Lezione 4.

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Lezione 4
15 ottobre 2014
La domanda di Pilato
(Conseguenze teoriche del fatto che tra teologia e diritto c’è un rapporto)
Passiamo dal primo punto – la comune origine razionale – al secondo – il
valore normativo della teologia rispetto al diritto.
Che ci sia una relazione tra la fede e il diritto, e che la ragione teologica
possa legittimamente mediare tra queste due sfere, comporta anche un compito
(particolarmente pressante per chi è credente, culturalmente significativo anche
per il non credente): mettere in comunicazione le due sfere anche nella propria
visione personale di studente oggi, di professionista o comunque di operatore
giuridico domani. Molti professori universitari, magistrati, avvocati, notai,
funzionari, che la domenica vanno a messa, e che si ritengono sinceramente dei
credenti, considerano però la loro attività, sia dal punto di vista teorico che da
quello pratico, del tutto estranea alla propria fede. Se quanto abbiamo detto fin
qui è corretto, un simile dualismo va superato, cercando di capire come possano
rapportarsi le due sfere.
Il primo profilo sotto cui questa ricerca si impone è quello teorico: il diritto
ha a che fare col problema della verità e della giustizia, ma solo in quanto
possano risultare all’accertamento giudiziario (verità e giustizia processuali); la
teologia rimanda ad un ordine di verità e di giustizia che pretendono di valere in
sé (verità e giustizia ontologiche).
Prendiamo in esame il primo di questi due temi: esiste la verità? Non è un
caso che, proprio durante un processo, un giudice, Pilato, abbia posto – a se
stesso, innanzi tutto – la domanda: «Che cos’è la verità?». Una domanda piena di
un triste scetticismo, che prelude alla scelta finale del magistrato romano. Alla
fine del giudizio, infatti, Gesù risultò colpevole secondo le testimonianze e le
leggi di coloro che lo accusavano. Pilato però, dicono i vangeli, era convinto che
non avesse fatto nulla di male. Ma, se non esiste la verità in sé, se c’è solo quella
processuale, frutto di convenzioni, in nome di che cosa mettere in discussione
quella emergente dall’andamento del processo, in nome di che cosa sforzarsi di
portarla oltre se stessa, per far sì che si avvicini maggiormente a quella della
realtà?
Oggi la domanda di Pilato è più attuale che mai. Non per caso viviamo in
una cultura che ha risentito della critica di Nietzsche al concetto stesso di verità
e che è stata influenzata profondamente dalla “filosofia” implicita nelle opere di
Pirandello - si pensi all’efficacissimo Così è (se vi pare). Si sente spesso dire che
«ognuno ha la sua verità». E, se qualcuno contesta la convinzione di un altro, può
sentirsi rispondere con uno stizzito invito a rispettare le idee degli altri e a non
essere dogmatico.
Il punto è che, se non esiste la verità in sé, se ognuno ha la sua, non esistono
neppure l’errore o la menzogna e le opinioni soggettive sono infallibili e
indiscutibili, perché non vi è alcuna misura in rapporto a cui possano essere
smentite. Né è possibile la discussione, perché sarebbe come voler convincere
un altro che il gusto del gelato che si preferisce è migliore di quello che a lui
piace di più. La sola cosa da fare, per mettersi d’accordo, allora è sopraffare
l’altro, come avviene sulla nostra scena politica. Ma sarebbe ancora diritto,
questo, fondato solo sulla sopraffazione?
Sarebbe sbagliato, però, opporre al soggettivismo relativistico un
oggettivismo altrettanto unilaterale, enfatizzando la considerazione che il diritto
mira ad accertare dei fatti. Senza interpretazione, i fatti non sono altro che
fenomeni fisici insignificanti (esempio della strizzata d’occhio). L’operatore
giuridico, il giudice in primo luogo, non può illudersi di registrarli asetticamente,
per applicare la norma in modo automatico.
Il giurista, dunque non può sottrarsi alla fatica della ricerca della verità,
consapevole magari di poterne cogliere solo degli aspetti, in un processo sempre
dinamico, proteso a un orizzonte di totalità che spinge ad andare sempre avanti.
Ma questo è già importante per imprimere all’esperienza giuridica un
dinamismo che la porti a superarsi continuamente, non per vanificarsi, ma per
svilupparsi dal suo interno restando pienamente giuridica.
Spazio al dibattito.
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