LA CATTEDRA d i S T O R I A i n n e t w o r k Lezione del prof. NINO

LA CATTEDRA
di STORIA in network
Lezione del prof. NINO RECUPERO
docente nell'Università degli studi di Milano
SANTI SENZA MIRACOLI
LA RIVOLUZIONE PURITANA
IN INGHILTERRA (1580-1688)
La santità come fatto sociale - Un caso di nazionalismo religioso
Evoluzione di una parola - Santi e patroni di santi
Nell'ormai lontano 1965, provenendo da Harvard, un nuovo lavoro di ricerca venne ad
aggiungersi alla fitta letteratura sull'Inghilterra puritana e sulla rivoluzione inglese del
1640-1660. Mi riferisco a La Rivoluzione dei Santi di Michael Walzer, libro non
convenzionale di un autore poco ortodosso, e destinato ad alimentare ancora la già
vetusta controversia sul carattere innovativo o meno dell'etica protestante, e di quella
variegata variante del Calvinismo che va sotto il nome di 'Puritanesimo'. Nella cultura
anglosassone, se quasi tutti furono disposti a criticare la 'rivoluzione' che stava nel titolo
del libro di Walzer, pochi trovarono da obiettare alla seconda definizione, quella dei
'Santi'. Al lettore italiano, cresciuto in un clima culturale generalmente cattolico, accadeva
il contrario: chiarissimo il concetto di rivoluzione, ma oscuro l'impiego dell'appellativo
'Santi' per indicare i puritani radicali. Si richiedeva uno sforzo di natura intellettuale per
comprendere che cosa esattamente fosse un 'Santo' nell'Inghilterra protestante dei Tudor
e degli Stuart. Ma chiunque conosca appena i problemi di quel periodo riconoscerà
immediatamente che la parola Saint insieme con saintly, sainthood e ai loro omologhi
sassoni godly, godliness, holy e simili costituisce forse l'appellativo più comune nella
letteratura puritana, e certamente uno dei termini che più frequentemente ricorrono nei
decenni rivoluzionari del Seicento e nel nord America delle origini.
La santità come fatto sociale In un paese protestante il senso e le implicazioni consce
e inconsce di queste parole sono diverse che in area cattolica. Ma l'evoluzione tutta
particolare del puritanesimo inglese è tale che la nozione di 'santità' (Sainthood o
Holiness) può diventare un'utile pietra di paragone per misurare la funzione sociale del
sentimento religioso. Parecchi studi italiani e francesi, di recente, hanno insistito sul
processo di 'creazione' delle figure di santi patroni nei paesi cattolici, per impulso ora di
ordini monastici in competizione di prestigio, ora di famiglie nobili in cerca di
legittimazione sociale, ora per la spinta popolare animata da una ingenua devozione.
Numerosissime le ricerche; tra le più eloquenti, quelle di Sara Cabibbo e Marilena Modica
su Suor Crocifissa, quelle di Sofia Boesch Gajano, di Novi Chavarria. Due convegni
palermitani su San Benedetto il Moro hanno fatto luce su quanto dura potesse essere la
lotta religiosa e ideologica per assicurarsi il patrono della città, con conflitti tra fazioni e
scontri popolari. San Benedetto, un santo popolare caratterizzato dall'essere appunto un
Moro, cioè un africano, era tra Quattro e Cinquecento il patrono della città, ma venne
soppiantato in epoca controriformistica da una serie di Sante vergini e martiri (bianche),
tra le quali solo a metà del Seicento si afferma infine Santa Rosalia. La santità è
insomma un concetto che opera nel sociale, e la cui evoluzione ci rivela il mutare della
società.
Nel campo della storia dei sentimenti religiosi, lo storico o l'antropologo devono guardarsi
dall'uso di confini o di linee di displuvio denominazionali troppo rigide, come le
percepivano i credenti di tre secoli fa. Guai se lo storico cedesse alla tentazione di
parteggiare, reimmergendosi in quell'epoca di guerre di religione. Dall'uno e dall'altro lato
del confine tra cattolici e protestanti, si trovano usi (ed abusi) della religione molto simili
tra loro: in fin dei conti, certe domande cruciali sulla predestinazione, sulla liberazione dal
male e dal peccato, sul paradiso e l'inferno, sulla mortalità o immortalità dell'anima - e
certi modi di impostare le risposte - appartengono agli uomini del Seicento non importa se
italiani, spagnoli, olandesi o svedesi - esattamente come certe altre domande su temi non
dissimili appartengono agli uomini del Novecento. Ed è anche ingenuo supporre che
abitudini secolari, e pratiche devote radicate nel tempo scomparissero di colpo in
Germania, in Svizzera, in Inghilterra, pochi anni appena dopo la predicazione di Lutero, di
Calvino o dopo Enrico VIII. Il problema è complicato dal fatto che la religione, a sua volta,
opera come fattore autonomo nell'evoluzione della società. C'è un elemento, però, che è
comune ad ambedue i lati del confine religioso: sia nell'area cattolica che in quella
protestante, tra Cinque e Seicento, l'ordine ecclesiastico si è sforzato di costruirsi (o di
mantenersi, in mutata situazione) come potere indipendente, contrastando la tendenza
dei poteri civili, sull'esempio delle monarchie nazionali, di influenzare la chiesa, di
piegarla ai loro fini e - incidentalmente - di appropriarsi il più possibile della considerevole
ricchezza delle istituzioni religiose. In questa sede mi basta ricordare che questi processi,
i cui risultati differirono largamente, furono lunghi, dolorosi e complessi.
Lunghi, soprattutto: ancora nel tardo Seicento esisteva in Germania una credenza
popolare per cui le immagini di Martin Lutero non potevano essere bruciate dalle fiamme,
e c'era l'abitudine di inchiodare un'immagine a stampa del riformatore sullo stipite della
porta come protezione contro gli incendi. Una chiarissima manifestazione apotropaica,
una
richiesta
di
mediazione
fra
l'uomo
e
Dio.
Dal lato opposto, da parte cattolica, il Concilio di Trento sanciva definitivamente la
legittimità del culto dei Santi, come intercessori presso il Divino a favore degli umani. Ma
come dimenticare che anche in paesi cattolici le correnti pre-tridentine desiderose di
instaurare una religione 'pura' hanno continuato ad operare a lungo, contestando che la
fede ha bisogno dei miracoli, e denunciando le manifestazioni 'superstiziose'?
Ma torniamo alla santità. Com'è ben noto, nessuna variante del Protestantesimo ha mai
negato l'esistenza o la natura dei Santi, che, in fin dei conti, sono di istituzione scritturale.
Fin dall'inizio, però, i riformatori si opposero al culto dei santi, mettendone in discussione
il ruolo di mediatori tra Dio e uomo. La rottura divenne definitiva con la condanna della
dottrina del Purgatorio che, per così dire, privava i santi celesti del loro principale terreno
di intercessione. Ciononostante, un documento moderato come la Confessio Augustana
del 1530 si limitava a condannare la reverenza nei confronti dei santi "solo nel caso che
fosse manifestamente peccaminosa". In Inghilterra idee di questo tipo non misero radici
prima del 1540-48, e nel primo decennio della Riforma, la questione dei santi rimase
piuttosto nell'ombra.
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Un caso di nazionalismo religioso La Chiesa d'Inghilterra costituisce un caso a sé
stante. Dalla sua nascita per atto di iniziativa regia, la Chiesa d'Inghilterra scelse di
costruire se stessa sulla propria tradizione medievale, che ovviamente abbondava di
santi ed anche di miracoli. Le fondamenta di tali credenze affondavano nel tempo,
risalendo attraverso Wyclif al Venerabile Beda, fino ai missionari inviati nel sesto secolo
da Gregorio Magno. Lo stesso Beda è corresponsabile della storia favolosa di una
precoce conversione della Britannia addirittura fin dal tempo degli apostoli, ad opera di
Giuseppe di Arimatea e del leggendario re Lucio. Una leggenda popolare raccontava che
lo stesso Gesù, da bambino, era stato portato a visitare le "Isole dello stagno" da
Giuseppe di Arimatea. A Glastonbury, nel Devon, si mostra ancor oggi l'albero di spino
che fiorisce a Natale, e che sarebbe nato da una spina della corona di Cristo. Non si
sentiva, insomma, il bisogno di abbattere l'intero edificio ecclesiastico, come si stava
facendo in Svizzera e in Germania o come più tardi si fece in Scozia; né certamente era
questa l'intenzione di Enrico VIII. Al sovrano faceva comodo politicamente sostenere
l'antichità della Chiesa d'Inghilterra: se questa era una sorella, piuttosto che una figlia, di
Roma, il suo distacco dal Papato romano era del tutto legittimo. Più tardi, dobbiamo al
genio politico di Elisabetta e dei suoi vescovi la costruzione di un edificio ecclesiastico
indipendente quanto bastava per essere credibile, e obbediente alla corona quanto era
necessario
per
fungere
da
flessibile
strumento
di
governo.
Uno dei primi propagandisti della riforma inglese fu John Bale (latinamente Baleus), tanto
raffinato come latinista quanto fanatico come riformatore, a lungo esule in Francia e in
Svizzera, dove poteva far stampare al sicuro i suoi libri. Dopo la soppressione e la rapina
dei monasteri ad opera di Enrico VIII, Bale approfittò della rovina delle biblioteche
monastiche per raccogliere quanto più poteva di manoscritti e di documenti. Questi
materiali confluirono nei suoi scritti polemici, e fu grazie a lui che alcuni rari testi medievali
trovarono la loro prima edizione. Presto Bale si assunse il compito di compilare una
bibliografia generale degli scrittori "sassoni", sul modello della Bibliotheca di Gesner. Il
frutto finale di questa fatica, il monumentale Catalogus Magnae Brytannie Scriptorum
(1557 e 1559) è una reinterpretazione dell'intera storia umana in chiave apocalitticagioachimita, basata sulle sette età della chiesa, rapportate ai sette sigilli dell'Apocalisse.
Ciò che ci importa qui, però, è che nella ricerca del filone "spirituale" da contrapporre alla
"corruzione" della chiesa romana, Bale raccoglie, setaccia e pubblica ogni sorta di
tradizioni locali delle isole britanniche, santi e miracoli compresi, imbarcandoli
allegramente sulla nave appena varata del protestantesimo inglese. Bale in sostanza
ripercorre la storia del cristianesimo presso i Celti, i Britanni, i Sassoni al fine di stabilire
un canone "autentico", protestante, della santità britannica; lo si percepisce quando dà
voce a sentimenti di invidia verso Roma e verso gli umanisti cattolici perché hanno
accesso ai ricchi archivi del Vaticano, che tengono nascosti ai veri "fedeli". Il canone dei
santi inglesi si estende per Bale fino ad includere i protestanti che patiscono ai suoi
tempi: il martirologio di Anne Askew, fatta morire sul rogo nel luglio del 1546 e pubblicato
separatamente da Bale alla fine dello stesso anno, prima di essere incluso nel grande
repertorio, è un vero e proprio brano di agiografia, consciamente costruito sul modello
delle prime biografie di santi cristiani. E' presente anche il miracolo, dato che allo spirare
dei martiri il cielo "aborrendo un atto così malvagio" si oscura e tuona; ma il miracolo più
grande
è
la
conversione
dei
presenti
alla
vera
fede.
La chiesa d'Inghilterra insomma, non solo nella sua versione "statuale", ma anche in
quella estremistica che darà poi vita al puritanesimo, si riconnette alla tradizione
medievale. A tal proposito, la citazione di Bale è più eloquente di qualsiasi documento
ufficiale, per il vastissimo pubblico che ebbero i suoi scritti, e per la loro decisiva funzione
pedagogica.
Ma nessuno ha fatto di più, per fondare in Inghilterra una nuova nozione di santità, del
celeberrimo Libro dei Martiri di John Foxe, quasi contemporaneo di Bale. La regina
Elisabetta ordinò che in tutte le chiese parrocchiali una copia del libro venisse assicurata
al pulpito con una catena, com'era l'uso, accanto alla Bibbia. I martiri di Foxe erano quegli
uomini e quelle donne che avevano sofferto sotto la "cattolica" Maria; ma nel libro queste
figure venivano connesse con la tradizione peculiare della chiesa britannica, in un
capolavoro di nazionalismo letterario. I "miracoli" al plurale venivano sostituiti da un
unico, grande, continuativo miracolo: il trionfo dei "Santi" grazie alla "Regina di Giustizia",
Elisabetta-Astrea. Miracolosa era la prevista "disfatta e rovina delle forze di Satana", e la
santità non veniva confinata ad un ruolo in Paradiso dopo la morte, ma si allargava ai
fedeli viventi. Foxe ha un ruolo talmente rilevante nella storia della letteratura (e della
lingua) inglese, che non è necessario dire di più, se non che attraverso Bale e Foxe
l'insistenza sul termine e sulla nozione di "santo" diviene, già alla fine del Cinquecento, un
carattere distintivo della fazione puritana.
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Evoluzione di una parola Senza mai dimenticare che i Santi possono esistere come tali
solo come anime, in cielo dopo la morte, predicatori e devoti laici cominciarono però a
gratificarsi reciprocamente dell'appellativo di 'santo', soprattutto quando parlavano di sé
collettivamente come del godly party, cioè del 'partito di Dio', quello che proclamava la
radicale purificazione della chiesa elisabettiana da ogni residuo di 'papismo'.
Come si poteva identificare esteriormente un santo puritano? Gli elementi principali erano
due: l'esperienza intima di una conversione fulminante, e una vita impeccabile.
La conversione di un adulto già battezzato - fenomeno molto comune anche nella sfera
cattolica - costituiva di per sé un miracolo; anzi, nell'etica puritana, il solo vero miracolo.
Generalmente aveva luogo in un periodo della vita in cui la persona aveva raggiunto la
maturità: viveva cioè, in modo sobrio, onesto e religioso ma freddamente e senza
entusiasmo. Improvvisamente, la folgorazione della grazia: ed ecco che il fedele 'sente' di
vivere in modo nuovo e radicalmente diverso la sua fede. Pensiamo a Pascal. La
conversione non si poteva definire, ma solo descrivere, e la si trova descritta, infatti, in
decine e decine di diari e di carteggi puritani. Si può citare una lettera famosa di Oliver
Cromwell, scritta nel 1638, nel momento di maggiore scoramento dei puritani, due anni
prima della convocazione del Lungo Parlamento. Cromwell era allora una persona
totalmente oscura, e già quarantenne: "La mia era una vita di peccato e di follia. Vivevo
nel Kedar che dicono significhi oscurità…" e cioè prima dell'avvento della luce intima
della
grazia.
Per una testimonianza dell'uso di 'santo' una sola fonte classica è eloquente quanto i
cento e cento esempi che si potrebbero fare. La caviamo dal magnifico incipit del sonetto
di John Milton Sul recente massacro in Piemonte, scritto nel 1653 per esprimere
indignazione contro la sanguinosa repressione dei Valdesi ad opera del duca di Savoia
Carlo Emanuele II:
Avenge o Lord thy slaughtered saints, whose bones
Lie scattered on the Alpine mountains cold
Even them who kept thy truth so pure of old
When all our fathers worshipped stocks and stones…
(Vendica o Signore i tuoi santi massacrati, le cui ossa
sparse giacciono nel freddo delle montagne alpine,
coloro che già in antico mantennero pura la fede in Te
quando i nostri padri ancora adoravano legni e pietre…).
In questi versi il poeta del Paradiso perduto ci fornisce anche una definizione: il 'santo' è
chi mantiene "pura" la fede. In altri termini, i Valdesi erano santi ancor prima di esser
martiri. C'è qui una marcata differenza con la concezione cattolica.
Tornando a Oliver Cromwell, fonte difficilmente eludibile. Inaugurando, il 4 luglio 1653, la
prima seduta del Parlamento repubblicano 'nominato' (cioè: non eletto), Cromwell predicò
sul testo di Hosea 11: "Ed ecco che Giuda regna con Dio, ed è fedele in mezzo ai suoi
Santi". Il suo commento al testo tendeva a riassicurare i membri della nuova assemblea
che essi godevano del sostegno dell'esercito e del partito puritano: "voi siete ora chiamati
ad essere fedeli in mezzo ai Santi, che in qualche modo sono stati lo strumento della
vostra chiamata… preghiamo che il cielo vi dia saggezza, come pregano oggi molte
migliaia di Santi". In parole povere, 'santi' ha ormai totalmente acquisito il significato di
"partito dei giusti", cioè di un'area politica che si identificava nel regicidio, nella
prosecuzione della guerra ad oltranza contro l'erede al trono, e nell'accettazione di un
governo repubblicano. Un'area nella quale il linguaggio religioso era diventato quello della
politica e in cui le giornate di digiuno solenne si alternavano alle assemblee politiche.
Quest'area politica andò erodendosi negli ultimi anni del protettorato cromwelliano, fino a
che, spentosi l'esperimento repubblicano, la lingua non si rovesciò nel suo contrario e la
parola divenne veicolo e oggetto di satira. Alla Restaurazione, Samuel Butler poteva
satireggiare il puritanesimo identificandolo con l'ipocrisia di una piccola cerchia di fanatici:
For the Saints may do the same thing by
The Spirit, in sincerity,
Which other men are tempted to
And at the Devil's instance do.
(I santi sono quelli che con lo Spirito
e col cuore puro fanno le stesse cose
Che per gli altri sono tentazioni
Fatte ad istanza del demonio).
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Santi e patroni di santi Questa complessa evoluzione di senso ci avverte che - se
adottiamo l'ottica dell'antropologia storica - il fenomeno della santità è definito non dal suo
oggetto ma dalla sua immagine riflessa nella mente dei santi medesimi e del loro
pubblico. Nell'Inghilterra protestante come nella Palermo spagnola e controriformistica, i
santi vengono 'creati' con atto sociale: lo rivela proprio il conflitto tra le immagini della
santità,
se
le
compariamo
tra
loro.
Nel mondo protestante, che non ha una Congregazione dei Riti, e che non ha definito in
termini giuridici il processo di santificazione, esisterono purtuttavia dei 'santi' acclamati in
vita come tali. Come si poteva, e chi poteva accertare al di là di ogni dubbio la loro
santità? La conversione, abbiamo visto, era un'esperienza intima. Come poteva
assicurarsi
il
pubblico
che
alcuni
erano
'rigenerati'
e
altri
no?
La risposta sta nella trasmissione dei valori puritani dopo il 1580 circa. Ed è questa: la
santità è attribuita per autolegittimazione e autoconvalida reciproca tra pastori e
predicatori. Era una specie di cooptazione, non troppo lontana dalle abitudini della nostra
Accademia, entro un gruppo sociale i cui membri erano noti gli uni agli altri o comunque
capaci
di
giudicare
degli
studi
e
della
vita
dei
loro
colleghi.
Prendiamo un solo esempio, un po' tardo. Si tratta di un epitaffio poetico (1677) che
celebra tale Tom Shepard, un "uomo di sostanza" nel Massachussetts puritano, persona
oscura se non fosse stato figlio di uno dei protagonisti della colonizzazione americana:
Addio Shepard! Tu ci precedi cittadino
Del cielo, dove inni canterai, per sempre,
Di alte trionfali lodi, lì stando
Nel coro dei Santi e dei Serafini.
Il celebre Richard Baxter, operante nella seconda metà del Seicento, è la quintessenza
dello spirito puritano. Così almeno apparve a Max Weber che citava la sua Autobiografia
per aiutarsi a definire lo "spirito del capitalismo". Ebbene, verso la fine della sua vita, nel
1688, troviamo Baxter che scrive: "Con cuore afflitto sono stato chiamato a predicare i
sermoni funebri per molti Santi eccellenti"; e si riferisce ad amici e parenti, che
indubbiamente chiamava 'santi' anche in vita. "…Il mio amico sincero Henry Ashurst, il
Consigliere, comunemente ritenuto il Santo più esemplare di cui si avesse notizia in
questa
città…".
Non solo, ma questo esemplare dello 'spirito puritano' crede nei miracoli, e in maniera
non del tutto disinteressata, dato che qualifica miracoloso il fulmine che scoperchia il tetto
della casa di un individuo che aveva detto male di lui: "Vera manifestazione della
vendetta divina!". Le brume del nord 'capitalistico' non sono poi tanto lontane dal caldo di
Napoli
che
fa
sciogliere
il
sangue
dei
martiri…
La 'santità' protestante è insomma una qualità auto-attribuita, ad opera di un clero che
controlla se stesso e che a sua volta risponde ai fedeli laici. Nel mondo cattolico,
all'inverso, l'elaborato processo - in forme giuridiche - di canonizzazione dei santi rinvia
ad una competizione apparentemente tanto forte da rendere necessarie regole certe,
autorevoli e rispettate universalmente. Nell'uno e nell'altro mondo, però, almeno
nell'antico regime, il "bisogno di santità" sembra essere una caratteristica comune del
manifestarsi sociale della fede.
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RIFERIMENTI
(nell'ordine di citazione)
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BIBLIOGRAFICI
M. Walzer, The Revolution of the Saints. A Study in the Origins of Radical
Politics, trad. it.: La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del
radicalismo politico, Claudiana, Torino 1996.
S. Cabibbo-M. Modica, La Santa dei Tomasi. Storia di Suor Maria Crocifissa,
1645-1699, Einaudi, Torino, 1989.
S. Boesch Gajano, La santità, Laterza, Roma-Bari 1999.
E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne: un labile confine. Poteri politici e
identità religiose nei monasteri napoletani, sec. 16-17, Franco Angeli, Milano
2001.
G. Fiume (a cura di), San Benedetto il Moro, Marsilio, Padova 2000.
R. W. Scribner, Incombustible Luther: The Image of the Reformer in Early
Modern Germany, in "Past and Present" n. 110, Febbraio 1986.
Scriptorum Illustrium maioris Brytanniae, quam nunc Angliam & Scotiam
uocant: Catalogus [...] auctore Iohanne Baleo, Basilea, Apud Iohannem
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Oporinum, s.d., 2 voll. [1557, 1559], Centuria prima, 1. Bale è un autore poco
studiato: sulla passata celebrità ha finito col prevalere lo stigma del
propagandista fanatico (Biliosus Baleus); ma occorre rivalutarne il ruolo di
antiquario e di editore. Cfr. L. P. Fairfield, John Bale, Mythmaker for the
English Reformation, West Lafayette (Indiana), Purdue University Press, 1976;
ed anche le pagine che gli dedica il più noto J. King, English Reformation
Literature. The Tudor Origin of the Protestant Tradition, Princeton, Princeton
University Press, 1982, pp. 56-75.
The Examinatioun of Anne Askew, Wesel [recte Marburgo] , 1546; cfr. J. King,
Reformation Literature, cit. pp. 71-75.
I. Roots (ed), Speeches of Oliver Cromwell, Dent, London 1989.
Samuel Butler, Hudibras (1663-64), II, 2, vv. 235-38.
Urian Oakes, An Elegie, in T. Pisani (a cura di), Poesia dell'America puritana,
Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1986, p. 148-9.
R. Baxter, An Autobiography, Everyman, London 1932, p. 248