La lingua parlata dei Romani

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La lingua parlata dei Romani
La lingua parlata si differenzia da quella scritta per un rapporto stretto tra chi parla e chi
ascolta, per un “botta e risposta” caratterizzato dal sovrapporsi di più voci che ne accrescono la
tensione emotiva. Soprattutto nelle commedie, quindi, si possono ravvisare elementi tipici del
linguaggio parlato. J.B. Hofman ha studiato le opere di Plauto e Terenzio e le lettere ciceroniane,
individuando una casistica di espressioni e costrutti grammaticali diversi dal latino classico e
probabilmente attinti dalla parlata popolare. Abbondanza di interiezioni, accusativi esclamativi,
imprecazioni, ripetizioni rafforzative, un uso più libero dei pronomi personali per il linguaggio
colloquiale, più in generale, una ridondanza che mira a ribadire il proprio punto di vista, accanto a
doppi comparativi e a pleonasmi naturali nella retorica popolare, sono i principali tratti distintivi del
linguaggio plautino. Essi ne evidenziano il sapore colloquiale, accanto all’uso di termini più
evocativi al posto di parole “incolori” (es: narro per dico). Da notare anche l’aggiunta di un suffisso
con lo scopo di rafforzare i verbi semplici, nonché i diminutivi – sia nei sostantivi che negli
aggettivi - che articolano un’amplia gamma di emozioni. Inoltre, in Plauto si ravvisa la rapidità del
dialogo, tipica di ogni linguaggio parlato. I dialoghi plautini sono zeppi di anacoluti e
contaminazioni. Per tutti, l’espediente di menzionare in apertura di discorso l’argomento centrale,
dando luogo al cosiddetto nominativus pendens (Miles gloriosus 1156 sg.). A causa di questa
grande fecondità lessicale, Varrone giudicò Plauto imbattibile in sermonibus (Saturae Menippeae
399 Bücheler). Un diluvio di parole in cui l’influenza greca è evidente in molti campi: dalla
cosmesi allo sport, alla nautica. Termini mutuati dal greco che, di sicuro, gli spettatori romani delle
commedie dovevano comprendere. Si tratta di prestiti greci non introdotti dalle classi colte, ma
assimilati dai plebei che coi Greci avevano contatti. Non a caso, tali espressioni sono presenti per lo
più sulla bocca di schiavi e personaggi del popolo. Un esempio:il colaphus di Plauto è il colopus
parlato e deriva da κoλαφοσ “una botta in testa”, mentre Petronio impiega il verbo percolopare. Da
cui l’italiano colpo e il francese coup.
Eppure sarebbe semplicistico identificare tout court il linguaggio plautino con quello
popolare. Nella struttura grammaticale Plauto non si discosta troppo dal latino classico. Gli stessi
arcaismi ricorrenti sono confinati alla fine del verso, secondo schemi precisi e sono presenti nei
senari e non nelle misure lunghe (come, del resto, si riscontrerà in Terenzio). Il che fa pensare a una
lingua “costruita”. Quindi diversa dall’idioma parlato.
Stesso discorso per le lettere ciceroniane, che contengono (come rileva H. Hafter) “studiati
accorgimenti stilistici” (per esempio nella figura etimologica) per esprimere passaggi di intensa
emotività.
Pure nei senari terenziani, tuttavia, siamo lontani dal linguaggio quotidiano dell’età di
Annibale e il colloquiale e lo stilizzato si intrecciano. Terenzio ci introduce in un mondo linguistico
più pacato: Plauto parla del popolo; Terenzio del colto circolo degli Scipioni. Quella di quest’ultimo
è una lingua raffinata, con meno ingiurie e maggiore concisione. Troviamo l’uso dell’interruzione,
l’assenza di fronzoli, la presenza di un non isolato in una risposta negativa col verbo ausiliare che si
ricava dalla precedente domanda (Phormio 474). La lingua di Terenzio è lontana dal linguaggio
della vita di ogni giorno. Sebbene di due generazioni più giovane, egli risulta più arcaico di Plauto,
utilizzando accorgimenti stilistici propri della lingua letteraria arcaica. Non a caso, Cicerone lo loda
per “l’eletto linguaggio”, ma lo biasima per mancanza di vigore.
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