L`amleto visto da Carmelo Bene Questa rappresentazione dell

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L’amleto visto da Carmelo Bene
Questa rappresentazione dell’Amleto, nel lungometraggio diretto Carmelo Bene, non è sicuramente quella
che si può definire un’interpretazione classica, didattica o accademica.
E’ anche vero però che questa è forse l’unica strada percorribile per interpretare il dramma di Shakespeare,
su cui tutto è già stato detto, fatto, visto.
Il filmato ci porta subito in una dimensione surreale. A due colori: il bianco e il nero.
L’esasperazione di questi due cromatismi e gli effetti ottici ci trasportano in un’altra realtà, in un sogno che
molte volte sembra più avvicinarsi ad un incubo.
Le musiche solenni, ma allo stesso tempo subdole e astratte, non fanno che amplificare questa sensazione.
Bene sceglie di impostare l’opera su una delle interpretazioni più recenti e moderne, condivisa da molti
critici. Ovvero che gli eventi che si susseguono nella tragedia di Amleto, si possono spiegare come lo
scatenarsi in lui di un complesso di Edipo, mai risolto, che torna a galla veementemente, a causa del gesto
dello zio, il quale uccide il re, padre del principe, e ne sposa la madre.
Il regista non si limita a ciò. Nel suo stile ama portare le cose all’estremo, in questo caso la visione
psicologica dell’opera. Così Polonio diventa una sorta di “enciclopedia psicanalitica”, che snocciola con un
filo di voce, alla figlia, nozioni su nevrosi e complesso di Edipo, per metterla in guardia dal legarsi
sentimentalmente al disturbato Amleto.
Il protagonista invece si fonde con l’amico Orazio, quasi a diventare una stessa persona, o se vogliamo a
confondersi con quest’ultimo, a rappresentare le due personalità che si agitano dentro l’unico corpo del
principe.
Anche le interpreti femminili si confondono tutte tra di loro. Hanno un aspetto simile: lunghi capelli scuri,
occhi molto truccati, aspetto sensuale e peccaminoso, e si presentano in scena col seno scoperto. Neanche
a dirlo, assomigliano tutte alla madre di Amleto. La quale tra la frivolezza e la superficialità che tutte queste
dimostrano di possedere, è senz’altro quella che si contraddistingue maggiormente.
A sottolineare ancora di più che la condizione emotiva di Amleto verso la madre è totalmente ingiustificata
da un punto di vista logico. Seppure ce ne fosse bisogno.
L’unica che risulta leggermente differente è la povera Ofelia, interpretata da una giovane Laura Morante.
Pur assomigliando nell’estetica a Gertrude è meno truccata e più naturale nella presenza.
La sua sofferenza d’amore viene ridicolizzata, derisa, trasformata in un gioco sadomaso tra il protagonista e
lei.
In una scena Amleto, seduto accanto alla provocante e semisvestita femmina di turno, prende a schiaffi
un’Ofelia muta, prostrata a sui piedi, che altro non può fare se non cercare ancora la mano del suo
carnefice come unica forma di affettuoso contatto.
Un’altra scena emblematica di questa tendenza è l’entrata in scena di Ofelia completamente vestita da
suora, accompagnata da una musica aulica.
Insomma, vi sarete accorti che non è proprio la classica rappresentazione, diventata ormai esercizio di stile
di compagnie teatrali più o meno famose e dotate.
E’ una dissacrazione del testo sacro del teatro per eccellenza. Dall’inizio alla fine.
Non un accenno all’essere o non essere, se non una scena dove Carmelo/Amleto tiene in mano il famoso
teschio a mo’ di soprammobile, pronunciando il suo personale monologo nel perfetto stile grottesco del
non-essere che lo contraddistingue. Quasi stesse leggendo la lista della spesa.
Per poi dimostrare eccezionale entusiasmo ed espressività per particolari privi d’interesse o argomenti che
noi umani possiamo definire forse “morbosi”.
Si permette di strappare in scena pagine del dramma, su cui scrive per comunicare con Orazio. Sempre nel
passaggio dove schiaffeggia Ofelia, invece, lo spettacolo ufficiale si confonde con le prove, gli attori hanno i
copioni in mano, si fatica a distinguere tra Carmelo Bene ed Amleto, tra baci e schiaffi reali o di finzione
scenica.
Tutta l’opera è permeata da una persistente atmosfera 70’s. La pellicola è del ’79, quindi ci si avvia agli anni
80, col suo edonismo, consumismo con lo yuppie che prende il posto del fricchettone.
Bene in questa opera dà l’idea invece di rimanere legato a quella scia che arriva dagli anni ‘60, che sta per
svanire, per lo meno come cultura di massa. E l’impressione è quella che l’autore non lo faccia per
convinzione personale, ma ancora una volta per stupire e voler essere controcorrente a priori o per natura.
Anche l’uso di effetti visivi psichedelici, l’essenzialità della scenografia e dei costumi in alcune scene,
contrapposti ad altri molto kitsch nelle scene solenni, rafforzano la sensazione 70’s. Oltre a quella della
pantomima.
Il risultato finale di tutto questo è un’opera che merita di essere vista. Il non-uomo era un genio, e l’ha
dimostrato un’ennesima volta.
Questo lungometraggio non si può giudicare. Non si può dare un opinione. In alcuni momenti la visione
diventa pesante, a tratti indigesta. Ed è difficile arrivare alla fine, nonostante sia anche di durata piuttosto
breve. Però ci sono degli spunti, delle trovate di fine astuzia simbolica, che ti tengono incollato allo schermo
in attesa del prossimo boccone. Amaro.
Alla fine del film non sai dire quello che ti ha lasciato, se ti è piaciuto o ti ha disgustato. Puoi solo dire “Beh
però alla fine vale la pena averlo visto” .
Emanuele Scarano
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