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ARRICCHIMENTO SENZA CAUSA
Paolo BASSO
Sommario: 1. Principi generali – 2. Gli elementi costitutivi della fattispecie: la necessità di mancanza di dolo o colpa
– 2.1. segue: l’arricchimento – 2.2. segue: il danno – 2.3. segue: la correlazione tra danno ed arricchimento – 2.4. segue:
la mancanza di giusta causa – 2.5. segue: la mancanza di consenso - 3. Le fattispecie concrete: gli atti di disposizione,
l’utilizzo e la consumazione di beni altrui – 3.1. segue: l’uso dei beni immateriali – 3.2. segue: l’arricchimento mediante
prestazione lavorativa – 3.3. segue: l’arricchimento mediante adempimento del debito altrui – 3.4. segue:
l’arricchimento mediante cambiale o assegno – 3.5. segue: l’arricchimento mediante costruzione su suolo altrui – 3.6.
segue: l’arricchimento mediante migliorie – 3.7. segue: l’arricchimento mediante il risparmio di spese di spedalità - 3.8.
segue: l’arricchimento mediante concorrenza sleale - 3.9. segue: l’arricchimento mediante esecuzione di contratti
invalidi od in itinere - 4. L’arricchimento derivante da inadempimento contrattuale – 5. La quantificazione
dell’arricchimento – 6. La rivalutazione monetaria e gli interessi - 7. La restituzione della cosa in natura – 8. La
prescrizione – 9. L’arricchimento nei rapporti familiari – 10. Arricchimento senza causa e pubblica amministrazione –
11. Arricchimento senza causa ed urbanistica - 12. L’arricchimento imposto - 13. Profili tributari – 14. La
sussidiarietà dell’azione –15. Questioni processuali -
Bibliografia: Andreoli 1940; Astone 1999; Barbiera 1964; Bianca 1994; Breccia 1984; Dell’Aquila 1994; Di
Paola-Pardolesi 1988; D’Onofrio 1981; Facchino 1957; Fenghi 1962; Frattarolo 1974; Gallo 1990; Gallo 1996;
Gallo 2003; Giglio 2000; Jacchia 1968; Luminoso-Carnevali-Costanza 1990; Messineo 1965; Miccio 1966; MoriCheccucci 1943; Moscati 1987; Rescigno 1995; Ruperto 2005; Schlesinger 1958; Trabucchi 1958; Trimarchi
1962; Trimarchi 1994.
1. Principi generali.
Ai sensi dell’art. 2041 c.c. chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è
tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione
patrimoniale. Qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha
ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda.
Trattasi di norma di rilievo e di chiusura del diritto delle obbligazioni in quanto concede
all’impoverito uno strumento di tutela per i casi in cui manchi un’azione contrattuale o di
responsabilità civile per illecito aquiliano.
Essa, recependo nel nostro codice civile l’azione romanistica di origine pretorile e l’opinione
Formatasi sotto il codice del 1865, pone nell’Ordinamento un divieto generale di spostamento di
ricchezza privo di giuridica causa.
La disposizione opera quando il trasferimento di utilità economica non trova la sua
giustificazione in una disposizione di legge oppure in una convenzione concordata tra le parti (Cass.
5 maggio 1956, n. 1427, GC, 1956, I, 1247), nell’intento non già di risarcire il danno bensì di
restituire e di ovviare a trasferimenti ingiustificati di ricchezza in ossequio al principio aristotelico
di giustizia commutativa.
L’azione di arricchimento ha indiscutibilmente natura personale e ne fa fede, oltre che il dato
sistematico della specifica collocazione dell’art. 2041 c.c. fra le fonti di obbligazione nascenti dalla
legge e della conseguente formulazione testuale della norma, anche la funzione del rimedio che è
quella di compensare uno squilibrio patrimoniale mediante il pagamento di una somma di denaro
commisurata, di volta in volta, all’arricchimento o alla diminuzione patrimoniale.
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Il diritto dell’impoverito, quindi, si configura come diritto di credito, anche quando egli abbia
diritto alla restituzione di cosa determinata e, ove ciò non sia possibile, al pagamento
dell’indennizzo.
Lo squilibrio che legittima l’applicazione dell’art. 2041 c.c. deve avere carattere patrimoniale e
quindi non rientra nell’ipotesi di arricchimento senza causa prevista dal c.c. la realizzazione del
generale interesse pubblico nell’elevazione del livello culturale dei lavoratori conseguente ad
attività svolta da ente privato nell’ambito dei propri fini istituzionali, ancorché col beneficio di
finanziamenti regionali (Cons. Stato 5 novembre 1990, n. 939, CS 1990, I, 1429).
Resta quindi escluso qualsiasi vantaggio avente natura esclusivamente morale.
Non rileva, invece, l’imputazione soggettiva del fatto che determina l’arricchimento, dato che
esso può consistere in una prestazione effettuata dall’impoverito oppure in un comportamento
dell’arricchito oppure in un evento naturale.
Parimenti l’azione generale di arricchimento non è ammessa per ottenere la ripetizione di una
prestazione contraria al buon costume o, comunque, per ottenere un corrispondente indennizzo dato
il carattere imperativo del divieto di cui all’art. 2035 c.c.
2. Gli elementi costitutivi della fattispecie: la mancanza di dolo o colpa.
La configurabilità della fattispecie di arricchimento senza causa implica, secondo l’opinione
dominante e preferibile, l’assenza del dolo o della colpa quale elemento soggettivo connotante il
comportamento del soggetto arricchito.
Infatti, se la lesione dell’altrui sfera giuridica è stata perpetrata con dolo o con colpa non sarà
difficile ravvisare gli estremi della responsabilità civile, con conseguente obbligo di risarcire
l’intero danno, pari al valore dell’entità sottratta o distrutta.
Il problema di una eventuale responsabilità nei limiti dell’arricchimento può sorgere quando non
sia ravvisabile l’elemento psicologico della violazione; la lesione dell’altrui diritto o situazione
protetta sia cioè avvenuta in buona fede, senza la consapevolezza di ledere l’altrui diritto (Gallo
2003, 49).
L’Autore trae il corollario della premessa e conclude quindi che l’azione di arricchimento appare
quasi come un rimedio residuale, di origine equitativa, la cui funzione è quella di consentire per lo
meno un recupero nei limiti dell’arricchimento di quanto lucrato senza causa a spese di un altro,.
Più recentemente la giurisprudenza di merito sembra, tuttavia, aver mutato opinione e così si è
giudicato che l’esperibilità dell’azione dell’arricchimento, basata sul nesso eziologico tra
lucupletazione a favore di una parte e depauperamento a danno dell’altra senza una causa
giustificatrice, non è esclusa dal fatto che l’evento pregiudizievole possa essere ascritto
eventualmente a colpa o a fatto volontario dell’impoverito, in quanto la responsabilità di
quest’ultimo non costituisce sul piano giuridico una ragione idonea a giustificare l’arricchimento
dell’altro soggetto (Trib. Foggia 19 aprile 1980, GM 1981, 931).
Tale opinione giurisprudenziale, peraltro, non deve, a mio avviso, condurre a ritenere
irrilevante qualunque atteggiamento psicologico delle parti e nemmeno dello stesso impoverito,
atteso che il suo comportamento potrebbe manifestare, seppure tacitamente e per implicito, un
consenso allo spostamento di ricchezza integrante la giusta causa (vedi infra § 2.5).
2.1 segue: l’arricchimento.
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L’arricchimento costituisce non solo il limite quantitativo dell’obbligazione indennitaria ma
assurge, prima di tutto, ad elemento costitutivo ed anzi ontologico della fattispecie, ponendosi quale
presupposto genetico dell’obbligazione, la cui sussistenza, quindi, deve essere valutata nell’an
prima ancora che nel quantum.
Corollario dell’osservanza del precetto contenuto nell’art. 2041 c.c., secondo cui l’indennizzo
deve contenersi entro i limiti dell’arricchimento, è che se il pregiudizio subìto dall’attore è
quantitativamente inferiore all’altrui locupletazione, l’indennizzo deve essere ulteriormente ridotto
alla misura del danno. In altri termini il limite dell’azione non è costituito solo dall’arricchimento,
ma anche dalla correlativa diminuzione patrimoniale. In molti casi, soprattutto quando lo
spostamento di ricchezza ha avuto ad oggetto una somma di denaro, le due entità potranno
coincidere, ma ove ciò non avvenga, il convenuto potrà essere condannato alla restituzione
dell’intero arricchimento solo in quanto esso corrisponda al depauperamento dell’altra parte: che se
uno dei due termini si riducesse a zero, l’azione sarebbe improponibile (Frattarolo 1974, 231).
Secondo la comune nozione, l’arricchimento è il valore economico dell’incremento patrimoniale
cagionato a favore di un soggetto da uno spostamento di valori e, precisamente, l’arricchimento
consiste nella differenza fra la consistenza del patrimonio quale è in seguito al fatto produttivo
dell’arricchimento e quella che avrebbe avuto se tale fatto non si fosse verificato.
Come vedremo, la comune opinione ritiene che l’arricchimento possa consistere direttamente i)
in un incremento patrimoniale vero e proprio, oppure indirettamente ii) in un risparmio di spesa iii)
in una perdita evitata.
La tripartizione delle forme di manifestazione dell’arricchimento induce quindi a ritenere
superata la distinzione della forma di arricchimento c.d. patrimoniale prevista dal 1° co. dell’art.
2041 c.c. dalla forma c.d. reale prevista dal 2° co., che si verifica con l’ingresso nel patrimonio di
una res indipendentemente dai riflessi che tale indebito ingresso determina. Si aggiunge, infatti, una
terza forma integrata dalla perdita evitata, che prescinde dall’effettivo incremento del patrimonio
iniziale dell’arricchito.
Come detto, nel concetto di arricchimento si ricomprende generalmente anche il risparmio di
spesa e ciò coerentemente all’impostazione patrimonialistica della nozione di arricchimento.
Naturalmente il risparmio di spesa deve ragguagliarsi all’entità dei bisogni soddisfatti.
In giurisprudenza è comune l’affermazione secondo cui l’azione di arricchimento è giustificata
dal conseguimento di un’utilità economica, non solo quando vi sia già stato un incremento
patrimoniale ma anche quando la prestazione eseguita da altri con diminuzione del proprio
patrimonio abbia fatto risparmiare una spesa necessaria, fermo restando che il vantaggio così
ottenuto deve essere privo di giusta causa e che non si deve poter esperire altre azioni per
conseguire il pagamento di quanto è dovuto (App. Milano 25 maggio 1951, FI 1952, I, 373; Cass.
12 luglio 1965, n. 1471).
Il risparmio di spesa deve essere tenuto distinto dalla perdita evitata, sebbene talvolta le due
nozioni siano state confuse, dato che, come giustamente si è fatto notare (Frattarolo 1974, 18), se è
vero che il risparmio di spesa consiste nell’evitare una diminuzione patrimoniale, non è sempre vero
il contrario, giacchè non è possibile determinare aprioristicamente se le utilità perdute sarebbero
state congruamente sostituite, e con un esborso, dal titolare del patrimonio.
L’ipotesi di arricchimento mediante mancato verificarsi di una perdita sarà configurabile solo nei
casi, più facilmente ricorrenti, in cui non risulti applicabile l’istituto della gestione di affari altrui.
Nulla osta all’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento anche nel caso di arricchimento
indiretto (Trib. Roma 26 luglio 2002, RG 2005), posto che l’azione di arricchimento ex art. 2041
c.c., ben può essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini, al cui perseguimento la
prestazione era diretta, siano stati realizzati da soggetto diverso da quello cui la medesima era
destinata, giacchè il vantaggio goduto dall’arricchito non deve necessariamente risolversi in un
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diretto ed immediato incremento patrimoniale ma può consistere in qualsiasi forma di utilizzazione
della prestazione consapevolmente attuata (Cass. 29 marzo 2004, n. 6201, MGC 2004, 3).
Se non è richiesto che l’arricchimento sia diretto, tuttavia esso deve essere effettivo.
Uno degli interrogativi che si è posta la dottrina riguarda la necessarietà della sua permanenza
al momento della proposizione della domanda.
Secondo alcuni Autori per l’accoglimento della domanda del depauperato, non basta che vi sia
stato un arricchimento effettivo della controparte, ma occorre pure che esso perduri al momento in
cui l’azione viene promossa. Se al momento della proposizione della domanda lo squilibrio fra i
patrimoni interessati è cessato o si è ridotto, verrebbe meno la ragione giustificatrice dell’obbligo di
indennizzo oppure esso andrebbe proporzionalmente ridimensionato.
Altre opinioni, al contrario, rivalutando la formulazione generica dell’art. 2041 c.c., non
ritengono legittima l’introduzione di tale ulteriore presupposto, non previsto dal tenore letterale
della norma.
Ma proprio perché la genesi del credito si pone al momento dello spostamento di ricchezza,
occorre chiedersi se l’obbligazione restitutoria, così sorta, possa estinguersi secondo le norme
generali che consentono al debitore di liberarsi per impossibilità sopravvenuta, ovvero se i fatti
sopravvenuti possano influire sul diritto all’indennità secondo le regole specifiche giustificate dalla
peculiare natura del rapporto. Non bisogna dimenticare, che, sovente, l’obbligo indennitario sorge
senza la consapevolezza dello stesso debitore.
La soluzione della questione è sfornita di dati legislativi testuali e quindi resta aperta.
Ancora diversa è la questione se, accanto ad un concetto di arricchimento in senso patrimoniale,
possa assumere rilevanza ai fini dell’indennizzo anche un eventuale arricchimento non
patrimoniale.
L’interrogativo resta legittimato dal fatto che, nel nostro Ordinamento sono risarcibili anche i
danni non patrimoniali (art. 2059 c.c.).
La dottrina si chiede, quindi, se sia configurabile – e soprattutto indennizzabile- un
corrispondente concetto di arricchimento non patrimoniale.
Sono infatti numerose le fattispecie in cui l’arricchimento non patrimoniale goduto dal soggetto
beneficiario dell’azione dell’impoverito supera di gran lunga il vantaggio patrimoniale.
A differenza di quanto ritenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza francesi, dove
l’arricchimento morale comporta l’obbligo di indennizzo, la dottrina italiana ritiene, in genere, che,
salvo il ricorso alle regole sulla gestione d’affari, sia discutibile la configurabilità di un qualche
obbligo di compenso a favore del benefattore che abbia incrementato in senso morale la sfera
giuridica altrui (Gallo 1996,32; Bianca 1994, 813; Barbiera 1964, 284; Schlesinger 1958, 1007).
2.2 segue: il danno.
All’arricchimento deve corrispondere il danno (od impoverimento) di un altro soggetto che,
tradizionalmente, così come l’arricchimento, deve essere inteso in senso esclusivamente economico
e cioè come diminuzione patrimoniale (Schlesinger 1958, 1007), con esclusione di ogni forma di
risarcimento per danni esclusivamente di natura morale (Frattarolo 1974, 30; App. Trieste 3 marzo
1956, RGI 1956, voce Arricchimento senza causa, n. 7, in motivazione).
L’impoverimento, dunque, si pone sia come presupposto che come limite all’azione concessa
dall’art. 2041 c.c., dato che, se il depauperamento è di ammontare inferiore all’arricchimento, esso
costituisce anche il limite della pretesa dell’attore (Breccia 1984, 840) dovendo considerarsi pari
alla differenza tra la consistenza del patrimonio dell’impoverito quale è in seguito al fatto che ha
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determinato l’arricchimento e quella che avrebbe potuto essere ove tale fatto non si fosse verificato
(Astone 1999, 73).
In corrispondenza con quanto generalmente ritenuto in tema di arricchimento, anche il danno,
per essere rilevante, deve avere una valenza patrimoniale e dunque deve concretarsi in quei riflessi
economici negativi che il patrimonio dell’impoverito ha risentito in maniera effettiva e
precisamente valutabile (Breccia 1984, 838).
Anche il danno, così come l’arricchimento, deve essere concreto ed effettivo (Cass. 27 ottobre
1981, n. 5616, GI 1982, I, 1, 908), con esclusione di qualunque pregiudizio potenziale.
2.3 segue: la correlazione tra danno ed arricchimento.
L’art. 2041 c.c. esige che l’arricchimento e la diminuzione patrimoniale siano correlativi ossia
che fra i due elementi intercorra un rapporto ed una relazione.
La correlazione viene sovente intesa quale vero e proprio nesso di causalità, così trasferendo –
erroneamente- nella materia degli arricchimenti ingiustificati le nozioni elaborate in relazione allo
studio dei fatti illeciti e l’equivoco è riscontrabile non solo nella dottrina ma anche in alcune
decisioni giurisprudenziali (Trib. Sup. Acque 6 dicembre 1999, n. 127, CS 1999, II, 1903).
Invero la norma non richiede affatto che arricchimento e danno siano in rapporto di causa ad
effetto.
La giurisprudenza, in modo tralatizio e costante, peraltro richiede che fra il soggetto arricchito ed
il soggetto impoverito vi sia un rapporto diretto ed il rapporto diretto, sempre secondo la consolidata
opinione giurisprudenziale risalente alla sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 183 del 2
febbraio 1963 (GC 1963, I, 259), implica che l’arricchimento ed il danno derivino da un unico fatto
costitutivo (ancora successivamente vedi Cass. 28 maggio 2003, n. 8487, MGC 2003, 5; Cass. 26
luglio 2002, n. 11051, GI 2003, 290; Cass. 29 luglio 1983, n. 5236, MGC 1983, fasc. 8).
Tuttavia, la stessa giurisprudenza ha opportunamente precisato che la correlazione non viene a
mancare quando una pluralità di fatti costitutivi dell’arricchimento è inserita in un unico contesto
teleologico mentre l’azione deve negarsi quando i fatti distinti siano fra loro indipendenti.
Il problema principale, comunque, si riferisce all’ipotesi in cui l’arricchimento sia conseguito
attraverso la mediazione di un terzo.
La dottrina suggerisce l’inutilità della ricerca di un criterio generale e meccanico ma evidenzia
come emerga una diversa rilevanza a seconda del criterio normativo prescelto dall’Ordinamento in
relazione alle particolari caratteristiche dei rapporti considerati.
La necessità di un rapporto diretto si traduce, sul piano processuale, nell’interrogativo circa
l’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento in via surrogatoria. Su tale argomento si rinvia al
commento dell’art. 2042 c.c.
2.4 segue: la mancanza di giusta causa.
L’ultimo presupposto dell’istituto in esame è la mancanza di giusta causa dello spostamento
patrimoniale determinato da un evento che l’Ordinamento considera già di per sé come non idoneo
a produrre stabilmente un qualsiasi effetto (Breccia 1984, 823).
Ha avuto la giusta considerazione l’osservazione di un illustre autore (Schlesinger 1958, 1006)
secondo cui occorre superare ed abbandonare la ricerca di una nozione astratta di giusta causa, sul
presupposto dell’impossibilità o comunque della pratica inutilità della stessa, essendo preferibile e
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necessario porre prevalente attenzione ad una completa analisi casistica piuttosto che al significato
generale ed astratto del concetto.
La giusta causa, quindi, non deve essere ricercata quale nozione ma quale strumento di concreta
soluzione degli interessi meritevoli di tutela attraverso l’azione di arricchimento (Di PaolaPardolesi, 1988, 3).
Per questo motivo la giurisprudenza ha sempre evitato di fornire una nozione generale di
mancanza di giusta causa, limitandosi ad affermare che si ha ingiustificato arricchimento se il
vantaggio di una parte consegue a una prestazione effettuata dall’altra parte in assenza di un titolo
giuridico valido ed efficace (Cass. 12 marzo 2001, n. 3610, GI 2002, 1384).
Si può comunque dire, insieme alla Suprema Corte (Cass. 27 febbraio 1962, n. 375, RGC 1962,
voce Arricchimento senza causa, n. 3) che l’arricchimento senza causa non sussiste se taluno
aumenti il proprio patrimonio con una corrispondente diminuzione di quello di altro soggetto ed il
trasferimento dell’utilità economica sia giustificato da una esplicita disposizione di legge, da un
principio generale di diritto o da una convenzione fra le parti.
La presenza di un rapporto contrattuale esclude la configurabilità dell’arricchimento ingiusto
anche quando questo derivi dal mancato adempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto
stesso a carico di una delle parti, la quale abbia invece ottenuto la prestazione della controparte
(Cass. 30 marzo 2001, n. 4722, MGC 2001, 634).
A nulla rileva che il rapporto contrattuale giustificante lo spostamento di ricchezza intercorra con
un terzo.
L’accordo negoziale non deve necessariamente essere consacrato in forme particolari ma può
risultare anche in forma tacita (Cass. 26 ottobre 1968, n. 3592, RGI 1969, voce Arricchimento senza
causa, n. 4) e per comportamento concludente (in argomento vedi paragrafo successivo).
Come abbiamo visto la giurisprudenza ravvisa la giusta causa nella sussistenza di un vincolo
negoziale fino a quando questo non venga posto nel nulla.
Ma, qualora la cessazione dell’efficacia del contratto dipenda non dalla sua invalidità, ma
dall’avverarsi della condizione risolutiva apposta dai contraenti, la giurisprudenza ha egualmente
deciso che chi ha fruito dell’altrui prestazione arricchendosi a danno dell’altro contraente in
pendenza della condizione, è tenuto responsabile in forza dell’art. 2041 c.c. (App. Milano 22
maggio 1956, RGI 1957, voce Arricchimento senza causa, n. 8).
In linea generale non è ammesso l’esercizio dell’azione di indebito arricchimento quando
l’attribuzione patrimoniale in favore del soggetto beneficiario avviene sulla base di una specifica
disposizione di legge, in quanto ciò costituisce una giusta causa legale dell’eventuale arricchimento
(Cass. 29 gennaio 2003, n. 1288, MGC 2003, 209; Cass. 22 giugno 2000, n. 8481, MGC 2000,
1372).
Ancora deve dirsi che l’unanime opinione ritiene che la perdita di valore della moneta in seguito
a fenomeni inflazionistici non può dar luogo ad indennizzi di sorta ai sensi dell’art. 2041 c.c.
Per una breve casistica:
a) l’esistenza di un contratto di mutuo esclude la mancanza della giusta causa e quindi esclude
l’arricchimento indebito del mutuante in seguito all’improvviso aumento di valore
dell’indice di riferimento (Trib. Torino 15 ottobre 1996, FI 1998, I, 616);
b) non costituisce arricchimento senza causa a favore di una società di capitali l’opera di
crescente entità ed importanza prestata dal solo amministratore quando intercorra soltanto il
rapporto di natura organica, potendo l’amministratore esercitare specifica azione per
ottenere l’adeguamento del compenso;
c) la liberazione da un debito per intervenuta prescrizione non costituisce arricchimento
indebito a favore del debitore (Cass. 21 aprile 1955, n. 1125, GI 1956, I, 1, 685);
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d) non costituisce arricchimento indebito il beneficio di una liberalità d’uso, che costituisce
giusta causa (Trib. Ravenna 9 marzo 1994, Gius 1994, n. 11, 178);
e) non costituisce arricchimento indebito l’utilizzo non autorizzato dell’altrui opera
dell’ingegno non brevettabile (Cass. 1° ottobre 1975, n. 3097, GC 1976, I, 276. In senso
favorevole, invece, Cass. 4 febbraio 1980, n. 773, GC 1980, I, 1957).
2.5 segue: la mancanza di consenso.
Per la dottrina, l’arricchimento deve essere valutato alla stregua di parametri esclusivamente
oggettivi, dato che la volontà dell’impoverito non è sufficiente da sola a giustificare lo spostamento
patrimoniale e l’obbligo d’indennizzo nasce indipendentemente da un giudizio di colpevolezza
(Breccia 1984, 848).
La conferma normativa dell’esattezza di tale principio è rinvenibile nell’art. 1185 cpv. c.c., il
quale dispone che il debitore, il quale abbia pagato anticipatamente, non può ripetere ciò che ha
pagato anche se ignorava l’esistenza del termine ma può ripetere, nei limiti della perdita subita, ciò
di cui il creditore si è arricchito per effetto del pagamento anticipato.
Tale norma rappresenta uno dei numerosi pilastri su cui il vigente codice fonda il principio
generale codificato dall’art. 2041 ed ignora totalmente il profilo soggettivo della volontarietà o
meno del pagamento anticipato.
Tuttavia la giurisprudenza ha assunto un’opinione diversa consacrata in un orientamento ormai
consolidato o, per meglio dire, acriticamente tralatizio (fatta eccezione per Cass. 10 giugno 1976, n.
2133, GI 1976, I, 1, 1867 secondo cui la norma postula soltanto l’obiettivo difetto di giusta causa
dell’arricchimento di una persona a danno di un’altra), che individua nella volontà delle parti un
fattore idoneo ad escludere l’assenza o l’ingiustizia della causa.
Il consenso della parte che assume di essere danneggiata può desumersi anche da fatti
concludenti (Cass. 22 gennaio 1959, n. 155, GC 1959, I, 1117).
Come detto, la dottrina ha sottoposto a serrata critica la tralatizia opinione giurisprudenziale
osservando che, nei casi di prestazioni eseguite senza causa, la ripetizione dovrebbe sempre essere
ammessa in quanto, se venisse esclusa (….) ciò implicherebbe per il donante la possibilità di sanare
vizi di forma della donazione attraverso l’esecuzione di essa. In altre parole, implicherebbe sempre
la validità della donazione manuale, in contrasto con l’art. 783 c.c., che la limita invece ai casi in
cui la donazione sia di modico valore (Trimarchi 1962, 12).
Naturalmente la volontà dell’impoverito assumerà una valenza particolare, fino ad essere
veramente idonea a costituire la giusta causa, quando la prestazione non solo è spontanea ma viene
eseguita in relazione a motivi connessi a rapporti affettivi o familiari o di cortesia.
3. Le fattispecie concrete: gli atti di disposizione, l’utilizzo e la consumazione di
beni altrui
Un indebito arricchimento indennizzabile ai sensi dell’art. 2041 c.c. si può verificare anche
mediante gli atti di disposizione, l’utilizzo o la consumazione dei beni altrui.
Anche qui varrà il limite indennitario della minor somma fra l’arricchimento ed il danno, sicché
si immagini per esempio un contadino il quale utilizzi legname pregiato da costruzione di un vicino
per accendere il caminetto durante l’inverno.
In queste circostanze è indubbio che ove la lesione sia stata perpetrata in malafede sorgerà un
obbligo risarcitorio integrale, pari cioè al valore di una corrispondente quantità di legname da
costruzione.
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Ove viceversa il contadino abbia agito in buona fede, la sua responsabilità sarà circoscritta nei
limiti dell’arricchimento conseguito, pari al valore di una corrispondente quantità di legno da ardere
(Gallo 2003, 69).
3.1 segue: l’uso dei beni immateriali
I princìpi dell’arricchimento senza causa sono stati applicati anche in materia di diritti sui beni
immateriali.
Infatti anche lo sfruttamento abusivo di un bene immateriale che compete ad altri comporta un
arricchimento, pari perlomeno al risparmio di spesa effettuato (Gallo 2003, 74).
E’ ovvio che nella maggior parte delle fattispecie, si verterà in ipotesi di responsabilità civile. Si
pensi, per esempio, alla contraffazione dei marchi, all’imitazione dei prodotti, ecc. … In tale caso
sarà dovuto il risarcimento del danno.
Qualora tuttavia si accerti in concreto che la lesione è stata perpetrata in buona fede, non potrà
farsi luogo al risarcimento ed al riequilibrio patrimoniale potrà addivenirsi mediante l’applicazione
dell’art. 2041 c.c.
3.2 segue: l’arricchimento mediante prestazione lavorativa
Il diritto del lavoratore a che la sua opera venga retribuita adeguatamente trova origine in
quanto disposto dall’art. 36 Cost. e dall’art. 2126 c.c.
Di conseguenza, se è esatto che, fuori delle ipotesi in cui il consenso del datore di lavoro sia
viziato, la disciplina dell’art. 2126 risponde ai principi generali che regolano l’arricchimento senza
causa, possiamo concludere che il corrispettivo previsto nel contratto non costituisce il limite
massimo della pretesa spettante al prestatore di lavoro (Trimarchi 1962, 143).
Qualora, invece, manchi del tutto il contratto di lavoro ma il lavoratore abbia effettivamente
prestato la sua opera non si dica che in questo caso l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. è esclusa,
mancando una determinazione del corrispettivo, perché anche nelle ipotesi in cui il contratto esista e
tuttavia manchi la determinazione della retribuzione, questa è fissata in base ai contratti collettivi,
oppure, dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali (art. 2099
c.c.). nel caso in esame, dunque, ammettere l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. significa ammettere
che il lavoratore riceva la giusta retribuzione per le prestazioni eseguite, indipendentemente dal loro
risultato. Ebbene, in base alle considerazioni svolte nelle pagine precedenti, mi sembra che questa
soluzione possa essere adottata in tutti i casi in cui la prestazione sia stata eseguita inserendosi
nell’organizzazione aziendale, a scienza dell’imprenditore o dei dirigenti dell’impresa, e senza
opposizione da parte loro: cioè nella grande maggioranza dai casi in cui vengano svolte prestazioni
di fatto con inserimento nell’azienda altrui (Trimarchi 1962, 143).
Dall’esame dei repertori di giurisprudenza risulta che, sovente, la prestazione di attività
lavorativa in relazione alla quale è stato richiesto l’indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c. è avvenuta
contro la volontà del datore di lavoro.
Il problema sorge dal fatto che l’art. 2031 cpv. c.c. pone un divieto generale di indennizzo in
presenza del divieto dell’interessato.
Tuttavia la giurisprudenza, in tema di lavoro prohibente domino, ha avuto un orientamento
oscillante.
In alcune sentenze non si è ammessa l’azione ex art. 2041 c.c. in quanto non sussiste
arricchimento senza causa nel vantaggio che l’imprenditore possa avere ritratto dall’attività
8
lavorativa svolta contro la sua volontà da lavoratori licenziati, successivamente al loro
licenziamento (Appello Firenze 27 luglio 1956, GT, 1956, 601).
Altre decisioni, al contrario, considerano il mero fatto dell’avvenuto arricchimento e,
prescindendo dalla proibizione espressa dall’arricchito, affermano senz’altro il diritto
all’indennizzo.
Il diritto all’indennizzo sussiste anche a favore di colui che, non formalmente legato alla
Pubblica Amministrazione da un rapporto di lavoro subordinato e autonomo, abbia tuttavia colmato
con la sua opera una lacuna organizzativa della medesima P.A., la quale ne abbia tratto profitto;
così ha deciso la Suprema Corte a Sezioni Unite, componendo un precedente contrasto di
giurisprudenza (Cass. S.U. 4 novembre 1996, n. 9531, NGCC 1996, 1458).
Sull’inconfigurabilità dell’azione di arricchimento in caso di svolgimento di fatto di mansioni
superiori conformi: T.A.R. Lazio 8 novembre 2006, n. 12135, FAmm. TAR, 11, 3532; T.A.R. Lazio
9 giugno 2005, n. 4680, FAmm. TAR, 6, 2049; Cons. Stato 11 gennaio 2005, n. 55; T.A.R. Puglia
Bari 7 aprile 2003, n. 1619, FAmm. TAR 2003, 1364).
3.3 segue: l’arricchimento mediante adempimento del debito altrui
Una fattispecie frequentemente risolta con l’ausilio dell’art. 2041 c.c. è quella in cui l’impoverito
abbia provveduto al pagamento del debito altrui senza surrogarsi nei diritti del creditore e senza
disporre, comunque, di azione di rivalsa o di regresso nei confronti del debitore effettivo.
Il terzo, che ha spontaneamente adempiuto e sempre a condizione che non l’abbia fatto per
spirito di liberalità, potrà ottenere l’indennizzo non nella misura pari a quanto pagato ma, qualora
diversa, solo nella misura dell’effettivo arricchimento del debitore (Schlesinger 1958, 1009).
In una fattispecie in tema di compravendita la Suprema Corte ha avuto modo di fare corretta
applicazione dei princìpi, decidendo che il terzo che abbia parzialmente adempiuto l’obbligazione
di pagamento del prezzo di un contratto di compravendita poi risolto per inadempimento
dell’acquirente, qualora non sia stato surrogato dal creditore nei proprii diritti e non operi a suo
favore alcuna ipotesi di surrogazione legale, essendo privo di azione nei confronti dell’acquirente,
può esperire soltanto l’azione generale di arricchimento, per evitare che il venditore ,a cui favore è
venuta meno la causa del credito, si arricchisca in suo danno di quanto corrisposto in adempimento
dell’obbligazione altrui (Cass. 1° agosto 2002, n. 11417, GI 2003, 1805).
3.4 segue: l’arricchimento mediante cambiale o assegno
In tema di titoli di credito l’azione di arricchimento è espressamente prevista dall’art. 67 r.d.. 14
dicembre 1933, n. 1669 (Modificazioni alle norme sulla cambiale e sul vaglia cambiario) e dall’art.
59 r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736 (Disposizioni sull’assegno bancario, sull’assegno circolare e su
alcuni titoli speciali dell’Istituto di emissione, del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia).
Entrambe le norme, con disposizioni pressoché identiche, dispongono che, qualora il portatore
abbia perduto l’azione cambiaria contro tutti gli obbligati e non abbia contro i medesimi azione
causale, può agire contro il traente il girante o l’accettante (quest’ultimo, ovviamente, solo per la
cambiale) per l’arricchimento ingiusto di cui abbiano goduto.
L’azione di arricchimento cambiario non può essere esperita se l’azione causale è prescritta
(Trib. Catania 15 luglio 2003, Gco 2004, II, 183).
3.5 segue: l’arricchimento mediante costruzione su suolo altrui
9
La disciplina delle costruzioni su suolo altrui è contenuta, in via generale, negli artt. 935, 936 e
937 c.c.
La prima norma disciplina la fattispecie delle opere fatte dal proprietario del suolo con materiale
altrui e stabilisce che questi deve pagarne il valore ove la separazione non sia più possibile, salvo il
risarcimento del danno in caso di colpa grave.
La seconda norma disciplina le opere fatte da un terzo con materiali proprii e stabilisce che il
proprietario del suolo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a levarle. Ove però il
proprietario decida di ritenerle, deve pagare a sua scelta il valore dei materiali ed il prezzo della
manodopera o l’aumento di valore recato al fondo.
La terza norma disciplina le opere fatte da un terzo con materiali altrui e prevede che il terzo può
rivendicare i suoi beni; ove però la separazione non sia più possibile il proprietario dei materiali
avrà diritto al pagamento del loro valore da parte del terzo ed eventualmente anche da parte del
proprietario del fondo il quale sia in mala fede.
E’ evidente lo scarso coordinamento di tale complessiva disciplina di matrice romanistica con
l’azione generale di arricchimento di cui all’art. 2041 c.c., come ha osservato la dottrina (Gallo
2003, 118).
Infatti nelle norme citate non è previsto l’indennizzo per arricchimento secondo la
quantificazione operata secondo i criteri elaborati in questo tema dalla giurisprudenza (e che
vedremo in un prossimo paragrafo) bensì parlano di valore o di prezzo delle materie prime o della
manodopera che debbono essere restituiti.
La disciplina dell’art. 936 c.c. è anche richiamata dall’art. 1150 c.c. per le addizioni apportate dal
possessore, a cui la giurisprudenza non assimila il detentore, il quale –quindi- non potrà chiedere
alcun rimborso nemmeno ai sensi dell’art. 2040 c.c. (App. Firenze 8 febbraio 1950, GC, 1951, I,
77).
Merita attenzione il fatto che la disciplina dettata dall’art. 936 c.c. può trovare applicazione
soltanto quando l’autore delle opere sia realmente terzo, non sia cioè legato al proprietario del suolo
da alcun rapporto negoziale relativo al suolo stesso o alle opere, ma tale ipotesi si verifica non
soltanto nell’originaria assenza di alcun vincolo contrattuale, ma anche allorché un preesistente
contratto sia venuto meno per invalidità o per risoluzione, stante l’efficacia retroattiva inter partes
della relativa pronuncia. Nella detta ipotesi è pertanto preclusa al contraente che in base al contratto
poi risolto abbia edificato sul suolo altrui la proposizione dell’azione di arricchimento contro il
proprietario del fondo, stante il carattere sussidiario della stessa (Cass. 29 gennaio 1997, n. 895,
MGC 1997, 151).
Un discorso a parte deve essere fatto per le costruzioni precarie, ossia realizzate senza il
necessario permesso di costruire o senza la necessaria autorizzazione comunale.
In tali casi, secondo la giurisprudenza non trovano applicazione gli artt. 1150 e 936 c.c. bensì
l’applicazione delle regole comuni sull’arricchimento senza causa.
L’utilizzo che il proprietario della costruzione ne abbia fatto fino alla sua demolizione o confisca
non è tuttavia, senza rilevanza e così nell’ipotesi di costruzione realizzata senza concessione edilizia
su suolo altrui, mentre non è configurabile l’indennizzo di cui all’art. 936 c.c. stante la precarietà
dell’acquisto, è invece ammissibile l’azione sussidiaria d’indebito arricchimento di cui agli artt.
2041 e 2042 c.c. in considerazione dell’incremento patrimoniale senza giusta causa derivante
dall’utilità dell’opera nei limiti dell’altrui depauperamento, atteso che la locupletazione del
proprietario non è esclusa dalla precarietà del diritto dominicale conseguente all’eventuale
demolizione dell’immobile abusivo, dovendosi accertare l’eventuale impiego comunque
realizzatone e le utilità economiche in tal modo ricavate dalla costruzione abusiva (Cass. 22 agosto
2003, n. 12347, RN 2004, 195).
10
3.6 segue: l’arricchimento mediante migliorie
Il Legislatore ha dedicato una specifica disciplina alla materia delle spese sostenute per
migliorare cose altrui solo in determinati rapporti (possesso, affitto agrario) o tra soggetti legati da
particolari vincoli.
Nulla ha disposto, in linea generale, per ciò che riguarda l’eventuale spesa sostenuta da un
soggetto su una cosa altrui di cui non sia possessore. In tali casi, peraltro, resta aperto il ricorso ai
princìpi sull’indebito arricchimento (Schlesinger 1958, 1009).
Tuttavia, un generale criterio di prudenza volto ad evitare abusi derivanti da un arbitrario
ricorso all’azione di arricchimento ha già indotto la dottrina ad affermare che un diritto al rimborso
dei miglioramenti nei casi non espressamente contemplati dal Legislatore potrà essere ammesso a
condizione che non si risolva nell’imporre all’arricchito un obbligo non prevedibile e tale da
comportare in definitiva un pregiudizio economico superiore all’ammontare dell’arricchimento
conseguito. Pertanto il presupposto della nascita dell’obbligazione di indennizzo sarà costituito dal
consenso dell’arricchito all’esecuzione del miglioramento. Inoltre il debito dovrà mantenersi nei
limiti della “minor somma tra lo speso e il migliorato (Breccia 1984, 832).
Anche in ragione della diffusione e della rilevanza sociale del contratto di locazione, si è ritenuto
che la norma sia applicativa di un principio fondamentale dell’arricchimento senza causa e, anzi,
l’esecuzione di addizioni e miglioramenti costituisce una vera e propria inadempienza contrattuale a
carico del conduttore (Barbiera 1964, 117). Anche la giurisprudenza ritiene costantemente che
poiché l’esecuzione di miglioramenti da parte del conduttore senza l’osservanza delle procedure
prescritte dalla legge si esaurisce nell’ambito del rapporto di affitto e costituisce inadempimento
contrattuale, che può anche giustificare la risoluzione del contratto medesimo per fatto del
conduttore, non è configurabile, in favore dell’affittuario e a carico del concedente, una azione di
arricchimento senza giusta causa, costituendo proprio detta violazione degli obblighi contrattuali la
causa dell’arricchimento (Cass. 11 febbraio 2002, n. 1892, MGC 2002, 215).
In tema di res locata, l’indennizzo non è dovuto quando i miglioramenti sono stati apportati da
un terzo su incarico del conduttore.
Può essere utile una breve elencazione delle fattispecie codicistiche relative a miglioramenti su
cosa altrui, nelle quali ne viene regolata la sorte qualora sia risolto l’acquisto della cosa da parte del
proprietario che ha effettuato i miglioramenti medesimi.
Si citano le norme degli artt. 748 I° co. c.c. sui miglioramenti apportati al fondo del donatario
soggetto a collazione, 1479 ult.co. c.c. sulle spese utili effettuate dal compratore che ha subìto
l’evizione, 1502 I° co. c.c. sui miglioramenti apportati all’immobile dal compratore soggetto a
riscatto e 2864 II° co. c.c. sui miglioramenti apportati dal terzo acquirente alla cosa ipotecata.
3.7 segue: l’arricchimento mediante risparmio di spese di spedalità
Dal punto di vista economico un arricchimento può derivare anche dal risparmio delle spese di
spedalità e, in genere, di assistenza di un soggetto bisognoso.
Tuttavia, la giurisprudenza è ferma nel ricomprendere tali spese nella più ampia nozione degli
alimenti previsti dagli artt. 433 e segg. c.c. con le conseguenti implicazioni in tema di
legittimazione.
3.8 segue: l’arricchimento mediante concorrenza sleale
11
Restando ovvio che la perdita di clientela a vantaggio di un concorrente non può avere alcuna
rilevanza giuridica se avviene mediante pratiche commerciali che rispondano ai requisiti della
concorrenza leale, secondo alcuni non sarebbe dovuto alcun indennizzo per arricchimento senza
causa nemmeno laddove lo sviamento della clientela venga ottenuto mediante atti di concorrenza
sleale (Trimarchi 1962, 18).
L’opinione viene giustificata con la considerazione secondo cui la clientela non costituirebbe
oggetto di un diritto dell’imprenditore e dunque non vi sarebbe luogo ad alcuna tutela al di fuori del
risarcimento del danno previsto dall’art. 2600 c.c., qualora gli atti di concorrenza sleale vengano
compiuti con dolo o con colpa.
Secondo la maggioranza della dottrina, invece, anche in tema di concorrenza sleale occorre
applicare il generale principio secondo cui l’arricchimento che sia frutto di un comportamento
dell’arricchito può essere giustificato solo ove esso sia qualificato da un adeguato sacrificio di
interessi in corrispondenza del vantaggio acquisito (Barbiera 1964, 277).
A prescindere dal fatto che la maggioranza della dottrina commercialistica ritiene, al contrario,
che la clientela legittimamente acquisita dall’imprenditore costituisca un suo vero e proprio diritto,
si osserva che non può spiegarsi per quale motivo l’Ordinamento riconosca la tutela in caso di atto
illecito (Barbiera 1964, 278).
La giurisprudenza in materia è scarsissima e l’unica recente sentenza significativa è quella resa
da un giudice di merito secondo cui il legittimo uso del marchio assorbe ogni ulteriore profilo di
illiceità per concorrenza sleale, responsabilità aquiliana, arricchimento indebito, lesione del diritto
al nome o dei diritti d’autore, ove questi ulteriori profili non si siano estrinsecati in condotte
dannose autonomamente configurate rispetto alla naturale portata della contraffazione del segno
distintivo (App. Milano 18 luglio 1995, GI 1996, I, 2, 420).
3.9 segue: l’arricchimento mediante l’esecuzione di contratti invalidi od in itinere
La necessità che le prestazioni trovino fondamento in cause negoziali o legali preesistenti o
concomitanti implica che l’arricchimento ottenuto in seguito all’esecuzione di contratti invalidi
debba sempre formare oggetto di restituzione.
La regola vale anche allorquando un contratto venga meno in seguito a risoluzione, rescissione
od annullamento.
In tali ipotesi, infatti, manca la causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale e quindi deve
applicarsi la norma generale di cui all’art. 2041 c.c. In argomento si rinvia a quanto detto al § 2.4.
I profili restitutori e quindi anche i profili indennitari ai sensi dell’art. 2041 c.c. restano esclusi
nelle fattispecie in cui, nonostante l’invalidità del contratto, la legge prevede la salvaguardia dei
suoi effetti per il tempo in cui esso ha avuto esecuzione, come accade per i contratti di lavoro.
Tuttavia, in ossequio alla natura sussidiaria dell’azione in esame, si è opportunamente osservato
che occorre verificare preventivamente l’ammissibilità di altri eventuali rimedi restitutori posto che
solo in ipotesi di inesperibilità di ogni altro rimedio l’azione stessa risulterà ammissibile (Astone
1999, 159).
Da un lato la Suprema Corte proclama che la funzione integratrice e sussidiaria dell’azione di
indebito arricchimento viene meno quando l’ordinamento, per ragioni di ordine pubblico (o per
altro motivo) neghi tutela ad un determinato interesse. Non può essere infatti utilizzata quale
vincolo surrettizio ed aggiratorio per il conseguimento di beni o prestazioni in determinate
circostanze vietate da un principio o da una norma di legge. Altrimenti, il rimedio di cui all’art.
2041 c.c. non servirebbe più soltanto per integrare l’ordinamento nei casi in cui questo non offra
protezione contro l’iniquità di certe situazioni non previste, ma addirittura verrebbe a correggerlo
quando l’applicazione di una norma di legge porterebbe a conseguenze inique. Quel che preme
12
considerare è che le ragioni giustificative della ripetizione di indebito oggettivo (…) non potrebbero
essere invocate a giustificazione di una pretesa che, sotto il manto della qualificazione di azione di
arricchimento, tendesse a conseguire quell’identico risultato finale, in termini economici, che
sarebbe scaturito dallo scambio delle prestazioni in sinallagma secondo il completo svolgimento
del rapporto contrattuale, se non ne fosse stata accertata l’illiceità e dichiarata la nullità per superiori
esigenze di ordine pubblico valutario (Cass. 13 dicembre 1984, n. 6537, MGC 1984, fasc. 12);
ma, dall’altro lato, non mancano decisioni di segno opposto, con le quali si dichiara insussistente
l’improponibilità dell’actio in rem verso per violazione di norme imperative anche da parte del
depauperato a conoscenza del motivo di nullità del contratto (Cass. 13 aprile 1995, n. 4269, RGE
1996, I, 451), posto che data la genericità e l’assolutezza della norma dettata dall’art. 2041 c.c.,
fondata sull’esigenza del bonum et aequum nei rapporti sociali – deve ragionevolmente ammettersi
il principio che la predetta generale azione spetti anche quando qualsiasi altra azione “per farsi
indennizzare il pregiudizio subito” manchi per effetto della nullità di un contratto stipulato contra
legem (non ob turpem causam) (Cass. 7 giugno 1957, n. 2104, GC 1957, 1193).
La giurisprudenza è costante, invece, nel ritenere inammissibile l’azione di arricchimento per il
ristoro delle prestazioni eseguite dal professionista non iscritto all’albo in base ad un contratto
professionale –di conseguenza- nullo (Cass. 2 ottobre 1999, n. 10937, MGC 1999, 2059; Cass. 5
luglio 1997, n. 6057, F, 1997, 12077; Trib. Roma 12 aprile 1999, DG 2001, 353; Cass. 22 giugno
1982, n. 3794, RGE 1983, I, 239; Cass. 13 gennaio 1984, n. 286, MGC 1984, fasc. 1; Trib. Cagliari
9 gennaio 1991 RG Sarda 1991, 765).
Una fattispecie di nullità di grande rilevanza e diffusione è prevista dall’art. 1 co. 4 legge 9
dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso
abitativo), secondo cui per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta.
Pare equilibrata e condivisibile la soluzione data dalla giurisprudenza che, in tale fattispecie,
riconosce al proprietario un’indennità (che trova la sua giustificazione necessariamente nel disposto
dell’art. 2041 c.c.) per l’occupazione dei locali ma nega che essa possa essere commisurata al
canone pattuito con il contratto (nullo) stipulato verbalmente, dato che in tal modo si finirebbe per
attribuire efficacia a un contratto espressamente qualificato come nullo (Trib. Arezzo 8 novembre
2005, RG 2005).
Sin qui abbiamo parlato della nullità integrale del contratto.
Quid juris se la nullità (o l’annullamento) colpisce solo una o più clausole contrattuali,
lasciando tuttavia sopravvivere altre clausole autonomamente azionabili?
La poca giurisprudenza in tema mostra di essere rigorosa e, sulla base del principio secondo cui
l’applicazione dell’art. 2041 c.c. implica l’assoluta mancanza di causa, dichiara che non può
ritenersi che la causa manchi o sia ingiusta almeno fin quando il contratto conservi rispetto alle parti
ed ai loro aventi causa la propria efficacia obbligatoria. Solo cioè dimostrando l’ingiustizia del
contratto, e la sua nullità, ad esempio, per dolo, violenza o errore, si potrebbe giungere alla
conseguenza di un danno ingiusto (Cass. 29 aprile 1959, n. 1260, FI 1959, I, 1494).
Per quanto riguarda, infine, le fattispecie contrattuali ancora incomplete o non ancora efficaci, la
dottrina concordemente insegna che l’esecuzione di prestazioni in vista della conclusione di un
contratto (che poi non venga concluso o non diventi efficace) costituisce un’ipotesi tipica di
arricchimento senza causa, atteso che le prestazioni sono palesemente prive di giusta causa.
4. L’arricchimento derivante da inadempimento contrattuale
La tutela tipica del contraente che patisce l’inadempimento della controparte contrattuale è
costituita, oltre che dalla risoluzione, dal risarcimento del danno ai sensi dell’art.1453 c.c.
13
Può però darsi il caso in cui l’inadempimento in sé non causa alcun danno all’altro contraente e
purtuttavia comporta un profitto a favore dell’inadempiente e quindi si impone un correttivo che la
dottrina e la giurisprudenza individuano nell’actio de in rem verso sulla considerazione che,
perlomeno, l’inadempiente gode del risparmio di spesa (vedi sopra § 2.1).
Qualora l’inadempimento, oltre a consentire il risparmio di spesa, procuri all’inadempiente un
guadagno ulteriore, la dottrina (Gallo 2003, 87) pare ritenere che l’intero arricchimento (compreso
dunque il guadagno ulteriore) debba essere devoluto all’altra parte contrattuale, non essendo né
lecito né etico lucrare mercé l’inadempimento, sebbene tale conclusione contrasti con la teoria del
c.d. “inadempimento efficiente” che, creando ricchezza aggiuntiva, favorisce la crescita economica
nazionale.
Ma l’arricchimento può essere apprezzato anche in capo alla parte adempiente nelle fattispecie di
risoluzione per inadempimento, dato che l’accipiens (che sia parte inadempiente od adempiente non
rileva) –che in costanza di rapporto negoziale percepisce i frutti della cosa consegnatagli- esercita
una facoltà spettantegli e quindi non gode di un arricchimento ottenuto né mediante fatto ingiusto
né mediante un illecito aquiliano o contrattuale.
Intervenuta la risoluzione (giudiziale o stragiudiziale) del contratto, l’accipiens avrà invece
l’obbligo di corrispondere all’altra non solo i frutti percipiendi ma anche quelli percetti (ossia
l’intero arricchimento conseguito mediante l’uso della cosa) o (se superiore) l’equivalente dei frutti
e delle altre utilità perduti dal solvens (ossia il risarcimento del danno).
5. La quantificazione dell’ arricchimento
L’art. 2041 c.c. menziona espressamente sia il contenimento dell’obbligo indennitario nei limiti
dell’arricchimento sia la correlativa diminuzione patrimoniale dell’impoverito.
L’indennizzo dovuto dall’arricchito con altrui danno non deve, quindi, essere determinato con
esclusivo riferimento all’entità economica dell’arricchimento, giacchè questo si considera indebito
soltanto nella misura in cui ad esso corrisponda un’effettiva diminuzione patrimoniale
dell’impoverito.
Ne consegue che non è l’intero arricchimento che la legge prende in considerazione ma solo
quello che corrisponde ad un pregiudizio subìto dall’altro soggetto; e non è l’intero pregiudizio che
può essere sempre indennizzato ma solo quello che corrisponde ad un profitto o vantaggio
dell’arricchito: l’indennizzo deve essere contenuto nei limiti della locupletazione, se questa è
inferiore all’altrui impoverimento, e nei limiti dell’impoverimento, anche se l’arricchimento sia
maggiore (Cass. 18 maggio 1965, n. 966, FA, 1965, II, 389).
Se questo appare essere un principio generale ormai consolidato, la discussione che impegna la
dottrina e la giurisprudenza ha riguardo alla nozione di perdita patrimoniale, discutendosi se la
stessa debba intendersi equivalente a quella di danno, secondo la definizione di cui all’art. 1223 c.c.
oppure se essa indichi un concetto più limitato, come tale non comprensivo del lucro cessante
(mancato guadagno) che l’impoverito avrebbe potuto ottenere o attraverso la sua attività ovvero
ritraendo utilità dall’utilizzo dei suoi beni effettuato dall’arricchito.
Se la dottrina presenta posizioni variegate, la giurisprudenza, invece, sembra ferma
nell’interpretare estensivamente il concetto di diminuzione patrimoniale, non offrendo resistenze ad
includervi sia le perdite sia il mancato guadagno, cosicchè all’indennizzo viene riconosciuta l’ampia
funzione di realizzare appieno il risultato economico che verosimilmente sarebbe stato raggiunto
nell’ambito di un giusto scambio.
Nell’ultimo decennio ha iniziato a prevalere l’orientamento favorevole al riconoscimento del
lucro cessante in favore dell’impoverito fino alla pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni
14
Unite che, almeno per ora, sembra aver definito la questione. L’indennità per indebito
arricchimento, nell’ipotesi di una elaborazione, a favore di un ente pubblico, che poi ne abbia
riconosciuto la utilità, di un progetto di opera pubblica in assenza di un valido incarico
professionale conferito contrattualmente, va liquidata nei limiti dell’arricchimento dell’ente,
tenendo conto di ogni perdita economica subita, incluso il mancato guadagno del professionista
(Cass. S.U. 20 novembre 1999, n. 807, GI 2000, 1286).
Al riconoscimento dell’indennizzabilità del lucro cessante si associa la tendenza
giurisprudenziale a considerare l’arricchimento pari al prezzo di mercato di un dato bene ovvero di
una data prestazione, in modo da riconoscere all’impoverito il normale lucro che sarebbe derivato
dall’operazione fonte dell’arricchimento ove quest’ultima fosse stata regolata da un accordo
negoziale.
Così delineati i criteri identificativi degli elementi attivi, la liquidazione dell’indennizzo deve
tener conto anche degli elementi passivi che si accompagnano allo spostamento di ricchezza e
quindi, in applicazione analogica dei princìpi che regolano la liquidazione del danno, si deve dar
spazio alla compensatio lucri cum damno (Frattarolo 1974, 239).
Ed altrettanta rilevanza dovrà attribuirsi alle spese sostenute dall’arricchito per la conservazione
od il miglioramento della res oppure ai danni cagionati dalla cosa posseduta senza titolo (purché
non derivanti da colpa dell’arricchito), voci che dovranno portarsi in detrazione dall’indennizzo
(così come, parallelamente, dovranno portarsi in aumento le spese sostenute dall’impoverito in
relazione al fatto costitutivo dell’arricchimento od al fine di attenuarne le conseguenze).
Se l’arricchimento deriva dall’aver ricevuto una res certa, il capoverso dell’art. 2041 c.c.
prevede l’obbligo di restituirla in natura ma a sua volta la giurisprudenza precisa che l’obbligo
dell’arricchito di restituire in natura l’oggetto dell’arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 2° co. c.c.
non lo esime dall’obbligo restitutorio di cui al primo comma, se malgrado tale restituzione residua
un arricchimento.
In ogni caso si avrà però diritto al rimborso delle spese e dei miglioramenti ai sensi degli art.
1149 e 1150 c.c.
Può però anche darsi che il bene sia stato nel frattempo alienato; in questi casi in applicazione
dei princìpi sulla surrogazione reale subentrerà l’obbligo di devolvere il corrispettivo (artt. 535 e
2038 c.c.) (Gallo 2003, 104).
Nonostante l’applicazione dei suddetti criteri può accadere che non sia possibile addivenire ad
una quantificazione esatta dell’indennizzo ed allora si dovrà ricorrere ad una determinazione
forfettaria o presuntiva, come la dottrina (Frattarolo 1974, 240; Jacchia 1968, 900) e la
giurisprudenza riconoscono possibile.
A completamento dei criteri utilizzabili per la quantificazione dell’indennizzo, va ricordato che
la giurisprudenza non concede alcuna rilevanza all’art. 1227 c.c. (Cass. 12 luglio 1965, n. 1471, FI
1965, I, 1902).
6. La rivalutazione monetaria e gli interessi
L’accertamento della natura del debito che grava sull’arricchito si riflette sulla possibilità di
riconoscere o meno la svalutazione monetaria: se il debito è di valore essa può essere liquidata a
favore dell’impoverito mentre non spetta se il debito è di valuta.
La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, come vedremo, accolgono la prima tesi, sebbene la
dottrina ponga a fondamento ragioni di equità (Trabucchi 1958, 74) mentre la giurisprudenza
privilegia una ricostruzione dell’azione di arricchimento in termini sinallagmatici.
La questione è stata anche sottoposta al giudizio delle Sezioni Unite, secondo cui l’indennizzo
dovuto a seguito dell’esperimento dell’azione di indebito arricchimento è debito di valore, poiché
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diretto a reintegrare una diminuzione patrimoniale (Cass. S.U. 10 febbraio 1996, n. 1025, FI 1996,
I, 1245).
La rivalutazione monetaria va calcolata dal momento dell’arricchimento (Cass. 26 aprile 1983, n.
2844, FI 1984, I, 1950) e può essere riconosciuta d’ufficio anche in assenza di domanda (Cass. 28
marzo 1984, n. 2039, MGC 1984, fasc. 3-4; Cass. 22 gennaio 1988, n. 489, MGC 1988, fasc. 1;
Cass. 16 novembre 1993, n. 11296, MGC 1993, fasc. 11; Cass. 6 febbraio 1998, n. 1287, GI 1999,
275; Cass. 11 febbraio 2002, n. 1884, MGC 2002, 212).
Non è mai stata posta in dubbio da alcuno, invece, la spettanza degli interessi, attesa la natura di
obbligazione pecuniaria dell’indennizzo.
Qualche dubbio è sorto in ordine all’individuazione della loro decorrenza.
Secondo l’orientamento più restrittivo gli interessi decorrono dalla proposizione della domanda
di ingiustificato arricchimento.
Il tasso degli interessi da riconoscersi è quello legale (Cass. 20 gennaio 1994, n. 517, MGC
1994, 56).
La loro decorrenza è generalmente riconosciuta dal giorno dell’arricchimento (Cass. 6 febbraio
1998, n. 1287, GI 1999, 275) anche se non mancano decisioni di segno contrario (Cass. 9 agosto
1994, n. 7348, FI 1996, I, 685).
7. La restituzione della cosa in natura
Il capoverso dell’art. 2041 c.c. prevede una forma alternativa di adempimento dell’obbligo
indennitario. Quando lo spostamento patrimoniale ha avuto ad oggetto una cosa determinata,
l’arricchito è tenuto a restituirla in natura se sussiste al tempo della domanda.
Trattasi, con evidenza, di un indennizzo corrisposto in forma specifica.
Se le condizioni poste dalla norma non ricorrono, l’obbligazione si estingue mediante il
pagamento dell’equivalente, cioè della somma corrispondente al valore della cosa valutato al
momento dell’arricchimento (Cass. 9 agosto 1945, n. 725, RGI 1944-47, voce Arricchimento senza
causa, n. 11).
8. La prescrizione
Il diritto all’indennizzo si prescrive nell’ordinario termine decennale previsto dall’art. 2946 c.c.,
anche quando l’arricchimento sia consistito nell’estinzione, da parte di un terzo, di un debito
prescrivibile in un termine minore (App. Firenze 20 novembre 2003, GLoc – Firenze 2004).
Il dies a quo della decorrenza della prescrizione è quello in cui si verificano l’arricchimento ed il
correlativo impoverimento sebbene, nelle fattispecie di arricchimento derivante alla P.A. in seguito
ad attività professionale, tale termine decorre non dal momento della realizzazione dell’opera
pubblica bensì dal momento dell’esecuzione delle prestazioni professionali, giacché in quel
momento si è verificato il depauperamento delle energie lavorative (Trib. Sant’Angelo dei
Lombardi 20 gennaio 2003, GM 2003, 779). Quindi, secondo la più recente giurisprudenza, il
termine può decorrere sia in un momento anteriore sia, anche, in un momento posteriore a quello
del riconoscimento dell’utilitas da parte del beneficiario (Cass. 9 novembre 1993, n. 11061, RAvS
1994, I, 108), mentre, in decisioni precedenti, si era sostenuto il principio opposto (Cass. 15 gennaio
1985, n. 77, GI 1985, I, 1, 1230) in base alla considerazione che tale riconoscimento costituisce
presupposto per l’insorgere del diritto.
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Il termine prescrizionale non subisce sospensione in pendenza del giudizio volto
all’accertamento dell’esperibilità di altra azione, posto che un simile accertamento può ben essere
svolto incidenter tantum nell’ambito dello stesso giudizio di arricchimento (Astone 1999, 280).
Altro interrogativo riguarda la possibilità di considerare interrotto il termine prescrizionale in
seguito alla promozione di un giudizio od anche in seguito ad una richiesta stragiudiziale non
fondata espressamente sull’art. 2041 c.c.
La questione, per ora, pare definita dall’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte, che,
accogliendo quello che era già l’orientamento prevalente, hanno deciso che l’azione di
arricchimento senza causa contempla una domanda diversa per petitum e per causa petendi dalla
domanda di rescissione della divisione per lesione, atteso che, mentre l’ultima ha origine dal
contratto ed ha come oggetto l’invalidazione dell’atto, la prima postula l’insussistenza del vincolo
contrattuale ed ha come oggetto la corresponsione di un indennizzo equivalente alla diminuzione
patrimoniale subita. Ne consegue che, in virtù del principio secondo cui la domanda giudiziale
idonea ad interrompere la prescrizione è soltanto quella avente ad oggetto il diritto della cui
prescrizione si tratta, il corso della prescrizione della domanda di indebito arricchimento, proposta
per la prima volta in appello, non è interrotta da una domanda precedentemente proposta in primo
grado con riferimento alla medesima situazione di fatto, ma avente come oggetto la rescissione per
lesione di una divisione (Cass. S.U. 4 febbraio 1997, n. 1049, GI 1998, 236).
Un ultimo problema riguarda gli strumenti attraverso i quali si opera l’interruzione del termine
prescrizionale.
La recente giurisprudenza, riconoscendo che l’obbligazione indennitaria da arricchimento senza
causa deriva direttamente dalla legge e non dalla sentenza del giudice la quale non ha –quindinatura costitutiva, ha stabilito che, per interrompere la prescrizione del diritto, non è necessaria la
proposizione della domanda giudiziale (Cass. 2 luglio 2003, n. 10409, VN 2003, 1445; Cass. 19
novembre 1993, n. 11439, MGC 1993, fasc. 11).
9. L’arricchimento nei rapporti familiari
Il problema dell’indennizzabilità dell’arricchimento derivante da attività svolta nell’ambito di
un nucleo familiare o nell’ambito di una convivenza more uxorio si ricollega al problema
dell’idoneità o meno della volontarietà del comportamento ad escludere il diritto all’indennizzo.
Abbiamo già visto al § 2.5 come la posizione della dottrina sia articolata mentre la
giurisprudenza sia ferma nel qualificare la semplice volontà dell’impoverito quale giusta causa dello
spostamento patrimoniale e, quindi, quale impedimento all’indennizzo. E tale principio viene
applicato anche alle fattispecie di arricchimento determinate affectionis vel benevolentiae causa
(Cass. 3 novembre 1956, n. 4110, FI 1957, I, 583; Cass. 27 febbraio 1978, n. 1024, RFI 1978, voce
Arricchimento senza causa, n. 3; Cass. 6 marzo 1986, n. 1456, MGC 1986, fasc. 3; Cass. 11
febbraio 1989, n. 862, MGC 1989, fasc. 2) in quanto indubbiamente connotate dalla volontà
dell’agens.
La posizione della giurisprudenza viene condivisa da una parte della dottrina (Frattarolo 1974,
127; Jacchia 1978, 873), la quale sostiene che, in tali fattispecie, deve necessariamente ravvisarsi
una volontà dell’impoverito di agire per spirito di liberalità.
Altra dottrina, tuttavia, proprio in virtù dei dubbi circa l’idoneità della semplice volontà
dell’impoverito ad elidere qualsiasi suo diritto all’indennizzo ed anche in considerazione
dell’arbitrarietà di una ricostruzione in termini di liberalità senza che ne siano accertati i rigidi
presupposti richiesti dalle norme poste dal codice in tema di donazione, osserva che é pur vero
d’altra parte che un automatico riconoscimento della pretesa, nei casi di arricchimento volontario
ma non giustificato da un credito o da una liberalità, potrebbe prestarsi ad abusi, favorendo i
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ripensamenti interessati. Occorre pertanto lasciar aperta la possibilità di tener fermo lo spostamento
patrimoniale nonostante l’assenza originaria di una giustificazione causale tipica, qualora tale
conclusione sia imposta da una valutazione delle circostanze del fatto che tenga conto della regola
della correttezza.
Il problema si pone soprattutto con riferimento a quel settore, dai contorni assai sfumati, che
ricomprende le attività compiute nel quadro dei cosiddetti rapporti di cortesia o di vincoli analoghi
d’amicizia o di affetto. E’ il caso del coniuge o di altro parente o affine che abbiano arricchito i
familiari con un’attività non rientrante negli obblighi di legge; del convivente non legalmente unito
in matrimonio che abbia posto in essere determinate opere nell’alloggio o che abbia contribuito più
in generale a sostenere gli oneri della vita in comune; del fidanzato che abbia eseguito alcuni lavori
di abbellimento nella casa della fidanzata e via dicendo (Breccia 1984, 829).
Credo che tale dottrina, indicando la necessità di un’indagine caso per caso circa la sussistenza o
meno di una causa giustificativa condotta secondo il criterio della correttezza del comportamento
negoziale delle parti, abbia colto nel segno.
Invero, con particolare riguardo all’arricchimento cagionato dall’opera prestata dal convivente
more uxorio nella casa o nell’azienda dell’altro convivente, preso atto che l’art. 230 bis c.c. pare
aver eliminato dal nostro Ordinamento il principio di presunzione di gratuità del lavoro prestato
nell’ambito endofamiliare, l’azione prevista dall’art. 2041 c.c. pare costituire lo strumento più
idoneo a porre rimedio all’eventuale squilibrio patrimoniale che, sotto molteplici forme, possa
manifestarsi alla cessazione della convivenza. Esso, infatti, abbraccia un campo di ipotesi anche
diverse ed ulteriori rispetto alla specifica fattispecie della prestazione lavorativa, domestica od
aziendale, da parte del convivente non titolare.
Credo, peraltro, che l’applicazione di tale istituto debba assoggettarsi, come detto, al principio di
correttezza e quindi al preliminare accertamento circa la sussistenza o meno di un ragionevole
affidamento dell’altro convivente sulla gratuità della prestazione resa da colui che, cessata la
convivenza, si dichiara impoverito.
Non pare errato, infatti, ritenere che il fatto stesso della convivenza possa costituire giusta causa
dell’arricchimento procurato ad uno dei conviventi ma, concretamente, credo occorra verificare
caso per caso se di vera convivenza si possa essere trattato, secondo la nozione individuata dalla
Suprema Corte (Cass. 17 febbraio 1988, n. 1701, FI 1988, I, 2307) quale relazione interpersonale,
con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare, che si esplichi in una
comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza materiale e morale.
Qualora la verifica abbia esito positivo, si dovrà concludere che il convivente ha
necessariamente partecipato al migliore tenore di vita garantitogli dall’altro convivente mediante
l’utilizzo del (maggior) patrimonio di quest’ultimo che, sebbene solo sotto tale limitato profilo di
godimento dei vantaggi, poteva considerarsi come patrimonio comune; e non può escludersi che
siffatto vantaggio costituisca giusta causa delle prestazioni eseguite da un convivente nei confronti
dell’altro.
Qualora, al contrario, la verifica abbia esito negativo e sia quindi accertato un semplice
sfruttamento dell’attività lavorativa di uno dei due partners senza che questi abbia usufruito del
conseguente incremento patrimoniale sotto specie di miglioramento del tenore di vita, dovrà
concludersi che non vi era vera convivenza e, quindi, non vi era alcuna giusta causa
dell’arricchimento. Sarà quindi ammissibile l’azione concessa dall’art. 2041 c.c.
Le prestazioni, oltre che a vantaggio del coniuge (nel qual caso la giusta causa è senz’altro
costituita dal rapporto coniugale) o del convivente more uxorio, possono essere effettuate a
vantaggio dei figli mentre perdura la loro convivenza con il nucleo familiare (e troveranno la loro
causa nei doveri genitoriali previsti dall’art. 147 c.c.) oppure in occasione delle loro nozze (ed allora
costituiranno liberalità ai sensi dell’art. 785 c.c.).
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Un’ipotesi di arricchimento indiretto, infine, può verificarsi anche qualora un componente del
nucleo familiare stipuli contratto od effettui spese di cui, perlomeno indirettamente, vengano a
beneficiare anche gli altri componenti della famiglia (ad es. la stipula di un contratto di locazione
concluso da uno solo dei coniugi per l’intera famiglia, l’acquisto di beni di prima necessità, ecc…).
La giurisprudenza ha ravvisato, in tali casi, la responsabilità anche dell’altro coniuge in base ad
un mandato che si presume tacitamente conferito (Cass. 6 maggio 1957, n. 1529, GC 1957, I, 1724;
Cass. 23 settembre 1986, n. 5709, MGC 1986, fasc. 8-9).
Tale regola, naturalmente applicabile solo in relazione ad obbligazioni di modesta entità, è
fondato, come detto, su un rapporto di rappresentanza tacita più che sui princìpi dell’arricchimento
senza causa.
10. Arricchimento senza causa e pubblica amministrazione
I repertori di giurisprudenza insegnano che sono molto numerosi i casi in cui, per mancata
osservanza delle procedure o per difetto della forma scritta, tra un soggetto privato e la Pubblica
Amministrazione si stipulano e, soprattutto, si eseguono, anche talvolta in via anticipata, rapporti
non contenuti in contratti validamente conclusi. Si può dire, anzi, che la giurisprudenza formatasi in
tale ambito è la più copiosa in tema di arricchimento, il quale resta l’unico strumento per il ristoro
del depauperamento subìto dal privato, ed ha contribuito in modo essenziale all’evoluzione
dell’istituto.
E’ stato acutamente osservato che a ben vedere l’esecuzione di un contratto invalido o irregolare
nei confronti della P.A. integrerebbe una normalissima ipotesi di indebito, con conseguente
applicazione della relativa disciplina; la quale prevede in linea di principio la restituzione in natura
della eadem res o del tantudem, salva devoluzione dell’equivalente pecuniario nei casi di
impossibilità della restituzione in natura o di prestazioni lavorative.
Una prima stranezza deriva pertanto dal fatto che l’azione nei confronti della P.A. è qualificata
di arricchimento senza causa e non di ripetizione dell’indebito (Gallo 2003, 134) ma si è subito
aggiunto, a spiegazione del consolidato inquadramento giurisprudenziale, che le ragioni di un tale
inquadramento sistematico risultano peraltro palesi ove si consideri che in materia di esecuzione di
contratti irregolari a favore della P.A. non si procede normalmente alla restituzione in natura della
eadem res o del tantundem, ma piuttosto alla devoluzione del corrispondente monetario (Gallo
2003, 134).
L’arricchimento lucrato dalla P.A. può anche consistere, secondo la disciplina generale, in un
risparmio di spesa (Cass. 15 giugno 2005, n. 12850, MGC 2005, 6; Cass. 11 febbraio 2002, n. 1884,
DResp 2004, 276), ancorché non si tratti di spesa obbligatoria, come hanno stabilito le Sezioni
Unite della Suprema Corte (Cass. S.U. 10 febbraio 1996, n. 1025, FA 1996, II, 2575).
Proprio l’imponente contenzioso in materia ha indotto il Legislatore ad intervenire sia per tentare
di recuperare correttezza nell’operato della P.A. sia per limitare le domande di indennizzo rivolte
verso la medesima. Si sono così adottate le norme contenute nell’art. 23 d.l. 2 marzo 1989, n. 66
(Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale)
convertito con legge 24 aprile 1989, n. 144, trasfuse nell’art. 35 d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77
(Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali) e da ultimo ripetute nell’art. 191 4° co. d.lgs.
18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
In base a tale normativa, nel caso in cui vi sia stata l’acquisizione di beni e servizi in violazione
delle regole stabilite dal medesimo art.191, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della
controprestazione, tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno
consentito la fornitura.
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La diretta azione contrattuale nei confronti del funzionario responsabile dell’irregolarità del
rapporto, tuttavia, potrebbe tradursi in un danno per il privato impoverito a causa della possibile
insolvenza del funzionario stesso ma tale rischio è stato scongiurato dalla Corte Costituzionale, la
quale, con sentenza interpretativa di rigetto, ha confermato la legittimità costituzionale della
richiamata normativa considerato che, poiché il funzionario può a sua volta agire in arricchimento
nei confronti della P.A., il privato fornitore è legittimato ad esercitare in via surrogatoria la stessa
azione nei confronti della medesima P.A. (Corte Cost. 24 ottobre 1995, n. 446, FI 1996, I, 21).
L’art. 194 del citato d.lgs. n. 267/2000 ha comunque consentito alla P.A. di riconoscere la
legittimità dei beni fuori bilancio derivanti dall’acquisizione di beni e servizi fatta in violazione
delle regole contabili sebbene solo nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per
l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza. Per il
pagamento, l’ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione della durata di tre anni
finanziari compreso quello in corso, convenuto con i creditori.
I caratteri essenziali dell’actio de in rem verso nei confronti della P.A. sono stati elencati nella
massima di una recentissima sentenza della Cassazione: l’azione di indebito arricchimento proposta,
ex art. 2041 c.c., nei confronti della pubblica amministrazione differisce da quella ordinaria, in
quanto presuppone non solo il fatto materiale dell’esecuzione di un’opera o di una prestazione
vantaggiosa per l’ente pubblico, ma anche il riconoscimento, da parte di quest’ultimo, dell’utilità
dell’opera o della prestazione; e tale riconoscimento può avvenire in maniera esplicita, mediante,
cioè, un atto formale, oppure in modo implicito, mediante, cioè, qualsiasi forma di utilizzazione
dell’opera ricevuta o della prestazione svolta, da cui abbia tratto vantaggio economico o
arricchimento, consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell’ente anzidetto (Cass. 24
settembre 2007, n. 19572, GD 2007 n. 48, 77).
Il consolidato (vedi già Cass. 19 febbraio 1946, n. 176, FI 1946, I, 360) principio della
necessità del riconoscimento dell’utilità da parte della stessa P.A. debitrice pone in secondo
piano gli altri elementi costitutivi dell’azione di arricchimento (l’arricchimento effettivo, il nesso
causale, il danno), i quali, nella valutazione giudiziale, vengono sostanzialmente trascurati, tant’è
che è reperibile una decisione in cui il previo riconoscimento da parte dell’ente pubblico viene
posto come unica condizione per l’accoglimento della domanda di indennizzo (Cass. 6 aprile 1973,
n. 958, GC 1973, I, 1320). L’unico requisito a cui la giurisprudenza pone attenzione (a parte il
concreto vantaggio patrimoniale di cui abbiamo già parlato) pare essere la volontarietà della
prestazione che, secondo la disciplina generale, viene considerata giusta causa dello squilibrio
economico (Cass. 21 novembre 1996, n. 10251, MGC 1996, 1558).
In particolare non si ritiene necessaria la consapevolezza della P.A. circa il carattere indebito
dell’opera (Cass. 17 novembre 1981, n. 6094, MGC 1981, fasc. 11).
Circa il tempo del riconoscimento, non vi sono incertezze nell’affermare che esso deve
necessariamente seguire l’esecuzione dell’opera e non può precederla (Cass. S.U. 20 gennaio 1970,
n. 115, GC 1970, I, 589; Cass. 16 settembre 2005, n. 18329, MGC 2005, 6) sicché qualunque
preventiva delibera di riconoscimento sarebbe irrilevante.
Esso, peraltro, può intervenire anche nel corso del giudizio per arricchimento mentre è
irrilevante che, nel corso dello stesso giudizio, l’ente abbia disconosciuto espressamente l’utilità
dato che l’accertamento dell’avvenuto pregresso riconoscimento è devoluto al giudice (Cass. 7
ottobre 1955, n. 2892, MGI 1955, 700).
La manifestazione di riconoscimento dell’utilità deve provenire dall’ente (Cass. 24 settembre
2007, n. 19572, GD 2007 n. 48, 77; Cass. 21 settembre 2005, n. 18586, MGC 2005, 7-8) e nessuna
rilevanza può assumere, a tal fine, l’utilizzo dell’opera da parte della collettività stante la necessità
che essa provenga dagli organi istituzionalmente rappresentativi dell’ente (Cass. 30 luglio 2004, n.
14570, GC 2005, 11 I, 2669).
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Essa, può essere manifestata anche implicitamente (Cass. 30 luglio 2004, n. 14570, GC 2005, 11
I, 2669).
Al contrario, altra parte della giurisprudenza ritiene che tale riconoscimento, in quanto mera
dichiarazione di scienza, possa provenire anche da organi dell’ente (che magari presiedono
all’esecuzione dell’opera: Cass. 9 marzo 2006, n. 5069, MGC 2006, 3) diversi da quelli competenti
a dichiararne la volontà, purché operino per il perseguimento dei fini dell’ente stesso.
Negli ultimi tempi pare prevalere questo atteggiamento più rigoristico e la necessità che il
riconoscimento non possa essere disgiunto dal potere rappresentativo dell’organo che lo esprime è
stata reiteratamente affermata (Cass. 24 settembre 2007, n. 19572, GD 2007, n. 48, 77).
11. Arricchimento senza causa ed urbanistica
Le fattispecie esaminate dalla giurisprudenza riguardano essenzialmente l’esecuzione di opere
di urbanizzazione e possono distinguersi fra ipotesi di rapporti fra privati o fra un privato e la
Pubblica Amministrazione.
Nelle prime ipotesi rientra il caso in cui un soggetto, onde ottenere una concessione edilizia,
aveva realizzato una strada prevista quale necessaria opera di urbanizzazione ed un altro soggetto,
proprietario del fondo adiacente, aveva ottenuto analoga concessione senza dover sostenere il costo
della strada in quanto già realizzata.
La Suprema Corte ha negato l’indennizzo per arricchimento ingiustificato ravvisando la
mancanza della correlazione fra questo e l’impoverimento dell’altro soggetto (Cass. 3 giugno 1995,
n. 6289, GC 1996, I, 451).
12. L’arricchimento imposto
Così come è rilevante la volontà dell’impoverito (vedi retro § 2.5), altrettanto deve tenersi in
conto la volontà dell’arricchito nelle ipotesi in cui questi, espressamente o –comunque- anche
tacitamente ma inequivocabilmente, manifesti il suo divieto al fatto od atto fonte dell’arricchimento,
pur essendo aperto il dibattito circa la sufficienza o meno di una qualsiasi forma di assenso,
acquiescenza o del semplice mancato rifiuto della prestazione offerta.
E’ intuitivo che il problema si pone principalmente nelle ipotesi in cui la prestazione non è
suscettibile di restituzione, come accadrebbe –invece- quando l’incremento patrimoniale derivasse
dalla dazione di una somma di denaro o di una cosa determinata, posto che, in tali casi, la
restituzione non solo sarebbe agevole ma lascerebbe il patrimonio del (già) arricchito nella stessa
condizione quantitativa e qualitativa precedente.
L’attenzione va rivolta, quindi, alle ipotesi in cui il riequilibrio patrimoniale implica la
devoluzione del corrispondente monetario di quanto ottenuto senza causa ossia alle ipotesi in cui
l’arricchito debba subire una modificazione qualitativa del proprio patrimonio senza aver né
richiesto né accettato la prestazione, la quale potrebbe anche non essere desiderata.
Invero il nostro Ordinamento riconosce il diritto dell’arricchito ad essere tutelato contro
l’imposizione di responsabilità per arricchimento e lo garantisce mediante varie norme di legge
quali l’art. 936 c.c. in materia di accessione, gli artt. 1592 e 1593 c.c. in materia di locazione, l’art.
1659 c.c. in materia di appalto, ecc….
Dal complesso di tali norme e, in particolare dall’art. 1592 c.c., che protegge il locatore non solo
dall’obbligo di indennizzo nei confronti del conduttore ma anche nei confronti degli eventuali terzi
esecutori delle migliorie, si suole trarre il principio generale secondo cui nei casi in cui la
responsabilità per l’arricchimento implica una modificazione qualitativa del patrimonio
21
dell’arricchito, se l’arricchimento deriva da una prestazione dell’impoverito, l’azione sarà ammessa
solo ove la prestazione sia stata eseguita in buona fede, ovvero l’arricchito vi abbia consentito o
l’abbia positivamente ricevuta, o ne abbia tollerato l’esecuzione diretta nell’ambito del proprio
dominio patrimoniale (Trimarchi 1962, 15).
E’ ben vero che l’art. 1150 c.c. dettato in tema di migliorie apportate dal possessore, anche di
mala fede, pone un principio diverso che sembra contraddire il principio testè enucleato ma, come è
stato esattamente osservato (Trimarchi 1962, 16), tale diversa regola sembra giustificata sia dalla
volontà del Legislatore di premiare colui che, possedendo la cosa (e non solo meramente
detenendola come il conduttore) la migliora così rimediando all’inerzia del proprietario ma anche
dal fatto che il possessore, proprio in quanto tale, confida di poter conservare la cosa così
migliorata. La regola, naturalmente, non potrebbe più applicarsi dal momento in cui il proprietario
dovesse richiedere la restituzione del possesso.
La giurisprudenza si è formata soprattutto in fattispecie di prestazioni di attività lavorative senza
il consenso del datore di lavoro e, con orientamento consolidato, si mostra propensa a riconoscere il
diritto all’indennità privilegiando i profili oggettivi dei presupposti dell’arricchimento ingiustificato
(Cass. 10 maggio 1963, n. 1153, GI 1963, I, 854).
Sin da subito la dottrina ha criticato la ferma posizione della giurisprudenza, rilevando la
contraddizione fra le decisioni che, ravvisando la stessa ratio fra le norme sull’indebito e le norme
sull’arricchimento, mutuano dalle prime l’applicazione dell’art. 2035 c.c. all’actio de in rem verso e
le decisioni che, invece, disattendono il principio dell’art. 2031 2° co. c.c. e ne negano analoga
applicazione (Frattarolo 1974, 143).
Sembra cogliere nel segno, dunque, chi da un lato respinge la tesi secondo cui l’indennizzo è
dovuto solo se la prestazione è stata accettata od è stata effettuata in buona fede (Bianca 1994, 814).
13. Profili tributari
Il regime tributario dell’indennità riconosciuta ai sensi dell’art. 2041 c.c. varia in funzione del
motivo per cui essa è stata concessa.
Se sostituisce un reddito sarà assimilata al risarcimento del danno e sarà assoggettata a
tassazione ai sensi dell’art. 6 d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle
imposte sui redditi) e sarà possibile per il percipiente beneficiare della tassazione separata prevista
dall’art. 17 1° co. lett. i), qualora l’indennità sia sostituiva della perdita reddituale relativa a più
anni.
In tal caso la somma percepita sarà anche soggetta all’imposta IVA e quindi dovrà essere emessa
la relativa fattura.
Se, invece, l’indennità è sostituiva di altra entità patrimoniale, non comporta alcun incremento
economico al beneficiario e, quindi, non sarà soggetta a tassazione.
14. La sussidiarietà dell’azione.
Il principio di sussidiarietà costituisce non altro che una derivazione logica del requisito
dell’assenza della giusta causa (Cass. 14 luglio 1967, n. 1772, RGI 1977, voce Arricchimento
senza causa, nn. 2-3) o, meglio, una proiezione processuale del requisito sostanziale medesimo,
tant’è che è stato giustamente osservato che l’art. 2042 c.c. trova il suo preciso ambito di
applicazione solo laddove l’azione concorrente diretta a farsi indennizzare del pregiudizio subito sia
rivolta nei confronti di una persona diversa dall’arricchito (Breccia 1984, 846).
22
Il principio della sussidiarietà si estende anche al caso in cui il diritto all’indennizzo sia fatto
valere non in via di azione bensì in via di eccezione riconvenzionale, allo scopo di paralizzare la
domanda dell’attore (Cass. 29 novembre 1993, n. 11850, MGC 1993, fasc. 11).
La sussistenza di una diversa specifica azione fondata su un diverso titolo in base al quale possa
essere fondato il diritto di credito, in quanto costituisce causa di inammissibilità dell’azione di
arricchimento, può essere accertata dal giudice anche d’ufficio e dunque anche in assenza di
domanda di parte (Cass. 5 agosto 2005, n. 16594, MGC 2005, 9). Essendo la sussidiarietà prevista
dalla norma in rassegna un requisito processuale di proponibilità della domanda di arricchimento, è
sottratta alla disponibilità delle parti, cosicché l’azione deve dichiararsi inammissibile anche quando
la parte convenuta abbia espressamente accettato il contraddittorio ed abbia espressamente
qualificato come ammissibile l’azione medesima (App. Napoli 22 settembre 2004, GM 2005, 11
2360).
Il principio di sussidiarietà trova usuale applicazione nelle seguenti fattispecie: i) quando
l’impoverito risulti in astratto disporre di un diverso rimedio e non lo abbia ancora esercitato; ii)
quando l’impoverito abbia esercitato il diverso rimedio, ottenendo tuttavia un risultato negativo in
quanto la domanda è stata rigettata nel merito; iii) quando l’impoverito, pur disponendo in origine
di un diverso rimedio contro l’arricchito, lo abbia perso per intervenuta prescrizione o decadenza.
L’altra azione di cui parla la norma è l’azione di cui l’impoverito può disporre sia nei diretti
confronti dell’arricchito sia nei confronti dei terzi onde porre rimedio, direttamente od
indirettamente, allo squilibrio patrimoniale verificatosi, anche se la Suprema Corte in una lontana
sentenza (rimasta isolata) ha affermato che l’azione di arricchimento sarebbe proponibile nel solo
caso in cui l’azione concorrente abbia essa stessa per oggetto direttamente l’indennizzo nei limiti
dell’arricchimento (Cass. 13 dicembre 1969 n. 3941, RGC 1969, voce Arricchimento senza causa,
n. 2)
Occorre però precisare che in tema di arricchimento indiretto, l’azione ex art. 2041 c.c. è
esperibile contro il terzo che abbia conseguito l’indebita locupletazione in danno dell’istante,
quando l’arricchimento sia stato conseguito dal terzo in via meramente di fatto (e perciò gratuita)
nei rapporti con il soggetto obbligato per legge o per contratto nei confronti del depauperato, e
resosi insolvente nei riguardi di quest’ultimo. La predetta azione è invece inammissibile ove la
prestazione sia stata conseguita dal terzo in virtù di un atto a titolo oneroso (Cass. 3 agosto 2002, n.
11656, MGC 2002, 1453).
Per comodità del lettore e senza pretese di esaustività, si possono così elencare le fattispecie
codicistiche in cui è espressamente previsto il diritto di indennizzo con conseguente inammissibilità
dell’actio de in rem verso: art. 821, a favore di colui che abbia fatto spese per la produzione dei
frutti; artt. 1133, 1137 e 1105 a favore del condominio che ha sostenuto una spesa non urgente; art.
1134 a favore del condomino che ha sostenuto una spesa urgente; art. 1185 a favore del debitore che
ha pagato anticipatamente; art. 1443 a favore di colui che è tenuto a restituire la prestazione ricevuta
in base a contratto annullato per incapacità; art. 1769 a favore del depositante; art. 2037 a favore di
chi ha consegnato indebitamente una cosa indeterminata; art. 2038 a favore di colui che ha pagato
l’indebito in caso di alienazione della cosa ricevuta indebitamente.
Si debbono naturalmente anche tenere presenti le fattispecie delle leggi speciali fra le quali, ad
esempio, si menziona l’indennità spettante al mezzadro in base all’art. 8 legge 15 settembre 1964, n.
756 (Norme in materia di contratti agrari)
Non può parlarsi di sussidiarietà e quindi non può eludersi l’ammissibilità dell’azione di
arricchimento quando la diversa azione risulti difettosa di qualche requisito (Cass. 21 luglio 1979,
n. 4398, MGC 1979, fasc. 7) oppure, addirittura, ab origine insussistente.
La generica formulazione dell’art. 2042 c.c. ingenera incertezze intorno al senso da dare al
principio di sussidiarietà, atteso che la locuzione “può” nell’articolo stesso contenuta, è suscettibile
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di essere intesa sia restrittivamente come possibilità astratta di esercitare un’altra azione, sicchè solo
quando questa originariamente manchi del tutto si potrebbe agire con l’azione di arricchimento, sia
in senso ampio, come possibilità concreta ed attuale di sperimentare un’altra azione, onde, anche se
questa sia esistita in origine ma sia venuta a mancare o sia stata perduta successivamente, ovvero sia
stata esercitata senza profitto, l’azione di arricchimento sarebbe nondimeno esercitabile.
Da tale incertezza, che ha diviso la dottrina e la giurisprudenza, è nata la distinzione fra il
concetto di sussidiarietà in astratto ed il concetto di sussidiarietà in concreto.
La giurisprudenza è sostanzialmente orientata ad accogliere la prima tesi e dunque ritiene che
non assuma alcuna rilevanza il fatto che la diversa azione sia stata respinta nel merito ovvero
sarebbe verosimilmente respinta per intervenuta prescrizione o decadenza o ancora per difetto dei
requisiti o insuperabili difficoltà di prova (Astone 1999, 216) (Cass. 4 novembre 1996, n. 9531, FI
1997, I, 109).
Solo in alcuni casi e con motivazioni ispirate più ad esigenze di giustizia sostanziale che non
volte a sovvertire il principio sopra richiamato le decisioni dei giudici hanno accolto una nozione
concreta della sussidiarietà dando rilevanza all’esito pratico del diverso giudizio intrapreso dal
depauperato (Trib. Benevento 25 ottobre 2005, RGMS 2005, 3 133; Cass. 18 agosto 1993, n. 8751,
MGC 1993, 1299; Cass. 17 ottobre 1973, n. 2621, RFI 1973, voce Arricchimento senza causa, n. 1).
Conseguenza dell’accoglimento della nozione astratta del principio di sussidiarietà, come detto,
è l’inammissibilità dell’azione di arricchimento nei casi in cui la diversa azione risulti infondata nel
merito (T.A.R. Toscana Firenze, 5 febbraio 2002, n. 118, FA 2002, 471) nonché qualora tale diversa
domanda sia stata rigettata per mancanza di prova (Cass. 20 dicembre 2004, n. 23625, MGC 2004,
12).
Alla stessa conclusioni di inammissibilità dell’azione deve giungersi allorquando la diversa
azione concessa al depauperato non sia più esercitabile per intervenuta prescrizione o decadenza
(Cass. 10 giugno 2005, n. 12265 MGC 2005, 6).
L’infruttuosità in concreto della diversa azione che, ad avviso della dottrina e della
giurisprudenza minoritaria, consente la proponibilità dell’azione di arricchimento è connessa, fra
l’altro, all’accertamento dell’insolvenza del terzo verso il quale esiste la diversa azione.
Nel concorso con l’azione di risarcimento del danno, la giurisprudenza è assolutamente costante
nel qualificare inammissibile l’azione di arricchimento.
In caso di concorso con un’azione risarcitoria però prescritta, acuta dottrina ha osservato che ove
si prescriva l’azione di risarcimento, non dovrebbe essere preclusa all’arricchito la possibilità di
avvalersi nel termine ordinario della pretesa di indennizzo. Se così non fosse, si giungerebbe
all’assurdo di porre l’arricchito in colpa grave in una posizione favorita rispetto all’arricchito a cui
non possa essere imputato un comportamento illecito. Difatti, ne seguirebbe che soltanto il primo
potrebbe paralizzare dopo un quinquennio la pretesa dell’impoverito (Breccia 1984, 845).
Abbiamo già visto (§ 10 sub art. 2041) che la legge prevede la responsabilità diretta del
funzionario nel caso di acquisizione di beni o di prestazioni d’opera in violazione delle leggi di
spesa dettate per l’ente pubblico.
Ne consegue che allorquando trovi applicazione l’art. 23 del d.l. n. 66 del 1989, che disciplina la
procedura d’impegno di spesa per le amministrazioni locali, deve escludersi la proponibilità
dell’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A., salvo che questa, ai sensi dell’art. 5
del D.Lgs. n. 342 del 1197, riconosca con esplicita deliberazione consiliare il debito sorto per
effetto della condotta del proprio funzionario o amministratore; tale riconoscimento può riguardare
anche una parte soltanto della prestazione, nei limiti della utilità e dell’arricchimento che vengono
accertati e dimostrati (Cass. 16 marzo 2007, n. 6292 MGC 2007, 3).
Tuttavia il funzionario chiamato a pagare l’indennizzo può, a sua volta, chiamare in giudizio
l’ente per essere a sua volta indennizzato affinché questo non lucri, in definitiva, il valore dei beni o
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delle prestazioni acquisiti e pagati dal funzionario (Cass. 12 aprile 2007, n. 8824, MGC 2007, 4) e
ciò consente al privato depauperato di rivolgere la sua azione di arricchimento in via surrogatoria
direttamente nei confronti della P.A. in caso di inerzia del funzionario.
2. Questioni processuali
Il problema del riparto di giurisdizione fra il giudice ordinario ed il giudice amministrativo può
porsi, ovviamente, solo allorché l’azione di arricchimento sia proposta nei confronti della P.A.
La giurisprudenza, seguita dalla dottrina (Frattarolo 1974, 268), è costante nel riconoscere la
giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie in cui il depauperato, facendo valere il suo
diritto soggettivo all’indennizzo, chiede la condanna della P.A. al pagamento (Cass. S.U. 19
novembre 2002, n. 16319, MGC 2002, 2013; Cass. S.U. 28 ottobre 1995, n. 11303, RCP 1996, 647;
T.A.R. Liguria 10 giugno 2005, n. 883, FA 2005, 6 1982; App. Milano 9 marzo 2004, GM 2004,
2372), anche quando la domanda è connessa ad altra volta ad ottenere la liberazione da obblighi
contrattuali (Cass. S.U. 25 luglio 1980, n. 4833, MGC 1980, fasc. 7).
La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, tuttavia, si estende alle controversie in
tema di arricchimento e quindi, qualora venga richiesto un indennizzo a tal titolo nell’ambito di
materie riservate alla sua giurisdizione, a nulla rileva la natura di diritto soggettivo della pretesa
(Cass. S.U. 7 febbraio 2007, n. 2700, MGC 2007, 2; Cass. S.U. 22 ottobre 2002, n. 14895, MGC
2002, 1831; T.A.R. Sicilia 15 febbraio 1988, n. 136, FA 1988, 2338).
A tale conclusione si giunge sulla scorta del disposto di cui all’art. 26 3° co. legge 6 dicembre
1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali).
I casi in cui il giudice amministrativo ha competenza di merito sono (essenzialmente) previsti dal
combinato disposto dell’art. 7 legge 6 dicembre 1971, n. 1034 e degli artt. 27 e 29 r.d. 26 giugno
1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato).
Per quanto riguarda i casi di giurisdizione esclusiva può farsi riferimento alla materia del
pubblico impiego per il personale di cui all’art. 3 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) sottratto alla
giurisdizione ordinaria ed alle materie disciplinate dagli artt. 33 e 34 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80
(Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni
pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa).
Occorre, tuttavia, ricordare che la giurisprudenza ha stabilito che la giurisdizione resta al giudice
ordinario per le questioni di arricchimento senza causa conseguenti all’occupazione appropriativa
laddove questa non sia stata preceduta da atto di dichiarazione di pubblica attività mentre, nelle
questioni riguardanti gli affidamenti di pubblici servizi ed i rapporti tra appaltante ed appaltatore, la
giurisdizione va riconosciuta al giudice amministrativo fino alla stipulazione del contratto ed al
giudice ordinario nella fase successiva alla stipula.
Rimangono devolute alla cognizione del giudice amministrativo anche le controversie in cui il
ricorrente -azionando una posizione di interesse legittimo- tende a rimuovere un provvedimento
amministrativo che, in quanto totalmente negativo del riconoscimento dell’utilità dell’opera
prestata, costituirebbe un fondamentale ostacolo alla futura cognizione, da parte del giudice
ordinario, del quantum dell’arricchimento.
Secondo le regole generali, sarà invece devoluta alla Commissione Tributaria la controversia
promossa nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria allorché la causa petendi sia incentrata
sulla dedotta sopravvenuta insussistenza delle condizioni legittimanti l’imposizione fiscale (Cass.
S.U. 14 febbraio 2002, n. 2091, MGC 2002, 239).
La competenza per valore è regolata dagli artt. 10 e segg. c.p.c.
25
La competenza per territorio pone un unico problema, vale a dire l’applicabilità del terzo oppure
del quarto comma dell’art. 1182 c.c. in relazione all’adozione del foro facoltativo di cui all’art. 20
c.p.c. e la soluzione data dalla Suprema Corte è stata in senso negativo (Cass. 27 luglio 1955, n.
2424, RFI 1955, voce Competenza e giurisdizione in materia civile, nn. 331-332).
In effetti la soluzione pare corretta, considerato che la quantificazione dell’indennizzo deve
avvenire in esito al giudizio e quindi, non potendosi radicare la competenza nel luogo del domicilio
del creditore (impoverito), resta competente il giudice del luogo in cui la fattispecie si è compiuta.
Sarà invece competente per territorio il foro erariale previsto dall’art. 25 c.p.c. nei casi in cui
venga convenuta in giudizio un’amministrazione dello Stato.
Nessun divieto alla deroga convenzionale della competenza per territorio consentita dall’art. 28
c.p.c.
Anche la competenza ratione materiae segue le regole generali.
La causa petendi determina altresì le forme della promozione del giudizio che, quando si verta in
materia di lavoro o locazione, deve introdursi con ricorso a pena di inammissibilità (Trib. Monza 22
gennaio 1999, GC 1999, I, 1853).
L’attore può in ogni caso dedurre l’altrui responsabilità per arricchimento in via subordinata e
contestualmente alla domanda implicante un altro titolo convenzionale o legale di responsabilità
(Cass. 24 giugno 1995, n. 7201, MGC 1995, fasc. 6; Cass. 15 novembre 1994, n. 9629, MGC 1994,
fasc. 11).
Non è ammessa, invece, la proposizione della domanda di arricchimento ingiustificato da parte
del convenuto opposto nell’ordinario giudizio di cognizione che si instaura a seguito
dell’opposizione a decreto ingiuntivo, giacchè egli non può proporre domande diverse da quelle
fatte valere con l’ingiunzione (Cass. 18 novembre 2003, n. 17440, MGC 2003, 11).
Il credito per arricchimento ingiustificato non può nemmeno costituire oggetto di un decreto
ingiuntivo mancando, evidentemente, il requisito della liquidità previsto dall’art. 633 c.p.c.
Nonostante alcune decisioni di merito abbiano consentito in sede di precisazione delle
conclusioni la modifica della domanda da adempimento di obbligazione pecuniaria di origine
contrattuale in domanda di arricchimento senza causa (Trib. Taranto 19 maggio 1995, Gius 1995,
3376), l’opinione assolutamente prevalente in giurisprudenza ritiene che tale domanda sia nuova
rispetto a quella di adempimento contrattuale e quindi nega che possa essere avanzata per la prima
volta dopo il termine preclusivo per la modificazione o precisazione delle domande posto dall’art.
183 6° co. n. 1 c.p.c. (Cass. 6 dicembre 2002, n. 17335, MGC 2002, 2130) a meno che non vi sia
accettazione del contraddittorio (Cass. S.U. 22 maggio 1996, n. 4712, FI 1998, I, 2975).
La mutazione del titolo fatto valere in giudizio non può nemmeno essere operata d’ufficio dal
giudice nell’ambito dei suoi poteri di qualificazione giuridica dell’azione, a pena di incorrere nel
vizio di ultra od extrapetizione (Cass. 6 ottobre 1994, n. 8184, MGC 1994, 1197).
Il carattere autonomo dell’azione e la diversità dei suoi elementi costitutivi nemmeno
consentono di ritenerla proposta per implicito con la domanda fondata su altro titolo (Cons. Stato 20
dicembre 2005, n. 7255, FA 2005, 12 3613; Cass. 17 novembre 2003, n. 17375, MGC 2003, 11;
Cass. 16 maggio 2000, n. 6299, MGC 2000, 1028).
La diversità e quindi la novità della domanda incidono anche sul problema della sua
proponibilità o meno per la prima volta in appello.
La questione è dibattuta e la pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione n. 4712 del 22
maggio 1996 (GI 1996, I, 1, 1440), che accoglieva la soluzione negativa, non ha posto fine alle
incertezze se, nella giurisprudenza successiva, è dato riscontrare un orientamento decisamente
favorevole a tale possibilità (Cass. 5 aprile 2005, n. 7033, MGC 2005, 4).
Altrettanto numerose ed autorevoli sono le decisioni di segno opposto che, dopo aver
evidenziato il carattere eterodeterminato dei diritti fatti valere con l’azione contrattuale o
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risarcitoria, richiamano la necessità di accertamento dell’arricchimento e del correlativo
impoverimento, ossia di circostanze (involgenti persino accertamenti di fatto) estranee al thema
decidendum delle altre azioni (Cass. 26 maggio 2004, n. 10168, MGC 2004, 5; Cass. 2 dicembre
2004, n. 22667, MGC 2004, 12; Cass. 24 ottobre 2003, n. 16005, MGC 2003, 10; Cass. 18 luglio
2002, n. 10405, FI 2003, I, 191).
Pare, invece, non esservi contrasti circa l’improponibilità dell’azione di arricchimento per la
prima volta nel giudizio di cassazione ove è inibita qualsiasi indagine sui presupposti di fatto della
domanda (Cass. 8 giugno 1966, n. 1510, MGI 1966, 672).
Nessun particolare problema sussiste rispetto ai principi istruttori nel giudizio promosso in base
all’art. 2041 c.c., applicandosi le regole generali sull’onere della prova in forza delle quali spetterà
all’attore la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto e della sussistenza dei presupposti
dell’azione mentre al convenuto spetterà la dimostrazione dei fatti impeditivi, estintivi o
modificativi (Cass. 23 aprile 1963, n. 1061, MGI 1963, 354).
Nel giudizio promosso contro la P.A. l’attore deve provare, oltre agli elementi previsti dall’art.
2041 c.c., anche il fatto materiale dell’esecuzione dell’opera o della prestazione nei confronti
dell’ente pubblico nonché il riconoscimento, da parte di quest’ultimo, dell’utilità dell’opera (Cass.
26 aprile 1999, n. 4125, MGC 1999, 933).
La prova potrà essere fornita con tutti i mezzi di legge, incluse le presunzioni (D’Onofrio 1981,
590).
L’azione di arricchimento può esercitarsi anche in via surrogatoria (v. § 10 sub art. 2041).
Nel caso in cui una delle parti in causa sia un soggetto straniero, si applicherà l’art. 61 legge 31
maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazione privato), ai sensi del quale
l’obbligazione derivante da arricchimento senza causa è sottoposta alla legge del luogo in cui si è
verificato il fatto da cui deriva l’obbligazione.
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