Intervento di Romano Calvo

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Milano, 20 ottobre 2009
Intervento di Romano Calvo
all’incontro con la sezione milanese del PD – senatore Ignazio Marino
I professionisti in Italia (secondo una ricerca ISOFL del 2006) sono 1.641.000 e
rappresentano il 29% dei lavoratori indipendenti ed il 7,3% degli occupati.
I co.co.co, co.pro ed occasionali nello stesso anno erano 1.290.000 e rappresentano il 23%
dei lavoratori indipendenti ed il 5,7% degli occupati. Abbiamo quindi un totale di quasi 3
milioni di lavoratori autonomi (o para subordinati) non imprenditori né coadiuvanti.
All’interno di questo arcipelago ci siamo anche noi, professionisti con partita Iva senza albi
o ordini e forzatamente iscritti alla gestione separata INPS e sentiamo l’urgenza di porre
alla pubblica attenzione la questioni che ci riguardano.
In primo luogo è insostenibile l’attuale prelievo previdenziale del 26,72%.
Tenendo conto che il 26,72% è calcolato su una base imponibile più ampia di quanto
avvenga per i lavoratori dipendenti, la nostra situazione è in assoluto la più tartassata dal
punto di vista previdenziale.
Quando ci viene detto – come dal Governatore Mario Draghi – che occorre aumentare l’età
pensionabile ed aprire il canale della previdenza integrativa, ci viene da ridere, perché un
prelievo così elevato impedisce di disporre di altre risorse da investire su una seconda
pensione.
Draghi dovrebbe essere informato del fatto che dal 1995 la riforma Dini ha introdotto il
sistema contributivo in base al quale a ciascun pensionato non verrà restituito un euro in
più di quanto non abbia effettivamente versato nella vita lavorativa e, con la rivalutazione
allineata al PIL nominale, rischieranno di percepire addirittura di meno.
Saprà inoltre che l’età pensionabile è già stata portata a 65 anni e, a meno che si pensi di
allungarla oltre i 70, non si capisce perché tanto interesse per la questione. Una
spiegazione ce la forniscono i comportamenti degli amici che Draghi frequentava: dietro le
richieste del Fondo monetario internazionale, della BCE, dell’UE e della Confindustria
(oltre alla Banca d’Italia) si celano infatti gli interessi delle lobbie finanziarie. Le stesse
lobbie che hanno già operato negli Usa ed in Sud America con esiti poco lusinghieri per la
stabilità sociale ed economica di quei Paesi e che sperano di inserirsi nel business italiano
della previdenza integrativa e dei fondi pensione privati.
Da tempo cerchiamo ascolto presso la politica affinché ci si renda conto dell’insostenibilità
di questa specifica situazione e si ponga rimedio rapidamente, riducendo l’aliquota, in
linea con quelle del lavoro autonomo.
A ciò si aggiunge una normativa fiscale, particolarmente acida nei nostri confronti, tale per
cui buona parte dei costi che sosteniamo sono considerati “indeducibili”. Una filosofia
fiscale che parte dal presupposto che noi, come tutto il lavoro autonomo, siamo evasori
fiscali. Pochi ricordano che il professionista senza ordine lavora quasi esclusivamente per
1
imprese e per amministrazioni pubbliche, ambiti nei quali è strutturalmente impossibile
fare prestazioni in nero.
Aggiungiamo infine che le nostre prestazioni professionali per il settore pubblico essendo
gravate – come tutte - dal 20% di IVA – imposta che il datore di lavoro pubblico non può
compensare - comporta nei fatti una corrispondente riduzione delle nostre tariffe.
Chi di noi lavora con il settore pubblico, percepisce di netto il 30% di quanto fattura al
lordo di iva.
Siamo infine una categoria esclusa da qualsiasi forma di ammortizzatore sociale. Anche su
questo tema è molto elevato il rischio di demagogia e di soluzioni più dannose del male
che vorrebbero curare.
Riteniamo infatti che, chi per scelta o per necessità, ha deciso di fare il professionista, non
possa avere accesso al tipo di assicurazione pubblica contro la disoccupazione praticata
per il lavoro dipendente o para-subordinato. Ciò perché è assai difficile dimostrare una
condizione di disoccupazione per un professionista.
Vi è tuttavia la necessità di sostenere il reddito per chi si trova nel corso dell’anno o della
vita a non raggiungere una soglia minima. Si dovrebbe allora discutere di reddito minimo
di inserimento o di cittadinanza. Ma ciò riguarda tutti i cittadini e tutte le famiglie e
certamente non solo i professionisti.
Condivido l’analisi e le proposte di U. Trivellato1 in cui si denuncia il limite degli attuali
ammortizzatori sociali italiani i quali intervengono solo nella prima fase dei periodi di
disoccupazione e di conseguenza trascurano i rischi di povertà, casi per i quali non è
prevista in Italia alcuna forma strutturata di “reddito di ultima istanza” come invece in
molti Paesi europei.
Di un tale strumento, da tarare più sulla situazione familiare che su quella del singolo, i
beneficiari dovrebbero essere tutti coloro che non riescono a raggiungere una soglia
minima di reddito e tra di essi anche le persone in cerca di prima occupazione, i
disoccupati di lunga durata ed i lavoratori autonomi in stato di povertà; interventi da
gestire affiancando il trasferimento monetario con adeguate azioni di aiuto all’inserimento
lavorativo.
Dato il carattere universale di tale copertura, le modalità di finanziamento dovrebbero
essere poste a carico della fiscalità generale, andando a razionalizzare ed assorbire l’attuale
spesa in materia di assistenza sociale.
Ciò consentirebbe peraltro di riportare gli altri ammortizzatori sociali - quelli rivolti ai
disoccupati in senso stretto- all’interno della logica assicurativa in cui il costo è sostenuto
dai contributi dei lavoratori e delle imprese2.
Per quanto riguarda i professionisti senza Albi, più che ammortizzatori sociali, da anni
chiediamo giustizia fiscale: sgravi fiscali e contributivi sulla porzione di reddito
assimilabile al TFR del lavoratore dipendente ed abolizione del sistema di calcolo che ci
costringe a pagare l’IVA e l’IRPEF anche sulla rivalsa previdenziale al committente.
B. Anastasia, M. Mancini e U. Trivellato; Il sostegno al reddito dei disoccupati: note sullo stato dell’arte. Tra
riformismo strisciante, inerzie dell’impianto categoriale e incerti orizzonti di flexicurity; in Rapporto CNEL 2009.
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Si tenga conto che nella media 2003-2007 la spesa dei vari ammortizzatori sociali contro la disoccupazione
ammontava a circa 9 miliardi mentre le entrate per contributi ammontavano a circa 8 miliardi di euro.
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Invece dalla politica e da tutti i governi, siamo trattati come una cassa a cui attingere per
colmare i buchi creati da altre categorie, ad esempio per risolvere il problema dello
“scalone”, come ha fatto l’ex ministro Damiano o per incrementare il fondo per l’indennità
di disoccupazione dei parasubordinati come voleva fare l’On Cazzola chiedendoci di
contribuire con un 0.5%.
Siamo infine molto critici con le agevolazioni per i cd. contribuenti minimi introdotte dal
Governo Prodi. Fenomeno che ha creato una esagerata situazione di vantaggio per chi
fattura meno di 30mila euro l’anno e di fatto va a premiare chi svolge un doppio lavoro.
Nella riflessione collettiva che ACTA ha sviluppato in questi anni ci sta il concetto per cui
una nazione sviluppata ha tutto l’interesse a favorire forme di occupazione autonoma in
cui la personale assunzione di responsabilità verso il proprio futuro professionale si
associa all’esercizio di competenze riconosciute necessarie dal mercato. Il tutto senza oneri
per lo Stato e consentendo a questi lavoratori di sperimentare in proprio forme più
flessibili di adattamento tra tempi di vita e di lavoro.
Invece, con il passare degli anni ci rendiamo conto che le risposte della politica vanno tutte
in senso contrario, come se vi fosse una volontà di ostacolare, frenare o addirittura punire
chi – per scelta o per necessità – si trova a lavorare nella forma del professionista senza
Albo.
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