Recensione Finito Infinito

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Rita Ramberti, Il problema del libero arbitrio nel pensiero di Pietro Pomponazzi:
La dottrina etica del De fato: spunti di critica filosofica e teologica nel Cinquecento,
Firenze, Olschki, 2007, pp. 325, ISBN 978-88-222-5678-2.
Il problema della libertà nella tradizione aristotelica è uno dei temi più scottanti
della ricerca storico-filosofica. Se è nota la scarsità e spesso l’oscurità con le quali
Aristotele tratta il problema, d’altro canto studi recenti mostrano la grande influenza che
il pensiero aristotelico sulla libertà ha avuto nella storia della filosofia da s. Tommaso
sino a Kant. All’interno di questa tradizione si inserisce a buon diritto Pietro
Pomponazzi, il quale è fra i primi moderni a trattare il problema della libertà non in
chiave metafisica o teologica, bensì in chiave naturalistica. Il libro di Rita Ramberti
colma una vistosa lacuna nella letteratura su Pomponazzi e, più in generale, sulla
filosofia del Rinascimento e sulla storia della tradizione aristotelica. Il volume è diviso
in tre capitoli, che trattano rispettivamente le fonti, l’evoluzione e la ricezione del
pensiero pomponazziano sulla libertà dell’uomo.
Nel De immortalitate Pomponazzi afferma la naturalità dell’anima umana e la sua
sostanziale unità con il corpo. Ciò comporta che le funzioni superiori dell’intelletto e
della volontà possano essere operative solo per mezzo delle funzioni inferiori
dell’anima vegetativa e sensitiva. Pomponazzi deduce da ciò le prove necessarie per
negare l’immortalità dell’anima umana e affermare la priorità del fine pratico, condiviso
da tutti gli uomini, opposto a quello teoretico, riservato a quei pochi che vogliano
assimilare la propria vita a quella della divinità. In questo senso nel De immortalitate
sono individuate le caratteristiche specifiche per le quali l’uomo può essere considerato
fra gli esseri naturali quello più vicino alle intelligenze eterne (pp. 1-23).
Nel De incantationibus invece Pomponazzi spiega le relazioni fra la natura, l’uomo
e le intelligenze celesti, ponendo un concetto di causalità che da una parte recupera la
tradizione peripatetica della causa efficiente e dall’altra quella neoplatonica, basata sulla
partecipazione e la mimesi con le realtà superiori. Secondo Ramberti l’applicazione di
questi due tipi di causalità nel De incantationibus porta Pomponazzi a negare la
possibilità della libertà umana all’interno del meccanicismo della natura. Il mondo
naturale è perciò consegnato alle leggi necessarie ed immutabili stabilite da Dio nel
momento della creazione e viene escluso ogni intervento diretto divino sul mondo (pp.
50-75).
Nel De fato questa concezione ha risvolti significativi in ambito morale, perché
anche la volontà umana non può sottrarsi alla regolarità immutabile dei rapporti di
causa-effetto. L’obiettivo del De fato è quindi di riconsiderare la possibilità di un
“compatibilismo” fra la necessità universale e la libertà naturale. Per Pomponazzi ciò è
possibile rinunciando in parte sia all’aristotelismo sia alle verità della religione cristiana
(pp. 77-109). In questo senso egli elabora nel De fato prospettive autonome rispetto alla
tradizione filosofica precedente: la vera libertà dell’uomo consiste nell’accettare
consapevolmente di contribuire con le proprie azioni all’ordine naturale stabilito da Dio
al momento della creazione. La teoria proposta da Pomponazzi in questo senso è vicina
allo stoicismo e Ramberti non manca di segnalare tale affinità e di analizzarla
approfonditamente. Per salvare la libertà umana, il filosofo mantovano deve ripensare in
modo radicale il rapporto che sussiste fra necessità e contingenza. Ramberti riassume
efficacemente questa relazione affermando che la onniscienza divina non implica la
necessità di ogni evento sin dalla creazione. Dio infatti può scegliere di rapportarsi ai
singoli eventi secondo una forma di conoscenza contingente compresente nella mente
infinita con la conoscenza necessaria nella quale tutto è presente e attuale. Questa
soluzione permette a Pomponazzi di affermare che l’azione dell’uomo, che decide di
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seguire o meno la legge universale e necessaria della natura, non è prevista da Dio nel
momento in cui è compiuta. Questo spiegherebbe per Pomponazzi anche il fatto che Dio
non intervenga per risolvere le ingiustizie e il male del mondo (pp. 109-150).
Per tale via è apportata una modifica essenziale alla dottrina tomistica della
provvidenza, che «considera semplicemente come esigenza dell’ordine e della suavis
dispositio della creazione tutto ciò che al giudizio limitato dell’uomo appare ingiusto e
insensato» (p. 276). Pomponazzi invece riesce a salvare sia l’ordine meccanicistico
della natura che la libertà umana. In questo senso il quinto libro del De fato rappresenta
lo stadio finale della speculazione pomponazziana iniziata nel De immortalitate. Qui
cosmologia e antropologia si fondono insieme creando una posizione totalmente nuova
ed originale all’interno della storia della tradizione aristotelica. Ramberti riassume così
l’apogeo della filosofia pomponazziana: «All’atto di creare il mondo Dio dispone le
creature secondo diversi gradi di perfezione e a ognuna di esse attribuisce una peculiare
caratteristica, in base alla quale essa contribuisce al mantenimento della perfezione
generale; la caratteristica dell’uomo è la libertà di agire bene, ovvero di seguire la via
che indica l’intelletto, oppure di non agire e permettere indirettamente l’affermarsi del
male» (p. 277). Il fatto che la libertà umana sia la caratteristica particolare dell’uomo
non deve tuttavia far pensare, come a volte sembra suggerire Ramberti, ad un primato
del pratico sul teoretico, non solo perché esso sarebbe estraneo alla tradizione
aristotelica, ma anche perché senza la conoscenza e quindi la consapevolezza del
proprio ruolo all’interno della natura non sarebbe possibile alcuna azione morale.
La parte più bella ed interessante del libro è però il capitolo Lettori del De fato in
Italia prima dell’edizione a stampa (1524-1552), nel quale l’autrice mostra tutta
l’importanza della prospettiva pomponazziana sulla libertà. Il filosofo mantovano,
com’è noto, fece circolare il De fato in forma manoscritta. Ramberti nota che la parte
che destò più interesse nei lettori non fu quella finale, come sarebbe lecito aspettarsi, ma
piuttosto la polemica iniziale contro l’omonimo trattato di Alessandro di Afrodisia. Egli
ricostruisce in modo esemplare la difesa della posizione alessandrista da parte di
Ambrogio Fiandino e Juan Ginés de Sepulveda contro gli attacchi di Pomponazzi.
L’opera di Alessandro godeva infatti di grande autorità, tanto che fu utilizzata come
arma contro il predestinazionismo protestante (pp. 175-213). La posizione di
Pomponazzi fu così assimilata in quegli anni al tentativo dei protestanti di negare un
effettiva libertà individuale. Alla conclusione del trattato pomponazziano invece furono
interessati Crisostomo Javelli e Girolamo Fracastoro, entrambi legati all’ateneo
patavino, il primo per rivendicare la superiorità della prospettiva tomistica, il secondo
per stabilire una effettiva relazione fra la filosofia naturale e la teologia nell’uomo (pp.
214-250). Non meno interessante è l’appropriazione del testo pomponazziano da parte
di Girolamo Cardano e di Simone Porzio. In particolare Cardano, che fu verosimilmente
– forse in maniera indiretta – fra i primi diffusori delle dottrine pomponazziane nei
paesi germanici, elaborò, al pari di Pomponazzi, una dottrina della libertà umana al di là
della necessità naturale a causa del speciale rapporto instaurato con la prima causa (pp.
250-269).
L’unico difetto rintracciabile nel libro di Ramberti è l’uso ambiguo del concetto di
“volontà” in Aristotele e nella tradizione aristotelica, che crea a volte non pochi
fraintendimenti. Ramberti infatti afferma che «l’appetito (órexis) e la volontà (boulesis)
sono le due facce della stessa facoltà appetitiva (to oretikon)» e che la differenza fra la
volontà degli esseri razionali e l’appetito degli animali sta nella chiarezza della
conoscenza che presenta l’oggetto verso il quale il principio motore ordinerà di
orientarsi (pp. 6-7). Ciò fa concludere a Ramberti, appellandosi al passo di Eth. Nic..
III.3, 1111 b 8-9, che sono volontari gli atti dei bambini e degli animali e che in fondo il
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volere è di per sé niente più che un rivolgersi verso un fine, cosa che l’uomo condivide
con gli esseri irragionevoli (p. 9). Le cose non sono proprio così in Aristotele e il
problema risiede nella confusione terminologica con la quale Ramberti tratta i diversi
concetti di spontaneità (ekousíos), volontà (boulesis) e libera scelta (proaíresis). Già
nelle opere fisiche e metafisiche Arisotele si occupa del problema della libertà
utilizzando il termine autómatos per definire gli atti spontanei in correlazione con la
praxis, ma è solo nel libro terzo dell’Etica Nicomachea che egli dedica una trattazione
approfondita al concetto di spontaneità come ekoùsios. Il termine è tradotto
comunemente, ma altrettanto imprecisamente, con “volontario”, tuttavia esso non deve
far cadere nell’errore di concepire ekousíos come ciò che è prodotto dalla boulesis,
errore nel quale mi sembra cadere l’autrice nel passo precedente. Nei primi sei paragrafi
del libro Aristotele distingue l’atto ekousíos da quello bouleutós. Cogliere questa
differenza significa capire il modo in cui sostanzialmente sino all’epoca di Pomponazzi
il concetto di ekousíos fu utilizzato. In Eth. Nic. III.3, 1111 a 22-24, Aristotele definisce
il concetto di “spontaneo” come ciò il cui principio risiede nell’agente e poi dimostra
che gli atti compiuti per brama e per impulsività sono spontanei. Il comportamento degli
animali e dei bambini è, aggiunge Aristotele, irrazionale e spontaneo, l’irrazionalità
infatti non è opposta alla spontaneità ma è opposta alla proaíresis. In 1111 b 6-10,
Aristotele afferma che è evidente che la scelta deliberata (proaíresis) è un atto
spontaneo (ekousíos), ma essa però non vi si identifica. Spontanei sono anche gli atti dei
fanciulli e degli animali, ma essi non sono né volontari né liberi, perché la proaíresis
non è comune anche agli esseri sprovvisti di ragione. Non mi pare quindi corretta
l’identificazione della volontà come boulesis in esseri ragionevoli e non. Gli atti
spontanei sono compiuti come azioni irriflesse e non procedono secondo un piano
predeterminato e razionale, come invece esige la scelta. Lo stesso suffisso pro di
proaíresis indica l’anteriorità della decisione che è necessaria negli atti volontari, ma
non è presente in quelli spontanei. Per fare questo, è necessaria un’intelligenza ed è in
questo senso che la volontà è intesa da Pomponazzi sia nel De immortalitate che nel De
fato. Una volontà priva di intelligenza, infatti, non è una vera volontà, come la stessa
Ramberti afferma in seguito, e si abbandona indifferentemente al meccanicismo
naturale.
A parte questo dettaglio, il libro di Ramberti è attualmente la ricostruzione più
dettagliata del problema del libero arbitrio nella tradizione aristotelica del
Rinascimento. Esso non solo fornisce una panoramica completa ed esaustiva
sull’argomento, ma apre a nuovi spunti e nuovi orizzonti d’indagine, soprattutto per
quanto riguarda la ricezione del pensiero di Pomponazzi, che è senz’altro uno degli
autori più significativi e importanti della storia dell’aristotelismo.
Marco Sgarbi
Università di Verona
[email protected]
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