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Marta Sghirinzetti
(Università di Genova)
Quale interculturalità?*
Uno dei temi che la realtà attuale pone alla nostra attenzione con sempre maggiore urgenza è
senza dubbio quello della pluralità: il carattere sempre più multiculturale e multireligioso
delle società in cui viviamo ci interpella sia a livello di esperienza quotidiana, sia come
occasione di riflessione teorica. La presenza di ‘conflitti di culture’ – più o meno pretestuosi –
su tutte le scale di grandezza (dal locale al globale), la richiesta di riconoscimento da parte
delle minoranze etniche, linguistiche, religiose, sono problemi che il dibattito teorico, non
solo politico, non può ignorare. Dinanzi a questi temi la sfida è quindi duplice: si tratta di far
fronte ai problemi che necessariamente sorgono dalla convivenza e dall’interazione, senza
però rinunciare a coglierne il carattere di occasione, di opportunità anche per la conoscenza e
la comprensione di noi stessi.
Il tema della pluralità chiama dunque direttamente in causa la riflessione sul dialogo
interculturale, nella misura in cui si assume che sia possibile e doveroso cercare alternative al
conflitto e all’imposizione egemonica dell’uniformità. In altre parole, riflettere sulla pluralità
significa non fermarsi al semplice dato di fatto, a una sorta di apologia (entusiasta o
rassegnata) delle differenze, né, all’opposto, pretendere che ogni differenza possa essere
ricondotta (più o meno forzatamente) all’uniformità; non rassegnarsi al relativismo ma
nemmeno credere che la sola alternativa sia l’omologazione piattamente universalistica dei
valori e dei costumi. Il tentativo di superare questa alternativa costituisce una delle sfide più
interessanti e al tempo stesso più urgenti che si presentano oggi tanto alla politica quanto alla
riflessione filosofica.
È chiaro che parlare di multiculturalità significa anche parlare di molteplicità di prospettive,
dal momento che ogni posizione (culturale, religiosa...) rappresenta anche un particolare
punto di vista sul mondo, sulla realtà. In questo senso la riflessione sull’alterità comporta
anche la tematizzazione della soggettività (in senso sia individuale sia collettivo), ossia del
punto di vista dal quale si guarda; in questo modo constatiamo che la prima forma di pluralità
con cui è necessario fare i conti è la nostra. L’approccio interculturale induce dunque a
Note in occasione del convegno “Culture e religioni: la pluralità e i suoi problemi” (Genova 6-7 maggio
2010).
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prendere atto della complessità della situazione, che non contrappone un univoco ‘noi’ agli
‘altri’ ma che assume l’intrinseca pluralità insita tanto in noi quanto in ogni altro.
Di tali sfaccettature si è arricchito negli anni il dibattito filosofico internazionale intorno ai
temi del pluralismo e del dialogo interculturale. Non è possibile dare conto in poche righe
della complessità di tale dibattito, che non si limita all’ambito della filosofia politica e morale,
ma trova spazio in tutte le branche della filosofia e delle discipline umane.
Possiamo classificare molto sommariamente la letteratura esistente in tre gruppi tematici: la
riflessione sull’alterità, tra i cui rappresentanti di spicco sono almeno da annoverare Gadamer,
Lévinas, Ricoeur, senza dimenticare il lavoro pionieristico di G.H. Mead; il dibattito politico
sul multiculturalismo, che vede impegnati gli autori variamente riconducibili ai due ‘fronti’
liberal e communitarian: Rawls, Habermas, Taylor, MacIntyre, Walzer, Sen, Benhabib,
Kymlicka, per citare solo i più rappresentativi; infine, la filosofia del dialogo interculturale e
interreligioso – e qui vanno almeno ricordate le opere di Panikkar, di Küng, le più recenti
riflessioni di Mall, Wimmer e Fornet-Betancourt. Non bisogna poi dimenticare gli essenziali
contributi provenienti da altre scienze umane, fra cui le riflessioni di Geertz in ambito
antropologico, i lavori di Said sul pensiero postcoloniale, dalla sociologia (ad esempio Beck)
e dalla psicologia (ad esempio Bruner). Va precisato però che molti degli autori citati, a causa
della poliedricità della loro riflessione, non possono essere ricondotti in modo esclusivo ad
uno solo di questi gruppi, per quanto presentati in termini volutamente schematici.
In relazione ideale con il dibattito fin qui tratteggiato si pone il convegno di studi che si è
svolto nelle giornate del 6 e 7 maggio 2010 presso l’Università di Genova, Culture e
religioni: la pluralità e i suoi problemi, promosso dalla sezione di Etica e scienze religiose
del Dipartimento di Filosofia di tale Ateneo. In questa occasione l’Aula Magna della Facoltà
di Lettere e filosofia ha visto avvicendarsi voci diverse per approccio e ambito di indagine,
attorno al tema comune della pluralità culturale e religiosa e delle problematiche che essa
solleva. Il punto di partenza della riflessione sulla pluralità è stato il problema della sua
relazione con l’unità – o per meglio dire con l’esigenza di unificazione, come ha
efficacemente sintetizzato Domenico Venturelli in apertura dei lavori. I nuclei tematici
affrontati si dispongono in vario modo intorno ai due poli della ‘cultura’ e della ‘religione’
(intese nel senso più ampio) e in stretta e profonda relazione con temi e problemi di schietta
natura politica. La molteplicità dei temi emersi può essere schematicamente ricondotta ad
alcuni filoni, che provo a riassumere senza nessuna pretesa di esaustività.
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1. Teologia politica e secolarizzazione
Il dibattito intorno alla nozione di “teologia politica” è stato introdotto da Giuseppe
Cacciatore (Religione, crisi della secolarizzazione e filosofia interculturale) in riferimento
alla situazione di ‘ritorno’ della dimensione religiosa che secondo alcuni autori caratterizza
l’epoca attuale, influenzando sia le vite delle persone sia in qualche misura la sfera politica. A
partire dalla presa d’atto di quella che viene descritta come una «crisi della lettura weberiana
della modernità», Cacciatore ha difeso l’opportunità di un approccio metodologicamente ateo
ai problemi della politica, sottolineando che il valore (potenzialmente universale) della
razionalità critica non deve essere considerato di per sé in contraddizione con la coltivazione
della dimensione spirituale dell’uomo.
Già a partire da questo primo tema di discussione sono emersi alcuni interrogativi che hanno
accompagnato l’intero svolgersi del convegno: la democrazia richiede necessariamente una
separazione netta della sfera religiosa da quella politica? Tale separazione – compiutasi in
occidente sotto il nome di ‘secolarizzazione’ – può o deve estendersi anche al di là della
cultura occidentale? È possibile parlare di una nozione universale di razionalità critica? Quali
sono le condizioni di realizzabilità del dialogo interculturale? Corrispondono a quelle di un
regime politico liberale democratico?
Sul tema della secolarizzazione e in particolare sul ruolo pubblico della religione e sul suo
rapporto con la politica, si è soffermato anche l’intervento di Roberto Garaventa (Le
ambiguità della religione e del dialogo fra le religioni); in particolare è stato evidenziato
come le relazioni della religione con la politica (ma anche con la scienza, con la ragione, con
la morale) si configurino in modo complesso e spesso su diversi piani, il che rende molto
difficile stabilire confini netti fra gli ambiti di pertinenza. A più riprese è emersa, anche nel
dibattito, l’idea che tale complessità non costituisca un limite ma piuttosto uno stimolo ad
affrontare questi temi in modo più profondo, ad articolare con maggiore impegno il nostro
approccio a essi, senza abbandonarci a giudizi dati una volta per tutte ma sforzandoci di
esaminare le situazioni caso per caso.
Il dibattito sulla nozione di secolarizzazione si è mostrato imprescindibile nell’ambito della
riflessione sul dialogo interculturale: ciò che per alcuni costituisce una conditio sine qua non
per un autentico dialogo, per altri rappresenta un momento non privo di problematicità
soprattutto nella misura in cui lo si assume come categoria ‘storiografica’, i cui confini
tendono però facilmente a sfuggire. Uno degli aspetti più significativi di tale dibattito riguarda
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proprio i confini anche semantici su cui si giocano i termini della questione: da un lato la
categoria di ‘secolarizzazione’ risulta abusata o quantomeno insufficiente a cogliere la varietà
e l’evoluzione dei fenomeni che vorrebbe descrivere, a livello sia socio-culturale sia politico e
‘globale’ – e l’entrata in vigore di composti come post-secolarizzazione, o desecolarizzazione, ne è sintomatica. Dall’altro, si sente l’esigenza di una riconcettualizzazione
complessiva dell’ideale politico di laicità, rilevando l’insufficienza della caratterizzazione in
termini di mera separazione, o non ingerenza, tra ambito spirituale/religioso e
politico/istituzionale.
2. Pluralità culturale e pluralità religiosa
Lo spazio problematico all’interno del quale l’intero dibattito si colloca è costituito dal tema
del pluralismo – o meglio, della pluralità, volendo tracciare una distinzione tra un livello
descrittivo e uno normativo nell’approccio a tale tema. Non è forse del tutto scontato notare
come di pluralità si possa parlare anche a un livello ‘intraculturale’: in questo senso, il
convegno stesso si è proposto come un esempio, un esercizio di pluralismo, spaziando dalla
teoria politica alla filosofia della religione, oltre che fra le diverse posizioni dei relatori sui
temi trattati.
È stato più volte evidenziato l’essenziale ruolo costitutivo giocato dall’alterità, la quale si
presenta come qualcosa che ci interroga, mette in crisi o in questione la nostra identità e nel
farlo ci altera profondamente. Dire che l’alterità ci costituisce significa anche dire che essa
rappresenta un passaggio decisivo nel nostro processo di formazione identitaria; tale
circostanza può difficilmente essere considerata un mero dato di fatto ma assume invece un
valore positivo, che possiamo attribuire di riflesso anche al dialogo, nella misura in cui
concorre alla nostra comprensione – nonché alla costruzione – di noi stessi. La funzione del
dialogo non è quindi soltanto quella di conoscere e comprendere l’altro ma è una strada
essenziale alla comprensione e alla conoscenza di noi: questa la tesi emersa in particolare
dalla relazione di Gerardo Cunico (Cultura al plurale e prospettiva universale). Sotto questa
luce il pluralismo, e l’aspetto universalistico che in qualche modo lo connota, acquistano un
carattere utopico, rappresentando la meta (mai totalmente acquisita) del dialogo, piuttosto che
– in un’ottica proceduralista – il suo presupposto.
Se è vero dunque che il termine ‘cultura’ è un plurale tantum, l’ambito della religione non
pare essere da meno: questa constatazione non si riferisce soltanto alla pluralità delle religioni
storiche, ma attiene alla stessa religione cristiana in quanto al suo interno è reperibile una
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corrente eterodossa – generalmente emarginata e ignorata dalle chiese ufficiali – che si fa
strada a partire da Cusano e trova la sua raffigurazione paradigmatica in Nathan il Saggio di
Lessing, che ci invita a riflettere sul carattere pluriprospettico della religione. Su questa
tradizione, caratterizzata come pensiero religioso liberale, si è concentrata in particolare la
relazione di Roberto Celada Ballanti (Libertà religiosa e principio trascendentale). È stato
inoltre rimarcato come sia necessario fare riferimento alla religione nel duplice ruolo da essa
giocato: da una parte come dimensione della trascendenza che emerge per differenza rispetto
all’ambito ‘umano troppo umano’ della politica; dall’altra come fenomeno culturale, come
parte integrante della visione del mondo, della «forma di vita» di cui fa parte.
Anche l’intervento di Francesco Ghia (Il rapporto tra esclusivismo rituale e universalismo
religioso in Max Weber) si è occupato del pluralismo interno rilevabile nella tradizione
cristiana, attraverso l’esempio della “giornata di Antiochia” (narrato nella seconda Lettera ai
Galati) in cui Paolo si schiera contro la ghettizzazione volontaria dei cristiani che si
rifiutavano di condividere il culto e la mensa con i pagani. Questo passo è rappresentativo
della concezione universalistica paolina, per la quale il superamento dell’esclusivismo
coincide con la celebrazione della libertà della fede contrapposta all’osservanza della Legge
del popolo eletto. Ritorna anche qui il nesso problematico tra teologia e politica, la questione
del rapporto tra la religione e il suo ruolo pubblico: la comunità di culto e mensa tra
appartenenti a diverse fedi costituisce a tutti gli effetti la manifestazione pubblica di un
principio spirituale.
3. Relativismo e universalismo: questioni di metodo
La presa d’atto del valore intrinsecamente positivo dell’alterità, e della relazione
potenzialmente modificante che essa comporta, richiede un ulteriore passaggio: la capacità di
interrogarsi sul proprio punto di vista, sulla propria origine, sul proprio sguardo. Come ha
illustrato la relazione di Silvana Borutti (Il relativismo culturale nell’antropologia), partire
dal proprio sguardo significa in qualche modo muovere da un presupposto consapevolmente
etnocentrico; è questa una delle lezioni epistemologiche più importanti recentemente offerte
dall’antropologia: la consapevolezza della quota di etnocentrismo che ci connota permette di
non cadere nella pretesa-illusione oggettivistica, che apparentemente costituisce l’alternativa
più efficace al relativismo (salvo poi rivelarsene una pericolosa alleata). Tale approccio
consente di assumere l’alterità in tutta la sua portata destabilizzante: l’altro non è un semplice
alter ego ma ci si presenta come «intraducibile ontologico», come limite del nostro orizzonte
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di comprensibilità. Sotto questa luce, l’aspirazione all’universalismo non è una pretesa calata
dall’alto (e magari in qualche modo ‘imposta’ all’altro) ma avviene gradualmente, a partire da
una presa di distanza da se stessi.
Di tale bisogno di distanziamento ha parlato anche Alberto Pirni (Verso un “cosmoculturalismo”?), connotandolo icasticamente come reazione ad una forma di «presbiopia
culturale» (possiamo mettere a fuoco l’altro solo distanziandoci da esso): tale reazione
consiste nell’acquisire la capacità di auto-collocarsi in modo maggiormente consapevole
all’interno di uno/più contesti di convivenza, caratterizzati certo da complessità inedite
rispetto al passato. Questa auto-collocazione, ancora una volta, può avvenire solo attraverso
una relazione, uno scambio reciproco di narrazioni di sé – narrazioni che si configurano come
costitutivamente incompiute e tali da non poter essere mai definitivamente compiute. Così
concepito, il dialogo interculturale mira, più che al ‘cosmopolitismo’, a un ‘cosmoculturalismo’. Si tratta di un’espressione che vorrebbe porsi come concetto metodico per
superare la staticità di una concettualizzazione esclusivamente politica (nel suo senso
moderno), acquisendo una dimensione più dinamica: sovra-statuale e inter-contestuale. La
necessità di ripartire dalla cultura come livello più originario di quello politico-istituzionale
deriva dalla constatazione dell’inefficacia semantica di un vocabolario legato al dibattito sul
multiculturalismo che, lungi dal poter essere superato in toto, deve ulteriormente essere
sollecitato, come nel caso proposto, per trovare modalità di espressione nuove e più adeguate
a descrivere una realtà (anche culturalmente) ‘globale’ che non si lascia più imbrigliare dalla
semantica dello stato-nazione.
La necessità di un lavoro ridefinitorio nell’ambito della riflessione sui temi trattati costituisce
un ulteriore appello a quello che a più riprese è emerso come bisogno di uno sguardo critico
su di sé, sulla propria identità e sul proprio modo di concepire l’alterità. Come è stato
sottolineato ancora da Gerardo Cunico nelle battute conclusive del convegno, essenziale in
questo senso è la capacità di lasciarsi mettere in gioco, in questione, e anche di farsi spiazzare
e modificare dal dialogo, dalla posizione dell’altro, anche quando non siamo disposti a
condividerla, eventualmente resistendo alla tentazione di squalificarla a priori in quanto non
sufficientemente razionale (o democratica, o ‘disincantata’).
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