Pierre Lévy, L`intelligenza collettiva

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Pierre Lévy, L'intelligenza collettiva
© Giangiacomo Feltrinelli Editore
Negli Stati Uniti, l’avvio del progetto delle “autostrade dell’informazione” ha provocato un grande
dibattito. Il vortice di fusioni, acquisizioni, alleanze in atto nel settore della comunicazione e
dell’informatica, le anticipazioni riguardanti la futura televisione digitale ad alta definizione... sono
tutti segnali che recentemente hanno attirato l’attenzione del grande pubblico verso ciò che si è
convenuto definire “multimedia”.
Gli avvenimenti al centro della cronaca in questo settore non sono che alcune particolari manifestazioni
di una grande ondata di entusiasmo a sfondo tecnologica. Dati, testi, immagini, suoni, messaggi di ogni
genere vengono digitalizzati e, sempre più di frequente, prodotti direttamente in forma digitale. Gli
strumenti di trattamento automatico dell’informazione, applicandosi ai messaggi, divengono d’uso
comune un po’ in tutti i settori dell’attività umana. La realizzazione della connessione telefonica dei
terminali e delle metafore informatiche, l’estensione delle reti di trasmissione digitale ampliano, giorno
dopo giorno, un cyberspazio mondiale, nel quale ciascun elemento d’informazione si trova
virtualmente in contatto con qualunque altro e con tutto l’insieme, Queste tendenze fondamentali, già in
atto da più di venticinque anni, produrranno, nei prossimi decenni, i loro effetti in misura via via
crescente. L’evoluzione in corso converge verso la costituzione di un nuovo ambito di comunicazione,
di pensiero e di lavoro per le società umane.
Già a partire dagli anni sessanta, pionieri come D. Engelbart e J.C.R. Licklider avevano colto il
potenziale sociale della comunicazione tramite le reti informatiche. Ma è stato solo agli inizi degli anni
ottanta che la comunicazione informatizzata, o telematica, è emersa come un significativo fenomeno
economico e culturale: reti mondiali che collegano docenti universitari e ricercatori, reti aziendali,
messaggerie elettroniche, “comunità virtuali” che si sviluppano su base locale, possibilità di accesso
diretto alle banche dati ecc.
Alla fine degli anni ottanta, i personal computer sono diventati sempre più potenti e facili da utilizzare,
le loro applicazioni si sono diversificate ed estese ogni giorno di più. Si è assistito allora a un processo
parallele di interconnessione di reti, cresciute all’inizio isolatamente, e di aumento esponenziale degli
utenti della comunicazione informatizzata. Rete di reti che si basano sulla cooperazione “anarchica” di
migliaia di centri informatici nel mondo, Internet è diventato oggi il simbolo del grande medium,
eterogeneo e transfrontaliero, che qui definiamo con il nome di cyberspazio. Ogni mese, il numero di
persone nel mondo che possiede un “indirizzo di posta elettronica” aumenta del 5 per cento…
Grazie alle reti telematiche, le persone si scambiano ogni genere di messaggi, sia individualmente che
in seno a gruppi, partecipano a conferenze elettroniche su migliaia di temi diversi, hanno accesso alle
informazioni pubbliche contenute nei computer che fanno parte della rete, possono disporre della
potenza di calcolo di macchine situate a migliaia di chilometri, costruiscono insieme mondi virtuali
puramente ludici. Oppure, più seriamente, i singoli possono costituire, gli uni per gli altri, una sorta di
enciclopedia vivente, dar vita a progetti politici, stringere amicizie, cooperazioni... ma lasciarsi andare
anche all’odio e all’inganno.
La cultura di rete non è ancora consolidata, le sue potenzialità tecniche sono ancora allo stadio iniziale,
la sua crescita non è ancora terminata. Si è ancora in tempo per riflettere collettivamente e tentare di
dare forma al corso degli eventi. In questo nuovo spazio c’è ancora posto per i progetti. Le “autostrade
dell’informazione” e la “multimedialità” sono destinate a convergere in una super-televisione? Fanno
presagire la vittoria finale del consumismo e dello spettacolo? Aumenterà il divario tra ricchi e poveri,
tra esclusi e “collegati”? Effettivamente è uno dei futuri possibili. Ma se ci si rende conto in tempo
della posta in gioco, i nuovi mezzi di creazione e comunicazione potrebbero rinnovare profondamente
le modalità del legame sociale nel senso di una maggiore solidarietà, nonché aiutare a risolvere i
problemi nei quali si dibatte oggi l’umanità.
Il processo di fusione delle telecomunicazioni, dell’informatica, della stampa, dell’editoria, della
televisione, del cinema e dei giochi elettronici in seno all’industria unificata del multimedia è l’aspetto
della rivoluzione digitale maggiormente sottolineato dai giornalisti. Eppure non è l’unico aspetto e
neppure il più importante. Oltre ad alcune ripercussioni di tipo economico, ci sembra prioritario mettere
in luce le grandi possibilità di civilizzazione legate all’emergere del multimedia: nuove strutture di
comunicazione, di regolazione e cooperazione, linguaggi e tecniche intellettuali inedite, il cambiamento
dei rapporti con il tempo e lo spazio ecc. La forma e il contenuto del cyberspazio sono ancora
parzialmente indeterminati. In materia non esiste alcun determinismo tecnologico o economico
semplice. Si prospettano ai governi, ai grandi operatori economici, ai cittadini delle scelte politiche e
culturali fondamentali. Non si tratta, dunque, di ragionare esclusivamente in termini di impatto (quale
sarà l’impatto delle “autostrade elettroniche” sulla vita politica economica o culturale) ma anche di
progetto (per quali fini sviluppare le reti digitali di comunicazione interattiva?). Di fatto le decisioni
tecniche, l’adozione di norme e di regolamenti, le politiche tariffarie, contribuiranno, lo si voglia o no,
a dar forma all’impianto collettivo della sensibilità, dell’intelligenza e del coordinamento che andranno
a costituire domani l'infrastruttura di una civiltà su scala mondiale. Con questo libro vogliamo
contribuire a porre l’evoluzione in atto in una prospettiva antropologica e a forgiare una visione
positiva che possa agevolare le politiche, le decisioni e le pratiche per orientarsi nel labirinto di un
cyberspazio in divenire.
Lo sviluppo dei nuovi strumenti di comunicazione si inscrive in una mutazione di ampia portata che
esso accelera, ma che lo oltrepassa. Per dirlo in una parola: siamo ridiventati nomadi.
Che cosa significa? Si tratta di viaggi di piacere, di vacanze esotiche, di turismo? o. Del girotondo di
uomini d’affari e di persone indaffarate in corsa intorno al mondo, da un aeroporto all’altro? re.
Nemmeno gli “oggetti nomadi” dell’elettronica portatile ci avvicinano al nomadismo d’oggi. Simili
immagini del movimento ci rimandano a viaggi immobili, chiusi nello stesso mondo di significati. La
corsa senza fine lungo le reti mercantili è forse l’ultimo ostacolo al viaggio. Muoversi non è più
spostarsi da un punto all’altro della superficie terrestre, ma attraversare universi di problemi, mondi
vissuti, paesaggi di senso. Queste derive nelle trame dell’umanità possono incrociare le traiettorie
ordinarie dei circuiti di comunicazione e di trasporto, ma le navigazioni trasversali, eterogenee dei
nuovi nomadi esplorano un altro spazio. Noi siamo gli immigrati della soggettività.
Il nomadismo odierno dipende principalmente dalla trasformazione continua e rapida dei paesaggi,
scientifico, tecnico, economico, professionale, mentale... Anche se non ci spostassimo, il mondo
cambierebbe intorno a noi. Ma siamo in movimento. E l’insieme caotico delle nostre risposte produce
una trasformazione generale. Questo movimento non esige da parte nostra qualche adattamento
razionale o ottimale? Come essere certi che una risposta sia adeguata a una situazione che si presenta
per la prima volta, e che nessuno ha programmato? E perché volersi adattare (adattarsi a cosa
esattamente?) una volta capito che la realtà non è li, esterna a noi, preesistente, ma è il risultato
transitorio di ciò che noi facciamo insieme?
Imprevedibile e rischiosa, questa situazione assomiglia a una discesa lungo rapide sconosciute. Noi non
viaggiamo solo attraverso i paesaggi esterni della tecnica, dell’economia o della civilizzazione. Se si
trattasse solo di passare da una cultura a un’altra, avremmo ancora degli esempi, dei riferimenti storici.
Ma passiamo da un tipo di umanità a un altro, che non solo resta oscuro, indeterminato, ma che ci
rifiutiamo persino di interrogare, che non accettiamo ancora di prendere in esame.
La conquista dello spazio mira dichiaratamente allo stanziamento di colonie umane su altri pianeti,
ovvero a un cambiamento radicale di habitat per la nostra specie. I progressi della biologia e della
medicina ci costringono a un ripensamento del nostro rapporto con il corpo, la riproduzione, la
malattia, la morte. Si tende progressivamente, forse senza saperlo e certamente senza ammetterlo, verso
una selezione artificiale dell’umanità messa in atto dalla genetica. Lo sviluppo di nanotecnologie capaci
di produrre materiali complessivamente intelligenti, simbionti microscopici artificiali dei nostri corpi e
calcolatori di potenza superiore di diversi ordini di grandezza rispetto a quelli odierni, potrebbero
cambiare da cima a fondo il nostro rapporto con il fabbisogno naturale e con il lavoro, e in modo assai
più brutale di quanto non abbiano fatto sino ad ora le diverse fasi dell’automazione. I progressi delle
protesi cognitive a supporto digitale modificano profondamente le nostre capacità intellettuali, cosi
come farebbero le mutazioni del nostro patrimonio genetico. Le nuove tecniche di comunicazione
attraverso mondi virtuali ripropongono in modo diverso i problemi del legame sociale. Insomma,
l’ominazione, il processo di formazione del genere umano, non è terminata. Pare che subisca addirittura
un’accelerazione improvvisa.
Solo che, contrariamente a quanto è accaduto al momento della nascita della nostra specie o all’epoca
della prima grande mutazione antropologica (quella del Neolitico, che ha visto apparire l’allevamento,
l’agricoltura, la città, lo stato e la scrittura), noi abbiamo la possibilità di pensare collettivamente questa
avventura e influire su di essa.
Le gerarchie burocratiche (fondate sulla scrittura statica), le monarchie mediatiche (che si reggono sulla
televisione e il sistema dei media) e le reti dell’economia internazionale (che impiegano il telefono e le
tecnologie del tempo reale) mobilitano e coordinano solo parzialmente le intelligenze, le esperienze, le
tecniche, i saperi e l’immaginazione degli esseri umani. Ecco perché si pone con particolare urgenza la
questione dell’invenzione di nuovi meccanismi di pensiero e di negoziazione, che possano far emergere
vere e proprie intelligenze collettive. Le tecnologie intellettuali non occupano un settore qualsiasi della
mutazione antropologica contemporanea, esse ne seno potenzialmente la zona critica, il luogo politico.
C’è bisogno di sottolinearlo? Non si reinventeranno gli strumenti della comunicazione e del pensiero
collettivo senza reinventare la democrazia, una democrazia distribuita ovunque, attiva, molecolare, In
questo momento di capovolgimento e di problematici effetti retroattivi, l’umanità potrebbe
riappropriarsi del suo divenire. Non affidando il proprio destino a qualche meccanismo che si presume
intelligente, ma producendo sistematicamente gli strumenti che le consentano di costituirsi in collettivi
intelligenti, in grado di orientarsi nelle acque tempestose della mutazione.
Lo spazio del nuovo nomadismo non è né il territorio geografico né quello delle istituzioni a degli stati,
ma uno spazio invisibile delle conoscenze, dei saperi, delle potenzialità di pensiero in seno alle quali si
dischiudono e mutano le qualità d’essere, le maniere di fare società. Non gli organigrammi del potere,
né le frontiere delle discipline, né le statistiche dei mercanti, ma lo spazio qualitativo, dinamico,
vivente dell’umanità che sta inventando il proprio mondo.
Dove leggere le carte in movimento di questo spazio fluttuante. Terra incognita. Anche se voi
raggiungeste l’immobilità, indipendentemente dal resto, il paesaggio non smetterebbe di scorrere, di
turbinarvi intorno, di penetrarvi, di trasformarvi dall’interno. Non è più il tempo della storia riferita alla
scrittura, alla città, al passato, ma lo spazio mutevole, paradossale, che viene a noi anche dal futuro.
Non lo apprendiamo come una successive; riguardo a esso, possiamo riferirei alle tradizioni solo
attraverso pericolose illusioni ottiche. Tempo erratico, trasversale, plurale, indeterminato, come quello
che precede le origini.
Folle di rifugiati in cammino verso improbabili accampamenti... Nazioni senza domicilio fisso...
Epidemie di guerre civili... Rumorosa Babele di megalopoli mondiali... Attraversamento di saperi della
sopravvivenza negli interstizi dell’impero... Impossibile fondare una città, impossibile ormai stabilirsi,
dove che sia, riposare su un segreto, un potere, un terreno... I segni, a loro volta, diventano erratici:
questo humus non cessa di tremare, di bruciare... Slittamenti vertiginosi tra le religioni e le lingue,
zapping tra le voci e i canti, e all’improvviso, alla svolta di un corridoio sotterraneo spunta la musica
dell’avvenire... La Terra come una biglia sotto l’occhio gigantesco di un satellite...
I primi nomadi seguivano le greggi, che cercavano a, loro volta di che nutrirsi, in base alle stagioni e
alle piogge. Oggi, noi siamo nomadi al seguito del divenire umano, un divenire che ci attraversa e che
noi stessi costruiamo. L’umano funge da dima a se stesso, una stagione in6nita e senza ritorno, Orda e
gregge mescolati, sempre più inseparabili dai nostri strumenti e da un mondo strettamente legato al
nostro cammino, percorriamo ogni giorno una nuova steppa.
I neandertaliani, ben adattati alle favolose cacce nella tundra glaciale, si sono estinti quando
improvvisamente il clima è diventato più umido e caldo.’ Le loro prede abituali scomparivano.
Nonostante la loro intelligenza, questi uomini che grugnivano o restavano muti, non avevano voce, non
possedevano un linguaggio per comunicare tra loro. Così le soluzioni trovate qua e là ai loro nuovi
problemi non poterono essere generalizzate. Essi rimasero separati di fronte alla trasformazione del
mondo che li circondava. Non mutarono insieme.
Oggi l’homo sapiens deve affrontare un cambiamento rapido del proprio ambiente, una trasformazione
di cui è l’agente collettivo involontario. Non intendo assolutamente dire che h nostra specie sia
minacciata di estinzione, né che la “fine dei tempi” sia prossima. Qui non si tratta di millenarismo. Mi
accontento di individuare un’alternativa.0 riusciamo a superare una nuova soglia, una nuova tappa
dell’ominazione inventando un attributo dell’umano altrettanto essenziale del linguaggio, ma di grado
superiore, oppure si continua a “comunicare” attraverso i media e a pensare all’interno di istituzioni
separate le une dalle altre e che per di più provocano il soffocamento e la divisione delle intelligenze.
Nel secondo caso, dovremo fronteggiare soprattutto problemi di sopravvivenza e di potere. Ma se ci
impegnassimo sulla strada dell’intelligenza coattiva, inventeremmo progressivamente le tecniche, i
sistemi di segni, le forme di organizzazione sociale e di regolazione che ci permetterebbero di pensare
insieme, di concentrare le nostre forze intellettuali e spirituali, di moltiplicare le nostre immaginazioni e
le nostre esperienze, di negoziare in tempo reale e a ogni livello le soluzioni pratiche ai problemi
complessi che dobbiamo affrontare. Impareremmo progressivamente a orientarci all’interno di un
nuovo cosmo in mutazione, alla deriva, e a divenirne per quanto possibile gli artefici, a inventarci
collettivamente in quanto specie. L’intelligenza collettiva punta non tasto al dominio di sé da parte
delle comunità umane quanto a una rinuncia essenziale riguardo all’idea stessa di identità, ai
meccanismi di dominio e controllo dei conflitti, alla liberazione di una comunicazione confiscata, al
reciproco rilancio di pensieri isolati.
Ci troviamo quindi nella situazione di una specie i cui membri, pur provvisti di buona memoria,
sarebbero osservatori attenti e astuti, sebbene non ancora arrivati a un’intelligenza collettiva della
cultura per mancanza di un linguaggio articolato. Come inventare il linguaggio quando non si è mai
parlato, quando nessuno dei nostri antenati ha mai proferito una frase, quando non si ha alcun esempio,
la benché minima idea di quel che può essere una lingua? Fuor di metafora, si tratta della nostra
situazione attuale: non sappiamo quello che dobbiamo creare, quello che forse abbiamo già iniziato
inconsapevolmente ad abbozzare. Eppure nel giro di qualche millennio l’homo nobilis è divenuto
sapiens, ha fatto quel passo, si è lanciato nell’ignoto, ha inventato la Terra, gli dei e il mondo infinito
del significato.
Ma le lingue sono fatte per comunicare in seno a piccole comunità “su scala umana” e possibilmente
per garantire le relazioni tra gruppi siffatti. Grazie alla scrittura è stata superata una nuova tappa.
Questa tecnica ha consentito una maggiore efficacia comunicativa e un’organizzazione più estesa dei
gruppi umani rispetto a quella permessa dalla parola pura e semplice. Lo scotto da pagare è stata la
separazione, interna alla società, tra un apparato burocratico di trattamento dell’informazione scritta da
una parte e le persone “amministrate” dall’altra. Il problema dell’intelligenza collettiva consiste nello
scoprire o nell’inventare un al di là della scrittura, qualcosa che si collochi altre il linguaggio in modo
tale che il trattamento dell’informazione sia distribuito ovunque e ovunque coordinato e non sia più
prerogativa di organi sociali separati, ma si integri in maniera naturale nella totalità delle attività
umane, in modo da tornare nelle mani di ognuno.
Chiaramente, questa nuova dimensione della comunicazione dovrebbe permetterci di condividere le
nostre conoscenze e di segnalarle reciprocamente, cosa che rappresenta il presupposto basilare
dell’intelligenza collettiva. Inoltre, essa potrebbe aprire due importanti possibilità, che
trasformerebbero in modo radicale i dati fondamentali della vita sociale. Per prima cosa, disporremmo
di mezzi semplici e pratici per sapere quello che si può fare insieme. Secondariamente maneggeremmo,
in maniera ancora più facile di quanto non sia oggi lo scrivere, gli strumenti che consentono
l’enunciazione collettiva. E tutto avverrebbe non più nell’ordine di grandezza dei clan del Paleolitico,
né in quello degli stati e delle istituzioni storiche del Territorio, ma secondo l’ampiezza e la velocità
delle turbolenze a vasto raggio, dei processi di deterritorializzazione e nomadismo antropologico che ci
colpiscono oggi. Se le nostre società si accontentano semplicemente di essere dirette con intelligenza,
quasi sicuramente non raggiungeranno î propri obiettivi. Per avere qualche possibilità di vivere meglio,
esse devono rendersi intelligenti a livello di massa. Al di là dei media, i dispositivi dell’etere faranno
sentire la voce del molteplice. Ancora indiscernibile, ovattato dalle brume del futuro, che avvolgono
con il loro mormorio una diversa umanità, abbiamo un appuntamento con la nuova lingua (surlangue).
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