;
infine si sottolinea la necessità di una politica nazionale della scienza e ad una collaborazione per
la gestione dei rischi anche a livello internazionale. Si richiama la necessità di una
regolamentazione dei brevetti che non impedisca l’accesso dei Paesi in via di sviluppo alle
conoscenze scientifiche e per evitare nuove forme di monopolio [74].
Il Documento conclude riaffermando i riferimenti alle norme etiche, ai diritti dell’uomo, al
principio della libera circolazione delle informazioni, all’obbligo rigoroso del controllo sulla
attendibilità dei risultati e sulla osservanza delle norme dell’etica definita “scientifica”,
l’uguaglianza di accesso alla ricerca delle donne [75].
Al di là di queste dichiarazioni promulgate dall’UNESCO, che fanno comprendere gli orientamenti
auspicati nelle politiche della ricerca orientata allo sviluppo, orientamenti che tendono a
conseguire un effetto positivo nel fenomeno della globalizzazione, è opportuno tuttavia vedere
come alcuni Stati tra i più progrediti e sviluppati realizzano e intendono la necessità di collegare
la Ricerca allo Sviluppo globale.
250
La competitività scientifica e tecnologica viene sempre più vista nel contesto della
globalizzazione come condizione preliminare per la competitività economica. Ad esempio nelle
“Linee Guida del Governo Italiano per promuovere la ricerca scientifica” si afferma in premessa
per gli anni 2003-2006: “Il forte potenziamento della nostra struttura di ricerca scientifica e
tecnologica e del nostro sistema produttivo si prospetta pertanto come vitale necessità della
nostra economia, onde riuscire a reggere il sempre più duro confronto competitivo indotto dal
processo di globalizzazione con le economie dei Paesi sviluppati e dei Paesi in via di sviluppo”
[76]. Tenendo conto che la ricerca scientifica comprende non soltanto la ricerca biomedica, ma
anche la ricerca biotecnologica in generale, la informatica e le nanotecnologie [77], si sottolinea
costantemente il legame tra ricerca-produttività-competizione economica-globalizzazione.
Nel quadro della globalizzazione i Paesi industrializzati stanno attuando profonde revisioni delle
politiche scientifiche come traspare dalla sintesi che viene riportata dallo stesso citato
documento della programmazione italiana [78].
Si afferma che gli USA hanno recentemente ridefinito per il 2003 la politica federale nel settore
della ricerca decidendo un sostanziale incremento delle risorse (+8.5%) rispetto al 2002.
La cifra record di 104 miliardi di dollari è destinata per oltre il 50% alla difesa. Alla ricerca
biomedica sono destinati circa 24 miliardi di dollari, con un incremento del 15%; alla ricerca
spaziale 15 miliardi di dollari, con un incremento del 4.5%; mentre alle fonti energetiche sono
assegnati 8 miliardi di dollari, con una crescita del 5%.
Si sottolinea ancora che che l’insieme dei paesi della UE assegna alla totalità delle attività di
ricerca la metà del budget statunitense e che l’investimento privato per la ricerca negli USA è
notevolmente superiore a quello pubblico.
In Gran Bretagna il Department of Trade and Industry con il documento di bilancio e di
programma “Science and innovation 201” ha definito i nuovi indirizzi strategici nel settore della
ricerca e sviluppo, considerati basilari per la competitività del Paese. In tale documento sono
identificate quali aree prioritarie di intervento: il potenziamento delle grandi infrastrutture di
ricerca, le ricerche sulla post-genomica, le tecnologie di base (nonotecnologie, fotonica, sensori,
nuove materiali, etc.), aeronautica e spazio e l’incremento quantitativo e qualitativo dei
ricercatori.
Viene particolarmente sottolineata la necessità di una maggiore integrazione tra ricerca pubblica
ed utilizzo industriale del know-how generato, favorendo processi di osmosi tra i vari soggetti e
favorendo la nascita di imprese high-tech. L’incremento della spesa è previsto nell’ordine del 7%
annuo per i prossimi tre anni.
La Francia con il “Budget civil de recherche e de developpement 2001” ha definito un programma
basato su quattro priorità: misure a favore del personale di ricerca con rilevante incremento
delal dotazione finanziaria, forte rafforzamento degli investimenti nelle infrastruture di ricerca,
+18% rispetto al 2000; in particolare sviluppo di centri di calcolo avanzato (IDRIS), messa in
funzione di piattaforme tecnologiche (INRA); potenziamento della strumentazione e creazione di
nuove “equipes” nel campo della epidemiologia e della ricerca terapeutica(INSERY); avvio della
costruzione della macchina di luce di sincrotrone di terza generazione (SOLEIL); forte crescita
degli investimenti – circa il 15% - su tematiche scientifiche prioritarie: genoma, post-genoma,
bio-informatica, tecnologie per l’informazione, nanotecnologie e materiali; incremento di circa il
10% dei finanziamenti per la ricerca industriale, con particolare riferimento al partenariato
pubblico-privato. In questo ambito viene privilegiato il settore aeronautico, con un incremento di
oltre il 20%.
Come si può notare la ricerca biomedica rappresenta uno dei molteplici settori della ricerca
tecnologica, inclusa in un contesto di competitività economica: questo contesto può mettere in
251
ombra e in posizione secondaria la finalità terapeutica della ricerca biomedica e comportare un
crecente dislivello tra Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo.
COMPITI DELLA CHIESA NELL’AMBITO DELLA RICERCA
Credo che a nessuno sfugga il molteplice compito che si viene a delineare per la Chiesa
nell’ambito della ricerca scientifica.
Esso è anzitutto un compito di orientamento etico. Il Magistero della Chiesa ha chiarito già nella
costituzione conciliare “Gaudium et Spes” e nella più recente Enciclica “Fides et Ratio” da una
parte il riconoscimento dell’autonomia relativa di ogni scienza e d’altra parte il suo richiamo alla
centralità dell’uomo sia come soggetto responsabile sia come fine e beneficiario della ricerca e sia
come limite etico quando l’individuo umano è oggetto dela ricerca stessa. Se il Magistero della
Chiesa ha insistito per il superamento dello “Scientismo” non è per negare la possibilità della
ricerca scientifica e l’autonomia degli ambiti, dei metodi e dei criteri interni propri di ogni
scienza, ma per arricchire la ricerca scientifica stessa favorendo l’apertura ad una visione
integrale dell’uomo e al perseguimento del suo bene per ogni uomo e per la universalità degli
uomini [79].
La Chiesa stessa per l’adempimento della sua missione fatalora affidamento e appello al
contributo indispensabile degli scienziati e della ricerca scientifica. Ricordiamo l’appello agli
“uomini di pensiero e di scienza” fatto al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II: “Noi non
possiamo non incontrarci con voi. Il vostro cammino è il nostro. I vostri sentieri mai risultano
estranei a quelli propriamente nostri” [80]
Ricordiamo anche la esplicita richiesta di collaborazione fatta ai ricercatori nella “Humanae
Vitae” per il superamento delle difficoltà dei coniugi in ordine alla soluzione del problema
relativo alla regolazione della fertilità, problema che oggi si pone anche per la ricerca in ordine al
superamento delle cause della infertilità[81].
Ricordiamo anche l’appello agli uomini di cultura che il S.Padre Giovanni Paolo II ha posto al
termine della Enciclica “Evangelium Vitae” includendo in questo appello la istituzione della
Pontificia Accademia per la vita [82], proprio per la tutela della vita umana.
Credo che uno dei compiti urgenti del “laicato” nella Chiesa sia proprio configurabile in questo
ambito della scienza e della ricerca, pertinente alle realtà temporali, ma legato alla integrale
promozione dell’uomo e perciò anche al Regno di Dio.
Ci si deve domandare oggi se la Chiesa, soprattutto intesa come comunità che valorizza la
missione propria del laici, debba sentirsi impegnata direttamente nella promozione della ricerca
scientifica con sue iniziative soprattutto nelle frontiere ove è in giuoco il futuro dell’uomo nella
condizione di “emergenza” per i risvolti etici della ricerca o per le condizioni di inferiorità di
popolazioni prive delle risorse della scienza e dei presupposti per il proprio sviluppo. Non si può
ignorare a questo proposito l’esplicito appello del Pontefice Giovanni Paolo II nella lettera
Enciclica Novo Millennio Inuente, laddove si riferisce a quanti si avvalgono delle nuove possibilità
della scienza, specie sul terreno delle biotecnologie, perché non disattendano le esigenze
fondamentali dell’etica [83].
Nonè difficile constatare che fra i credenti talora è più facile raccogliere l’appello per la soluzione
di particolar problemi immediati di povertà, di bisogno materiale od anche per strutture
pastorali di tipo educativo – cosa sempre necessaria nella vita della Chiesa – mentre è difficile o
molto raro ottenere aiuto per una strategia di promozione della scienza o della ricerca scientifica
anche quando ha stretta connessione con i problemi della vita.
Mi viene facile qui il richiamo alle Università Cattoliche e alla esistenza in esse di Facoltà
scientifiche e mediche, nonché di grandi istituti di ricerca che contribuiscono meritatamente al
252
progresso della società. Ma tutti sanno come per queste Università sia arduo, specialmente in
certe nazioni, adire ai fondi pubblici della ricerca, a meno che non siano aperte a compromissioni;
la difficoltà diventa chiusura da parte di Fondazioni e istituzioni che perseguono finalità contrarie
alla visione cattolica della vita. Ma anche in rapporto al mondo Cattolico l’allestimento delle
strutture di ricerca e il loro finanziamento diventano di grave difficoltà per i costi economici.
E’ l’esperienza di molte Università cattoliche e di molte istituzioni di ricerca.Pertanto si
determina il pericolo di un eccesso di dipendenza delle stesse istituzioni scientifiche cattoliche
dal finanziamento pubblico. C’è il rischio che ne consegua un appannamento della identità di
queste istituzioni e dei ricercatori cattolici attratti dai dinamismi pubblici e dalla necessità di
rincorrere i finanziamenti.
Necessita forse creare nel mondo cattolico delle vere e proprie “Fondazioni” orientate alla ricerca
scientifica “qualificata” per garantire la presenza nella comunità cattolica di una ricerca
chiaramente aperta al bene integrale dell’uomo e libera da dipendenze e compromessi che ne
possano attenuare o offuscare l’impegno.
Questo impegno non gioverebbe soltanto alla nascita e alla efficenza delle Facoltà scientifiche
delle Università Cattoliche nel Terzo Mondo, per valorizzare le risorse di questi Paesi e garantire
la presenza di un autentico sviluppo, ma porrebbe essere un presidio di libertà per la società
stessa perché, ove si garantisce una ricerca fedele al bene dell’uomo e alla legge morale, si opera
per il bene non soltanto della Chiesa, ma di tutta la umanità come è richiamato dalla Costituzione
Apostolica diretta alle Università Cattoliche “Ex corde Ecclesiae” pubblicata il 15 agosto 1990. In
questa documento il Pontefice ricorda che “senza per nulla trascurare l’acquisizione di
conoscenze utili, l’Università Cattolica si distingue per la sua libera ricerca di tuttala verità
intorno alla natura, all’uomo e a Dio. Essa dunque senza alcun timore, ma con entusiamo si
impegna su tutte le vie del sapere, consapevole di essere precedutada Colui che è Via, Verità e
Vita”[84].
Definendo la natura e gli obiettivi delle Università Cattoliche il Pontefice afferma nello stesso
Documento: “L’Università Cattolica, quindi, è il lugo in cui gli studiosi esaminano a fondo la realtà
con i metopdi propri di ogni disciplina accademica e, in tal modo, contribuiscono
all’arricchimento del tesoro delle conoscenze umane. Ciascuna disciplina viene studiata in modo
sistematico, le varie discipline vengono portate a dialogo fra loro al fine di un reciproco
arricchimento…In una Università cattolica la ricerca comprende: a) il perseguimento di una
integrazione delle conoscenza; b) il dialogo fra fede e regione; c) una preoccupazione etica; una
prospettiva teologica [85].
Forse è ancora attuale l’appello citato dal Concilio Vaticano II “agli uomini di pensiero e di
scienza” ove i Padri Conciliari rivolgendosi loro affermano: “Abbiate fiducia nella fede, questa
grande amica dell’ intelligenza! Rivolgetevi alla sua luce per conseguire la verità, tutta la verità!
Questo è l’augurio, l’incoraggiamento, la speranza che vi esprimono prima di separarsi, i padri del
mondo intero, riuniti in Concilio a Roma” [86]
Con realistica consapevolezza di come oggi l’impegno per la ricerca viene collocato dalle politiche
in collegamento stretto con la produttività e la competizione economica fra gli Stati in un
contesto di crescente globalizzazione, è necessario che la voce e l’impegno della comunità
cattolica siano rivolti a far sì che rimanga vivo un duplice legame: tra la ricerca scientifica e la
salute delle persone e delle popolazioni (anche laddove non ci sono profitti economici
immediati), e inoltre il legame con la promozione delle economie e delle stesse organizzazioni di
ricerca endogene nei Paesi in via di sviluppo, in armonia con le istanze della giustizia a livello
internazionale. Giovanni Paolo II nella Enciclica “Sollecitudo rei socialis” afferma riferendosi a
sua volta all’Enciclica di Paolo VI “Popolorum Progressio” di vent’anni prima: “Perciò i
responsabili della cosa pubblica, i cittadini dei paesi ricchi personalmente considerati, specie se
253
cristiani, hanno l’obbligo morale – secondo il rispettivo grado di responsabilità – di tenere in
considerazione, nelle decisioni personali e di governo, questo rapporto di universalità, questa
interdipendenza che sussiste tra i loro comportamenti e la miseria e il sottosviluppo di tanti
milioni di uomini. Con maggiore precisione l’Enciclica paolina traduce l’obbligo morale come
“dovere di solidarietà” e una tale affermazione, anche se nel mondo molte situazioni sono
cambiate, ha oggi la stessa forza e validità rispetto a quando fu scritta” [87].
Mi pare utile ricordare infine il brano dell’Allocuzione dello stesso Pontefice Giovanni Paolo II
all’UNESCO il 2 giugno 1980: “E’ essenziale che ci convinciamo della priorità dell’etico sul tecnico,
del primato dell’uomo sulle cose, della superiorità dello spirito sulla materia. La causa dell’uomo
sarà servita solo se la conoscenza è unita alla coscienza: Gli uomini di scienza aiuteranno
realmente l’umanità solo se conserveranno il senso della trascendenza dell’uomo sul mondo e di
Dio sull’uomo”[88].
[1] Riportata da : WEIJER CH., Research Methods and Policies, in Encyclopedia of Applied Ethic,
vol.3, Accademic Press, San Diego California1988, pp. 853-860.
[2] Idem, pp. 853-854.
[3] Ci serviamo per questa classificazione del citato studio di Weijer, Reserach Methods and
Policies, o.c. p. 855.
[4] BOMPIANI A. , Ricerca. Etica Diritto e Ricerca biomedica, nel vol. a cura di COMPAGNON F.,
Etica della vita, San Paolo, Alba, 1996, pp. 267-307.
[5] Per questo argomento mi riferisco alle seguenti pubblicazioni:
Mc. NEIL P.M., The Ethics and Policies of Human Experimentations, Cambridge University Press,
1993, pp. 1-182;McCarty Ch.R., KOPELMAN L.M., LEVINE C., Research Policy,Encyclopedia of
Bioethics, edited by W.T.REICH, New York, Simon and Schuster, McMillan, 1995, vol. 4, pp.22852300.
[6] McCarty Ch.R, Research Policy. General Guidelines, Encyclopedia of Bioethics ..., o.c., p.2285
[7] RESNIK D., Setting Biomedical Research Priorities: Iustice,Science and Public Partecipation,
Kennedy Institute of Ethics Journal, 11 (June 2001), 2, pp. 181-205.
[8] Vedi nota 6
[9] Vedi nota 7
[10] Vedi l’Editoriale del Lancet 2001, 358: 854-856; Ripreso da Tempo Medico 14.3.2002
[11] BRODY B.A., The Ethics of Biomedical Research. An international Perspective, Oxford
University Press, New York Oxford 1998, pp. 161-181.
[12] P.BISOGNO, Evoluzione della politica scientifica, nel vol. La politica scientifica italiana negli
ultimi 40 anni: risorse, problemi, tendenze e rapporti internazionali, nel vol. a cura del CNR),
Roma 1988.
[13] UNESCO, Conférence Mondiale sur la science, Projet de Déclaration sur la Science et
l’utilisation du Savoir Scientifique, Budapest 3 juin 1999 ; BLANC-LA PIERRE A., Society in the
face of Scientific and Tecnological Development : Risk, Decision, Responsability, nel vol.
Pontificiae Academiae Scientiarum Scripta Varia n.99 , Science and the Future of ManKind,
Vatican City, 2001, pp. 189-200.
[14] MALDAME’ J. M., The progres of Science and the Messiame Ideal, nello stesso volume della
Pontificia Academia delle Scienze, pp. 318-332.
254
[15] McCARTY Ch.R., Research Policy. General Guidelines in Encyclopedia of Bioethics, o.c.
p.2286; BRODY, The Ethics of Biomedical Reseach. An International Perspective,
OxfordUniversity Press, New York 1998, pp. 161-212.
[16] Ibidem, p.2288
[17] CENSIS, Ricerca biotech in Italia: grandi aspettative, poche risorse nelle reti universitàindustria (http://www.censis.it)
[18] Volume del Comitato Nazione per la Bioetica, Etica Sistema sanitario e risorse, Ed.
Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1998, pp.137-139.
[19] RESNIK, Setting Biomedical Research Priorities: Justice, Science and Public Partecipation,
Kennedy Institute of Ethics Journal, 11 (2001), 2, p.181.
[20] SPAGNOLO A.G., MINACORI R, Farmacogenetica e Farmacogenomica: aspettative e problemi
etici, nel vol. DI PIETRO M.L., SGRECCIA E. (a cura di), Biotecnologie e futuro dell’uomo, Vita e
Pensiero, Milano in corso di stampa.
[21] Sull’analisi del significato edella portata del consenso informato si può vedere SGRECCIA
E. Manuale di Bioetica I, Vita e Pensiero 3 ediz., Milano 1999, pp. 210-220
[22] MORENO J.D. and LEDERER S., Revising the History of Cold War Research Ethics, Kennedy
Institute of Ethics Journal, vol.6, n.3 (1996), pp.223-237.
[23] LO B., LESLIE E., WOLF J.D. and BERKLEY A., Conflict of interest policies for investigators in
clinical trials, NEJM, novembre 30, 2000, pp.1616-1620.
[24] Appello del periodico “Tempo Medico” del 14 marzo 2002, il quale fa riferimento ad
un’analoga denuncia firmata da molti direttori delle riviste scientifiche e riportato dal Lancet
2001, 358, pp.854-856
[25] SCHOOYANS M., L’avortement: Enjeu Politique, Lou guenil (Quebec) 1990, trad.it. Aborto e
politica, Città del Vaticano 1992. Idem, Bioétique et population,Fayard, Paris 1994.
Idem, L’évangile face au desordre mondial, Fayard, Paris 1997. Vedi, per la Conferenza del
Cairo, Medicina e Morale 1994,5, pp. 979-1027; sono riportati anche gli interventi di Giovanni
Paolo II.
[26] ROBERTSON J.A., Ethics and policy in embryonic stem cell research, Kennedy Institute of
Ethics Journal, 1999, 9(2): 109-136; KRIMSKY S. and HUBBARD R., The Business of
research, Hasting Center Report 1995, 1(25): 41-43. Gli autoriricordano i temi caldi del dibattito
sulle liceità della ricerca nell’ambito dell’IVF, dell’esame genetico preimpiantatorio, del trapianto
nucleare (clonazione) e della ingegnerizzazione delle cellule della linea germinale.
[27] LIFTON R.J., I medici nazisti, Ed. Rizzoli, Milano 1988
[28] WEIJER Ch, Research methods and Policies, o.c., p.856; JONES J.H., Bad Blood: the turkegee
syphilis experiment, New York, Free Press, 1993.
[29] WEIJER Ch, Research methods and Policies, o.c., p.856 il quale cita il New England Journal of
Medicine 330, pp.1448-1449.
[30] Concilio d'Europa, Comitato dei ministri, Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina,
(19.11.1996), pubblicato anche su Medicina e Morale 1997, 1:128-149
[31] Ibidem
[32] UNESCO, Universal Declaration on the Human Genome and Human rights. Déclaration
Universellé sur le genome humain et les droits de l’homme, 11.11.1997. Si veda anche SPAGNOLO
A.G., SGRECCIA E. (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione, o.c.
[33] SGRECCIA E., Manuale di Bioetica, I, Milano, Vita e Pensiero, 1999, pp.235-289 con ampia
bibliografia; SPAGNOLO A.G., BIGNAMINI A.A., DE FRANCISCIS A., I comitati di etica fra linee guida
dell’Unione Europea e decreti ministeriali, Medicina e Morale, 1997, 6: 1059-1097. Il pensiero
della Chiesa in tema di sperimentazione sull’uomo trova il riferimento in molti Discorsi di Pio XII
e Giovanni Paolo II. Ricordiamo i principali: PIO XII, Ai partecipanti al I Congresso Internazionale
255
di Ispatologia del Sistema Nervoso (14.9.52] in Discorsi e Radiomessagi, XIV, Tipografia Poliglotta
Vaticana, Città del Vaticano 1961, pp.317-330; Idem, Discorso alla X-VI Sessione dell’Ufficio
Intenazionale di Documentazione di Medicina Militare (19.10.53], in Discorsi e Radiomessagi, XI,
Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1969, pp.415-428; Idem, Discorso ai
partecipanti all’VIII Assemblea dell’Associazione Medica Mondiale. (30.9.54],in Discorsi e
Radiomessagi, XVII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano1969, pp.167-179;
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti a due Congressi di Medicina e
Chirrugia (27.10.1980], inInsegnamenti di Giovanni Paolo II, III, 2, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 1980, pp. 1005-1010; Idem, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze
(23.10.1982], Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1982, pp.889-898; Idem, Discorso ai partecipanti ad un convegno sulla sperimentazione biologica
promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze (23.10.1982], Insegnamenti di Giovanni Paolo
II, , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982, pp.898-893; Idem, Discorso ai partecipanti
al I° Convegno Medico Internazionale promosso dal Movimento per la Vita (3.12.1982],
Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. V/3, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982,
pp. 1509-1513; Idem, Ai partecipanti ad un corso distudio sulle “pre-leucemie umane”
(15.11.1985], Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII/2, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano1985, pp.1265ss.; Idem, Ai partecipanti ad un congresso sul cancro (24.6.1986]
inInsegnamenti di Giovanni Paolo II,IX, I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1986,
pp.1052-1053; Idem, Ad una conferenza sui farmaci svoltasi nell’Aurla del Sinodo (24.10.1986] in
Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX/2, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1986, pp.
1183ss.; Idem, A scienziati e operatori sanitari (12.11.1987] in Insegnamenti di Giovanni Paolo II,
X/2, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1987, pp. 1086-1087; Idem. Lettera Enciclica
“Evangelium Vitae (25.3.1995]Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, parte III;
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione Donum Vitae .......
[34] WEIJER , Research methods and Policies, p. 858
[35] Ibidem, p. 859
[36] Australia National Health and Medical Research Council (NHMRC), Guidelines on ethical
makers in Oboriginal and Torres Strait Islander health research, 1991.
[37] Alludiamo alla Dichiarazione sul genoma umano della UNESCO e alla Convenzione su I diritti
dell’uomo e la biomedicina del Consiglio d’Europa precedentemente citate (note 32 e 33).
[38] BEYRER C., KASS N.E., Human rights, politics and rewiews of research ethics, The Lancet
2002, 360: 246-251.
[39] LEVINE, Research……, p.2289
[40] COMITATO ETICO DELLA UNIVERSITÀ CATTOLICA, Raccomandazioni riguardo alla
inclusione delle donne in età fertile nei protocolli di sperimentazione clinica, Medicina e Morale
1996, 4: 793-796.
[41] MANNI E., Sperimentazione sull’animale, Medicina e Morale, 1989, 6: .1057ss.
[42] CASTIGNONE S. (a cura di), I diritti degli animali, Ed. Il Mulino, Bologna 1985; CICCONE
L., L’animale ben creato e bene per l’uomo. Aspetti bioetici della sperimentazione
sull’animale, Medicina e Morale, 1989, 6: 1095ss. Vedi anche SGRECCIA E., FISSO B., Etica
dell’ambiente, estratto da Medicina e Morale, 1996, I, II..
[43] BOMPIANI A:, Ricerca etica, diritto e ricerca biomedica, in COMPAGNONI (a cura di), Etica
dell’ambiente, Alba: San Paolo, 1996: 267-307.
[44] Cf. BOMPIANI, Ibid., p.275.
[45] Ibid., pp. 275-276.
256
[46] CANNAVO’ L., La scienza fra collettivizzazione e privatizzazione, nel vol. a cura di STATERA
G. e CANNAVO’ L., Sociologia della scienza e politiche della ricerca, 1987, citato in
BOMPIANI, Ricerca etica, p.276, nota 5.
[47] AGAZZI E., Il bene, ilmale, la scienza, Rusconi, Milano 1992; ANTISERI D., Filosofia della
scienza e problemi etici, Borla Roma 1993; HUBER C.S.J., Limiti della validità delpensiero
scientifico, nel vol. Lineamenti di etica della sperimentazione clinica a cura di Spagnolo A.G. e
Sgreccia E., Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 29-39; LADRIERE J., I rischi della razionalità, SEI
Torino 1978; WILLEBRORD-WELTEN, Sessant’anni difilosofia della scienza,, in SPAGNOLO E
SGRECCIA (a cura di), Lineamenti di etica della sperimentazione, pp. 21-28.
[48] SGRECCIA E., Pontenzialità e limiti del progresso scientifico e tecnologico, Dolentium
Hominum, 1988, 37(1): 137-144; Idem, Manuale di Bioetica, Vol. I, Vita e Pensiero, Milano 1999,
pp. 40-47. In tema di “verità” scientifica epistemologicamente parlando si dovrà distinguere la
“oggettività” dei dati e la “verità” scientifica frutto della interpretazione dei dati. Non vogliamo
qui affrontare il problema della “evidenza” e della “evidence based medicine” alla quale oggi non
tutti sono disposti a credere dando sempre più spazio alla interpretazione del ricercatore ed
anche alla continua crescita del sapere. Ma tutto ciò non toglie il valore scientifico, sempre
perfettibile e fasificabile delle scienze biomediche.
[49] Hume, treatise of human nature, trad. it. LECALDANO, Trattato sulla natura umana, libro III,
parte I, in Opere filosofiche, vol. i Roma-Bari: laterza, 1995: 496-749.
[50] BOMPIANi, Ricerca etica, p.291.
[51] GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica “Fides et Ratio”, 14.9.1998, A.A.S., 91(1999), pp. 5-88;
n.88.
[52] Ibidem
[53] Ibidem, n.89
[54] Ibidem
[55] Ibidem, n.90
[56] GIOVANNI PAOLO II, Discorso tenuto in occasione della Sessione Plenaria della Pontificia
Accademia delle Scienze, “L’Osservatore Romano”, 14 nov. 2000.
[57] Ibidem
[58] Ibidem
[59] E. Sgreccia, ‘Autonomia e responsabilità della scienza’, in A.G. Spagnolo and E.
Sgreccia(eds.), Lineamenti di etica della sperimentazione clinic (Vita e Pensiero, Milan, 1994),
pp.39-50; E. Agazzi,‘Autonomia e responsabilità della scienza’, in P. Cattorini(ed.), Scienza ed etica
nella centralità dell’uomo (F.Angeli Editore, Milan, 1990); E. Pellegrino, ‘Autonomia scientifica e
responsabilità morale’ in P. Cattorini (ed.)., Scienza ed etica,pp. 173-188.
[60] ConcilioVaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, n. 59, A.A.S.........
[61] DULBECCO R., Ingegneri della vita, Mondadori, Milano 1989.
[62] JONAS H., Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1999.
[63] SGRECCIA E., Autonomia e responsabilità della scienza, o.c., p.45
[64] GIOVANNI PAOLO II, Discorso tenuto in occasione della Sessione Plenaria della Pontificia
Accademia delle Scienze, o.c..
[65] Documento proposto al termine della Conferenza di Budapest (2-3 giugno 1999) ed
approvato nell'Assemblea dell' UNESCO a Parigi. Riportiamo il Docmento in appendice.
[66] Ibidem, n.2 del Preambolo.
[67] Ibidem n.1 del Preambolo
[68] Ibidem n.3 del Preambolo
[69] Ibidem, n.4 of the preamble.
[70]Ibidem, nn 7-22.
257
[71] Ibidem, n.24
[72] Ibidem nn.26-27
[73] Ibidem nn 28-29
[74] Ibidem nn. 30-35
[75] Ibidem nn. 36-42
[76] POSSA G. Promuovere la ricerca scientifica e tecnologica per accellerare lo sviluppo del
Paese: Linee Guida delal Ricerca, “Atenei” Le Mounier Firenze, 3-4, 2001
[77] si parla di bioscienze, monoscienze, infoscienze: Ibidem, p.22.
[78] Ibidem, pp.109-110
[79] Giovanni Paolo II, Fides et Ratio, nn. 88-90
[80] Concilio Ecumenico Vaticano II, Messaggi L’heure de départ ad alcune categorie di persone,
(8.12.1965), A.A.S., 1965: .8-18.
[81] PAOLO VI, Lettera Enciclica Hmanae Vitae, 25.7.1968, n.24, A.A.S. 60 (1968), pp.401-503.
[82] GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica “Evangelium Vitae”, 25.3.1995, n.98; A.A.S. 87 (1995),
pp.401-522: “Un compito particolare spetta agli intellettuali cattolici, chiamati a rendersi
attivamente presenti nelle sedi privilegiate dell’elaborazione culturale, nel mondo della scuola e
delle università, negli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi della creazione
artistica e della riflessione umanistica”. Tutto ciò è inteso “per costruire una nuova cultura della
vita umana”
[83] Lettera Enciclica Novo Millennio Ineunte al termine del Grande Giubileo dell’Anno 2000,
n.51: “Un impegno speciale deve riguardare alcuni aspetti della radicalità evangelica che sono
spesso meno compresi fino a rendere impopolare l’intervento della Chiesa, ma che non possono
per questo essere meno presenti nell’agenda ecclesiale della carità.Mi riferisco al dovere
d’impegnarsi per il rispetto della vita di ciascun essere umano dal concepimento al suo naturale
tramonto. Allo stesso modo il servizio all’uomo c’impone diguidare, opportunamente e
importunamente, che quanti s’avvalgono delle nuove potenzialità della scienza, specie sul terreno
delle biotecnologie, non possono mai disattenderele esigenze fondamentali dell’etica ... Per
l’efficacia della testimonianza cristiana, specie in questo ambito delicato e controverso è
importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della
Chiesa, sottolineando soprattutto che si tratta d’imporre ai non credenti una prospettiva di fede,
ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’essere umano”.
[84] ID., Costituzione Apostolica Ex corde Ecclesiae sulle Università Cattoliche, 15 agosto 1990
AAS 82 (1990), 1475-1509, n. 5
[85] Ibid., n. 15
[86] Conciclio Ecumenico Vaticano II, Messaggi ....
[87] GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica “Sollecitudo Rei Socialis”, Citta del
Vaticano30.12.1987, A.A.S. (1988): 513-586:
[88] GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione all’UNESCO, 2.6.1980. aas, 72(1980) 750, N. 22;
Idem, Allocuzione alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10.11.1979, Insegnamenti di Giovanni
Paolo II, II, 2 (1979) 1109.
258
Comunicato Finale
1. Durante i giorni 24-26 febbraio, in Vaticano, si è svolta la IX Assemblea generale della
Pontificia Accademia per la Vita, quest'anno dedicata ad un tema di grande attualità ed impatto
sociale: l' "Etica della ricerca biomedica. Per una visione cristiana".
È un fatto evidente come, negli ultimi decenni in particolare, il cammino della biomedicina abbia
conosciuto uno sviluppo straordinario, sostenuto anche dall'enorme avanzamento della
tecnologia e dell'informatica che hanno amplificato enormemente le possibilità d'intervento sui
viventi ed, in particolare, sull'uomo. Grandi conquiste, ad esempio, sono state ottenute nel campo
della genetica, della biologia molecolare, così come nel campo della trapiantologia e delle
neuroscienze.
Tra i fattori determinanti di un tale sviluppo, la ricerca biomedica sicuramente costituisce, oggi
più che mai, uno strumento privilegiato per far progredire le conoscenze in questo settore della
medicina, come il Papa stesso ha sottolineato in questi giorni: "è un fatto da tutti riconosciuto che
i miglioramenti della medicina nella cura delle malattie dipendono prioritariamente dai progressi
della ricerca" (GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti alla IX Assemblea Generale della PAV,
n. 2 - pubblicato su "L'Osservatore Romano", Lunedì-Martedì 24/25 Febbraio 2003, p. 5).
2. Ogni nuova scoperta nel campo della biomedicina, nel contesto attuale, sembra ormai
destinata a produrre effetti "a cascata", aprendo molteplici orizzonti nuovi in ordine alla
possibilità di diagnosi e di terapia per tante patologie ancora oggi inguaribili.
Ovviamente, l'acquisizione di una crescente possibilità tecnica d'intervento sull'uomo, sugli altri
esseri viventi e sull'ambiente, ottenendo per di più effetti sempre più incisivi e duraturi, esige, da
parte degli scienziati e della società tutta, l'assunzione di una responsabilità tanto maggiore
quanto più grande si dimostra la potenza dell'intervento stesso. Ne deriva che le scienze
sperimentali, e quindi anche la biomedicina, in quanto "strumento" nelle mani dell'uomo, non
bastano a se stesse, ma necessitano di essere orientate a determinati fini e confrontate col mondo
dei valori.
3. Il protagonista di questo processo continuo di "orientamento etico" è inequivocabilmente
l'uomo. Inscindibile unità di corpo e anima, l'essere umano si caratterizza per la sua capacità di
scegliere in libertà e responsabilità il fine delle sue azioni e i mezzi per raggiungerlo. La sua ansia
di ricerca della verità, che appartiene alla sua stessa natura e alla sua particolare vocazione, trova
un aiuto indispensabile nella Verità stessa, che è Dio, il quale viene incontro all'uomo, svelandogli
il Suo volto attraverso il creato e, più direttamente, attraverso la Rivelazione; così Egli asseconda
e sostiene gli sforzi della ragione umana, consentendole di riconoscere i tanti "semi di verità"
presenti nella realtà e, finalmente, di entrare in comunione con la Verità stessa che Egli è.
In linea di principio, quindi, non sussistono limiti etici alla conoscenza della verità, non vi è cioè
alcuna "barriera" oltre la quale l'uomo non dovrebbe mai spingersi nel suo sforzo conoscitivo:
con saggezza, il Santo Padre ha definito l'uomo come "colui che cerca la verità" (GP II, Fides et
Ratio, n.28); esistono invece precisi limiti etici al modo di agire dell'uomo che ricerca tale verità,
poiché "tutto ciò che è tecnicamente possibile non è per ciò stesso moralmente ammissibile"
(CDF,Donum Vitae, n. 4). È dunque la dimensione etica dell'uomo, che egli concretizza attraverso i
giudizi della sua coscienza morale, a connotare la bontà esistenziale della sua vita.
4. Nell'impegno a ricercare e riconoscere la verità oggettiva in ogni creatura, un ruolo di
particolare rilievo hanno gli scienziati dell'area biomedica, i quali sono chiamati ad operare per il
benessere e la salute degli esseri umani; ogni attività di ricerca in questo campo, quindi, deve
259
avere sempre come fine ultimo il bene integrale dell'uomo e, nei mezzi utilizzati, deve rispettare
pienamente in ciascun individuo la sua inalienabile dignità di persona, il diritto alla vita e
l'integrità fisica sostanziale.
Contro ogni falsa accusa o malinteso, vogliamo riaffermare, in comunione col Papa, Giovanni
Paolo II, che: "la Chiesa rispetta ed appoggia la ricerca scientifica, quando essa persegue un
orientamento autenticamente umanistico, rifuggendo da ogni forma di strumentalizzazione o
distruzione dell'essere umano e mantenendosi libera dalla schiavitù degli interessi politici ed
economici" (GP II, Discorso..., n.4)
In quest'ottica, occorre manifestare la più grande gratitudine alle migliaia di medici e ricercatori
di tutto il mondo che, generosamente e con grande professionalità, ogni giorno si dedicano con
tutte le proprie forze al servizio dei sofferenti e alla cura delle patologie. Ancora, il Papa ha
ricordato che: "Tutti, credenti e non credenti, dobbiamo rendere omaggio ed esprimere sincero
appoggio a questo sforzo della scienza biomedica, rivolto non soltanto a farci meglio conoscere le
meraviglie del corpo umano, ma anche a favorire un degno livello di salute e di vita per le
popolazioni del pianeta" (GP II, Discorso..., n.2).
5. Per le motivazioni già ricordate, a ragione quindi si può e si deve parlare di una "etica della
ricerca biomedica" che, di fatto, si è andata sviluppando ed articolando sempre più negli ultimi
trent'anni. A tale sviluppo, anche la riflessione cristiana ha saputo dare il suo importante
contributo, facendo emergere alcune problematiche nuove, alla luce della sua originale visione
antropologica. Storicamente, possono essere citati almeno due temi come esempio
dell'attenzione etica della comunità cristiana verso il mondo della ricerca biomedica: il richiamo
al rispetto della persona, quando essa diviene soggetto di ricerca, specialmente nel caso della
sperimentazione non direttamente terapeutica; la sottolineatura dello stretto legame esistente
tra scienza, società ed individuo, che si gioca nell'intero processo della ricerca.
6. Nell'elaborazione di un itinerario di ricerca biomedica che sia rispettoso del vero bene della
persona, è quindi necessario far convergere in sinergia le diverse discipline coinvolte con una
metodologia integrativa, che renda ragione della unità complessa costitutiva dell'essere umano. A
tal fine, risulta appropriata la proposta del cosiddetto "metodo triangolare"; esso si articola in tre
momenti: l'esposizione dei dati biomedici; l'approfondimento del significato antropologico e
l'individuazione dei valori in gioco che tale fatto comporta; l'elaborazione delle norme etiche che
possano guidare il comportamento degli operatori, nella data situazione, secondo i significati e i
valori precedentemente individuati.
7. Un altro tema di grande rilevanza, nell'ambito della ricerca biomedica, è senza dubbio quello
della sperimentazione, terapeutica e non, considerata nell'ottica della sua applicazione nell'uomo.
Esso coinvolge molti aspetti e problematiche, sia di ordine scientifico che etico. È un'esigenza
imprescindibile, ad esempio, quella di assicurare un alto livello di professionalità dei ricercatori
coinvolti nel disegno sperimentale, così come adottare una metodologia che sia rigorosa
nell'individuazione e nell'applicazione dei criteri procedurali. Inoltre, è eticamente necessario
che lo sperimentatore, insieme ai suoi collaboratori, mantenga una piena indipendenza personale
e professionale rispetto ad eventuali interessi (economici, ideologici, politici, ecc.) estranei allo
scopo della ricerca, al bene dei soggetti coinvolti e all'autentico progresso dell'umanità.
8. Ancora, si vuole riaffermare la necessità di far precedere la fase sperimentale clinica
(applicazione nell'uomo) da una adeguata sperimentazione condotta sugli animali, che permetta
ai ricercatori di acquisire previamente tutte le necessarie conoscenze circa i possibili danni e
260
rischi che tale sperimentazione potrebbe comportare, allo scopo di garantire la sicurezza dei
soggetti umani coinvolti. Naturalmente, anche la sperimentazione sugli animali esige di essere
condotta nell'osservanza di precise norme etiche che tutelino, nella massima misura possibile, il
benessere degli esemplari utilizzati.
9. Particolare attenzione, poi, deve essere riservata al coinvolgimento nei protocolli di ricerca di
soggetti umani particolarmente "vulnerabili", a causa delle loro condizioni vitali, come
chiaramente mostra il caso esemplare dell'embrione umano. Per la delicatezza del suo stadio di
sviluppo, infatti, una eventuale sperimentazione su di lui comporterebbe, alla luce delle attuali
possibilità tecniche, dei rischi molto elevati - e perciò non eticamente accettabili - di procurargli
dei danni irreversibili o addirittura di causarne la morte.
Risulta anche del tutto inaccettabile la motivazione addotta da alcuni circa la liceità di sacrificare
l'integrità (fisica e genetica) di un soggetto umano allo stadio embrionale, fino a distruggerlo se
necessario, allo scopo di ottenere dei benefici per altri individui umani: mai è moralmente lecito
compiere intenzionalmente un male, neanche per raggiungere fini in se stessi buoni .
Inoltre, occorre tener presente come l'individuo umano allo stadio embrionale, pur meritando il
rispetto dovuto ad ogni persona umana, non sia certamente un soggetto in grado di dare il suo
consenso personale a interventi che lo espongono a grandi rischi, senza avere un'efficacia
direttamente terapeutica per lui stesso; pertanto, qualunque intervento sperimentale
sull'embrione umano, che non sia finalizzato ad ottenere benefici diretti per la sua salute, non
può essere considerato moralmente lecito.
10. L'attuale processo di globalizzazione progressiva che sta interessando l'intero pianeta, le cui
conseguenze non sempre appaiono essere positive, ci spinge a considerare la tematica della
ricerca biomedica anche sotto il profilo dei suoi risvolti sociali, politici ed economici.
Data la limitatezza crescente delle risorse da poter destinare allo sviluppo della ricerca
biomedica, è infatti necessario porre grande attenzione a realizzarne una distribuzione equa tra i
vari Paesi, tenendo in conto le condizioni di vita nelle diverse aree del mondo e l'emergenza dei
bisogni primari nelle popolazioni più povere e provate. Ciò significa che a tutti dovrebbero essere
garantite le condizioni e i mezzi minimali sia per poter usufruire dei benefici derivanti dalla
ricerca stessa, sia per poter sviluppare e mantenere una capacità endogena di ricerca.
11. A livello legislativo, poi, si rinnova l'auspicio e la raccomandazione perché si giunga ad una
normativa internazionale unificata nei contenuti, che sia fondata sui valori inscritti nella natura
stessa della persona umana. In questo modo, si supererebbero le attuali disparità che, in molti
casi, rendono possibili abusi e strumentalizzazioni dei singoli individui e di intere popolazioni.
12. Infine, riconoscendo l'enorme influsso che i mass-media hanno nella formazione
dell'opinione pubblica e l'importante ruolo che essi svolgono nel suscitare aspettative e desideri,
più o meno fondati, nel grande pubblico, appare sempre più necessario che gli operatori del
settore, che scelgono di occuparsi dell'area biomedica e, più in generale, della bioetica, si formino
accuratamente tanto nel campo scientifico come in quello etico, per essere in grado di
comunicare, con un linguaggio semplice e sintetico, la realtà dei fatti senza ingenerare confusione
o travisamenti.
13. In conclusione, la Pontificia Accademia per la Vita desidera rinnovare, con grande entusiasmo
e profondo senso di responsabilità, il proprio impegno e la propria dedizione alla causa della vita,
in sincera e rispettosa collaborazione con tutti coloro che operano nel campo della ricerca
261
biomedica, come il Papa stesso ha indicato nel suo indirizzo alla PAV: "Nel terreno della ricerca
biomedica l'Accademia per la Vita può quindi costituire un punto di riferimento e di illuminazione
non solo per i ricercatori cattolici, ma anche per quanti desiderano operare in questo settore della
biomedicina per il bene vero di ogni uomo." (GP II, Discorso..., n. 3). Il suo compito precipuo
continua ad essere quello di mettere a disposizione della Chiesa, della società nel suo insieme e
della comunità scientifica in particolare il proprio servizio "statutario" di studio, formazione ed
informazione, nello sforzo di individuare ed indicare alla società intera i valori radicati nella
dignità della persona umana ed esigiti dal perseguimento del vero bene di ogni uomo e di tutto
l'uomo, allo scopo di dedurne indicazioni etiche che possano guidare gli operatori nel loro
impegno quotidiano.
(pubblicato in "L'Osservatore Romano", Giovedì 13 Marzo 2003, p. 7)
262
Proposta di impegno etico per i ricercatori in ambito biomedico
Nota introduttiva:
Il seguente "manifesto" viene pubblicato come appendice al comunicato finale della IX Assemblea
Generale della Pontificia Accademia per la Vita. Esso rappresenta un frutto concreto dei lavori
assembleari, quest'anno dedicati al tema "Etica della ricerca biomedica. Per una visione
cristiana", che viene presentato come proposta aperta alla quale aderire liberamente. L'invito per
una adesione personale è rivolto a tutti i ricercatori e operatori della ricerca nell'area biomedica
e anche ai ricercatori nel campo bioetico.
L'eventuale adesione personale, che presuppone la condivisione dei principi esposti nel testo,
può essere comunicata in uno dei seguenti modi:
- per e-mail (indirizzare a: [email protected] )
- per fax (inviare al +39 06 69882014)
- per posta ordinaria (indirizzo: Pontificia Accademia per la Vita, Via della Conciliazione 3, 00193
Roma - ITALY).
Qualunque sia la modalità prescelta, è obbligatorio indicare le proprie generalità (nome,
cognome, indirizzo, telefono, fax, e-mail), professione e luogo di lavoro, titoli accademici o di
studio.
13 Marzo 2003
Premessa
Lo sviluppo raggiunto dalla scienza negli ultimi decenni ha prodotto rilevanti trasformazioni
culturali e sociali, modificando qualitativamente molti aspetti dell'esistenza umana.
L'avanzamento del progresso scientifico in diversi settori, infatti, ha suscitato grandi speranze di
concreti miglioramenti per la vita ed il futuro dell'uomo. Tuttavia, in alcuni settori della ricerca
scientifica sono sorti problemi e/o dubbi di natura etica e religiosa, che hanno mostrato in modo
inequivocabile quanto sia necessario, in realtà, un costante confronto/integrazione tra le scienze
sperimentali, da un lato, e le altre scienze umane e la filosofia, dall'altro, in un orizzonte più
ampio, perché l'acquisizione di conoscenze sempre nuove sia effettivamente finalizzata al vero
bene della persona umana.
La vita e la natura dell'uomo si presentano come realtà troppo complesse per poter essere
esaminate in maniera esaustiva da un'unica prospettiva; un approccio multidisciplinare appare,
dunque, indispensabile per poter conoscere sempre meglio l'essere umano nella sua integralità
ed offrire un apporto significativo alla crescita di una scienza che sia veramente per l'uomo.
Inoltre, un tale dialogo interdisciplinare, proprio riportando l'attenzione sulla centralità della
persona umana, renderebbe, da una parte, gli uomini di scienza più consapevoli delle
implicazioni etiche del loro operare e spingerebbe, dall'altra, i cultori di antropologia filosofica e
teologica ad assumere un ruolo di collaborazione dialogica e di supporto pratico nei loro
confronti, nel comune intento di accrescere gli strumenti conoscitivi ed applicativi al servizio
della comunità umana
In tale prospettiva, il riferimento ai valori umani e, in definitiva, ad una visione antropologica ed
etica, è dunque un elemento imprescindibile da porre come premessa per una ricerca scientifica
corretta, che sappia ben tenere in conto le responsabilità verso se stessi e verso gli altri.
263
Senza riferimento all'etica, infatti, scienza e tecnologia possono essere usate sia per uccidere che
per salvare vite umane, sia per manipolare che per promuovere, sia per distruggere che per
costruire. È quindi necessario che, mediante una gestione responsabile, la ricerca si indirizzi
verso il vero bene comune, un bene che trascenda qualsiasi interesse meramente privato,
superando i confini geografici e culturali delle nazioni, sempre tenendo lo sguardo puntato al
bene delle generazioni future.
Perché la scienza sia realmente posta a servizio dell'uomo, è necessario che essa sappia andare
"oltre la materia", intravedendo nella dimensione corporea dell'individuo l'espressione di un
bene spirituale più grande. Gli scienziati devono comprendere il corpo umano come la
dimensione tangibile di una realtà personale unitaria, corporea e spirituale allo stesso tempo.
L'anima spirituale dell'uomo, sebbene non tangibile in se stessa, sempre costituisce la radice
della sua realtà esistenziale e tangibile, della sua relazione col resto del mondo e, di conseguenza,
del suo peculiare ed inalienabile valore.
Solo una tale visione potrà rendere la ricerca scientifica effettivamente rispettosa della persona
umana, considerata nella sua complessa unità corporeo-spirituale, ogni volta che essa diviene
oggetto di investigazione, con un particolare riferimento a quegli eventi che costituiscono l'inizio
e il termine della vita umana individuale.
A motivo di ciò, emerge forte l'esigenza di offrire percorsi formativi per i giovani ricercatori, che
pongano l'accento non soltanto sul versante della preparazione scientifica, ma anche
sull'acquisizione di nozioni fondamentali di antropologia e di etica; l'espressione di tali percorsi
potrebbe, poi, cristallizzarsi nell'elaborazione di un vero e proprio codice deontologico per i
ricercatori, al quale ciascun ricercatore possa fare sicuro riferimento nel suo lavoro, e che
rappresenti insieme un segno di speranza e di impegno per una medicina veramente
"umanizzata", durante il nuovo millennio.
Una prima direttrice di cammino potrebbe riguardare proprio le modalità con cui il ricercatore
deve comportarsi e le norme da osservare per indirizzare la ricerca stessa verso le finalità già
esposte. Tali indicazioni etiche, alle quali scegliamo di aderire, desideriamo proporle anche a tutti
gli altri operatori del mondo della ricerca biomedica; in qualche modo, esse delineano i tratti
principali della "personalità morale" del ricercatore.
Impegno
- Mi impegno ad aderire ad una metodologia di ricerca caratterizzata da rigore scientifico e da
un'alta qualità dell'informazione che viene fornita.
- Non aderirò a ricerche nelle quali mi potrei trovare in conflitto d'interesse dal punto di vista
personale, professionale od economico.
- Riconosco che la scienza e la tecnologia devono essere a servizio della persona umana, nel
pieno rispetto della sua dignità e dei suoi diritti.
- Riconosco e rispetto ogni tipo di ricerca, e le sue applicazioni, che sia basato sul principio di
"bontà morale", riferito alla corretta visione della duplice dimensione corporale e spirituale
dell'uomo.
- Riconosco che ad ogni essere umano, fin dal primo momento della sua esistenza (processo di
fertilizzazione) e fino alla sua morte naturale, va garantito il rispetto pieno ed incondizionato che
è dovuto ad ogni persona umana, a ragione della sua peculiare dignità.
- Riconosco l'utilità e l'obbligo di una seria e responsabile sperimentazione sull'animale,
condotta alla luce di determinate regole etiche, prima di applicare all'uomo nuove metodologie
diagnostiche e terapeutiche, a causa del mio dovere di tutelare la vita e la salute umana.
Riconosco anche che il passaggio dalla sperimentazione nell'animale alla fase sperimentale
264
clinica (nell'uomo) deve essere compiuto soltanto quando le evidenze fornite dalla
sperimentazione negli animali garantiscono sufficientemente l'innocuità o l'accettabilità degli
eventuali danni e rischi che tale sperimentazione implicasse.
- Riconosco la legittimità della sperimentazione clinica sull'uomo, ma solo a precise condizioni,
tra le quali in primo luogo la salvaguardia della vita e dell'integrità fisica dei soggetti umani
sottoposti ad essa. Occorrerà poi che la sperimentazione sia sempre preceduta da una doverosa,
corretta e completa informazione sul significato e sugli sviluppi della stessa. Tratterò ogni
persona che aderisce ad una sperimentazione come soggetto libero e responsabile e mai come
mero mezzo per il conseguimento di altri fini. Mai accetterò che una persona sia arruolata in una
sperimentazione senza che abbia dato il suo libero consenso informato.
(pubblicato su "L'Osservatore Romano" di Giovedì 13 Marzo 2003, p. 7)
265
Scarica