La Stampa - BLOG della Facoltà di Lingue

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LA STAMPA E I « KANA-ZOSHI »
La propagazione e la democratizzazione della cultura, furono
notevolmente agevolate dall'introduzione della-stampa, mezzo
pratico, e a buon mercato "che permetteva una diffusione, diremo, capillare del pensiero. A sua volta, il bisogno di letture,
sentito sempre più vivo dal popolo, doveva incoraggiare, oltre
che la stessa stampa, l'industria editoriale e il commercio
librario.
Anche la stampa era venuta in Giappone dal continente,
dove aveva già una lunga storia. Era stata inventata in Cina,
negli ultimi anni della dinastia T'ang, da Féng Tao (881-954),
secondo la tradizione, sebbene alcuni ritengano che vi siano
motivi per farla risalire anche alla dinastia Sui (581-618). Si
tratta di stampa non con caratteri. mobili, che pare rimontino in
Cina all'XI secolo, ma di stampa in xilografia su clichés, per
cui ogni pagina di libro veniva incisa in rilievo su una
tavoletta di legno, sulla quale era poi passato l'inchiostro e
quindi premuta la carta. Questo sistema divenne subito di uso
comune in Cina, ma non in Giappone, perché qui, fino al 1500,
la cultura era limitata a un ambiente ristretto e si preferiva
fare o far fare copie manoscritte delle opere che interessavano.
Facevano eccezione i conventi buddhisti che avevano adottato
il processo dapprima per le immagini sacre, poi anche per i
testi. Il primo libro profano, o uno dei primi, ad essere stampato, nel 1590, con questo sistema pare sia stato il Setsuyo-shu
(Raccolta per risparmiare), una specie di vocabolario di parole
dell'uso quotidiano, compilato da uno o più. monaci del
Kenninji, tempio buddhista di Kyoto, fra il 1444 e il 1474.
Poi, all'epoca della campagna di Hideyoshi in Corea (1592-98),
furono portati da quella penisola i caratteri mobili di
rame e le macchine tipografiche per usarli, e di essi
Hideyoshi fece dono all'imperatore Go Yozei (1586-1611).
Questi, e il suo successore Go Mizunoo (1611-29), li
utilizzarono anche per alcune pubblicazioni
concernenti la corte. Salito leyasu al potere, con
l'incoraggiamento da lui dato agli studi e ancor
più con la partecipazione sempre più viva e più
estesa del popolo alla cultura, s'apri per la
stampa un periodo di grande, e anche glorioso,
sviluppo. leyasu stesso fece stampare molte opere
con caratteri mobili di rame e di legno e ciò
continuò fino ai primi anni del 1600, quando a
Saga, sobborgo ad ovest di Kyoto, sorse il primo,
o uno dei primi, centri editoriali che doveva
divenire famoso. Era stato fondato da Suminokura
Soan (1570-1632), figlio di Suminokura Ryói
(1554-1614), un uomo che si era enormemente
arricchito coi commerci col continente. Soan
stesso, del resto, controllava una rete di traffici
interni, ma, essendo anche un uomo
intellettualmente dotato, buon poeta e letterato,
aveva concepito l'idea di stampare i classici della
letteratura indigena. Per l'attuazione di questo
progetto, egli si uni a Honami Kòetsu (1558 1637), e mai collaborazione avrebbe potuto essere
più felice, perché Kòetsu era un ingegno
multiforme e raro, che possedeva in sommo
grado un prodigioso talento per tutte le arti,
incluse quel li-minori, come la calligrafia, la
ceramica, le lacche ecc. E a Saga nacquero, cosi, i
famosi « Saga-bon » (libri di Saga), veri
capolavori dell'antica tipografia giapponese.
Dapprima si usarono i caratteri mobili, poi piccoli
blocchi di legno intagliati e contenenti 3, 4 o 5
caratteri, finché si passò alla intera pagina incisa a
rilievo, come si è detto, sistema molto più
economico e rapido, che perciò si diffuse subito,
mentre i caratteri molali finirono per scomparire
durante l'era Kwan-ei (1624-44).
Fra le prime opere a stampa della letteratura
popolare sono i cosiddetti «kana-zoshi» o
fascicoli scritti in « kana », cioè coi soli sillabari
« hiragana » e « katakana », senza caratteri cinesi,
sebbene di questi compaia ogni tanto qua e là
qualcuno, ma sempre con la lettura a fianco in «
kana ». In genere sono racconti contenuti in uno o
più (in genere non oltredodici) I fascicoli (« sòshi
»), di 20-23 pagine ciascuno e quasi sempre
illustrati. I kana-zoshi sono i diretti discendenti
degli « otoghi zoshi », di cui si è già discorso.
Quanto agli autori, solo di pochi si conosce il
nome, ma è chiaro ch'essi dovevano appartenere
alle classi colte della società del tempo, come bushi,
studiosi, preti e simili, che si sono serviti dei kanazoshii come di un mezzo comodo e diffuso per
trasmettere alle nuove leve di samurai e ai chònin
della nuova generazione il patrimonio morale e
culturale ch'essi avevano ricevuto.
In base all'argomento, i kana-zòshi possono ripartirsi in
nove categorie che qui passeremo in rapida rassegna.
1 - Storie d'amore. Fra le tante, ricorderemo Urami-no-suke
(2 libri, circa il 1620), che è la storia di Urami-no-suke, un
giovane di Kyòto che ama senza speranza, ma alla follia, la
orfanella Yuki-no-Mae. I due riescono a vedersi una sola volta,
poi Urami, consunto d'amore, manda una lettera alla ragazza
per il tramite di amici e muore, seguito subito da lei che non
regge al dolore, fiduciosa di unirsi a lui nell'oltretomba. È
una storia che, pur nella sua psicologia ancora medioevale e
nel tono melanconico e romantico, presenta aspetti della realtà
contemporanea. Sta, dunque alle soglie di un mondo nuovo,
quello dei Tokugawa, ma riflette ancora quello scomparso.
Un altro, l'Usuki monogatari (Storia di Usuki, 2 libri,
scritto nei primi anni dei 1600, ma stampato nel 1632) è,
invece, un romanzo epistolare. Infatti si svolge tutto attraverso lettere che si scambiano i due protagonisti, Sonobe Saemon, un giovane samurai, e Usuyuki, una giovane della
nobiltà, i quali sono perdutamente innamorati l'uno
dell'altra. A un certo punto Usuyuki muore e allora Saemon,
pazzo di dolore, si fa monaco, erige alla memoria di lei una
tomba e muore in giovane età.
Per tutta la prima metà del 1600, i protagonisti di queste
storie d'amore sono samurai, cortigiani o fanciulle nobili e la
trama riecheggia più o meno i racconti del passato. Con la
seconda metà dello stesso secolo, invece, cominciano a comparire al loro posto rappresentanti della borghesia e allora la
trama s'ispira ai fatti e alla vita contemporanei. Per esempio
in Zeraku monogatari (Storia di Zeraku, 3 libri, stampato intorno al 1658), si ha un tipo di pezzente, Zeraku, che è amico
di Tomona, un ricco commerciante, il quale invano ricerca
dovunque una bella fanciulla ch'egli ha visto in sogno e che
non riesce a dimenticare. Zeraku allora gli propone di fare un
viaggio per cercare di trovarla altrove. I due si mettono in
cammino, visitano luoghi famosi e alla fine trovano la fanciulla, che Zeraku riesce a convincere di cedere a Tomona. Alla
fine la situazione sbocca in una crisi provocata dalla gelosia
della moglie del ricco commerciante, in seguito alla quale la
fanciulla si suicida gettandosi dal ponte di Seta. Tomona fa
dir delle messe per la sua anima e in ultimo la sogna in cielo:
da questo momento i suoi affari vanno a gonfie vele.
Altro curioso racconto è il Negoto-gusa (Sogni, 3 libri,
1662), pieno di colorite descrizioni della vita del tempo,
che si chiude con la rivelazione che tutto è stato un sogno del
protagonista.
2 - Racconti guerreschi. Si rifanno quasi tutti alla
storia più recente. Ricordiamo qui il Juraku monogatari
(Storia del Juraku, 3 libri, stampato fra il 1624 e il 1643)
che è imperniato sul famoso1 palazzo1 (il « Juraku-tei » o
Palazzo dove sono riuniti i piaceri) fatto erigere da_Hideyoshi
nel 1586 a Kyoto; l'Osaka monogatari (Storia di Osaka, 1
libro, fra il 1624 e il 1643); il Kirishitan taiji monogatari
(Storia dell'estirpazione del cristianesimo, 3 libri, 1665), che
rifa la storia della tragica rivolta di Shimabara, la quale nel
1638 chiuse nel sangue la prima fase della storia del
Cristianesimo in Giappone.
Tutti questi attingono alla storia e trattano 1 episodi di cui
spesso gli autori furono testimoni. Diverso è il caso del Suichóki (Storie di uccelli acquatici, 2 libri, 1662), di Ibara Shunsaku (1614-71), il quale, pur imitando in tutto 1 lo stile delle
opere di questa categoria, ha compiuto, invece, un lavoro
umoristico, narrando la storia di due forti bevitori di sake
(l'acquavite di riso cosi cara ai giapponesi) i quali sono continuamente in gara fra loro a chi beve di più. Il titolo, in
effetti, significa: Storie di sake.
3 - Racconti di elevazione morale. Sono opere scritte allo
scopo di educare il popolo alla vita pratica o alla morale. Se
ne hanno di quelle basate su aforismi, sul tipo dello Tsurezaregusa, come il Kashóki (Cronaca ridicola, 5 libri, 1642), di
Joraishi, forse uno pseudonimo di Asai Ryoi (1610-91), o
come il Ta ga minone (La vita degli altri, 6 libri, 1657), di
Yamaoka Genrin (1631-72). Altre s'ispirano all'Ò-kagami e,
mediante il dialogo di due personaggi immaginari, spiegano i
principi del Buddhismo e del Confucianesimo, come il Kiyomizii
monogatari (Storia di Kiyomizu, 2 libri, 1638), attribuito ad
Asayama Irin-an (o Soshin, 1589-1664); come il Daibutsti
monogatari (II Grande Buddha, 1 libro, 1642), di
anonimo, o come lo Hyaku hatchò-ki (Descrizione dei tre
sentieri della ragione, 5 libri, 1664), di Joraishi, in cui si
tenta una specie-di sintesi del Buddhismo, del
Confucianesimo e del Taoismo (i tre sentieri). Altre ancora
sono storie autentiche, oppure parabole o anche spiegano
fatti storici o tradizioni cinesi e indigene, come il Ko-sakazuki
(La tazzina per il sake, 5 libri, 1672), di Yamaoka Genrin, o
come Iguchi monogatari (Racconto deformato, 8 libri, 1662),
di Soga Kyuji, o come il Kannin-ki (Cronaca di tolleranza, 8
libri, 1652?).
Ma altre si servono della forma di romanzo o qualcosa di
simile per raggiungere intenti didattici od edificanti, e fra
tutte sono quelle che, dal punto di vista letterario meritino
qualche rilievo. Fra queste ricordiamo il Ninin bikuni (Le due
monache, 2 libri, stampato nel 1663), di Suzuki Shòsan (15791655), che tratta la storia di due vedove che vivono insieme,
pregando per l'anima dei rispettivi mariti morti in guerra. A
un certo punto una di esse muore e allora l'altra incarica un
uomo perché la seppellisca, ma questi abbandona la salma
fra i boschi, cosicché quando la vedova ancora vivente va un
giorno a visitarne la tomba, trova il corpo della sua defunta
compagna in sfacelo. Ciò le richiama, in modo violento e
inaspettato, alla mente la caducità delle umane cose, ed ella
si fa monaca.
A questa categoria appartiene pure l'Ukiyo monogatari (Racconti di questo mondo fugace, 5 libri, 1661), di Asai Ryoi,
ma è un lavoro che rappresenta qualcosa di nuovo, soprattutto
perché, con la sua trama, offre una descrizione dello spirito
godereccio e spensierato del chònin del tempo, spirito che la
penna di un uomo dotato come Ryoi ci presenta con straordinaria vivezza. L'eroe, Hyótaro, è appunto un giovane di
Kyoto, figlio del suo secolo: vitaiuolo esuberante e inquieto,
oltre che buono a nulla e spendaccione, che ha più spirito
che entrate. Perduti tutti i suoi averi nel gioco e nei bordelli,
egli riesce a trovare un posto di samurai di basso rango, ma
litiga col suo padrone e diventa rònin. Erra per qualche tempo
qua e là senza meta, finché si fa bonzo col nome di « Ukiyobò » (il bonzo di questo mondo fugace). Ma poi se ne va
ancora e riesce a farsi assumere da un daimyò in qualità di
giullare: suo compito è quello di far ridere con lazzi e con
allusioni scanzonate a cose e uomini del tempo, se non che
egli prende troppo sul serio la sua parte, tanto da mettere in
ridicolo il suo stesso padrone, motivo per cui ritiene più salutare
scomparire dalla circolazione ricorrendo alle arti magiche del
Taoismo. Qua e là nel testo sono inserite considerazioni dello
autore che mettono in luce il suo pensiero su varie cose e
aspetti della società contemporanea. La trama è poco unita e
risente, per l'impostazione, l'influenza delle Favole di Esopo.
4 - Traduzioni. Il rappresentante più tipico è l'Isobo (o
Isopo) monogatari (Le favole di Esopo, 3 libri, stampato più
volte fra il 1610 e il 1650). È una parafrasi del
favolista greco e non ha nulla a che vedere con la famosa
versione letterale di esso, fatta dal latino in giapponese dai
gesuiti e stampata ad Amakusa nel 1593. Comunque sia,
questa deve esser servita da modello all'autore, sconosciuto,
dell'Isobo mo-nogatari che per altro fu praticamente la sola
opera delle letterature occidentali nota agl'isolani durante il
periodo To-kugawa.
Quanto alle traduzioni dal cinese, a parte i racconti
di spettri di cui si parla appresso, va qui ricordato
soprattutto il Tóin hiji (Casi confrontati all'ombra dei peri
selvatici, 5 libri, 1649), traduzione, per opera di autore
ignoto, del Tang Yin Pi Shih (giapp. appunto Tóin hiji),
scritto nel 1211 da Kuei Wan-jung, vissuto sotto i Sung
in Cina, che pure in 5 libri narra centoquarantaquattro casi
giudiziari famosi verificatisi fra la fine della dinastia Chou
(1050-256 a. C.) e la dinastia T'ang. Il titolo allude a Chao
Kung, fratello del fondatore della dinastia Chou, il quale
soleva amministrare la giustizia, mettendosi sotto un albero
di pero selvatico, riscuotendo l'unanime elogio per la sua
salomonica saggezza; d'altra parte, Kuei Wan-jung nello
scrivere la sua opera, ne consultò altre precedenti sulle quali
confrontò gli stessi casi esaminati, da qui l'espressione « casi
confrontati » che è nel titolo. Questa opera ebbe un successo
enorme e creò il gusto per quella che potremmo chiamare
« letteratura gialla ». Fu ristampata più volte, ma
soprattutto ispirò e stimolò alla produzione' indigena di
opere consimili, fra cui la più nota è l'Ooka seidan, di cui
parleremo.
5 - Storie di spettri. Sono lavori attuati col proposito di
stimolare alla virtù o di mostrare gli effetti del karma
attraverso una lettura che, per essere avvincente, ricorre
all’uso del meraviglioso come elemento essenziale. Il
capostipite di tutti è l'Otogi-boko (La bambola-talismano,
16 libri, 166<>), di Asai Ryoi, in cui troviamo anche
ventiquattro tacconi i 11.1 dotti da due opere cinesi dello
stesso genere, il Chicli '/'V'//.i: Hsin Hua (Nuovi racconti da
leggersi smoccolando la lamiui1.1, 4 libri) di Ch u Yu (13471433), e il Chien Téng Yu lìti,: ( Al tri racconti da leggersi
smoccolando la lampada, 7 libri), di Li Ch'ang-ch'i, ambedue
vissuti sotto i Ming (1368-1643). In iarda età Ry5i scrisse
anche un altro lavoro simile, l'I//// barìko ( I I talismano a forma
di cane, 7 libri, 1962), che contiene quaran-tacinque storie, di
cui alcune non traduzioni, ma adattamenti di altre contenute
nelle stesse due opere cinesi. Le quali erano state
introdotte in Giappone nello scorcio dell'epoca Muro-machi
e ristampate poco dopo con caratteri mobili, indi tradotte
parzialmente. Ma i racconti di spettri cominciarono a divenir
popolari solo con l'Otogi-bòko, al quale presto seguirono altri,
come il Kaidan zensho (Raccolta completa di racconti meravigliosi, 5 libri, 1698), di Hayashi Razan, o come lo Shokokubanashi (Racconti di tutti i paesi, 5 libri, 1685), di
Saikaku, o come tanti altri, i quali fecero sentire il loro
influsso su opere posteriori, quali l'Ugetsu monogatari di
Ueda Akinari.
6 - Descrizioni di viaggi e guide particolari. È una categoria
particolarmente numerosa. Nelle descrizioni di viaggio, un
posto di rilievo spetta a Chikusai (2 libri, 1620 circa, ma
stampato nel periodo 1635-45), scritto forse da Karasumaru
Mitsuhiro (1579-1638), un cortigiano libertino, ma il più
grande talento creativo dei primi anni del 1600. Il
protagonista, Chikusai, è un medicastro di Kyòto, il quale
non potendo più vivere nella capitale, prende con sé un
servo, Nirami-no-Suke, e si trasferisce con lui a Nagoya,
dove cerca di rifarsi una vita; ma colleziona tante
figuracce e guai da dover fuggirsene a Yedo. Il racconto è
sostanzialmente la descrizione delle cose e dei luoghi visitati
durante i viaggi ed è cosparso di « kyoka », cioè di « uta »
umoristiche. La trama, naturalmente, serve di sfondo alle
descrizioni e assolve il compito di render più attraente la
lettura. Il successo enorme avuto da quest'opera rende
ragione della comparsa di altre consimili che la ricordano anche
nel titolo, come, ad esempio, Nobori Chikusai (Chikusai va
alla capitale) e Chikusai ryòji monogatari (Le cure di Chikusai), ambedue di anonimo autore e in due libri.
Il gruppo delle « guide » che fa parte di questa categoria,
riguarda il teatro e i bordelli, o meglio i loro quartieri. Quelle
del teatro, i famosi « yakusha-hyobanki » (note critiche sugli
attori) sono estremamente importanti per la storia del « kabuki » e noi ne abbiamo parlato diffusamente nel nostro lavoro
11 teatro giapponese, Storia e antologia (Milano, Feltrinelli,
1962, pp. 130-31), al quale rimandiamo il lettore curioso.
Quelli, invece, che riguardano i quartieri del piacere (« irozato », « iro-machi », « yùkwaku », « yùri »), o meglio le loro
inquiline, sono gli « yùjo-hyòbanki » (note critiche sulle prostitute), che sono specie di notiziari riguardanti le più note cortigiane, di cui descrivono le doti fisiche, il talento, i costumi,
la personalità, i difetti, le eventuali eccentricità ecc. Le
vere e proprie guide o « annaiki », sono dei vademecum dei
quar- rieri del piacere, con piante, nomi delle varie
case, le tariffe e tutto ciò che occorre sapere da
parte del frequentatore. Infine, si hanno anche
delle specie di, diremo cosi, guide psicologiche,
dette « showake-hidensho » (libri di tradizioni segrete
in dettaglio), che spiegano al frequentatore
l'etichetta da seguirsi negli stessi quartieri nei
confronti delle cortigiane, i metodi per divenire
esperto, per saggiare la sincerità delle cortigiane, le
arti (« tekuda ») che queste usano per conquistare
l'assiduita dei clienti e per spillar loro più denaro
possibile
e cosi via.
7 - Storie per ridere. Il più tipico rappresentante
di questa categoria è senza dubbio il Seisuishò (Per
ridere da scacciar via il sonno, 8 libri, 1628), del
bonzo Anraku-an Sakuden (al
secolo: Hirabayashi Heidayù, 1554-1642).
Contiene quattro centododici storielle comiche che
l'autore, fin dagli anni della gioventù, era venuto
annotando man mano che le aveva udite
narrare da qualcuno. Poi, giunto alle soglie della
vecchiaia,Itakura Shigemune (1587-1656),
rappresentante (« shoshidai ») dello « shogun » alla
corte imperiale di Kyòto, lo esortò a
sceglierle e a pubblicarle, ed egli seguì il suo
consiglio. Nella prefazione ci spiega il motivo del
titolo: « Nel rivedere ciò
che son venuto scrivendo da tanti anni, rido
spontaneamente
e il sonno mi passa; per questo ho dato a questa
raccolta il
titolo di Seisuishò ». La sua opera ebbe molte
edizioni, 111:1
anche molte imitazioni, fra le quali ricordiamo qui
lo Shikatabanashi (Racconti da narrarsi gesticolando, 5 libri,
1659), di
Nakagawa Kiun (1636-1705), e l'Ikkyù-banashi
(Racconti su
Ikkyù, 4 libri, 1700), di anonimo, il quale ha
raccolto vari
aneddoti riguardanti il famoso monaco umorista
Ikkyù (13'M
1481).
8 - Parodie di classici. La critica dei testi classici,
ini/iai.i
all'inizio del 1600, ebbe una specie di contraccolpo
umorisiii»
nei kana-zoshi con la comparsa di parodie delle
opere dell.i
vecchia letteratura. Tanto per citarne qualcuna, il
Makura no
sóshi, per esempio, trovò la sua parodia nel Mottomo
no \<>\/>i
(lett. Il libro ragionevole, ma in effetti significa:
II libro di
mezzo guanciale, 2 libri, 1632), che è il più antico e
« l i an<>
nimo autore; l'Ire monogatari ebbe il Nise
monogatari (Si.-md'imitazione, 2 libri, stampato nel periodo 1624-42),
niiriluiiiu
a Karasumaru Mitsuhiro; allo Tsurezure-gusa fece
risanino lo
Inu Tsurezure-gusa (Uno Tsurezure-gusa cattino, 2
libri, 1653), pure di anonimo, e cosi via.
9 - Riassunti di classici. Non soltanto parodie,
ma anche veri e propri riassunti di opere della
letteratura classica vennero ad arricchire i kanazoshi. Gli è che, data l'impossibilità di leggerle
nell'originale senza un'adeguata preparazione da
parte dei meno colti e delle masse, si era pensato di
presentarle in riassunto e in veste linguistica
moderna, in modo da renderle accessibili a tutti. Ne
ricorderemo qui due abbastanza note: il sunto del
Genji monogatari intitolato Jitchò Genji (II Genji
in dieci fascicoli, 10 libri, stampato fra il 1661 e il
1672), di Nonoguchi Ryùho (1599-1669), e l'Osana
Genji (II Genji per i giovani, 10 libri, stesso periodo),
che è una semplificazione ulteriore del precedente e
dello stesso autore, il quale disegnò anche le
illustrazioni di cui ambedue le opere sono
corredate.
I kana-z5shi, appartengono, in sostanza, a un tipo
di letteratura propria del periodo di transizione di
una società che sta profondamente trasformandosi,
che ha chiuso un periodo della sua storia e ne sta
aprendo un altro. Abbiamo già visto come i primi di
essi riflettessero ancora la vecchia società, perché
scritti da gente ancora ad essa legata per nascita ed
educazione: i protagonisti sono samurai o cortigiani
e l'ambiente, il modo di pensare risentono
l'influsso del passato. Ma fra il 1670 e il 1680 la
scena è mutata: i protagonisti sono chònin che,
naturalmente, pensano ed agiscono come tali,
nell'atmosfera dei nuovi tempi. Gli è che, intanto, la
diffusione della cultura aveva elevato e reso
cosciente di sé il popolo, formando in lui una
peculiare concezione di vita, un gusto preciso, delle
aspirazioni proprie. E appunto ora esso comincia a
scrivere per se stesso, per soddisfare esigenze che si
presentano a lui per la prima volta. Si tratta,
tuttavia, di prodromi, per dir così, a una vera e
propria letteratura chònin o borghese, perché era
mancato finora un uomo di genio capace di dare
all'anima
popolare
un'espressione
segnata
dall'impronta eterna dell'arte. Ma sullo scorcio del
1600, anche costui giunse, e allora la penna di
Ihara Saikaku, uno scrittore d'eccezione, creò il
romanzo realistico o di costumi, l'« ukiyo-zoshi »,
che venne ad offrire un mirabile rappresentante dello
spirito ottimistico
dell'epoca.
GLI « UKIYO - ZOSHI
EPIGONI DELLA
e
»:
godereccio
IHARA SAIKAKU E
del
chònin
i suoi
HACHIMONJI-YA
Di Ihara Saikaku (1642-93), non si conoscono
molti tl;iiì biografici. Hirayama Tógo, questo il suo
vero nome (Iharn era forse il cognome della madre e
Saikaku lo pseudonimi i letterario che assunse
dopo), era un ricco commerciante di Osaka, dove
era nato. Aveva, però, sortito da natura and ir una
felicissima disposizione per le lettere, e a 14 anni già
si dedicava all'haikai, in cui raggiunse poi 1una
straordinaria abililiì, tanto da essere considerato un
maestro. Fu allievo di Nishiyamii Soin, dal quale
ebbe (1673) il permesso di usare il caratteri-« sai »
(corrispondente al « nishi » di Nishiyama) con cui
foggiò il suo nome d'arte Saikaku.
Nel 1675, ancor giovane, perse la moglie, che
gli lasciò tre figli, fra cui una bimba, pare, cieca,
che però morì di li a poco. La sciagura lo abbattè
profondamente; poi, a un cerio punto, affidata la
cura dei suoi affari a un fidato dipendente, si diede
alla vita libera; frequentando bordelli e teatri, n i ; i
soprattutto viaggiando per tutto il paese, tutto
acutamcnic osservando. Da qui forse quella
esperienza di uomini e di cosi-che traspare dai suoi
lavori.
La morte di Sòin (1682) segnò una tappa
importante tu-ILi sua vita letteraria. Fino allora egli
si era occupato solo i l i haikai, da ora in poi si
dedicherà, invece, esclusivamente ;ill;i narrativa, che
dovrà assicurargli un_posto notevole nella stoi-hi
letteraria del suo paese. Morì ad Osaka nel 1693 a 52
; i i m i , secondo il computo giapponese dell'età,
cioè due in più di quella che era considerata la
durata media della vita um:m:i. A questo allude
appunto il suo ultimo haikai composto sul letto di
morte:
Ukiyo no tsuki Gli ultimi due anni li ho vissuti in più,
mi-sugoshi-ni-keri con leni
piando
la
luna
di questo mondo fugace!
sue ni-nen
Saikaku è il primo scrittore borghese
degno di questo nome, che descrive il mondo
del chonin dal punto di vista di uno che ad esso
appartiene, con atteggiamento di simpatia e di
apprezzamento per i suoi ideali. Non che prima
ne fossero mancati:
l'autore dell'Ubo
monogatarì, uno dei kana-zòslii, per esempio,
è uno di questi, ma non ha molto a che vedere
con Saikaku per lo stile e per l'impronta
artistica. Ihara Saikaku inaugura un'era nuova,
che si può anche considerare come uno
sviluppo, una elevazione sul piano artistico dei
kana-zòshi, con l'ukiyo-zoshi (fascicolo di questo
mondo fugace) o, come noi diremmo, col
romanzo realistico o di costumi.
È opportuno, prima di proceder oltre, sgombrare
subito il campo da giudizi errati espressi sul
contenuto delle sue opere, per le quali egli è stato
definito uno scrittore pornografico o immorale da
critici disinvolti, non soltanto europei ma anche
indigeni, vissuti due secoli e mezzo dopo di lui, in
una società e per struttura e per concezioni di vita
affatto diversa. Grave errore è, infatti, giudicare
uno scrittore senza riferirsi ai tempi e all'ambiente
in cui egli è vissuto, e una critica recente, più
serena, ha messo le cose nella giusta luce. Saikaku
non è uno scrittore che si compiaccia di quello che
scrive, né egli si è mai prefisso nei suoi romanzi fini
educativi o di edificazione morale. Egli vuole solo
dilettare, intrattenere piacevolmente il lettore con
una narrazione che lo interessi; e non è ch'egli
scelga i suoi argomenti perché pornografici, ma
perché, dati • i costumi del tempo, essi erano i soli
che potevano interessare i, contemporanei. Il
bordello e il teatro, l'abbiamo detto, erano allora i
due soli fulcri della vita quotidiana e tutta la letteratura, non Saikaku soltanto, traeva da essi motivi
d'ispirazione. Il suo stile, poi, anche se vivace,
non è mai emotivo, ' ma sempre obiettivo. Del
resto egli ha descritto anche altri aspetti, oltre
quello erotico, della società borghese, di cui egli è
l'interprete più genuino.
Saikaku merita un posto di rilievo nella
storia letteraria del Giappone soprattutto per lo
stile impareggiabile, che rappresenta qualcosa di
veramente nuovo. Minuzioso osservatore,
realistico fino alla brutalità, egli descrive con
periodi incisivi ed estremamente concisi,
talvolta fino a risultare oscuri, il che è senza
dubbio imputabile alla sua lunga dimestichezza
con l'haikai. Egli dispone da padrone di tutte le
risorse della lingua corrente, messa al servizio
di uno stile di un vigore e di un colorito che
non temono confronti.
La sua produzione riguarda tre aspetti della
società: erotico, militare e borghese, per cui si
può ripartire in tre gruppi: 1 - « kòshoku-mono
», libri erotici. 2 - « buke-mono », libri riguardanti
la casta militare. 3 - « chònin-mono », libri di vita
borghese.
I primi a comparire furono i « k5shoku-mono »,
inaugurati
col Koshoku ichi-dai otoko (La vita di un libertino, 8 libri,
1682) che s'ispira al Genfi monogatari e che riguarda le mille
avventure erotiche di Yonosuke, uri libertino spregiudicato che
dovrebbe corrispondere al principe Genji. Ma a differenza di
questo, personaggio romantico sempre mosso da tenerezza e
dal sentimento nelle sue avventure galanti, Yonosuke è, invece
un gaudente, spinto solo dal fuoco dei sensi, che fa teatro
delle sue gesta il bordello.
Il successo che arrise a questo primo romanzo spinse Saikaku a proseguire per la via intrapresa, e quattro anni
dopo ne pubblicava altri due, il Koshoku ichi-dai onna (La
vita di una mondana, 6 libri, 1686) e il Koshoku go-nin onna
(Cinque donne assetate d'amore, 6 libri, 1686), dove
risaltano meglio le qualità stilistiche dell'autore.
La trama del Koshoku ichi-dai onna è, brevemente, la seguente. A Saga, vicino a Kyoto, vive una vecchia prostituta,
alla cui dimora due gentiluomini si recano in visita, ed ella
ha così occasione di narrar loro la sua vita. Figlia di un nobile
della capitale e dama di corte nel palazzo di un principe,
ella, appena tredicenne, si era innamorata di un
cortigiano, e poiché questo amore era vietato, i due amanti
erano stati esiliati. Abbandonata presto dal suo compagno,
la fanciulla si unisce a una compagnia di artisti girovaghi
coi quali visita le varie province del Giappone. Un giorno, in
una città, ella diviene l'amante di un daimyo, che presto
l'abbandona anche lui. A sedici anni è prostituta nel
quartiere dei bordelli di Shimabara (Kyoto). Per molto
tempo, la sua eleganza e la bellezza le permettono di
primeggiare e di aver clienti ammiratori. Poi, col tempo, le
sue grazie sfioriscono ed ella si ammala. Comincia, così, la
decadenza, passando da un bordello a un altro di più basso
rango, finché giunge ad Osaka nella miseria più nera. Un
giorno a Kyoto, mentre è assorta in preghiere, ha una
specie di visione che le fa comprendere la vacuità delle
umane cose. Un senso di amaro pentimento per la vita
trascorsa s'impadronisce allora di lei e a 65 anni ella si
ritira dal mondo, facendosi monaca.
Cinque storie diverse, ricavate dalla cronaca del tempo,
compongono il Koshoku go-nin onna, ma le protagoniste non
sono prostitute, bensì figlie o mogli di commercianti. Alcune
di queste storie fornirono anche argomento al teatro.
Un altro lavoro riflette una pratica assai diffusa nel Giappone, in tutte le epoche, ed è il Nanshoku o-kagami (II grande
specchio dell'omosessualità maschile, 8 libri, 1687), che
racco-glie quaranta aneddoti riguardanti la sodomia, sia fra i
militari, sia fra gli attori di « kabuki ».
Passiamo ora ai « buke-mono », dedicati alla casta dei militari, di cui si passano1 in rassegna la mentalità e la struttura
etico-sociale, viste, però, con gli occhi di un borghese. Nel Bado
denrai-ki (Cronache trasmesse della via del guerriero, 8 libri,
1687), Saikaku narra trentadue storie di vendette famose
occorse in tutto il paese, vendette ch'egli considera da chonin e
quindi da estraneo, senza ammirazione o esaltazione che possa
ispirar plauso e approvazione da parte del lettore. Anzi, par
quasi di legger fra le righe che il vendicatore, per l'autore,
non sia, almeno del tutto, dalla parte del diritto e della
ragione; che la vittima non sia poi così malvagia o
colpevole e che la vendetta, tutto sommato, non rappresenti
un'azione che debba tanto soddisfare e di cui metta conto
menar vanto. Nel Euke giri monogatari (Storie di obbigazioni
morali nella classe militare, 6 libri, 1668), infine, i ventisei
racconti che lo costituiscono sono imperniati sul « giri », di cui
abbiamo già parlato, articolo di fede cieca, particolarmente
per la classe dei samurai.
Più interessanti, per noi, sono i « chonin-mono » che offrono
una rappresentazione viva della società borghese del tempo,
soprattutto sotto l'aspetto della sete di denaro. Il più significativo è il Nippon eitai-gura (II magazzino eterno del Giappone,
6 libri, 1688) che accoglie trentasei racconti i quali vogliono
dimostrare come un chonin possa far fortuna o perderla
con la stessa facilità. Alcuni degli aneddoti sono storici, altri
im-maginari o riflettenti tradizioni. Dall'insieme di essi,
scaturisce un insegnamento, che, cioè, per far fortuna, il
chonin deve sì essere scaltro e non badare a mezzi, ma
anche usar pazienza e molto spirito di economia. Il lavoro è
scritto con la solita vivacità e il solito stile colorito. Qua e
là affiora qualche frecciata per i ceti superiori, pieni di boria
invidiosa e impotente, che avevano a vile i chonin e la loro
sete di guadagno. Ad essi Saikaku, conscio del valore del
denaro, si rivolge appunto quando dice: « II denaro è il
blasone del chonin, qualunque sia la sua nascita o la sua
origine. E anche coloro che vanno in giro con una scimmia
ammaestrata se la cavano meglio (in fatto di denaro) di
coloro che vantano quarti di nobiltà'e vivono, invece, poveri
».
Un altro suo lavoro, il Seken mune sanyó (I calcoli della
gente di questo mondo, 5 libri, 1692), è una raccolta di venti
aneddoti che hanno per centro l'ultimo giorno dell'anno,
quando si facevano il bilancio dell'anno passato e le previsioni
di quellonascente. Questo giorno poteva valere una fortuna
acquistata o perduta, e Saikaku mostra come debiti e crediti
poievancj venir cancellati provocando gioia o dolore, a
seconda dei casi| È uno dei suoi migliori lavori.
Dopo la morte di Saikaku (1693), gli ukiyo-zoshi cominj
ciavano già a perdere di popolarità per la mancanza di scrittor
dotati, quando, a dar loro nuova vita, comparve l'astro
Kiseki, il vero erede del defunto.
A Kyoto, una delle tre maggiori librerie, era la famosa
Hachimonji-ya (leti. All'insegna del carattere « bachi », ckd
otto, forse la prima parte di Hachizaemon, il vero nome di
Jisho), di cui era proprietario Andò Jisho (1666-1745). Costui
ebbe l'idea di associarsi ad Ejima Kiseki (1667-1736),
figlicT di un agiato commerciante della città, che aveva
trascorso irj piaceri e bagordi la sua giovinezza, finché, dato
fondo alle sua risorse economiche, aveva deciso di darsi alle
lettere e corf queste di guadagnarsi la vita. Associandosi con
Jisho, Kisek volle restar nell'ombra, cosicché i suoi lavori
uscirono col noma di Jisho. I volumi editi dalla Hachimonjiya si distinguevano per la veste tipografica e per le illustrazioni,
opera di NishikawaJ Sukenobu (1671-1751) e della sua
scuola.
Nel 1699 la libreria iniziò la pubblicazione di una serie
d| « yakusha-hyòbanki » scritti da Kiseki. Il primo di essi,
VYa\ kusha kuchi-jamisen (Un samisen vocale sugli attori, 3
libri] si distingueva dagli « yakusha-hyòbanki » dei « kanazòshi : non solo per la veste tipografica, ma anche per lo stile
deliziose^ delle prefazioni ai vari capitoli sotto forma
dialogica. Fu dop' che il successo ebbe arriso a questo
genere di pubblicazioni che Jisho, sempre per la penna di
Kiseki, concepì l'idea di riprendere la produzione editoriale
degli ukiyo-zoshi, interrotti dalla morte di Saikaku. Nel 1701
usciva il Keisei iro-zamis«i\ (La" chitarra d'amore delle
prostitute, 5 libri), che si esaurì ir breve tempo, tanto che
dopo quattro mesi si dovè farne um| nuova edizione. Era
un lavoro impostato sul modello degli yùjo-hyòbanki che
riuniva ventiquattro aneddoti, più o menci piccanti,
riguardanti le più famose cortigiane dei quartieri def piacere
dell'epoca. Ma esso non fu che il primo di una serie djjl «
keisei-mono » (libri sulle prostitute), fra i quali ricorderei)uri
VYahaku naishd kagami (Lo specchio segreto dei prostituii
djl ambo i sessi, 5 libri, 1710), Viro hiinagata (Modelli
d'amore)! 5 libri, 1711), il Keisei kintanki (Alle prostilute è
vietato per' der la pazienza, 6 libri, 1711), ecc.
Nel 1712 i rapporti fra Jisho e Kiseki si guastarono, pcrchd
Kiseki non era soddisfatto della ripartizione degli utili della
azienda. Non essendo stato possibile un nuovo accordo, egli
si staccò dalla Hachimonji-ya e aprì una libreria, l'Ejima-ya,
dando alle stampe, stavolta col suo nome, altri ukiyo-zoshi.
Nel primo di questi, VYakei tabi-tsuzura (II canestro da viaggio
di drudi e prostitute, 5 libri, 1712), egli svelava al pubblico
che quel che fino allora era apparso sotto il nome di Jisho era
stato in effetti opera sua. Jisho, a sua volta, rispondeva tacciandolo di impostore, al che Kiseki, nel primo « yakushahyòbanki » edito dalla sua libreria, l'Yakusha mekikiko (Giudizi sugli attori, 3 libri, 1714), ribatteva invitando i lettori a
non lasciarsi ingannare dal suo rivale.
Intanto, però, se l'Hachimonji-ya, non ostante la perdita
di Kiseki, riusciva lo stesso a quadrare i propri bilanci, così
non avveniva per l'Ejima-ya, per cui Kiseki non riuscendo a
rendere economicamente sana la sua azienda, dopo sette anni,
dimenticando i passati rancori, si riuniva con Jish5, ma con
un accordo di parità. La riunione segnò anche una svolta nella
produzione, perché Kiseki, che aveva ormai raggiunto la piena
maturità artistica, si diede alla pubblicazione dei così detti
« katagi-mono » (libri di tipi), in cui descriveva in modo geniale
e gustoso certe figure caratteristiche della società del tempo.
Basterà citare i titoli dei quattro ch'egli scrisse per averne
un'idea: Seken musuko katagi (Tipi di figli d'oggi, 5 libri,
1715), Seken musume katagi (Tipi di figlie d'oggi, 5 libri,
1716) Ukiyo oyaji katagi (Tipi di vecchi padri moderni, 5 libri,
1721) e Seken tedai katagi (Tipi di commessi di negozio d'oggi,
5 libri, 1731).
In sostanza, Kiseki è quel che oggi chiameremmo un umorista che, come avviene spesso agli umoristi, era portato ad
esagerare i lati deboli o curiosi dei tipi da lui presi di mira
proprio per ricavarne un maggior effetto comico. Le sue descrizioni mancano per questo spesso di naturalezza. Il suo
stile si piega agevolmente a tutte le esigenze della narrazione
e la sua lingua è piana e vicina a quella d'oggi.
Kiseki può' dirsi un epigono di Saikaku, e lo dichiara egli
stesso, ma solo per gli ukiyo-zóshi. Ma egli fu anche qualcosa
di diverso. Nei katagi-mono, dove diede il meglio di sé, dimostrò qualità di autentico scrittore originale, per le quali ha
diritto a un posto, anche se non di grande rilievo, nella letteratura del suo paese.
Scomparso Kiseki nel 1736, la serie dei katagi-mono fu
continuata da altri. Uno di questi fu Tada Nanreì (1698-1750),
che aveva preso il suo posto nella Hachimonji-ya e a cui è
dovuto il Seken hahaoya katagi (Tipi di madri d'oggi, 5 libri,
pubblicato postumo nel 1752). Un altro fu Ueda Akinari
(1734-1809), autore di un Seken tekake katagi (Tipi di concubine, 4 libri, 1766).
Scomparsi Jishó (1745) e Nanrei (1750), la Hachimonji-ya
declinò, finché attrezzature e attività non furono rilevate
(1767) da Masuya Okura, un libraio-editore di Gsaka. Cosi
scompariva un nome che era stato il simbolo di un'epoca e
che ha impresso un'orma incancellabile nella storia della letteratura dell'arcipelago.
Manifestazione delicata e nobile del gusto raffinato e di
ideali di un mondo scomparso, espressi in una lingua non più
compresa, il « no » non poteva soddisfare il popolo, troppo
ignorante per poterlo1 apprezzare, per cui restò il teatro delle
classi colte. E il popolo, che s'era creata una sua letteratura,
si creò anche un teatro adatto ai suoi gusti: il « kabuki »,
o dramma popolare, e il « jòruri » o teatro di burattini.
teatro popolare
IL KABUKI
A Kyòto, nella bella stagione, il fiume Kamo che traversa
la città si riduceva quasi all'asciutto, scoprendo così il suo
greto, dove, in corrispondenza del quarto « jo » (« shi-jo »,
una delle arterie che traversavano la capitale da est ad ovest)
solevano piantare le loro baracche burattinai, saltimbanchi,
prestigiatori e simili, per cui il luogo, detto « shij5-gawara »
(il greto del fiume del quarto « jó »), diveniva una specie di
Luna Park, di quartiere dei divertimenti. Qui la tradizione
vuole che, intorno al 1600, O Kuni, una danzatrice (« miko »)
del grande tempio di Izumo, abbia eseguito delle danze
religiose, dette « nenbutsu-odori » (danze d'invocazione al
Budcìha), accompagnate da canzoni. La sua doveva essere una
esibizione il cui ricavato era destinato a finanziare ripara zioni urgenti di cui il suo tempio aveva bisogno. Ma poi,
secondo la tradizione, ella avrebbe conosciuto Nagoya Sanzaburò (1576-1604), un ex samurai che conduceva vita dissipata e che era abbastanza esperto del « no ». Costui avrebbe
rinnovato il modesto repertorio di O Kuni, eliminandone l'elemento religioso e introducendovene altri per quell'epoca inauditi, come, per esempio, le donne che vestivano da uomini e
gli uomini da donna. Lo spettacolo consisteva in pantomime
accompagnate da canzoni mondane, come questa:
Waga koi wa tsuki ni mura-kumo bana ni kaze to yo
L'amor mio [è come] luna [offuscata] dalle nubi, o fiore agitato dal vento; L'orchestra era composta da un
flauto e dai tamburi, conio nel «no». Lo spettacolo, per la sua audacia e singolarità In detto « kabuki-odori »,
qualcosa come danze (« odori ») cc centriche (« kabuki » da « katabuku », inclinare, e quindi esser fuori della
norma, eccentrico).
Va subito detto che molte delle fonti di questa tradizione di O Kuni presentano dati contrastanti che la
rendono mollo ingarbugliata, e gli storici hanno invano sudato intorno a questo argomento alla ricerca di
documentazioni inoppugnabili, ma senza, o con scarsi, risultati. Ad ogni modo, il « kabuki-odori » ebbe
un successo cosi strepitoso da divenir la mania dell'epoca. Subito sorsero compagnie costituite prevalentemente
da prostitute (« keisei-kabuki » o « kabuki » di prostitute) che furoreggiarono in tutto il paese, ma diedero
anche luogo ad eccessi, per cui nel 1629 il governo dovè proibire alla donna il palcoscenico, dov'essa tornerà
solo dopo il 1868.
Eliminate le donne, il loro posto fu allora preso da fanciulli (« wakashu-kabuki » o « kabuki » di
fanciulli), per lo più dediti alla prostituzione maschile, ma dopo un poco le autorità dovettero ancora
intervenire in difesa, più che della morale, della quiete pubblica nel 1652. Allora le parti femminili vennero
assunte da uomini e si ebbe così l'« yarò-ka-buki » o « kabuki » di adulti. Nacque in tal modo l'« onna-gata »,
cioè l'attore specializzato in parti femminili, che sarà una costante fisionomia del « kabuki ».
Nel frattempo, le kabuki-odori andarono lentamente subendo quelle trasformazioni che dovevano portare al
kabuki, il dramma popolare. Dapprima le danze e le canzoni, unici componenti dello spettacolo originario,
accolsero brevi scenette o farse che s'ispiravano a motivi della vita quotidiana (« mono-mane kyogen » o
scene di imitazione, realistiche), poi queste andarono lentamente scacciando sempre più danze e canzoni e
sempre meglio rappresentando la società del tempo, finché, progredendo nella loro evoluzione, sfociarono
negli « tsuzuki-kyogen » o scene prolungate, cioè in più di un atto. Il vocabolo « kyogen », si badi, non ha
qui nulla a che vedere con le farse classiche omonime di cui si è già parlato, ma designava semplicemente ogni
azione drammatica che non
fosse il « nò ».
La comparsa di spettacoli in più atti portò, come conseguenza, a sviluppi nuovi della tecnica teatrale
con l'introduzione del sipario fra un atto e l'altro, con la creazione e il cambiamento degli scenari ecc.
Nell'orchestra, la novità più importante fu senza dubbio l'introduzione del « samisen », tolto al « jóruri »
intorno al 1633. Contemporaneamente la stessa essenza dello spettacolo subiva profondi mutamenti.
L'intervento delle autorità aveva obbligato il kabuki, che nelle prime fasi del suo sviluppo aveva
abbondantemente speculato sui bassi istinti delle masse, a guardare verso orizzonti più nobili, e per fortuna
vi furono attori, degni di questo nome e co scienti della loro dignità professionale, che contribuirono all'elevamento del teatro sul piano morale e artistico. Uno dei primi fu Nakamura (poi Saruwaka) Kanzaburò I
(1598-1638), il quale fondò a Yedo il primo grande teatro stabile nel 1624, il Saruwaka-za (poi Nakamura-za),
seguito poi da altri quattro, e cioè dal Miyako-za, nel 1633; dal Murayama-za, nel 1634 (che nel 1664
cambierà nome in Ichimura-za); dall'Yamamura-za, nel 1642, che fu soppresso nel 1714 in seguito a uno scandalo clamoroso; e infine dal Morita-za, nel 1660. Il suffisso « -za » vale: teatro.
Noi abbiamo il testo di qualcuno dei primi kabuki, come il \\onin sakazuki (La tazza del rónin), il Keisei-kai
(L'ingaggio della cortigiana) e qualche altro: si tratta di trame brevi e semplici, anzi puerili, in un atto.
Queste antiche trame rimon-i ;i vano agli stessi attori, che le imbastivano, ritoccandole poi pili volte a
seconda di esigenze che di volta in volta si pre sentivano, tenendo presenti le proprie capacità e i gusti del
pubblico. L'epoca dei drammaturghi di professione non era iineoi-ii venuta. Uno dei primi, di cui si ha
notizia, fu un corto Tominaga Heibei, citato come tale in un cartellone (« bui) y.ukc ») del 1680. Ma in
quest'epoca il kabuki aveva fatto già molta strada definendosi nettamente come spettacolo drammatico. Due
drammi sono un po' considerati come l'atto di nascila del kabuki d'arte: VImagawa shinobi-guruma (La
vettura secreta di Imagawa, 2 atti), di Miyako Dennai, ap parso sulle scene del Nakamura-za di Yedo
nel 1663; e VHinin no aJa-uchi (La vendetta del pariah, 2 atti), dell'attore l'uluii Yagozaemon,
rappresentato ad Osaka nel 1664. Nel primo, Imagawa, un samurai, avendo dato un consiglio al suo
feudatario, non solo non è ascoltato, ma calun- niato e scacciato dal feudo, cosicché cade in miseria. Poi egli
si ammala gravemente e sua moglie allora lo trasporta in segreto su un carro che si aggira nella regione del feudo,
finché, dopo una serie di peripezie, tutto si accomoda ed egli rientra nelle grazie del suo padrone.
Nel secondo, invece, si rifa la storia di un uomo che, per vendicare l'uccisione del padre, si traveste da «
hinin » (fuori-casta, pariah).
Creatura ancora fragile e senza esperienza, questo kabuki mancava ancora di attori di rilievo e quindi di
impulsi e direttive capaci di imprimergli il suggello sublime dell'arte. Le prime due veramente grandi figure
che ebbero questo ufficio, e che segnano perciò una tappa fondamentale nella sua storia, furono Sakata Tojurò
(1645-1709) e Ichikawa Danjùro I (1660-1704), due contemporanei che agirono il primo a Kyoto, l'altro a Yedo.
Tójùró aveva iniziato la sua carriera ad Osaka nel 1678 e appunto in quell'anno, la morte in giovane età
di Yùgiri (1654-78), una famosa « oiran », destava tanto unanime sensazione, ch'egli concepì l'idea di sfruttare
l'avvenimento a proprio vantaggio. L'Yugiri nagorì no shògwatsu (La dipartita di Yùgiri in gennaio) da lui
portata sulle scene fu un trionfo che lo mise subito in evidenza. Quando nel 1680 egli si trasferì a Kyoto, era
ormai un attore celebre che doveva dominare le scene fino alla sua morte. Tojùrò ha avuto il grande merito
di sviluppare il monologo. Con lui, l'attore si libera di ogni convenzionalismo tradizionale per penetrare nel
profondo dell'anima dei personaggi ch'egli seppe incarnare in modo insuperabile. Era un attore proteiforme,
studioso e osservatore acuto della realtà e ugualmente mirabile nelle parti comiche e in quelle tragiche.
Aveva anche una discreta cultura, per cui collaborava attivamente con chi gli scriveva i drammi. Alla sua
morte, non avendo formato una scuola, non lasciò allievi, ma solo una somma di insegnamenti e di
esperienze che per tanti anni avevano illuminato di viva luce il teatro.
Mentr'egli agiva a Kyoto, a Yedo il kabuki riceveva una diversa e singolare fisionomia per opera di Ichikawa
Danjùro I. Horikoshi Ebizò, tale il suo vero nome, era stato influenzato dallo stile declamatorio violento di
Izumi-dayù I (fiorito fra il 1652 e il 1687) che allora furoreggiava nel teatro di burattini. Tòjurò aveva
introdotto nel kabuki la naturalezza e il rispetto per la realtà; Danjùro I, invece, puntò sull'esage - razione
come elemento capace di dare potente risalto all'eroismo e al male, risalto spinto fino alle più visibili espressioni, servendosi dei costumi indossati, del trucco speciale (il famoso « kumadori », di origine cinese), del dialogo,
degli atteggiamenti, delle movenze, di tutto quanto, insomma, un attore poteva disporre. Questa tecnica
dell'esagerazione, detta « ara-goto », era sorta in lui dalla necessità di trovare qualcosa che sbalordisse
l'uditorio, impressionandolo con la sua potenza drammatica.
Anche Danjùro I scrisse, da solo o in collaborazione, i drammi che metteva in scena e che rimasero poi di
proprietà della scuola da lui fondata. I suoi successori arricchirono questo patrimonio, finché Danjùro VII (17911859) concepì per primo l'idea di operarne una selezione allo scopo di dar forma permanente ai migliori. Il suo
lavoro, interrotto dalla morte, fu poi proseguito da Danjùro IX (1838-1903), il quale portò così a termine i
Kabuki jù-hachi-ban (I diciotto migliori kabuki) della dinastia Ichikawa.
Danjùro I morì a 45 anni il 24 marzo del 1704 ucciso da Ikujima Hanroku, un attore che sembra fosse
offeso perché egli non aveva voluto concedergli di assumere il cognome Ichikawa della sua scuola.
L'arte dell'« onna-gata » annovera un terzo, grande astro di questo primo kabuki in Yoshizawa Ayame
(1673-1729). Nato ad Osaka e perduto il padre in giovane età, per guadagnarsi la vita fu « iro-ko » (lett.
fanciullo d'amore), come si chiamavano i ragazzi che esercitavano la prostituzione maschile, la qual cosa allora
apriva loro anche una carriera nelle parti femminili del teatro. E Yoshizawa portò sulle scene un'arte mirabile che
doveva assicurargli fama imperitura. Le sue idee sull'arte dell'onna-gata ci sono note attraverso un'opera, scritta da
Fukuoka Yagoshirò, che porta il titolo di Ayame-gusa (Insegnamenti vari di Ayame), il canone cui s'ispirarono
tutte le generazioni successive di onna-gata. Per raggiungere la perfezione nella propria arte, secondo Ayame, un
onna-gata deve costantemente sviluppare in sé i sentimenti naturali di una donna, comportandosi come tale
anche nella vita privata. Solo così egli non userà dannose affettazioni sul palcoscenico. La parte più difficile da
interpretarsi, secondo lui, resta quella dell'oiran, la cortigiana di alta classe.
Fra gli altri attori di minor levatura fioriti in questo periodo, ricordiamo tre altri onna-gata: Mizuki
Tatsunosuke (1673-1745), passato poi alle parti maschili, Ogino Sawanojó
(1656-1704) e Sodezaki Karyu (P-1730) allievo di Ayame. Degli attori di parti maschili vanno citati i nomi di
Nakamura Shichi-saburò I (1662-1708), che fu a Yedo l'antitesi di Danjùrò I, mentre Tòjùrò aveva a Kyòto come
rivale Yamashita Kyòemon I (1652-1717). Kataoka Nizaemon I (1656-1715) fu un «cattivo » della scena
aiutato molto dall'aspetto imponente e dallo sguardo truce e selvaggio. Egli è il capostipite di una dinastia di
attori durata fino a oggi.
Il kabuki di questo primo periodo era sostanzialmente tecnico, perché il successo era fondato sull'abilità
e la capacità degli attori, non su quelle di scrittori di vocazione che fino a questo momento erano mancati. Si
comprende, dunque, come, nei primi anni del 1700, esso dovesse cedere il posto, nel favore del pubblico, al
teatro di burattini (« jòruri »), che stava allora ricevendo una grande luce dall'astro sorgente del grande
Chikamatsu.
IL TEATRO DI BURATTINI E CHIKAMATSU MONZAEMON
Oe-no-Masafusa (1041-1111) nel suo Kairaishi-ki (Note sui burattinai) ci da le prime notizie sui «kugutsu », il
più antico vocabolo, di origine straniera, come sembra, con cui nell'antico Giappone si designavano sia i
burattini come i burattinai, questi ultimi più propriamente detti « kugutsu-mawashi » o manovratori di burattini.
Pare che questi burattinai appartenessero a una popolazione girovaga, diversa da quella giapponese e
stranamente rassomigliante ai nostri zingari, che viveva in tende e sfuggiva alle tasse. Girando di villaggio in
villaggio, questi kugutsu si guadagnavano la vita facendo ballonzolare su cassette dei fantocci, mentre le loro donne
esercitavano la prostituzione. Questo nell'era Heian.
- Più tardi, nell'epoca di Kamakura, troviamo i kugutsu divenuti, in parte almeno, sedentari e appoggiati a
templi di cui godevano la protezione. A Nishinomiya, fra Osaka e Kobe, quelli del tempio di Ebisu (uno dei sette
geni della felicità) erano detti « Ebisu-gaki » o « Ebisu-mawashi », evidentemente perché portavano in giro,
manovrandoli a mo' di burattini, dei fantocci rappresentanti Ebisu. E qui, a Nishinomiya, i burattinai
s'acquistarono fama di grande abilità, tanto da essere perfino invitati a prodursi a corte.
Abbiamo già riferito, a proposito degli otogi-zòshi, sulla Storia di Jòruri (Jòruri monogatari), diffusa da
menestrelli ciechi al suono del samisen, dopo l'introduzione di questo strumento dalle Ryùkyu intorno al
1562. E abbiamo altresì detto come il vocabolo « jòruri » finisse per designare tutte le storie da declamare
alla stessa stregua e al suono dello stesso strumento, come Wada sakamori (Le orge di Wada), come
Horìkawa yo-uchi (L'attacco notturno a Horikawa) e simili. Poi, sullo scorcio del 1500, si verificò un
fatto nuovo, in apparenza banale, ma che doveva avere conseguenze di un'importanza allora
imprevedibile. Alcuni cantastorie ebbero l'idea di associarsi ai burattinai di Nishinomiya: in tal modo, i
casi narrati nelle storie da essi declamate venivano a ricevere un'evidenza, diremo, visiva attraverso le
movenze dei fantocci che accompagnavano il testo, rendendo lo spettacolo più interessante. Nacque,
così, l'« ayatsuri-jòruri » o jóruri manovrato, cioè declamato manovrando i burattini, o, brevemente, jòruri,
vocabolo che, come si vede, venne ad assumere il significato di « teatro di burattini », oggi detto più
propriamente « ningyò-shibai », il nostro « teatro dei pupi », A chi sia venuta per primo l'idea di questa
associazione, non è possibile stabilire con certezza, ma le fonti storiche di cui disponiamo ci dicono che
appunto alla fine del 1500 l'« ayatsuri-jòruri » era già comparso a Kyòto. La sua diffusione fu
rapidissima e fra i primi declamatori ci fu anche una donna, tale Rokuji Namuemon, che si faceva
accompagnare da Kawachi Sanai, un suonatore di samisen. Poi, in seguito all'editto del 1629 che
proibiva il teatro alle donne, ella dovè cessare la sua attività nella quale aveva già raggiunto, pare, una
certa distinzione. Il favore incontrato presso il pubblico, portò da una parte all'apertura di teatri stabili,
dall'altra all'introduzione di sempre nuove migliorie e perfezionamenti nell'anatomia dei fantocci insieme
a una maggiore elaborazione degli spettacoli. I quali, si badi, richiedevano una collaborazione stretta e
intelligente da parte del declamatore (« tayù »), del suonatore di samisen e del burattinaio (« ningyò-zukai »),
il quale ultimo dapprima operante nascosto alla vista del pubblico, dal 1705 cominciò a manovrare davanti agli
occhi degli spettatori. Poi, in seguito allo sviluppo e ai sempre più complicati perfezionamenti subiti dai
fantocci, un solo burattinaio non fu più sufficiente, e allora se ne ebbero tre per ogni burattino: l'«
omo-zukai », il principale, che ne muoveva gli occhi, il corpo ecc., un « assistente di sinistra »
(hidari-zukai) che azionava la mano sinistra e un « assistente delle gambe » (ashi-zukai) che muoveva solo
le gambe. I due assistenti portavano sul capo un cappuccio nero che ne na-scendeva il volto all'uditorio.
Manovrare un burattino divenne così un'operazione abbastanza complessa fondata sulla tempestività o
sincronicità dei movimenti di tre persone diverse. Quando poi i personaggi sulla scena erano più di uno e
comparivano due, tre o più burattini, allora si moltiplicavano gli operatori ed, eventualmente, i declamatori e
i suonatori
di samisen.
La prima fioritura del jóruri si ebbe a Yedo, dove il primo teatro stabile fu aperto nel 1616 da Sugiyama
Shichirózaemon ed ebbe vita abbastanza prospera. Poi Satsuma Jóun (1595-1672) ne aprì un altro, dove
introdusse innovazioni nei burattini e nello spettacolo. Ma assai maggior popolarità acquistò Izumi-dayù I, sia per
drammi che metteva in scena, i cosiddetti « Kinpira-jóruri » che trattavano le gesta di Kinpira, un eroe
leggendario, sia per lo stile di declamazione, a lui peculiare, che doveva influire, come abbiam detto, sul «
kabuki » di Danjuro I. Aveva una corporatura gigantesca, e soleva battere il tempo con una sbarra di ferro,
con cui spesso fracassava la testa dei fantocci o danneggiava le strutture di cartapesta delle scene, dato che
prendeva tanto intensa parte all'azione da dimenarsi selvaggiamente in preda ad un'esaltazione irrefrenabile.
La prima fase del jóruri, a Yedo, termina con l'incendio che nel 1657 distrusse in gran parte la città e i
teatri, per cui gli attori si trasferirono in buon numero a Kyoto. Ma qui, in una città dai gusti raffinati per la
presenza della corte e i contatti continui con la nobiltà, essi dovettero promuovere un rinnovamento del
jóruri, il quale fino allora era stato considerato una forma rozza e popolare di spettacolo, per cui era rimasto
chiuso nella cerchia dei divertimenti dello Shijó-gawara. Fra coloro che contribuirono all'elevazione artistica del
jóruri nella capitale, vanno qui ricordati Yamamoto Kakudayù (?-1702), Miyako Itchù (P-1723),
Okamoto Bunya (1633-94) e Uji Kaga-no-jó (1635-1711). Osaka ebbe piuttosto tardi teatri stabili di jóruri. Uno
dei primi fu quello aperto a Dótonbori, la via dei teatri della città, da Inoue Harima-no-jó (1632-85), fra il
1660 e il 1670. Inoue aveva una voce stentorea di magnifico timbro ed era dotato di molte e varie capacità:
nelle scene di combattimenti o di sangue riusciva ad esaltare, in quelle patetìche a commuovere
intensamente l'uditorio. Prima di lui i drammi del jóruri erano in sei atti: egli li ridusse a cinque, numero
che restò poi praticamente fisso. Egli gettò le basi di quella che doveva essere l'epoca d'oro del jóruri
L'attività di tutti costoro diede siffatto lustro alla loro arte
che dal 1680 in poi il jóruri del Kamigata s'impose su quello
di Yedo.
Il periodo di massimo fulgore del teatro di burattini, la sua epoca d'oro, sì ebbe in Osaka quando
collaborarono le due più grandi sue figure: il declamatore Takemoto Gidayù (1651-1714) e il grande
drammaturgo Chikamatsu Monzaemon (1653-1725).
Gidayu, al secolo Goròbei, era nato a Tennòji, vicino ad Osaka, e aveva sortito da natura una voce di
timbro chiaro e una notevole inclinazione musicale. A 24 anni ebbe il primo contatto col jóruri e, dopo un
periodo di tirocinio con Uji Kaga-no-jó e con altri, aprì (1684) a Dótonbori un teatro, il Takemoto-za,
destinato a glorioso avvenire. Il primo anno egli mise in scena tre jóruri che Chikamatsu aveva già scritto
per altri: il successo, però, non fu quale egli si attendeva. Ma quando (1686) il grande drammaturgo
scrisse per lui lo Shusse Kagekiyo, che iniziava la loro collaborazione, fu un trionfo, e tale da rimettere
in sesto il bilancio traballante del locale. Subito dopo, Gidayu cedeva la direzione dell'azienda a Takeda
Izumo I (?-1747), un uomo capace e di gusto sicuro, riservando a sé la sola declamazione.
Gidayu incarnò, se così può dirsi, la fase di piena maturazione del jóruri, tanto che « gidayù » e jóruri
finirono per diventar sinonimi. Il suo stile declamatorio detto « Gidayù -bushi », di grande effetto, era
un'armoniosa fusione di stili già esistenti. Egli curava il lato artistico dello spettacolo, mentre Izumo si
occupava delle scene e del locale, in modo che lo spettacolo riuscisse sfarzoso e colorito, stimolato in
questo anche dalla concorrenza di un teatro rivale, il Toyotake-za.
Questo Toyotake-za era stato fondato da Toyotake Waka-dayù (1681-1764), che si era associato, come
drammaturgo, a Ki-no-Kaion (1663-1742), il quale, però, pur essendo uno dei maggiori scrittori di teatro del
tempo, non poteva competere con un uomo della statura di Chikamatsu, ragione per cui il Toyotake-za non
riuscì mai a rappresentare un serio pericolo per il Takemoto-za, non ostante i suoi continui sforzi non per
superarlo, ma solo per uguagliarlo.
Non è facile stabilire nel binomio Gidayù-Chikamatsu quanto l'uno dovesse all'altro per la propria fama. Il
destino aveva felicemente unito due ingegni fatti apposta per integrarsi, in modo che l'arte dell'uno desse
mirabile risalto alla personalità artistica dell'altro. Ma passiamo ora a Chikamatsu.
Ecc ecc ecc ecc ecc ecc fino a pag 301
SECONDO PERIODO
IL CENTRO DELLA CULTURA A YEDO (circa 1740-1868)
CARATTERISTICHE GENERALI
II sistema imposto al paese dai Tokugawa aveva funzionato abbastanza bene per circa un secolo. Nella
tranquillità generale, l'economia, il commercio interno, le attività dello spirito erano fioriti e il Giappone del
1600 ci appare come un paese relativamente prospero.
Dopo l'era Genroku (1688-1704), la scena cambia e cominciano a farsi sentire i difetti e le contraddizioni del
sistema, fondato su due concezioni antitetiche: il feudalesimo e l'accentramento politico. Ma comincia anche a
farsi sentire l'azione di quelle forze che condurranno al crollo della struttura feudale. Queste forze sono di natura
economica e spirituale. Vediamo, anzitutto, l'economia.
Lo stesso ordinamento sociale presentava aspetti antieconomici e nello stesso tempo assurdi. Al sommo della
scala sociale erano i militari, che in un paese in pace non avevano nulla da fare, né, per legge, potevano far
altro che dedicarsi agli studi, essendo loro interdetta ogni altra attività. Conseguenza era ch'essi costituivano
una classe sempre più povera di gente velatamente resa improduttiva, e perciò parassita. Per contro, all'ultimo
scalino della gerarchla sociale erano i commercianti, la cui attività la legge disprezzava, ma che con la loro
intelligenza ed operosità costituivano una classe sempre più ricca e, coi contadini, economicamente produttiva, a
cui, in sostanza, il paese doveva la propria vita. Così si verificava l'assurdo che, chi era onorato e, dal punto di
vista delle istituzioni, contava di più era povero e non faceva nulla per il paese, mentre chi era disprezzato e
non contava nulla era in effetti , ricco e teneva in pugno le leve dell'economia nazionale.
Il Giappone era un paese ad economia chiusa, che doveva contare solo sulle proprie risorse, anche se limitate. Il
che lo metteva alla mercé dell'andamento dei raccolti, che, nelle annate scarse, non potevano venir integrati da
importazioni, che la legge vietava. Col passar del tempo, la situazione peggiorò. Calamità naturali, carestie e altre
cause gettarono in difficoltài feudi e lo stesso governo, la cui insipienza in materia economica non gli seppe
suggerire altro che misure balorde e insensate, come l'aumento della pressione fiscale, la svalutazione della
moneta (con gli effetti che è facile immaginare), le leggi suntuarie, il prestito forzoso ai commercianti, che non
riebbero mai, o solo in parte, il loro denaro. Il potere politico, l'abbiam detto, era gelosissimo di quello del
denaro, e la mano della legge piombò più volte pesante su coloro che, come ad esempio gli Yodoya, famosi e
ricchi commercianti di Osaka, vivevano in uno sfarzo inaudito, mentre governo e nobiltà si dibattevano nelle
strettezze. L'azione era ispirata dal desiderio di eliminare l'influenza che la vita di lusso dei ricchi esercitava
irresistibile sulle classi dirigenti, i militari, i quali cominciavano a desiderare i loro agi e i loro piaceri.
I daimyo, a corto di risorse, si videro costretti a ridurre il soldo pagato in riso ai loro vassalli, i samurai,
a spremere di più i loro contadini, a centrar debiti coi tanto disprezzati commercianti. I samurai, che già avevano
razioni di riso insufficienti, e i contadini, schiacciati dai tributi, si trovarono, così, ad affrontare la miseria
più nera. La disperazione si manifestò allora nelle campagne con l'orrore dell'infanticidio (« mabiki ») e il
rancore contro il governo esplose con rivolte (« uchi-kowashi ») che costellarono abbondanti la seconda metà
dell'epoca dei Tokugawa. I contadini, sfidando le leggi, emigrarono numerosi verso le città, dove la vita era
più facile ed allettante, privando così di braccia i campi e rendendo la situazione ancora più precaria. Da tutto
questo stato di cose derivò un diffuso malcontento: i contadini reclamavano condizioni più umane di vita; i
samurai lamentavano la loro miseria; i commercianti deploravano la vessazione dei prestiti forzosi, il sistema
assurdo e complicato di controlli sugli scambi, lo stesso isolamento del paese che intralciava le loro attività e,
naturalmente, aspiravano anche a una maggior considerazione, pari all'importanza delle funzioni ch'essi esercitavano nella società.
Intanto, mutamenti profondi subiva la stessa struttura economica. Lo sviluppo dei commerci interni richiedeva
un mezzo di scambio meno ingombrante di quello usato, cioè il riso, per cui la moneta venne ad assumere
un'importanza via via maggiore come.'base delle transazioni, finché, col suo affermarsi, l'economia monetaria andò
sconvolgendo gli antichi rapporti produttivi portando al fallimento della economia rurale, e il capitale
commerciale-usuraio- "finì per impadronirsidella ricchezza dei feudi, fino a controllare tutto il paese. E
allora si verificò un fenomeno che, dal punto di vista delle istituzioni, era il più allarmante: la fusione delle classi.
Molti samurai, infatti, per uscire dalla miseria, sposarono figlie o adottarono figli di ricchi commercianti, che in
tal modo si assicuravano i privilegi spettanti alla nobiltà; altri si diedero ad attività pratiche mescolandosi col
popolo: la vita, insomma, distruggeva un sistema che la legge imponeva e che era divenuto anacronistico.
Anche nel campo spirituale, come in quello economico, tutto lavorava allo sgretolamento delle istituzioni
feudali. Fu soprattutto la corrente dei « wagakusha », che auspicava una rinascita dello Shinto primitivo, a porre
alla nazione la domanda perché mai il potere dell'imperatore, discendente degli dèi che avevano creato il
Giappone e perciò sovrano legittimo per investitura divina, dovesse essere usurpato dallo shògun. Non solo, ma
essi ricorsero allo stesso chuhsismo, la morale ufficiale degli shógun Tokugawa, per dimostrare l'illegalità del loro
potere. Infatti, essi ragionavano, se il dovere e l'obbe-dienza hanno valore di legge naturale, lo shogunato,
usur-patore del potere legittimo, non poteva essere che un'istituzione contro natura. Nello stesso senso aveva
lavorato la scuola storica di Mito, fondata, l'abbiam detto, da un Tokugawa, Mitsukuni. Questa scuola aveva
opposto la letteratura nazionale a quella cinese, lo Shintoismo al Buddhismo e, per una inevitabile estensione,
l'imperatore allo shògun.
Insomma, intorno alla metà del 1800, due secoli e mezzo di evoluzione sociale e materiale e l'azione delle
correnti di pensiero storico, politico e filosofia), avevano profondamente minato alla base le ormai anacronistiche
istituzioni feudali. Perché la crisi scoppiasse, mancava solo la scintilla, e questa venne dall'esterno, quando, l'8
luglio del 1853, le navi della spedizione americana del commodoro M. Calbraith Perry (1794-1858) gettaronol'ancora nella baia di Uraga chiedendo al Giappone di uscire dal suo isolamento. Da quel momento, il
Giappone fu scosso da una crisi durata 15 anni, al termine della quale, nel 1868, il Paese del Sol Levante usciva
profondamente mutato al mondo e s'inseriva nel consesso delle altre nazioni civili, dando inizio- a una
nuova epoca della sua storia.
Dal punto di vista letterario, la seconda metà dell'epoca dei Tokugawa assiste al peculiare fenomeno del
trasferimento del centro della cultura a Yedo, fino allora considerata una specie
ili tllpi tuli n/.rt, ili itiliiiilii iilllllliili tlil |'.,inil|iiii.i I l/lilliii'liln ililln il^ll Min.li .Lil
Toliii|iiiu il, il (rlvon lilo'.iilii i, l'inlliii'ii/H
ilrllit riii'huii It i l i miniti iM (.limitala, l'iilHuNNo
urlili l'iipiltili- tirilo «Iniziili ih Belili1 i oli.i avevano iliro//nio il primitivo amltieiilc ntlliliin- e
inlliihiiii Li linj>ua di Y«lo, cosicché questa rii li') polrva uni r i t l i i i i r nell'adone Icttcrnl'io
portandovi qualcosa ili nuovo: In InnhiM.i, i :,enli-mcnti, l'umorismo, l'inclina/ione al
}>iudi/io inlnilivo, l'olii-mismo dei suoi abitanti. Favorita dalla politica libernlr instaurata
dal ministro Tanuma Okitsugu (1719-88), la leilci-alura si manifesta dapprima in racconti
popolari brevi e an ti convenzionali come i « ki-byoshi », o negli « share-bon » che hanno
per teatro lo Yoshiwara, il quartiere del piacere di Yedo, mentre gli « yomi-hon », più
lunghi, riflettono gl'ideali feudali tradizionali. Scomparso Tanuma, il suo successore e antagonista Matsudaira Sadanobu (1758-1829) ripristinava in tutta la loro severità le norme
feudali e allora la letteratura dovè adattarsi alle nuove esigenze. I « ki-byoshi », divenuti
oggetto dei rigori della legge, scomparvero dando luogo ai « gókan -mono », mentre gli «
share-bon » non s'ispirarono più al mondo delle cortigiane, ma divennero « ninjò-bon »,
libri di amori romantici. Per altro verso, l'umorismo che aveva caratteri zzato gli « sharebon » e in parte anche i « ki-byòshi », trovò un altro sfogo nei « kokkei-bon ».
Così la letteratura era avviata verso una nuova era di prosperità quando, nel 1842, le
insensate riforme del ministro Mizuno Tadakuni (1794-1851), la fecero entrare in una fase di
ristagno, per fortuna breve, in attesa che, con l'era Meiji (1868-1912), le si aprissero ben altri e
più vasti orizzonti
« wagakusha » e la poesia
II culto fanatico dei « kangakusha » per le cose cinesi, aveva assunto talvolta aspetti
insensati. Alcuni di essi, per esempio, s'erano imposto un nome cinese vergognandosi di
esser nati in Giappone. La reazione non poteva mancare, e sorge appunto ora, con un
movimento a carattere nazionalista, che però risaliva alle ricerche sull'antica letteratura fatte
nel 1600 da Kitamura Kigin (1618-1705), da Keichù e da altri. Ma il movimento
s'identifica propriamente con Kada-no-Azumamaro e diviene reazione vera e propria, cioè lotta
dichiarata, con Kamo Mabuchi, con Motoori Norinaga e con Mirata Atsutane, le sue tre figure
di maggior rilievo.
Questi « wagakusha » (yamatologi) o « kokugakusha » (cultori di cose patrie), com'essi si
chiamarono in opposizione ai « kangakusha », erano in sostanza dei ferventi shintoisti, che
miravano a una rivalutazione degl'ideali più antichi e sacri della comunità indigena, dei
nazionalisti accesi, animati da un cieco disprezzo per tutto ciò che fosse straniero, e so -
prattutto cinese. Ma anch'essi peccarono di un fanatismo opposto, che impedì loro spesso
il giudizio obiettivo di cose e di fatti. Furono anche degl'illusi che avrebbero voluto riportare il paese a quella ch'essi definivano « epoca d'oro » della civiltà indigena, cioè a
quello ch'esso era stato molti secoli addietro, in epoche preistoriche, antecedenti all'introduzione della civiltà cinese, rinnegando, così, i benefici della cultura e del progresso. Il che era,
ovviamente, una pretesa non solo assurda, ma anche contro natura.
Tuttavia il loro movimento ebbe meriti indiscussi, perché ci ha lasciato veri monumenti
di erudiziene nel campo filologico e gettò le basi della critica estetica della poesia, oltre a
suscitare un rinascimento della prosa e della poesia classiche. In politica, poi, preparò le
basi spirituali della rivoluzione che nel 1868 doveva ripristinare il potere effettivo nelle
mani
del sovrano.
Kada-no-Azumamaro (1669-1736), nato nel ramo Kada ecc
Da 332
In questa seconda metà dell'epoca Tokugawa, il popoli» partecipa tutto, ormai, ai benefici della
cultura e la narrativa si arricchisce di generi nuovi, le cui più o meno lontane ori» j gini sono da ricercarsi
nella letteratura precedente.
I « kusa zòshi »1, per esempio, si ricollegano visibilmcn te ai « kana-zòshi » di cui abbiamo già parlato.
Sorti, per pri mi, intorno all'era Genrofeu essi furono accolti con molto In vore dal pubblico. I kusa-zòshi
rappresentano un genere ca« I ratterizzato dalla prevalenza delle illustrazioni nei confronti del testo, per cui questo
appare piuttosto una spiegazione di quelle, un po' come nei nostri romanzi a fumetti attuali. Le illustrazioni,
però, hanno quasi sempre grande valore artistico perché dovute ai maggiori maestri delPukiyo-e del tempo, quali
Katsushika Hokusai (1760-1849), Kitagawa Utamaro (1753-1806), Utagawa Toyokuni (1769-1825), Utagawa
Kunisacla (1786-1864) e altri.
Altro aspetto tipico è la loro evoluzione, sia nella lunghezza, che da fascicoli di cinque pagine, va diventando
sempre maggiore; sia per la copertina, che, di pari passo con l'aumentar della lunghezza, va mutando colore,
cosicché si hanno gli « aka-hon » (libri rossi), i più brevi, i « kuro-hon » (libri neri), gli « ao-hon » (libri
azzurri), i « ki-byòshi » (libri gialli) e, infine, i più lunghi, i « gókan mono » (libri riuniti). Contemporaneamente con
l'estensione del testo, tuttavia, va anche mutando la fisionomia: dapprima essa è quella di racconti di vario tipo:
fiabeschi, avventurosi, didattici, eroici e simili, de-
l i l i . i j-ioventù, in mezzo alla quale alcuni di essi sono ' in voj'.a; poi di romanzi veri e propri. Intorno al
1775,
l'iniervento di scrittori di vocazione fece loro prender ii in chiave umoristica o satirica, gli aspetti più
tipici
la ultima tendenza, doveva pivii^v.* „. __________
.. -'^-^-rfl-K io, lo « share-bon » (libro piacevole, o meglio: libro
1
1.
pie-liei- gaudenti o uomini di mondo), che descrive
il.. MI . I
l'ambien-• . ' i i l n e variopinto dei quartieri del piacere. Lo « share-«* il vero erede dell'ukiyo-zòshi,
spentosi con la Hachiii VH nel 1767.
i u l u l i l o , iu concomitanza con i kana-zoshi, nel Kamigata r i i l v i i e g iodatamente s'affermava un altro nuovo
genere, iiri!//aio, invece, dalla prevalenza del testo sulle illustrali 11 che gli valse il nome di «yomi-hon»
(libro di let-. i Si d a l i a sempre di romanzi, ma di carattere morale ed mie, i al volta con tratti epici. Il loro
valore letterario è • i murvole, dato che ad essi prestarono la loro opera gli L i l i |nu dotati del tempo.
Nell'impostazione, risentono nidnv.o ilei modelli della novellistica cinese dei Ming, e per 11 idilli i (echeggiano
spesso quella classica, l l n ilo ivio del governo, nel 1790, proibiva per ragioni di .il 11 iì e, I i «share-bon», il che
condusse alla comparsa dei i n |n hon » o libri di sentimenti umani in cui, come dice il M . -, il protagonista
vero di tutta la trama è il sentimento. ni hndi bene, non si tratta di amore, nel senso migliore irimìne, di
una passione, cioè, capace di elevar l'uomo alle i . ' di ideali sublimi, di esaltarlo e nobilitarlo nello stesso «|..i,
UHI solo di un sentimento più o meno basso, senza ca-il'ulenli o nobiltà d'intenti.
A Vedo, lo share-bon, nei primi anni del 1800, da origine, ne . ni « kokkei-bon » o romanzo umoristico o
comico, un
......... n cui trionfa la vena bonaria e scanzonata, tipica delcu tro
- '•
"
-:— J: \r^A^
I li ili <!
ll'« yedokko1 », il nativo di Yedo.
ni I I VOMÌHON » NEL KAMIGATA
l i l i «yomi-hon» nascono' nel Kamigata nella scia degli i n . li c i n e s i . Una corrente di questi, infatti,
s'interessava me.... li hlosofia che della narrativa e della poesia cinesi. E pre-
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