Agenzia SIR – SERVIZIO INFORMAZIONE RELIGIOSA

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Progetto IdR e NEWS
martedì 26 febbraio 2013 (n. 15)
Tema: SALIRE SUL MONTE
LA RINUNCIA DEL PAPA (2)
NOTIZIA
Ha parlato del “primato della preghiera” Benedetto XVI, stamattina, nel suo ultimo Angelus con le migliaia di fedeli
che hanno riempito piazza San Pietro, prima di lasciare, giovedì 28 febbraio alle ore 20, il ministero petrino. La
preghiera, ha avvertito il Papa, “non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni”, ma “riconduce al cammino,
all’azione”. Ed è a una vita “ancora di più” dedicata “alla preghiera e alla meditazione” che ora il Signore lo chiama
per continuare a servire la Chiesa “con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui l’ho fatto fino ad ora”.
(da Sir Attualità, 24 febbraio 2013)
APPROFONDIMENTI
------------------------------------------------------------------------------------------------------ In preghiera sempre vicini
Un nuovo “esodo”. “Grazie per il vostro affetto”, ha esordito il Pontefice, prima di spiegare il Vangelo odierno. Nella
seconda domenica di Quaresima “la liturgia ci presenta sempre il Vangelo particolarmente bello della Trasfigurazione
del Signore”. L’evangelista Luca pone “in particolare risalto il fatto che Gesù si trasfigurò mentre pregava: la sua è
un’esperienza profonda di rapporto con il Padre durante una sorta di ritiro spirituale che Gesù vive su un alto monte
in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre discepoli sempre presenti nei momenti della manifestazione divina
del Maestro”. Il Signore, che poco prima aveva preannunciato la sua morte e risurrezione, offre così “ai discepoli un
anticipo della sua gloria”. E anche nella Trasfigurazione, come nel battesimo, “risuona la voce del Padre celeste:
‘Questi è il figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!’”. La presenza poi di Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti
dell’antica Alleanza, è “quanto mai significativa: tutta la storia dell’Alleanza è orientata a Lui, il Cristo, che compie
un nuovo ‘esodo’, non verso la terra promessa come al tempo di Mosè, ma verso il Cielo”. L’intervento di Pietro,
“Maestro, è bello per noi essere qui”, rappresenta “il tentativo impossibile di fermare tale esperienza mistica”. Il
Santo Padre ha ripreso, quindi, un commento di sant’Agostino: “[Pietro] … sul monte … aveva Cristo come cibo
dell’anima. Perché avrebbe dovuto scendere per tornare alle fatiche e ai dolori, mentre lassù era pieno di sentimenti
di santo amore verso Dio e che gli ispiravano perciò una santa condotta?”.
Il primato della preghiera. Meditando questo brano del Vangelo, per Benedetto XVI, “possiamo trarne un
insegnamento molto importante”. Innanzitutto, “il primato della preghiera, senza la quale tutto l’impegno
dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo”. Di qui l’invito: “Nella Quaresima impariamo a dare il giusto
tempo alla preghiera, personale e comunitaria, che dà respiro alla nostra vita spirituale”. Inoltre, “la preghiera non è
un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce
al cammino, all’azione”. “L’esistenza cristiana – ha continuato il Papa, richiamando un passaggio del suo Messaggio
per questa Quaresima – consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando
l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio”.
“Salire sul monte”. “Questa Parola di Dio – ha confessato il Pontefice, interrotto da scroscianti applausi - la sento in
modo particolare rivolta a me, in questo momento della mia vita. Il Signore mi chiama a ‘salire sul monte’, a
dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione”. Ma, ha evidenziato, “questo non significa abbandonare la
Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso
amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”. Il Santo Padre
ha poi invocato l’intercessione della Vergine Maria: “Lei ci aiuti tutti a seguire sempre il Signore Gesù, nella preghiera
e nella carità operosa”.
Il grazie a tutti per l’affetto. “Ringraziamo il Signore per il po’ di sole che ci dona”, ha esortato Benedetto nei saluti
in varie lingue, nei quali ha voluto, come la settimana scorsa, ancora ringraziare tutti per la vicinanza in questo
momento. In francese ha ringraziato “di tutto cuore” per le preghiere e l’affetto manifestatogli in questi giorni.
“Ringrazio ciascuno per le espressioni di gratitudine, affetto e vicinanza nella preghiera che ho ricevuto”, ha
affermato in inglese. In tedesco ha ringraziato tutti per “i tanti segni di vicinanza e di affetto, in particolare per la
preghiera”. Ringraziamenti anche in spagnolo per “le tante testimonianze di vicinanza e preghiere che gli sono giunte
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in questi giorni” e in portoghese: “Vi sono grato per la vostra presenza e per tutte le manifestazioni di affetto e
solidarietà, in particolare per le preghiere con le quali mi state accompagnando”. Ancora in polacco: “Vi ringrazio del
ricordo e della manifestazione di benevolenza che da voi ricevo in questi giorni e in modo particolare per le
preghiere”, ha dichiarato. “Il Vangelo di oggi - ha aggiunto - ci conduce sul monte Tabor, dove Cristo ha svelato
davanti ai discepoli lo splendore della sua divinità e diede la certezza che attraverso la sofferenza e la croce possiamo
raggiungere la risurrezione. Dobbiamo saper scorgere la Sua presenza, la Sua gloria e la Sua divinità nella vita della
Chiesa, nella contemplazione e negli eventi di ogni giorno”. Infine, rivolgendosi ai pellegrini di lingua italiana, ha
ricordato che “sono presenti numerosi rappresentanti di diocesi, parrocchie, associazioni e movimenti, istituzioni,
come pure tanti giovani, anziani e famiglie. Vi ringrazio per l’affetto e la condivisione, specialmente nella preghiera,
di questo momento particolare per la mia persona e per la Chiesa. In preghiera siamo sempre vicini”.
(da Sir Attualità, 24 febbraio 2013)
- Ma il popolo ha capito
A poche ore dal termine del pontificato di Benedetto XVI conviene provare a interrogarsi sul modo in cui la gente
comune ha inteso la decisione del Papa. Non si tratta di ritornare sulle parole pronunciate durante il Concistoro
dell’11 febbraio e neanche sulla loro corretta interpretazione e applicazione. Piuttosto, si tratta di capire se i fedeli e
la gente comune hanno capito sino in fondo la volontà di Benedetto XVI. L’indagine, naturalmente, non è facile e le
risposte saranno necessariamente parziali.
Intanto, bisogna riconoscere un fatto. La decisione del Papa di rinunciare al ministero petrino ha creato ovunque un
certo senso di smarrimento e di disorientamento, a motivo della sua assoluta novità. È vero che durante gli ultimi anni
del pontificato del beato Giovanni Paolo II, quando egli appariva sempre più fisicamente in declino, ci s’interrogava
sulla possibilità di una sua eventuale rinuncia. Si diceva che era possibile, che già qualcun altro nella storia lo aveva
fatto. È vero anche che Benedetto XVI nel libro intervista “Luce del mondo” di Peter Seewald, uscito nel 2010,
rispondendo a una domanda sulle sue possibili dimissioni diceva: “Ci si può dimettere in un momento di serenità, o
quando semplicemente non ce la si fa più”. Tuttavia, le dimissioni sembravano una possibilità assolutamente remota e
quando sono arrivate sono sembrate un fulmine a ciel sereno.
Insomma, la gente non era preparata e non poteva esserlo. A questo punto, alcuni - peraltro pochi - hanno
manifestato il loro disorientamento affermando semplicemente che un Papa non può dimettersi e hanno ricordato la
scelta di Giovanni Paolo II, che è stata diversa. Addirittura, non è mancato chi ha fatto proprio il severo giudizio che il
sommo poeta ha dato alla scelta di Celestino V e che resta un retaggio degli studi classici di tanti italiani. Però, al di
là di una certa asprezza è sembrato emergere un senso di smarrimento, perché credenti o non hanno sempre visto il
Papa come una figura paterna, da cui lasciarsi guidare o con cui essere in disaccordo; ma sempre un padre. Così a
molti è sembrato di essere diventati orfani.
I più, invece, hanno accettato, per così dire, che Benedetto XVI abbia deciso di farsi da parte. Ma qui c’è
un’importante distinzione tra chi ha accolto con fiducia le motivazioni espresse dal Papa ai cardinali e chi ne ha
immaginate altre. Per i primi non è stato difficile comprendere che Benedetto XVI uomo come tutti, non riuscisse più,
arrivato ormai all’età di 86 anni, a governare la Chiesa. Le forze declinano per tutti e nessuno è eterno o onnipotente.
La vecchiaia è così: felice chi la assume responsabilmente come periodo di minor efficienza e occasione per
comunicare ad altri l’esperienza di una vita o per coltivare maggiormente le relazioni umane. Il Papa - sempre
secondo questa prima fascia di persone - ha dimostrato di non essere attaccato al potere, ha mostrato l’umiltà di farsi
da parte e di nascondersi al mondo. I credenti, illuminati dalla parola del Vangelo, hanno realmente visto in questo
gesto il riconsegnare la guida della Chiesa a colui che è il Pastore dei pastori, a colui di cui ogni Pontefice è “solo”
vicario.
Per altri, probabilmente i più numerosi, le motivazioni presentate da Benedetto XVI non sarebbero vere o almeno
insufficienti: ci dovrebbe essere dell’altro! Su questi hanno avuto grande peso molti mezzi di comunicazione, che
esercitano oggi un potere non meno forte delle dittature, perché comandano che cosa pensare e che cosa credere.
Solitamente procedono per tesi preconcette e non riescono a vedere la realtà dei fatti. Assolutizzano alcune cose,
facendone la chiave interpretativa di tutto, sempre la stessa. Così ad esempio, la denuncia che l’allora cardinale
Ratzinger aveva fatto durante la “Via Crucis” del 2005, pochi giorni prima di diventare Papa, circa la sporcizia che c’è
nella Chiesa, è diventata la vera spiegazione al motivo della sua uscita di scena. Il Papa se ne andrebbe via sconfitto e
amareggiato per non aver tolto di mezzo i mali della Chiesa.
Ora, nessuno può negare che alcuni uomini e alcune donne nella Chiesa non vivano coerentemente con il Battesimo e
con la chiamata alla perfezione del Vangelo. Questo avviene ancora oggi, ma è stato anche in passato in forme
davvero preoccupanti. Eppure la Chiesa non è solo “sporcizia”! Quanti credenti nel silenzio spendono le proprie
energie in coerenza con gli insegnamenti di Cristo e accrescono quotidianamente la santità e anche la credibilità della
Chiesa. La loro presenza è per lo più ignorata dalla maggior parte di coloro che si occupano della Chiesa, convinti
come sono che ci siano solo intrighi, debolezze, arrivismi, scandali.
In realtà, conviene dirlo, il Papa queste cose le ha combattute e ha posto in atto una riforma, che è solo agli inizi e
che il successore continuerà con rinnovato vigore. La storia renderà giustizia.
(Marco Doldi – Sir Attualità, 25 febbraio 2013)
2
- Ortodossia al culmine
Un non credente, appassionato di Sacre Scritture. Appassionato al punto da imparare la lingua originale dell’Antico
Testamento, l’ebraico antico; al punto da mettersi alla prova con traduzioni molto letterarie come nel caso di
“Esodo/Nomi” (1994), di “Giona/Ionà” (1995), di “Kohèlet/Ecclesiaste” (1996) e del “Libro di Rut” (1999). “Sono un
appassionato semplice, un lettore semplice ma assiduo di queste Scritture, semplice perché sono non credente. Sono
un non credente quindi, non un ateo, non escludo Dio dalla vita degli altri, dal fatto che gli altri possono ospitare
questa rivelazione grandiosa, che io non riesco a ospitare. Non la escludo dalla vita degli altri e vedo nella vita degli
altri dei segni consistenti di questa rivelazione. Ci sono delle tracce nella vita degli altri, ma non nella mia”. A
parlare è lo scrittore, traduttore e poeta, Erri De Luca, che nei giorni scorsi a Mandela, piccolo centro della
provincia di Roma, in un incontro promosso dall’Associazione Università delle tre età, ha risposto a numerose
domande del folto pubblico presente, ripercorrendo i tratti essenziali della sua arte e i temi a lui cari, a partire dai
ricordi d’infanzia, dall’amore per i libri, per la scrittura e, appunto, per le Sacre Scritture. A margine dell’incontro,
il Sir lo ha incontrato e gli ha posto alcune domande, a partire dalle ultime vicende legate alla rinuncia di Benedetto
XVI.
Cosa pensa della rinuncia di Benedetto XVI?
“Siamo in una fase storica, un momento intenso della vita della Chiesa. Credo che Benedetto XVI abbia fatto bene ad
anticipare i tempi della sua rinuncia per lasciare libero spazio a questa dialettica che esiste all’interno della Chiesa.
Ci sono scontri forti di posizioni e vedute che si sovrappongono e non mi riferisco certo ai meri conflitti d’interessi di
cui sente parlare. La sua rinuncia è un solenne atto di umiltà. Riconoscere che le sue forze sono inadeguate
all’incarico è stato un atto di umiltà sconvolgente, specialmente per una persona che è stata sempre in cattedra,
stabilendo l’ortodossia della tradizione cristiana. Ha riconosciuto un proprio deficit e io lo ammiro per questo suo
sconvolgimento personale”.
Si avvicina il momento del Conclave...
“Penso che i cardinali elettori avranno un compito difficilissimo. Spero che esca un giovane Papa-pastore che riannodi
le fila della Chiesa e che magari pensi anche a un Concilio Vaticano III”.
Come giudica questi otto anni di pontificato di Benedetto XVI?
“È stato un pontificato di alto livello intellettuale, forse più debole sul piano dell’impatto della Chiesa sul mondo
moderno. La Chiesa si è irrigidita arroccandosi intorno a questa supremazia intellettuale. Ma la Chiesa ha sempre
avuto questa frequenza di onde in cui scende al fondo della realtà, sporcandosi le mani e altre di assestamento e di
ricorso all’ortodossia. Questa fase dell’ortodossia ha raggiunto il suo culmine con papa Ratzinger”.
Da appassionato delle Scritture come ha detto di essere, cosa pensa dell’invito di papa Ratzinger, lanciato per
l’Anno delle fede, a riscoprire la Bibbia?
“L’esortazione a riscoprire il gusto di nutrirci delle Scritture Benedetto XVI l’ha mutuata da Giovanni Paolo II e
chiaramente dal Concilio Vaticano II. Ma la parola non è, a mio avviso, solo quella codificata e commentata nelle
Scritture, è anche quella che sorge continuamente nell’ambito dell’intervento sul campo. È parola quella di un prete
di frontiera, che sta a Scampia, per esempio. Anche quella è parola che diventa avvenimento e azione. Parola che
porta conseguenza”.
Come laico non credente, pensa che, in questo pontificato, il dialogo fede-ragione abbia fatto dei passi in avanti?
“Penso che la fede si sia sempre dovuta misurare con la ragione e il rapporto ha fatto sempre dei passi in avanti. La
Chiesa li ha resi concreti con iniziative come quelle del cardinale Martini, con la cattedra dei non credenti, o di
Benedetto XVI con il Cortile dei gentili cui ho partecipato (Firenze, 17 ottobre 2011, in dialogo con Antonio Paolucci,
direttore dei Musei Vaticani, ndr). È un luogo aperto in cui si può esprimere con chiarezza il proprio pensiero senza
sentirsi fuori tema”.
Vede progressi anche nel campo del dialogo interreligioso?
“Sul piano del dialogo con le religioni non vedo grossi passi avanti. Le religioni possono dialogare ma non convergere.
Le religioni monoteiste non sono conciliabili, non possono formare una federazione di monoteismi”.
Tornando alle Sacre Scritture, da dove nasce la sua passione per lo studio e la conoscenza dell’ebraico antico?
“L’ebraico antico è il testo originale della nostra civiltà religiosa e, per questo, desideravo sapere come era fatta
quella storia che aveva preso la parola e l’aveva messa al gradino più alto della comunicazione. Una parola, quella
della divinità, per esempio, che fa avvenire le cose e il mondo, che anticipa i sei giorni della creazione. Più in alto di
così questo nostro strumento di comunicazione non è mai arrivato. Sopra vi è quel vertice non pareggiabile
dell’effetto e della responsabilità della parola. La divinità si lega al creato con la parola e ne diventa responsabile”.
In questi anni giudica cresciuta l’attenzione dei cristiani per le Scritture?
“Difficile rispondere a questa domanda, forse... non saprei”.
Se così non fosse, vede il rischio che queste possano diventare una sorta di “lingua morta”?
“Le Scritture non diventeranno mai una lingua morta, casomai chiediamoci cosa fare per evitare che diventino una
lingua criminale, usata per aizzare divisioni, crisi e conflitti”.
(Daniele Rocchi – Sir Attualità, 25 febbraio 2013)
3
- Le tre finestre
Come ci si congeda da un Papa? Da un Papa che, con la sua rinuncia, ha cambiato e cambierà per sempre la storia
della Chiesa. È questo il pensiero dominante oggi. A chiederselo sono le migliaia di fedeli che si sono messi in
cammino, verso la stessa piazza, per un commiato finora inedito: un commiato “annunciato”, o meglio preparato,
reso possibile da parole chiare, cristalline - prima davanti ai cardinali, poi ai fedeli, prima in latino, poi in italiano che con lucida e serena consapevolezza si sono bagnate nell’umiltà e purificate grazie alla capacità di porsi al
cospetto di Dio per trovare la forza di una decisione clamorosa, ma meditata nell’interiorità più profonda della
propria coscienza, interrogata costantemente dalla preghiera. Per il bene della Chiesa.
La rinuncia al soglio di Pietro è qualcosa d’inedito per questo secolo, nessuno può essere pronto a un evento del
genere. Eppure, girando per la piazza, quello che si percepisce sui volti che la popolano - famiglie con bambini e
passeggini al seguito, anziani, ma soprattutto giovani, tanti giovani - è il sentimento di grande rispetto e condivisione
per la decisione di Benedetto XVI. Di amore filiale per il proprio Papa. Anche se non è facile congedarsi da lui. È il
“grazie” il tono della piazza, scritto in tutte le lingue sugli striscioni multicolori. E poi c’è il grazie semplice di due
ragazzi, meno di quarant’anni in due: sono partiti da Cuneo, ci racconta Giuseppe, 20 anni. “Grazie da Cuneo”,
recita, infatti, il loro piccolo cartello artigianale, scritta rossa in campo bianco. “Siamo arrivati ieri, ci è sembrato
naturale essere qui. Non poteva nessuno, siamo partiti noi”. È tranquillo, sereno, dal suo modo di parlare garbato e
timido traspare la gioia. Sa che il Papa continuerà a pregare per noi, a stare con noi in un altro modo.
La forza di un gesto straordinario, senza precedenti nella storia moderna del Papato - preso proprio “commisurando”
le proprie forze - e la normalità di una “agenda”, quella quotidiana, che non cambia. Anche qui - tra questi due binari
- sta la grandezza di un Pontefice che ha scelto il culmine dell’anno liturgico - il tempo di Pasqua - per comunicare ai
fedeli il suo modo nuovo di essere con loro. Sarò con voi, anche se “nascosto al mondo”. Perché la preghiera non è un
isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come ha spiegato lui stesso recitando l’Angelus. Un padre non si
dimentica mai dei suoi figli: ma ci sono stagioni in cui le modalità della presenza, dell’accompagnamento,
dell’accudimento possono, e a volte persino debbono, cambiare. Non per abbandonare i propri figli al loro destino, ma
per chiedere loro un “salto”, una crescita, una maturazione. Che passa - come per il loro padre - anche dalla Croce,
ma proprio per poter acquistare, una volta per tutte e mai su questa terra come possesso esclusivo, la pienezza della
“gioia” della Resurrezione. “Salire sul monte” non significa abbandonare la Chiesa, dice il Papa, e la folla lo
applaude, come poco prima, quando aveva fatto riferimento a questo momento particolare per la sua vita.
Benedetto XVI chiama, il suo popolo risponde. Oltre 100mila persone sono oggi qui, nonostante la minaccia di pioggia
incombente e l’arrivo, invece, del sole, a illuminare la piazza un’ora prima dell’appuntamento. La gente, questo
popolo, ha capito il suo Papa. Perché la logica dei fedeli non è quella dei media. Basta uno striscione per dimostrarlo,
nove parole in tutto. C’è scritto: “Abbiamo capito, continueremo ad amarti, grazie, i tuoi giovani”. Sono una trentina,
vengono da Capannoli, in provincia di Pisa, diocesi di San Miniato: per l’occasione hanno riunito il gruppo giovanile.
Occhi svegli, quelli di Marco, sprizzano arguzia e intelligenza. Per lui, la scelta del Papa è una scelta “normale”, di un
uomo che ha fatto i conti con la sua età, ma anche di “coraggio”, perché non insegue la ricerca del potere a tutti i
costi. Applaude anche Marco, come il resto della folla, quando il Papa assicura che continuerà a servire la Chiesa con
lo stesso amore e la stessa dedizione di prima, ma in modo più adatto alla sua età e alle sue forze.
Gli sguardi in su. Come sempre, durante un appuntamento familiare come l’Angelus, verso quella finestra. Ma oggi, le
migliaia di persone che affollano piazza San Pietro hanno una consapevolezza in più, difficile da metabolizzare.
Benedetto XVI, da quella finestra, non si affaccerà più per salutare il suo popolo. Lo vedremo ancora sul sagrato della
piazza, tra tre giorni, per l’ultima udienza del mercoledì. Ma da quella finestra, no... Il pontificato di Benedetto XVI è
stato una finestra aperta sul mondo. Che ci ha insegnato a tenere lo sguardo fisso su Gesù. Perché la Chiesa è di Gesù,
che non le farà mai mancare nulla, come ha detto il Papa spiegando - in italiano, dopo l’annuncio in latino durante il
Concistoro - le motivazioni della sua scelta ai fedeli. È questa, nella Chiesa, la vera comunicazione. Occhi negli occhi,
lo sguardo rivolto verso l’alto. Quella finestra, la stessa da cui Giovanni Paolo II aveva pronunciato il suo ultimo
Angelus muto, continua a “parlarci”. La folla della piazza di oggi lo sa. Prova un senso di umana tristezza per il
commiato dal suo Papa. Ma sa anche immaginarlo “affacciato” a un’altra finestra, “nascosto al mondo”. Quella
dell’ex convento sul Colle Vaticano dove ha deciso di andare a vivere, dopo i due mesi a Castel Gandolfo. “Nella
preghiera siamo sempre vicini”, le ultime parole a braccio dell’Angelus, riconoscenti per l’affetto e la condivisione di
tanti giovani, anziani e famiglie italiane. Vengono meno le forze fisiche, ma aumenta il vigore che viene dal silenzio e
dalla preghiera. Anche, e soprattutto questo, è “cambiare pagina” nella storia della Chiesa.
(M. Michela Nicolais – Sir Attualità, 24 febbraio 2013)
- Suo il coraggio della verità
“Genova ama il Papa. È sempre stato nella sua storia e continua ad esserlo”. Lo ha affermato l'arcivescovo di Genova
e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, al termine della Messa per il Papa Benedetto XVI che ha
celebrato oggi pomeriggio nella Cattedrale di San Lorenzo. Ringraziando i numerosi fedeli accorsi in Chiesa ha
affermato: “La vostra presenza oggi è motivo di grande gioia e di grande speranza per la Chiesa”.
Benedetto XVI esempio per la Chiesa. Nell'omelia aveva affermato che “sulla strada della riforma spirituale e della
conversione, Benedetto XVI ci sospinge con la parola e l'esempio per un rinnovamento della Chiesa”. Il Papa “ha
indicato nella fede la questione principale e non si è mai stancato nel richiamarci al primato di Dio”. Con il suo
magistero, ha detto ancora il cardinale Bagnasco, ci ha ricordato che “mettere al centro della nostra vita Dio o il
nostro io è la questione decisiva non solo per essere discepoli ma anche per essere messaggeri del Vangelo”. Ha quindi
ricordato le parole pronunciate dal Papa nell'Angelus del 17 febbraio 2013 a proposito delle tentazioni: “Il loro nucleo
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centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi dando più importanza al successo o ai beni
materiali. Il tentatore è subdolo: non spinge direttamente verso il male ma verso un falso bene”.
Da fedeli onda di incontenibile affetto. “Le reazioni molteplici che si sono succedute alla inattesa notizia” della
rinuncia del Papa, ha proseguito, “sono state di dolore e di immediato sconcerto ma soprattutto sono state un'onda
incontenibile di affetto per un Pastore che è entrato nel cuore di tutti con discrezione in punta di piedi e ha offerto
alla Chiesa e al mondo le parole antiche della vita e dell'amore, della misericordia e della salvezza”. Di Benedetto
XVI, il cardinale ha ricordato la “paternità intrisa dall'attenzione e tenerezza che la sua riservata persona emana” e
“l'ascolto attento, il domandare puntuale, la parola lucida” durante gli incontri avuti come presidente della Cei.
Attenzioni, ha aggiunto, che “mi hanno fatto toccare l'affetto del Papa per la Chiesa che è in Italia”. “Siamo qui per
fargli arrivare il nostro abbraccio spirituale tramite la via più sicura ed efficace, l'Eucaristia” ha detto ancora il
cardinale. “Egli resterà sempre nei nostri cuori e nella nostra preghiera, così come ha chiesto di recente”.
La Chiesa è realtà vitale. “La Chiesa - ha affermato ancora il cardinale - è un mistero. Non è un'organizzazione ma un
organismo, una realtà vitale, è il 'noi' dei credenti nell' 'io' di Cristo. Per questo, guardare la Chiesa con occhi solo
umani non coglie la realtà piena, resta in superficie”. Inoltre, ha aggiunto il cardinale, la Chiesa “nonostante
difficoltà e ostacoli è salda nelle mani del suo Signore e guarda avanti con serena fiducia”. L'arcivescovo ha ricordato
che “il coraggio della verità, in Papa Benedetto, non è mai stato freddo o arcigno perché è il coraggio dell'amore: esso
proviene da Dio che è verità e amore. E' sostenuto dalla consapevolezza che solo questa, anche se controcorrente, è
la strada della vita e della felicità, il segreto del bene dell'umanità vera”. Infatti, “lontano, l'uomo crede di essere
padrone di sé mentre invece diventa preda di sé, si crede libero, senza legami, mentre si fa prigioniero di mostri che
lo divorano perché più astuti e lungimiranti”.
Ha parlato con coraggio al mondo. Il Papa non si è “mai tirato indietro” neppure “quando è stato investito da
critiche e derisioni” ha detto ancora il cardinale ricordando “la chiarezza e il coraggio del Papa nel parlare al mondo
moderno affrontando le categorie più care alla contemporaneità come la coscienza individuale, la libertà, la laicità, e
tutte quelle questioni di ordine morale che tanto agitano la storia contemporanea”. Benedetto XVI “non ha mai avuto
timore o soggezione del pensiero unico che circola e spesso condiziona pesantemente il pensare comune” ma “ha
cercato le parole migliori per farsi intendere da tutti coloro che cercano sinceramente la verità e il bene senza mai
tirarsi indietro quando è stato investito da critiche e derisioni”.
Preghiamo per il Conclave. Al termine dell'omelia, il porporato ha rivolto una preghiera per il prossimo Conclave:
“”Mentre preghiamo per il Papa, vogliamo pregare con lui anche per il Conclave” e per il futuro Papa “che è già
presente nel cuore dello Spirito Santo”. Durante la Messa è stata anche letta una preghiera per il Conclave:
“Preghiamo per i Cardinali che saranno chiamati a scegliere il Successore di Pietro, affinché, docili all'azione dello
Spirito Santo, si lascino guidare dalla sua luce per il bene della Chiesa e dell'umanità”.
(da Sir Attualità, 24 febbraio 2013)
- Quei moti dell’animo
La prima cosa che balza agli occhi è la fretta mediatica, l’ansia di dare un volto sicuro e un nome sicuro a un’idea
sicura, e che l’idea sicura sia l’equivalenza assoluta Gran rifiuto=Celestino V. Questa equivalenza ci offre subito l’idea
di una mancanza di punti fermi e della disperata necessità di trovarli là dove non ci sono o sono traballanti. Perché se
avessero letto bene Dante, e se conoscessero bene le interpretazioni dantesche accumulatesi nei secoli, non
avrebbero messo su quell’equazione piuttosto facilona senza denunciarne i limiti. Il fatto è semplicemente che noi
non lo sappiamo se Dante in quell’abusata terzina “Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,/ vidi e conobbi l’ombra di
colui/ che fece per viltà il gran rifiuto” avesse in mente Celestino V: l’incognito ignavo posto nel III canto dell’Inferno
potrebbe essere, secondo molti altri, Ponzio Pilato, o Romolo Augustolo (che lasciò nel 476 il millenario trono
imperiale di Roma), solo per fare alcuni nomi. Dante poteva disapprovare Celestino per aver lasciato campo libero a
Bonifacio VIII, il suo nemico, ma aveva altrettanti e forti motivi per amarlo, soprattutto per la sua concezione
pauperistica e mistica del sacerdozio e del papato.
La fretta ha fatto dimenticare anche altre realtà, che, come aveva ben compreso Manzoni, non sono fatte solo della
stoffa pregiata dei grandi eventi, ma anche di quella più grezza della psiche umana, dell’animo che trepida, che
paventa, che subisce quegli eventi.
I media si sono interessati dei Pontefici che hanno lasciato il soglio, ma pochi hanno indagato i moti dell’animo di quei
Papi che hanno solo pensato alle dimissioni, pressati dalle malattie o dalle minacce esterne, come nel caso di Pio XII.
Nel 1972 il generale Karl Wolf, comandante delle SS in Italia, aveva rivelato l’esistenza di un piano, giunto a un passo
dalla realizzazione, per rapire il Pontefice. Il figlio dell’ufficiale incaricato della realizzazione del piano, Freytag von
Loringhoven, nel medesimo 1972, non solo confermò (ne parlò a dire il vero anche il cardinale Tardini), ma aggiunse
che il piano era stato ideato da Hitler in persona per punire un Pontefice che gli era ostile e un governo, quello
italiano (era stato progettato anche un attacco contro il re) che aveva fatto arrestare Mussolini capovolgendo i
delicatissimi equilibri in campo in quel fatidico luglio 1943: il Gran Consiglio, tra il 24 e il 25, aveva messo in
minoranza il duce. Pio XII venne a sapere della minaccia perché un responsabile del controspionaggio italiano aveva
parlato di un incontro, che avrebbe dovuto rimanere segreto, con ufficiali tedeschi a Venezia, in cui era stato rivelato
il piano. Qui ci sono due possibilità: o che i tedeschi abbiano deliberatamente informato il generale Amè per salvare il
Pontefice (Freytag von Loringhoven era amico di Canaris e von Stauffenberg e anche lui coinvolto nel fallito attentato
a Hitler) o che avessero tentato di servirsi del controspionaggio italiano per facilitarsi l’impresa. Altre fonti parlano di
un ripensamento, viste le conseguenze sull’opinione pubblica mondiale. Fatto sta che papa Pacelli aveva preparato
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già un foglio di dimissioni, perché se lo avessero rapito le SS avrebbero portato via “il cardinal Pacelli ma non il
Papa”.
Altri Pontefici pensarono seriamente a lasciare: ad esempio, Paolo VI. Il quale aveva scritto una lettera da
consegnare ai cardinali in caso di peggioramento delle sue condizioni di salute, contenente anche la preghiera di
accettare la rinuncia (nelle nuove regole introdotte da Giovanni Paolo II non è contemplata la possibilità di
approvazione o meno da parte dei cardinali). Una lettera mai resa nota, ma di cui si fa menzione nella Positio
approvata dalla Congregazione per le cause dei santi e in alcuni scritti dell’allora segretario del Papa, monsignor
Macchi. Papa Montini era allora - siamo nel 1978 - provato sia dalle sofferenze fisiche sia da quelle causate dal
rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, e morì poco dopo, il 6 agosto. La lettera di
rinuncia, cui, secondo alcune testimonianze, il Papa pensava da molto tempo, era divenuta inutile.
Ma anche Giovanni Paolo II pensò alla possibilità di scendere dal soglio pontificio, fin dal 1989, allorché iniziò a porsi il
problema di un limite di età per i vescovi e per lo stesso Pontefice. Il profilarsi di una malattia grave e un’operazione
lo fecero tornare sulla possibilità che un “impedimento” grave potesse rendere lecito l’abbandono del comando della
Chiesa per permettere ad altri una guida più sicura. La comparsa dei primi segni del morbo di Parkinson nel 1991 lo
costrinsero a ripensare a questa possibilità che poi venne scartata per evitare che nascessero pressioni sui Pontefici a
venire, come narra in un suo libro il cardinal Herranz, che fu interpellato in proposito dal Pontefice nel 2004.
(Marco Testi – Sir Attualità, 22 febbraio 2013)
- Allontanarsi per amore
“A casa si è là dove si ha il proprio rifugio. Lo spirito tuttavia non può rimanere nella sua calda, struggente patria. Per
questo si diparte. Esso ‘ama’ le colonie, si cerca, cioè, dimenticando coraggiosamente l’antica felicità, una nuova
patria da fondare, il luogo di un nuovo essere e rimanere a casa”.
Il grande filosofo Hans Georg Gadamer (1900-2002) ha posto in maniera affascinante la questione dei vari modi di
amare: lo ha fatto misurandosi, come spesso accade ai sensibili pensatori tedeschi, attenti alle voci profonde dell’io,
anche con la poesia, in un’opera di qualche anno fa, “Interpretazioni di poeti” (Marietti, 131 pagine). Per “colonie”
Gadamer, che è stato maestro dell’interpretazione dei testi biblici, intende l’andare oltre la patria, vale a dire amare
fino a tal punto da allontanarsi dall’oggetto del proprio amore per sentirne la struggente nostalgia. Il filosofo pone
con forza la convinzione che l’allontanarsi sia una prova di amore, non di disaffezione o delusione. Un motivo che in
questi convulsi giorni è tornato di grande attualità con il gesto di Benedetto XVI, conterraneo di Gadamer, il quale,
durante l’incontro con i parroci romani, è tornato sul tema del profondo legame tra allontanamento fisico e amore,
affermando che “anche se mi ritiro adesso sono sempre vicino in preghiera a tutti voi e voi sarete vicini a me, anche
se rimango nascosto per il mondo”.
Questo affascinante modo di intendere l’amore è stato affrontato non solo da Gadamer, ma, andando indietro nel
tempo, anche dal padre della nostra letteratura. In tutto il Purgatorio, ad esempio, spira un’aria di lontananza non
irredimibile tra l’uomo e l’oggetto - talvolta inconsapevole - del suo amore, il luogo vero d’origine, la casa del Padre.
Ma questa nostalgia (letteralmente “dolore del ritorno”) della casa paterna non è solo nell’atmosfera che regna sulle
balze del Purgatorio: appare tangibilmente in alcuni episodi in cui la lontananza (e Dante lo sapeva bene, essendo in
esilio) è anche radicale testimonianza d’amore. Questo elemento è visibile già nel celebre incipit del nono canto, “Era
già l’ora che volge il disio”, in cui il suono della campana che annuncia il vespro rende struggente l’amore per i luoghi
perduti, perché è proprio la loro lontananza che li rende più preziosi e cari.
Manifestare il proprio amore nella lontananza è un motivo ricorrente nella letteratura, perché vi rientra il grande
tema provenzale dell’amor de lonh, l’amore da lontano, che trova la sua ragion d’essere nella abissale distanza
dall’amata. Un tema laicissimo, si obietterà, diverso da quello di un pontefice che continua ad amare la sua patriaChiesa anche nella distanza del nascondimento al mondo. Se ci si pensa bene, in realtà non è così: alcuni, ad esempio
Denis De Rougemont in “L’amore e l’occidente” (Rizzoli, 463 pagine), hanno visto nell’amore da lontano dei
provenzali la presenza sotterranea di un messaggio religioso radicale, quello dei Càtari; lo stesso tema dell’amore
verso l’altro viene sublimato in Dante proprio attraverso l’assenza fisica della persona: Beatrice diviene “porta” della
salvezza grazie alla profonda sofferenza –e purificazione - che la sua scomparsa fisica impone a Dante; alla fine di
questo cammino penitenziale vi è la manifestazione del divino.
Ma in realtà l’assenza-vicinanza dal luogo amato, vista come forma dell’amore, fa parte integrante dell’agiografia
cristiana: si pensi alla redazione greco-romana della Vita di Sant’Alessio (una sua illustrazione medioevale è presente
nella chiesa inferiore di san Clemente a Roma) che parla del ritorno nell’Urbe del santo dopo la sua scelta di diventare
mendico: egli si pone come un comune vagabondo a chiedere la carità sotto la sua antica casa senza essere
riconosciuto dai genitori. La struggente nostalgia della casa perduta viene portata a conseguenze estreme. L’esempio
di questo santo, che convinse la sua futura sposa a rinunciare al matrimonio, si interseca con quello di un singolare
personaggio di Gilberth Keith Chesterton, il creatore del poliziotto-prete padre Brown. In “Le avventure di un uomo
vivo” (ne esistono varie edizioni, da Mondadori a Piemme, da Mursia a Morganti), il protagonista è uno strambo signore
che confessa alla fine “Sono uno che ha abbandonata la propria casa perché non poteva più sopportare d’esserne
lontano”: il suo amore infinito lo porta a lasciare la casa del suo cuore per sentirne tutta la spaventosa mancanza.
È ovvio che quelli qui riportati sono esempi diversi dall’evento cui stiamo assistendo in questi giorni. Ma ricordiamoci
l’assunto dal quale siamo partiti: il lasciare non sempre è segno di sfiducia e fuga, ma di un amore abissale che può
sfidare lo spazio e il tempo umani.
(Marco Testi – Sir Attualità, 19 febbraio 2013)
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DOCUMENTI
------------------------------------------------------------------------------------------------------ Sulla via del Conclave
Il Collegio dei cardinali, se sono tutti presenti, può anticipare la data d’inizio del Conclave rispetto ai 15 giorni
dall’avvio della sede vacante. Inoltre ha la “facoltà” di protrarre la data d’inizio sino al ventesimo giorno, qualora se
ne ravvisi la necessità. È la modifica più significativa contenuta nel Motu Proprio “Normas nonnullas”, che prevede
variazioni delle norme relative all’elezione del Romano Pontefice, diffuso oggi. Ad illustrarne le modifiche è stato,
nel briefing odierno, monsignor. Pierluigi Celata, vicecamerlengo. La modifica in questione, stabilita da Benedetto
XVI, è relativa al n. 35 della Costituzione apostolica “Universi Dominici Gregis”, emanata da Giovanni Paolo II il 22
febbraio 1996, che viene riformulato come segue: “Ordino che, dal momento in cui la Sede Apostolica sia
legittimamente vacante, si attendano per quindici giorni interi gli assenti prima di iniziare il Conclave; lascio
peraltro al Collegio dei Cardinali la facoltà di anticipare l’inizio del Conclave se consta della presenza di tutti i
Cardinale elettori, come pure la facoltà di protrarre, se ci sono motivi gravi, l’inizio dell’elezione per alcuni altri
giorni. Trascorsi però, al massimo, venti giorni dall’inizio della Sede Vacante, tutti i Cardinali elettori presenti sono
tenuti a procedere all’elezione”. La data del Motu Proprio di oggi porta la stessa data della “Universi Dominici
Gregis”: 22 febbraio.
Nessun escluso. “Nessun cardinale elettore potrà essere escluso dall’elezione sia attiva che passiva per nessun motivo
o pretesto”, è la prima delle norme che vengono modificate dal Motu Proprio, che riformula il n. 35 della “Universi
Dominici Gregis” e, in generale, vuole “assicurare il migliore svolgimento di quanto attiene” all’elezione del nuovo
Papa, garantendo “una più certa interpretazione e attuazione di alcune disposizioni”. Rispondendo alle domande dei
giornalisti, mons. Celata ha puntualizzato che un cardinale elettore ha la “libertà” di non partecipare, ma in tal caso
“si autoesclude” dal Conclave: “Chi all’inizio si è autoescluso - ha detto - non ha diritto di entrare. Se invece sta male
e poi si sente meglio, ha diritto di entrare, e si inserisce nello stato in cui si trova l’elezione”, che naturalmente non
ricomincia da capo. Per quanto riguarda le modalità concrete dell’elezione del nuovo Papa, le norme di oggi fanno
seguito all’unica modifica, finora, decisa da Benedetto XVI nei confronti della Costituzione del suo predecessore:
l’introduzione, nell’eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati, della maggioranza qualificata dei due terzi,
necessaria per un’elezione valida, e non più della maggioranza assoluta (50% + 1).
I voti necessari e la scomunica. Un altro punto che, per mons. Celata, si poteva “prestare a interpretazioni non
univoche, ed essere fonte di qualche confusione”, è il terzo comma del n. 62 della “Universi Dominici Gregis”, in cui
si legge che per la valida elezione del Pontefice servono i due terzi dei suffragi, che diventano “un suffragio in più”
nel caso in cui il numero dei cardinali presenti non possa essere diviso in tre parti uguali. Benedetto XVI ha modificato
questo punto stabilendo che per l’elezione valida del nuovo Papa “si richiedono almeno i due terzi dei suffragi,
computati sulla base degli elettori presenti e votanti”. Altra questione su cui il Papa “ha voluto fare chiarezza,
indicando subito la pena”, è quella del “rigoroso segreto” a cui sono tenuti “coloro che prestano la loro opera di
servizio per le incombenze inerenti all’elezione”: “Se una qualsiasi infrazione a questa norma venisse compiuta - si
legge nel n. 55 del Motu Proprio - gli autori di essa incorreranno nella pena della scomunica latae sententiae”.
“L’unica pena prevista è la scomunica”, ha sottolineato mons. Celata, precisando che tale pena non concerne i
cardinali, perché “il Papa ha fiducia in loro” e nel caso si regolerà “graviter onerata coscientia”, cioè stabilendo
“gravi pene” a suo insindacabile giudizio.
Il 1° marzo le Congregazioni generali. Il 1° marzo, ha detto mons. Celata rispondendo alle domande dei giornalisti,
cominceranno le Congregazioni generali dei cardinali, i quali avranno la facoltà di anticipare l’inizio del Conclave. Il
giorno stesso dell’inizio del Conclave, tutti i cardinali “converranno nella basilica di San Pietro in Vaticano - come si
legge al n. 49 del Motu Proprio - per prender parte a una solenne concelebrazione eucaristica con la Messa votiva pro
eligendo Papa”, ha annunciato mons. Celata. Tra i “piccoli ritocchi” del Motu Proprio, ce n’è anche uno che riguarda
il n. 43 della “Universi Dominici Gregis”, in cui Giovanni Paolo II aveva disposto che i cardinali elettori non venissero
avvicinati da nessuno “mentre saranno trasportati dalla Domus Sanctae Marthae al Palazzo Apostolico Vaticano”. Visto
che molti cardinali scelgono di recarsi a piedi ai luoghi delle Congregazioni generali e del Conclave, il testo del Motu
Proprio di Benedetto XVI raccomanda che “non siano avvicinati da nessuno nel percorso dalla Domus Sactae Marthae al
Palazzo Apostolico Vaticano”.
Al nuovo Papa gli atti dell’indagine della Commissione cardinalizia
Benedetto XVI ha ricevuto in udienza questa mattina i cardinali Julián Herranz, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi,
della Commissione cardinalizia d’indagine sulla fuga di notizie riservate, accompagnati dal segretario, padre Luigi
Martignani. A darne notizia è la sala stampa della Santa Sede, con un comunicato in cui informa che, “a conclusione
dell’incarico, Sua Santità ha voluto ringraziarli per il proficuo lavoro svolto, esprimendo soddisfazione per gli esiti
dell’indagine”. Quest’ultima, si ricorda infatti nella nota, “ha consentito di rilevare, accanto a limiti e imperfezioni
propri della componente umana di ogni istituzione, la generosità, rettitudine e dedizione di quanti lavorano nella
Santa Sede a servizio della missione affidata da Cristo al Romano Pontefice”. “Il Santo Padre - la conclusione del
comunicato della sala stampa vaticana - ha deciso che gli atti dell’indagine, del cui contenuto solo Sua Santità è a
conoscenza, rimangano a disposizione unicamente del nuovo Pontefice”. “Con questo atto si è chiuso il mandato della
Commissione cardinalizia”. A puntualizzarlo è stato padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa
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Sede, rispondendo nel briefing di oggi alle domande dei giornalisti. “Il Papa ha ringraziato i tre cardinali e ha stabilito
che il rapporto è a disposizione del suo successore”, ha commentato il portavoce vaticano, ricordando che solo
Benedetto XVI è informato del contenuto di tale rapporto. A una domanda sulla possibilità che, anche se da oggi la
Commissione cardinalizia è sciolta, i suoi componenti possano comunque informare il Collegio cardinalizio, padre
Lombardi ha risposto: “I cardinali si confidano tra di loro, si aiutano ad apprendere le questioni, ad approfondirle.
Sapranno in che misura si possono e si debbono dare elementi utili per una valutazione delle situazioni e per la ricerca
del successore di Pietro, senza bisogno di mettere a disposizione il testo di un documento specifico, che come tale
rimane a disposizione del successore di Benedetto XVI”.
(da Sir Attualità, 22 febbraio 2013)
- Sitografia
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