antropologia in 7 parole chiave

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Antropologia:
= studio dell’uomo, il termine deriva da antropos :uomo + logos :studio, discorso
Negli Stati Uniti, il paese dove gli studi antropologici si sono maggiormente consolidati e
diffusi, esiste una suddivisione ormai classica dell’antropologia in 4 discipline:
 L’antropologia fisica (lo studio delle caratteristiche fisiche della specie umana)
 L’archeologia (lo studio delle formazioni sociali e culturali del passato)
 L’antropologia socio-culturale (lo studio dell’uomo in quanto animale sociale che si
definisce cultura)
 L’antropologia linguistica ( lo studio delle relazioni fra la cultura e il linguaggio)
In Italia invece, si sono maggiormente diffuse denominazioni come etnologia (lo studio
degli usi e costumi di un popolo) e l’antropologia culturale. In tutte le società troviamo
particolari modalità di entrare in relazione con altri popoli, da quello vicino a quello
lontano. La diversità è parte essenziale della nostra vita e ne segue un certo interesse verso
l’alterità (pressoché universale).
La nostra disciplina è una modalità storica particolarmente sofisticata di entrare in
relazione con la diversità che una società ha prodotto allorché si è verificata una
particolare congiuntura storica, sociale, economica, culturale, ideologica.
L’antropologia culturale vuole studiare l’uomo in quanto animale sociale facendo
riferimento alla lingua, ed in generale alla comunicazione.
Gli antropologi culturali studiano l’insieme delle relazioni tra gli individui membri di una
comunità e delle trame + ampie che guidano l’azione delle persone nello spazio sociale, la
visione del mondo, i sistemi cosmologici, e più specificamente, religiosi, quell’insieme di
rappresentazioni, pratiche, simboli, atteggiamenti, valori che hanno a che fare con
l’immagine dell’uomo, la tecnologia, l’economia.
Gli antropologi linguisti studiano le interconnessioni fra il linguaggio e la cultura.
L’uomo è complicato e può essere studiato sotto moltissimi differenti aspetti,
l’antropologia è infatti un campo di studio molto particolare e fluido . Elemento centrale di
questo stile intellettuale è il confronto tra tanti modi di vedere il mondo, le cose, se stessi e
gli altri, in generale, fra tanti modi di vivere propri di specifiche comunità umane per
mettere in risalto le differenze fra gli uomini. Fa parte del metodo antropologico una
buona dose di relativismo, attaccarlo significa attaccare una disposizione intellettuale per l
comprensione di altri modi d dare significato al mondo, adottarla significa diffidare di
qualunque assolutismo.
FIGURA DELL ALTROPOLOGO: visto nell’800 come accentrino e bizzarro, la stessa
scienza antropologica viene vista come una scienza dei rimasugli, di frontiera.
L’antropologia non può essere vista solo come studio della variabilità sociale e culturale
ma come un progetto intellettuale teso a destabilizzare cioè a smascherare ideologie , ad
crescere la consapevolezza critica e storica e esorcizzare le paure.
Incompletezza
La paleontologia umana è lo studio delle sequenze evolutive dell’uomo successive alla sua
separazione dagli altri gruppi di primati.
Gli ominidi hanno origine comune e piuttosto recente: dai 4 ai 6 milioni di anni fa.
E’ bene chiarire prima di tutto che nell’uomo si fondono due componenti diverse, quella
organica e quella culturale, ciascuna responsabile di caratteristiche diverse e rispondente
a meccanismi differenti. La componente organica è ereditaria e naturale ed è comune
all’uomo ed ad altre specie animali e vegetali, la componente culturale è ambientale nel
senso che si trasmette socialmente attraverso la tradizione e l’apprendimento.
ES. la capacità di volare negli uccelli si può ricondurre a un processo di sviluppo organico,
ha consentito alla specie di adattarsi a mutate condizioni ecologiche, è entrata nel suo
patrimonio genetico ed è stata trasmessa in linea diretta alle generazioni successive. La
capacità di volare, nell’uomo, si riconduce invece ad un processo tecnico ed artificiale.
La differenza nei due processi, quello di sviluppo organico e quello di innovazione
tecnologica, spiega il fatto che la nozione di evoluzione, sia una nozione ambigua, che
provoca fraintendimenti se utilizzata con riferimento alla storia dell’uomo.
La storia dell’uomo è molto di più che una semplice evoluzione di materia organica.
L’uomo rispetto alle grandi scimmie, ha:
1. la faccia corta e dotata di una dentatura ridotta adatta ad un regime onnivoro.
2. la postura eretta, tale da assicurare l’equilibrio del tronco
3. il cervello ha raggiunto il volume di 1.450 cm cubi, ed è inoltre molto più complesso
Ricostruiamone singolarmente le tappe.
L’ominide si distingue dallo scimpanzé per la postura eretta e la locomozione
bipede(cammina solo su 2 piedi). Gli australopitechi dovevano essere ominidi di piccola
statura , circa 1 m. – 1,20 m., bipedi e dotati di una struttura eretta e con dentatura ridotta
(esempio :Lucy)
L’homo abilis ha una derivazione dall’australopiteco, la sua principale caratteristica è un
aumentato volume del cervello.
L’homo erectus ha un cervello ancora + sviluppato, ed una statura + grande circa 1,65-1,70
m. la grande innovazione tecnologica di homo erectus è stata il fuoco.
Circa 400.000 anni fa si stabilizzava la morfologia dell’homo sapiens, dal cranio celebrale
elevato, arrotondato e voluminoso. In Europa, invece, si originò un evoluzione
indipendente e particolare a partire da 350.000 anni fa e fino a 100.000 anni fa con l’uomo
di Neanderthal, che conosceva il fuoco, si cibava oltre che di vegetali anche di prodotti
della caccia e della pesca, che seppelliva i propri morti, accompagnandoli con oggetti e
offerte.
Da allora, l’umanità conta una sola specie: l’homo sapiens sapiens. La dimensione genetica
e quella anatomica, la dimensione pratica, quella sociologica, la dimensione celebrale e
quella ecologica, la dimensione culturale, si intrecciano profondamente e altrettanto
profondamente formano l’uomo attraverso una vera e propria rivoluzione della vita.
La caccia e il fuoco dunque sono 2 potenti fattori di socializzazione, la prima richiede
cooperazione, crea legami affettivi tra uomini che hanno affrontato insieme grandi
pericoli, porta alla solidarietà tra una classe di uguali, la caccia spinge gli uomini
all’esterno, il fuoco crea un luogo sicuro, al quale tornare, che ospita le donne e i bambini.
Si origina così una differenziazione di tipo sociologico basata su una divisione dei compiti,
tra la classe dei maschi e il gruppo delle donne che presto sarà sancita sul piano culturale.
A questa nuova complessità sociale corrisponde un aumento delle esigenze comunicative,
il linguaggio è legato anche alla necessità di dire qualcosa a qualcuno, viene creato un
sistema di suono libero). La società degli ominidi ha bisogno di regole codificate, che
stabilizzano i modi di agire non innati. Questo insieme di informazioni strutturate in
norme costituiscono la cultura che rappresenta un principio che risponde all’esigenza
vitale per la prosecuzione del gruppo, di istruire ogno individuo attraverso
l’apprendimento in modo che sia in grado d riprodurre le medesime dinamiche sociali.
L’uomo è il nostro oggetto di studio perché è particolare, non perché è meglio
equipaggiato, più forte o più dotato dalla natura rispetto agli animali, ma, al contrario,
perché è incompiuto e carente(l’uomo come animale difettoso dal punto d vista biologico)
La cultura si presenta allora come un complemento indispensabile, come una integrazione
indispensabile alla stessa sopravvivenza biologica.
I geni dell’animale appena nato gli forniscono le informazioni
necessarie alla
sopravvivenza, come nuotare, mangiare, difendersi dai predatori. A differenza degli altri
animali noi esseri umani non nasciamo così “programmati”, proprio da questa carenza
originaria, che rende l’uomo estremamente fragile e dipendente, nei primi anni di vita,
deriva l’esigenza della cultura come fattore determinante per la sopravvivenza dell’uomo.
L’uomo rimedia alla sua incapacità, alla sua difettosità originaria, con la cultura. Ma che
cosè la cultura? Per capirlo dobbiamo introdurre un alta altra capacità dell’uomo, quella di
produrre significati e dare senso = il mondo umano è un mondo rivestito di significato.
L homo sapiens è la creatura, unica, che produce senso.
L’adattamento dell’uomo all’ambiente dipende poco dalla sua costituzione biologica, e
molto dalla sua capacità di produrre cultura.
Pur essendo parte del mondo animale, l’uomo presenta molte caratteristiche che lo
pongono in una situazione assolutamente particolare rispetto agli altri animali.
Grazie alle dimensioni e alla complessità che il cervello umano ha raggiunto nel corso
della lunga evoluzione, egli potrà dopo la nascita apprendere in misura quasi illimitata.
C’è un “io” che è in grado di guardare se stesso , interrogarsi su se stesso, responsabile
delle proprie azioni, nonostante tutti i limiti e tutti i condizionamenti e le regole. Accanto a
questi c’è la straordinaria capacità del nostro cervello di adattarsi a sollecitazioni diverse,
grazie ad un ampio margine di libertà, vale a dire la plasticità del cervello umano.
Il nostro organismo continua a modificarsi quando già siamo in relazione con il mondo
esterno, che però è un mondo sociale e culturale, cioè rivestito di significati.
L’uomo in entrambi i suoi aspetti di organismo e di coscienza, è quindi un prodotto
sociale, relativo, particolare perché tali sono le cornici socio-culturali entro le quali egli si
trova a nascere, crescere, svilupparsi, apprendere, fare esperienza, comprendere, pensare,
immaginare, informarsi, parlare, fantasticare, provare emozioni e sensazioni, farsi delle
opinioni,….
Accettare l’ipotesi che l’uomo sia un essere carente significa accettare una serie di
conseguenze importanti, per quanto riguarda la sua costituzione biologica e socioculturale che esponiamo nei seguenti 4 punti:
1. l’uomo è quello che è in quanto la sua evoluzione organica ha ospitato la sua
evoluzione culturale. Evoluzione biologica e culturale si sono influenzate a
vicenda. Questo significa che non possiamo parlare di una natura umana valida x
gli uomini , sulla quale in un secondo tempo si sono innestati i costumi della
cultura
2. la plasticità. La natura umana si adatta, si trasforma sulla base dell’ambiente fisico
e culturale in cui l’individuo cresce.
3. l’agire umano è culturale. La cultura assume anzitutto la forma di una
straordinaria capacità di agire, modificare la natura in modo che questa possa
essere utilizzata per consentire la vita.
4. la cultura sono le culture. Il pensiero dell’uomo muta infatti in relazione ai diversi
contesti storico-culturali in cui l’individuo vive. L’umanità assume forme di vita
varie e discordanti. La cultura è azione / trasformazione della natura e
conferimento di senso. Ma la cultura sono le diverse culture, i differenti linguaggi,
le diverse memorie, le diverse forme di vita.
Cultura
I termine cultura è utilizzato nel linguaggio quotidiano dei giornali e deall televisione, dei
politici e di molti altri. Geertz sostiene : la nascita di un concetto scientifico di cultura
corrisponde al rovesciamento della concezione della natura umana dominante
nell’illuminismo, ed alla sostituzione di una concezione non solo + complicata ma molto
meno chiara. Il tentativo di chiarirla è stato allora il fondamento del pensiero scientifico
sulla cultura. Gli antropologi cercano ancora d darle un ordine. Il concetto di cultura che
espone Geertz è un concetto simbiotico ritenendo insieme a Weber che l’uomo è un
animale impigliato in reti di significati che egli stesso ha tessuto,credo che la cultura
consista in queste reti e che perciò la loro analisi non sia innanzitutto una scienza in cerca
d leggi ma una scienza in cerca di significati.
L’homo sapiens è la creatura che produce senso. Lo fa attraverso l’esperienza,
l’interpretazione, la contemplazione e l’immagazzinazione e non può più vivere senza
queste attività. L’importanza della produzione di senso per la vita umana è riflessa in un
campo concettuale affollato: idee, significato, informazione, saggezza, capacità di
comprendere, intelligenza, consapevolezza, capacità di apprendere, fantasia, opinione,
conoscenza, credenze, mito e tradizioni…. A questo gruppo di parole, ne appartiene
un’altra, cara agli antropologi: CULTURA.
Studiare la cultura oggi, equivale sostanzialmente a studiare processi di produzione,
trasmissione, circolazione di significati culturali nello spazio sociale. Cultura quindi come
comunicazione.
In passato il termine cultura è stato inteso con molti significati diversi. Nell’800 il concetto
di cultura appare nel suo tentativo di strappare i popoli selvaggi allo stato di natura in cui
erano saldamente collocati dall’immaginario occidentale e di ricondurli entro la piena
umanità. Nei primi decenni del 900 la cultura è stata intesa come una produzione
universale dell’essere umano in società, l’insieme degli usi, costumi, tradizioni, tecniche,
lingua, religione che sottolineavano un allontanamento dalla natura. Era una marcia verso
la cultura in opposizione alla natura.
Taylor sostiene che la cultura è propria dell’uomo in quanto membo di una società tuttavia
questa capacità si realizza gradualmente , si evolve nel tempo, si articola in fasi di
maggiore e di minore sviluppo , ragion per cui la distanza tra noi e gli altri i selvaggi, che
il concetto di cultura tende a colmare viene ricostruita dalla nozione di evoluzione.
La concettualizzazione antropologica della cultura, si forma quindi nell’opposizione tra
l’uomo e le altre forme di vita animale, c’è qualcosa che distingue nettamente il
comportamento degli uomini da quello degli altri animali.
_ incontro fra nativi e antropologo: la ricerca sul campo è il mezzo e il luogo attraverso cui
e in cui si può fare esperienza di cultura per poi descrivere l’esperienza a chi nn l ha
vissuta. Lo studio, l’analisi, e la descrizione si dispongono entro un’operazione tesa a
ricollocare noi rispetto a loro, per risaldare le integrità, e circoscrivere le persone in
universi culturali. Ogni popolo ha la sua cultura, affermano gli antropologi, frutto di
peculiari e irripetibili circostanze storiche e geografiche, ambientali e sociali, ciascuna
dotata di pari dignità in quanto espressione della capacità e della necessità che l’essere
umano ha di rivestire di senso la sua esistenza e le sue esperienze.
Ogni cultura è un ambito specifico di significato, come tale né migliore né peggiore di
un’altra.
La riflessione antropologica,fedele sin dalla sua nascita al cosiddetto postulato
universalista,ha dunque fatto sì che, lentamente, prima l’idea di “cultura” si affermasse
contro l’idea di “natura”, poi che l’idea delle culture si affermasse contro l’idea di cultura,
l’universalismo è tale perché ci dice che le diversità sono contingenti, l’universalismo
relativista è tale perché ci dice che pur nella differenza anzi nel suo rispetto esiste
uguaglianza. Di fronte a questa nuova situazione è inutile penare alla cultura come un
tutto localizzato , anzi deve essere vista come una visione elastica, dinamica, fluida.
Durkheim non usa il termine cultura ma usa i termini fatti sociali, rappresentazioni
collettive ecc.
Qual è la sede della cultura?
L’analogia linguistica porta a ritenere che essa ha sede nella mente delle persone, questa
posizione è stata + volte duramente criticata da Geertz il quale ritiene invece che la cultura
sia pubblica, sociale. Strass e Quinn affermano: “ è ora di dire che la cultura è sia pubblica
che privata, e si trova sia nel mondo che nella mente delle persone.
Gli “habitus” sono sistemi di disposizioni durature, strutture, è la mia conoscenza
culturale pratica.
Il fatto che siano generati dall’habitus fa si che in gran parte, i nostri comportamenti, le
nostre azioni, i controlli e le correzioni, che continuamente operiamo in base alle reazioni
degli altri siano inconsapevoli: senza pensarci esplicitamente, infatti, ma grazie all’habitus
che abbiamo assimilato, siamo in grado di collocare gli altri al loro posto: parlando con
qualcuno non posso fare a meno di richiamare le relazioni che esistono tra quella persona
e me , involontariamente penso all’azione che quella persona potrà esercitare su di me, alla
sua età, al suo sesso, alla sua posizione sociale, ….
E grazie alla mia conoscenza culturale pratica (habitus) adatto il mio comportamento
rendendolo il più conforme possibile alla relazione e alla situazione in cui ci troviamo.
Le persone interagiscono con il flusso culturale per costituirsi un’identità, per negoziarla
nel corso del loro agire sociale.
A questo punto bisogna considerare 2 elementi:
1. la nozione di “performance”, ogni volta che intraprendiamo un’operazione sociale,
proprio perché siamo in qualche modo costretti ad improvvisare, innovare, creare,
in misura maggiore o minore a secondo del tipo di struttura sociale in cui ci
troviamo, ci esponiamo al rischio che la nostra immagine subisca in qualche modo
dei danni.
2. il termine “prospettiva”definisce la porzione degli individui in un punto ben
determinato della struttura sociale.
A tal proposito appare utile segnalare nelle società europee, mete di intensi flussi
migratori, che non tanto si tratta di multiculturalità, quanto di situazioni sociali e culturali
fortemente segnate da dislivelli, squilibri, subalternità, marginalità che oltretutto hanno
oggi, a differenza di quanto accadeva in passato, una base etnica.
Oggi siamo immersi nel cosiddetto “traffico culturale” in cui i processi culturali sono
planetari, un concetto di cultura chiusa e delimitata è inadeguato.
Identità
L’identità è una, unica ed indivisibile, è la somma di tutti gli elementi culturali che l’hanno
formata.
Es. se io ho trascorso i primi 20 anni della mia vita in circa 10 posti diversi, e i secondi 2
solo in 2 posti, come posso rispondere alla domanda: “tu di dove sei?”. Non può esistere
una risposta semplice, che mi localizza in un unico luogo, potrei scegliere il luogo che + mi
ha influenzato, quello nel quale ho fatto l’università, quello dove m sono sentito solo. La
nostra idea di identità è sempre + oltre luogo.
La cultura, dal canto suo, è il principio cardine dell’identità. Il concetto di cultura è
anch’esso un concetto problematico da usare con cautela, perché le culture, al pari delle
identità, non sono essenze, immutabili che devono a tutti i costi essere preservate dalla
scomparsa o dalla degenerazione. Non esistono culture “pure”, le culture sono prodotti
storici, e sono immerse nella storia, che è la dimensione dell’incontro tra differenti culture
e differenti valori, non si parla di storia delle singole culture ma una lunga storia di
appropriazioni, mescolamenti.
Per di più le culture sono sempre in mutamento, dunque soggette a più ampi processi di
influenza esterni ed interni. In passato gli antropologi parlavano di cultura come un
agente o una collettività di persone, oggi non pensano + alla cultura in questo modo,
tuttavia essa è pensata come fuori dall’ambito disciplinare: in abito politico, commerciale
ecc
Razzismo mascherato: con la scusa di difendere le specificità culturali prendendo per
buona la visione relativista per cui dobbiamo rimanere fedeli alle nostre tradizioni si
teorizza una sorta di assolutismo culturale. Ciò equivale a pensare le culture e le identità
come essenze. È un errore grave.
Uno degli effetti più rilevanti dal punto di vista culturale dei processi di modernizzazione
è quello di “frantumare l’esistenza” es indiani d america o ai Rom incapsulati negli stati
nazionali, in corsa per la modernità. ,ma che cos è la modernità se un ideologia di
esclusione? Ciò che guida il momdo della modernità è infatti la spinta persone immersi nel
pregiudizio, nelle superstizioni, negli usi e nei costumi, uomini grezzi in essere umani
civili , educati. Non si parla + di eterogeneità ma di omologazione culturale.
I popoli che non partecipano alla frantumazione dell’esistenza, ai processi di
modernizzazione, perché tale partecipazione è loro negata o perché la rifiutano, entrano a
far parte della periferia, assumono i caratteri della marginalità, si sentono esclusi,
disprezzati, sottovalutati e ciò li porta a chiudersi in se stessi. Le società tese verso lo
sviluppo, il progresso, la modernità, sono le prime che producono esclusione. Bisogna
quindi tenere in conto il problema della conservazione del patrimonio delle diversità
culturali, il problema tutta via non riguarda le culture ma + specificamente le persone.
La cultura va pensata come flusso di significati, entro una cornice complessa, in cui la con
testualità storica, la produzione simbolica, le ideologie dominanti, sono elementi centrali
che contribuiscono in modo determinante a tratteggiare i modi pragmatici in cui le
persone trovano la loro via nel mondo.
La cultura riguarda le persone che partecipano alla vita sociale, acquisiscono i modi di
pensiero e di azione organizzati socialmente. La cultura per l’uomo è tutto.
La storia infatti, non è mai storia di singole culture autonome, ma è storia dei rapporti fra
le culture.
La multiculturalità, allora va pensata a partire dalle persone, non dalle culture.
La multiculturalità è: una società in cui ciascuno possa costruirsi un repertorio culturale
proprio, fatto di tutte le sue appartenenze, della sua sensibilità, della sua esperienza, delle
sue scelte entro una cornice sociale fluida. Rigide barriere ideologiche per 50 anni hanno
soffocato le molteplicità culturali eliminando le culture locali per edificare un’identità
nazionale. Cadute queste barriere si sono andate a intensificare i flussi di persone, idde e
prodotti colturali che attraversano il pianeta
A volte però il contatto provoca delle reazioni, non sempre ispirate all’ospitalità e alla
benevolenza.
Si parla di soglia di tolleranza.
A partire da una certa percentuale di stranieri in uno spazio abitato, i rischi di una nontolleranza verso l’altro, sono reali e possono sfociare in drammi.
In alcuni casi il problema diventa non più quello del superamento della soglia di
tolleranza, ma quello del sistema di valori proprio delle società occidentali. La presenza
degli immigrati è problematica, allora, non perché gli immigrati sono troppi, non perché
innestano conflitti fra valori inconciliabili, ma perché il nostro sistema di valori sarebbe
incapace di attrarre persone.
La nostra società non ha nessuna voglia di trovare posto alla diversità, che non sia quello
in ultima fila, ai margini.
Che significa far posto alla diversità?
Significa sforzarsi di entrare in una forma mentale estranea, attraverso la capacità di
immaginare che cosa può significare essere altri, significa sforzarsi di misurare le distanze
fra i propri valori e quelli altrui, cercando di individuare che cosa crea tali distanze, che
cosa dell’altro ci appare inaccettabile e che cosa, invece, ci attira, ma significa soprattutto
abbandonare l’idea, sempre più diffusa negli ultimi anni, che il nostro sia il migliore dei
mondi possibili e che debba essere a tutti i costi esportato e imposto ovunque, nell’ottusa
convinzione che i soli 2 modi di affrontare il problema delle differenze di cultura, di valori
e di identità siano la totale indifferenza verso tutto ciò che non sia di casa nostra, oppure
l’uso della forza.
Campo
La ricerca empirica è una fase indispensabile per raggiungere il fine del lavoro
dell’antropologo, cioè pervenire a una rappresentazione utile a un progetto conoscitivo
della cultura di un determinato popolo, localizzato in un determinato luogo, il “campo”
che è effettivamente il “dove” dell’antropologia. Essa è una delle 3 accezioni
dell’etnografia, le altre 2 sono la monografia studio di un unico popolo e l’etnografia come
letteratura, corpus di studi.
L’etnografo si immerge nella vita delle persone del luogo, si sforza di raggiungere uno
stato di piena sintonia mentale con loro, e così facendo cerca di imparare e di assimilare la
loro visione del mondo.
L’antropologo ha in primo luogo un campo di ricerca , che sceglie per ragioni sia
scientifiche che personali e nel quale soggiorna per un certo numero di mesi o di anni,
apprende cultura, modo di pensare, interagire con delle donne e degli uomini, fa delle
scoperte, sperimenta errori, raccoglie dati, elabora le prime sintesi, formula delle ipotesi
(apprendistato).La finalità del lavoro dell’antropologo è infatti offrire un testo elaborato,
attraverso il quale comunicare a un lettore potenziale la propria visione dell’esperienza
dei membri della società presso cui ha soggiornato =tempo della scrittura.
Dapprima l’idea di campo viene visto come un vero e proprio rito di passaggio, già Boas
agli inizi del 900parla di campo come un laboratorio, un luogo di osservazione e si
esperimenti, questo modo di vedere il campo è anche collegato a un concetto di cultura
localizzato empiricamente. Dilani sostiene che il campo è un luogo di apprendistato come
abbiamo già detto,di esperienza, infatti attraverso la partecipazione prolungata alla vita di
comunità e l’osservazione dei comportamenti l’etnografo apprende la cultura.
La conoscenza antropologica è stata a lungo dipendente dall’esperienza degli etnografi
sul campo. Al termine dell’esperienza egli deve offrire una descrizione il + possibile
rigorosa e completa fornendo il punto d vista del nativo.
E’ Malinowski il creatore della nozione di campo e della pratica di ricerca ad essa legata.
Egli diede il via ad una pratica di ricerca fortemente innovativa, basata sulla fortunata
formula dell’osservazione partecipante, intensiva, prolungata, avventurosa
e
promettente. In Argonauti descrive che la sua tenda era vicino alla capanna del capo
=immagine che rappresenta una strategia di localizzazione. Oltre a dare una vera e
propria rappresentazione del campo M. vede il ricercatore come bianco,europeo, maschio,
che vive per + di un anno con i nativi del villaggio, preferibilmente da solo, che limita al
massimo i contatti con i connazionali, alle prese con una lingua esotica.
Non è raro trovare nella letteratura etnografica affermazioni che denunciano come
problematico e spiacevole per il ricercatore, il fatto che i popoli nativi vivano in condizioni
non di pieno e totale isolamento, oppure il fatto che gli informatori abbiano poca
conoscenza di come erano le cose dei vecchi tempi; molti etnografi infatti sono andati alla
ricerca dei nativi “incontaminati”, “non acculturati”, non in grado di parlare in altre lingue
che non sia la loro.
Come se i “maggiormente altri” e quelli più isolati da noi, fossero più autenticamente
radicati nella loro ambientazione naturale. Il rischio però è che, coloro i quali ci appaiono i
più altri degli altri, siano i più indisponibili a condividere il loro campo con noi, al punto
di essere disposti ad abbandonarlo. Tale concezione era sostenuta dalla metafora del
campo per denotare i siti in cui gli antropologi fanno ricerca.
Il lavoro di M. agli inizi del 900 delineò, molte tendenze, anche grazie a una veloce
archiviazione delle atrocità del passato e della situazione presente, i ricercatori sempre +
affermavano di non volere + tanto ricostruire il naturalismo primitivo quanto osservarlo
direttamente. L’antropologia sociale divenne lo studio delle società di piccola scala,
etnografico, comparativo, basato su un intensa osservazione partecipante. Gli esponenti
della scuola funzionalista, resero famoso il metodo dell’osservazione partecipante.
Tra gli anni 20 e gli anni 50 del 900 si diffuse quindi un modello di indagine etnografica
teso a osservare e a documentare aspetti della vita del gruppo. Nel periodo che va dall
inizio secolo al 45 la maggior parte delle indicazioni sul metodo etnografico si rivolgono
ancora al ricercatore che deve operare in zone extraoccidentali. Dopo la fase di
salvataggio l’antropologia si divide in 2:da una parte il modello di malinowskiano
dall’altra l’interesse a studiare la società americana e il fenomeno di acculturazione.
La nozione di campo come una specie di contenitore di culture, società, identità,
tradizioni, rituali differenti, è emersa nell’etnografia del 900 in cui gli sforzi disciplinari
erano tesi a mettere a punto strumenti metodologici e concettuali utili a studiare società
piccole, isolate, ben delimitate, insomma, le tribù.
In un mondo oramai sempre più segnato da fenomeni di mobilità ( migrazioni,diaspore),
di trasformazione (cambiamenti geografici, politici, sociali), di globalizzazione, quella di
“campo” appare una nozione piuttosto problematica.
Il campo :
- è il luogo dell’esperienza dell’alterità culturale , tradizionalmente separato dalla
casa
- è ciò che autorizza e legittima la successiva opera di scrittura
- il lavoro sul campo è una sorta di residenza che legittima la produzione di
coscienza tramite la familiarità che etnografo stabilisce con i modi di vivere di un
gruppo di persone
- è separato dalla casa, tra campo e casa vi è una distanza spaziale cioè tra il luogo di
esperienza e il luogo di scrittura e racconta dei dati. La scrittura a sua volta si
diversifica:da una parte le note di campo ciò una rozza documentazione, delle
osservazioni, appunti e dall’altra la monografia ben scritta, coerente
- è e resta una modalità di fare ricerca indispensabile per acquisire un certo tipo di
conoscenze, dettagliate, di specifici luoghi, di persone, di storie socialmente e
economicamente marginali, periferiche, senza voce in capitolo
- non è un feticcio o un mito
Intenzionalità
1)Conoscersi senza riconoscersi, sono conflitti di intenzioni . L’intenzionalità è uno dei
principali ingredienti di quella situazione che è la ricerca sul campo fondata su un
rapporto per molti versi di scambio fra un rappresentante della cultura occidentale,
l’antropologo e uno o + membri della cultura locale, l’informatore o gli informatori.
L’antropologo in quanto in cerca di alterità è predisposto a relativizzare i propri costumi
per comprendere quelli dell’altro, rischia così di non sentirsi + appartenente a nessuno dei
2 mondi. Levi-Strauss parla di disancoramento cronico l’antropologo non si sente + a casa
in nessun luogo. Augè usa la formula conoscere senza conoscersi per definire una sorta di
principio al quale l’altropologo deve riferirsi per scansare i rischi dell’oggettivismo. È utile
in oltre per mettere a fuoco molti degli aspetti della nozione di intenzionalità la quale
evoca appunto strategie e livelli conoscitivi le une di negoziazione etnografica e gli altri di
articolazione del sapere antropologico.Il processo di costruzione del sapere antropologico
infatti produce conoscenza, ma, in quanto si propone un tipo speciale di conoscenza, in
particolare di accrescere la nostra conoscenza dell’altro, implica anche una ricaduta più o
meno forte in termini di riconoscimento. Questo perchè nell’operare un confronto, con
l’alterità e nel trasformarla in differenza, l’antropologo non può fare a meno di
riconoscersi come tale e di ottenere questo riconoscimento anche da altri, pena la perdita
dell’intenzionalità conoscitiva e dell’autorità alla base della sua impresa.
2)pensiero teorico e pensiero indigeno. L’analisi penetra nell’oggetto stesso o l’oggetto
stesso penetra nell’analisi, il pensiero teorico prende forma sul pensiero indigeno o il
pensiero indigeno prende forma sul pensiero teorico; concezioni opposte dello studio della
cultura, pur tuttavia presenti alla fatidica confluenza fra antropologi e nativi.
3)desideri di conoscenza: dalla teoria alla pratica. Es dialogo: da un lato troviamo il
riconoscimento dall’altro l’espressione del desiderio di conoscenza dell’antropologo.
’antropologo non rinuncia affatto al suo universo di riconoscimento, anzi, piuttosto sicuro
di se, e del suo ruolo, garantisce la riuscita finale dell’impresa antropologica proprio
attraverso il soddisfacimento del suo desiderio di conoscenza, “nonostante i nativi”.
L’intenzionalità conoscitiva dell’antropologo, non ammette cedimenti e deve superando
ogni difficoltà (di linguaggio, di visione del mondo) far si che a cedere siano piuttosto i
nativi.
4)osservare partecipando. Si tratta di un principio che si fa risalire a Malinowski nel 1900 e
ai suoi studi su isole lontane.L’osservatore partecipante, attraverso una pratica di ricerca
intensiva, giunge ad entrare in stretto rapporto con i nativi, a capirne il punto di vista. Una
prima questione di una notevole complessità è quella di come separare il punto di vista
dell’antropologo da quello degli indigeni, quando il processo di incontro fra antropologo e
nativi cessa di essere basato su uno scambio tra l’osservatore soggetto e l’oggetto osservato
per divenire un’interazione multiforme e molteplice fra soggetti. Il principio
dell’osservazione partecipante, nel suo ruolo di “perno” attorno al quale di fatto ruota
l’intero processo di costruzione del sapere antropologico, pone molti problemi. Ci si trova
di fronte a una situazione che è potenzialmente contraddittoria. Da un lato infatti, si vuole
che l’antropologo partecipi alla vita del villaggio acquisti anche un sentire il + vicino
possibile a quello degli indigeni, dall’altro, gli si chiede di mantenere il distacco necessario
per essere in grado di annotare e valutare ciò che caratterizza quella data comunità come
“diversa” dalle altre. L’etnografo si trova di fronte al cosiddetto “paradosso
dell’osservatore partecipante”. Più egli si cala nella realtà locale, e acquista un modo di
fare e di interpretare la realtà simile a coloro che deve studiare, più tali comportamenti e la
relativa visione del mondo, gli sembreranno naturali e quindi difficili da annotare. Una
totale immedesimazione è impossibile, dunque pena il venir meno di quell’atteggiamento
etnografico verso la cultura che è imposto all’antropologo appunto dalla sua professione e
che lo allontana dai nativi. Si ripropone allora la questione della separazione dei punti di
vista, questa volta, in termini di equilibrio. Equilibrio tra partecipante e osservatore,
equilibrio fra specificità locale e categorie generali, fra pensiero indigeno e pensiero
teorico, equilibrio fra riconoscimento e conoscenza, fra cultura come entità teorica e la
cultura come fatto naturale. È necessario ripercorrere le dimensioni entro le quali si svolge
il processo di costruzione del sapere antropologico tenendo in contro che non ci sono +
osservatore e oggetto osservato ma 2 soggetti che interagiscono ciascuno legato + o –
saldamente a uno specifico universo di riconoscimento ciascuno animato nell’interazione
da un intenzionalità complessa.
5) Esercizi di stile Il tema della distanza fra antropologo e nativi è strettamente connesso al
tema dell’autorità dell’etnografo proprio perché meglio l’antropologo riuscirà
nell’operazione di colmare mesta distanza maggiore sarà la sua autorità.
6) dimmi come vedi il mondo affinché io possa scriverlo. Visione del mondo: ciò consente
di impostare la questione dell’ incontro tra antropologo e informatore nei termini di
rispettiva intenzionalità nei confronti del mondo, in termini piuttosto generali, vale a dire
ridurre la questione non solo a un’interazione tra visioni del mondo ma un interazione tra
obbiettivi e intenzionalità nell’ambito di differenti universi di riconoscimento in relazione
a visioni del mondo tra cui esistono differenze individuali. La difficoltà maggiore appare
proprio nella ricerca di un nuovo equilibrio tra antropologo e nativo ciò potrebbe essere
riformulato in termini di rapporto fra prassi antropologica e scientifica, dare legittimità
formale alla prima conformandola ai processi della 2 significa perdere tutti gli elementi
che ne costituiscono il senso. D’altra parte per l’antropologo lasciare sostegni
epistemologici e scivolare sul terreno cognitivo linguistico del nativo equivale a rinunciare
al proprio universo di riconoscimento , perdere la propria identità e smettere di essere
antropologo.
Fino a che punto l’antropologia possa estendere il suo linguaggio specifico per
rappresentare adeguatamente i concetti che i nativi hanno sviluppato e che esprimono il
particolare rapporto fra intenzionalità, conoscenza, e visione del mondo. Probabilmente
l’antropologia può riflettere la visione del mondo delle persone che studia.
Ha un senso allora affermare che la ricerca antropologica deve procedere secondo un
progetto teorico e conoscitivo, il quale deve a sua volta essere identificabile attraverso
un’impalcatura epistemologica fatta di teorie, concetti, nozioni, ipotesi e dati, e di un
vocabolario sulla base dei quali sia possibile confrontare e porre in relazione esperienze ed
intenzionalità etnografiche ed esistenziali differenti.
L’antropologia deve essere considerata un sapere attraverso cui sia possibile percepire una
visione del mondo che consenta di percepire tutti i possibili mondi culturali, di conoscere
appunto, senza riconoscersi.
Interazione
Come cogliere e rappresentare ciò che le persone fanno quando interagiscono? L’ordine
delle interazioni è infatti il primo piano delle società, nel senso che gli attori sociali
attraverso l’interazione fra loro, producono cultura, sulla base di pratiche particolari per la
costruzione dei se e per la negoziazione di specifici interessi. Qualsiasi interazione si
articola entro i 2 poli della consapevolezza individuale e della struttura sociale. Pensiamo
alle urla, ai colori, alle contrattazioni a voce alta, agli odori ed al contatto ravvicinato fra le
persone schiacciate nei pressi dei banchi del mercato, pensiamo all’esperienza condivisa
durante un concerto, costruita attraverso interazioni acustiche e visive ma anche
somatiche, pensiamo a un’animata discussione tra persone. Tutti questi sono casi di
interazione. La dimensione primaria dell’esistenza umana è infatti la storicità, un
interazione con gli altri. Cogliere questa dimensione richiede un’attenzione specifica.
Portare in primo piano l’ordine dell’interazione, significa esplicitare uno stretto legame fra
l’interazione e la comunicazione, intesa come modalità di realizzare l’interconnessione fra
esseri umani e non umani;l’interazione è in quest’ultima prospettiva e alla luce della
nozione di attività , un rapporto tra attività e strumenti.
Vale segnalare a questo proposito, che , gli strumenti intelligenti, per esempio i computer
sembra influenzino in modo differente dagli altri strumenti, la struttura e la sequenza
delle interazioni.
Le emozioni sono come una risorsa , organica e culturale, ad un tempo, attraverso la quale
gli uomini possono entrare in uno spazio di interazione, in una dimensione + ampia, in
quella dimensione di oggettività intersoggettiva che dovrebbe essere al centro degli
interessi degli etnografi.
Anche le parole lo sono: attraverso la lingua possiamo entrare in spazi di interazione
sempre + estesi, in cui ogni scelta influisce su ciò che può accadere dopo.
Le emozioni che proviamo e che trasmettiamo, la lingua o le lingue che parliamo e che
capiamo, il colore della nostra pelle, i gesti che riproduciamo, il nostro modo di
camminare, sono, come moltissime altre, risorse del nostro corpo utili per interagire, cioè
comunicare e interconnettersi. L’interazione emerge come presupposto e come prodotto
dell’agire umano, per dirla in modo chiaro ognuno di noi decifra gli altri con cui
interagisce. Ciò che gli uomini fanno durante la loro vita include l’interazione, ma le fonti
dell’interazione non vanno cercate in sistemi di strutture interne. Il significato
dell’interagire chiama in causa questioni di epistemologia culturale, identità culturale ecc.
Malinowski affermò che l’etnografo doveva capire il punto di vista del nativo, imparare a
pensare sentire e spesso comportarsi come loro .
Si è passati da un etnografia che aveva al centro l’idea dell’osservazione derivata da un
modello scientifico a un etnografia che vede al centro l’idea della riflessione dell’etnografo
sulla partecipazione ai processi di interazione e di negoziazione dei significati.
Stoller afferma che lo stesso corpo dell’etnografo è uno strumento di conoscenza e di
comprensione etnografica, che deve essere resa esplicita attraverso l’interazione e la
riflessione consapevole. Un es. è la ricerca di Tamisami sulla danza aborigena gli esecutori
che trasformano azioni in forme visibili dette impronte, le persone non danzano solo ma
trasmettono nozioni morali, valori sociali.
Le modalità dell’interazione etnografica, sono diventate inoltre + sofisticate, specie grazie
alla tecnologia, al punto che ci possiamo impegnare in un continuo aggiornamento delle
tecniche di documentazione.
L’analisi del flusso del parlato, per esempio, può avvalersi oramai, di tecnologie in grado
di frammentare il continuo degli eventi, senza limiti .
Al di là dei mezzi linguistici con cui si svolge, ogni interazione ha sempre un profondo
significato politico. Ciò che l’attore sociale fa in un’interazione, va inteso nell’ambito di un
contesto ideologico nei modi in cui i parlanti reagiscono simbolicamente, in cui
interpretano la loro posizione storica e la loro identità entro un mondo strutturato
gerarchicamente.
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