angelus_benedetto

annuncio pubblicitario
L’agenda malinconica del papa tecnico
di lanfranco caminiti
Non fossero bastati i mille segni tra gesti e dichiarazioni, sincere o ipocrite quanto si vuole, e come
vuole l’ora, e pure incongrue e fuori registro — memorabile per faccia tosta quel «fulmine a ciel
sereno» del decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano, mica mia zia Clementina — per una
inquietante lettura dell’evento — come è doveroso: l’irenismo devoto serve solo a seppellirlo —,
ci si è messo pure l’asteroide, o il meteorite o come diavolo si definisce, passato pelo pelo dalla
terra, per aggiungere un che di esoterico e fantascientifico alla vicenda umanissima e
travagliatissima della rinuncia al soglio pontificio di Benedetto.
Come se nella crisi della chiesa, della fede, della religione, nello scoramento e nell’incertezza, il
disegno celeste mandasse una nuova stella cometa per una nuova Betlemme, adesso là nel lago
ghiacciato di Cherbokal dove un igloo potrebbe sostituire la capannuccia di palme per accogliere di
nuovo un figlio di Dio e i re magi.
Potrebbe — dovrebbe? — essere questo il contenuto dell’ultimo Angelus di Benedetto, la
preghiera che parla e rinnova il mistero dell’incarnazione, dell’annunciazione: Angelus Domini
nuntiavit Mariæ / Et concepit de Spiritu Sancto. Eccetera eccetera. Ci sarà un nuovo messia?
Dovremmo prima trovarci per le mani una nuova Maria, così tosta e gagliarda e pure così
misteriosa e distante. A pensarci bene, non ne mancherebbero oggi, solo che la chiesa continua a
non sapere bene che farsene, di Marie e Maddalene e preferisce i Pietro, i Paolo e i Giovanni.
O ancora, invece dell’Angelus, dovrebbero essere i Vespri — un tempo si chiamavano Lucernalis,
quando si accendevano le candele, i lumi — l’ultimo momento pubblico di Benedetto, la preghiera
del tramonto, o la compieta, quella dopo il tramonto che si recita per allontanare gli incubi della
notte: Te lucis ante terminum / Rerum Creator poscimus. Prima della fine della Luce. Della
sapienza. Della ragione.
Non c’è bisogno di scomodare la profezia di Malachia sul 112mo papa — «Durante l'ultima
persecuzione della Santa Romana Chiesa siederà Pietro il Romano, che pascerà il suo gregge tra
tante tribolazioni. Una volta concluse, la città dei setti colli cadrà e il Giudice tremendo giudicherà
il suo popolo» — perché la rinuncia di Benedetto assuma un carattere apocalittico. Di crisi e
rivelazione.
Gli ultimi uffici mondani cui presiede — l’incontro con il premier Monti, quello con il presidente
Napolitano — hanno troppo un sapore curiale per non provare a forzarli: non sono tutti e tre
questi uomini al tramonto della propria esperienza, alla fine del proprio mandato? Non incarnano,
tutti e tre, la fine della sapienza, delle pretese e dell’arroganza della sapienza professorale?
Con Napolitano poi, avrebbero potuto — tanta è stata la reciproca attenzione — scambiarsi i ruoli,
come in quei vecchi romanzi d’appendice dove uno scambio di culla segnava destini
completamente difformi e opposti, e invece qui si tratterebbe di uomini ormai sul declino, di uno
scambio d’ospizio tra Quirinale e San Pietro, e di destini similari: Benedetto avrebbe potuto
benissimo incarnarsi nel ruolo di presidente di questa repubblica, e il vecchio Giorgio avrebbe
potuto finire il suo cursus honorum di uomo ecclesiale — era un’altra la sua chiesa, certo, ma
quando si appartiene alle chiese lo si è per sempre — sul soglio pontificio. Non sarebbe cambiato
granché, diciamocela tutta, almeno per questa repubblica e forse pure per questa chiesa. Non
cambia granché da nessuna parte, tanto grande ormai è il potere delle forze nascoste e lontane,
del management e delle sacrestie delle istituzioni: la sapienza non serve a questo mondo.
E ancora: un tecnico — è un teologo, ma fa lo stesso, stante le cose — messo al governo della
chiesa da forze partitiche che si laceravano incapaci di trovare lo slancio per riformarsi, per
uniformarsi, accecate dalla lotta intestina fino a rischiare di travolgere l’istituzione stessa, non è
questo che è accaduto a Benedetto? E a Monti?
E non sono stati entrambi “dimissionati”, congelati da quegli stessi che li avevano ricevuti — agiti
dallo Spirito Santo o dal Bene del Paese, che cambia? — ma mai accettati, mai riveriti,
continuando la loro sorda lotta e aspettando il momento per mandare tutto a carte quarantotto?
Hanno colto l’attimo, Benedetto e Monti, per prendere cappello prima che li detronizzassero:
l’uno è salito in politica, l’altro va verso il cielo, entrambi hanno perso. L’«agenda Ratzinger» è
altrettanto malinconica di quella Monti, una litania di cose che si sarebbero dovute fare e non è
stato possibile, o che si sarebbero potuto fare meglio o che sarebbe stato meglio non fare affatto.
Così, in questo triangolo di guide spirituali e di regole di vita quotidiana, misto di orgoglio e
malinconia, di impotenza e arroganza, di senso dell’istituzione e di eterodirezione — che siano le
banche, l’Europa di Bruxelles o il cielo non fa gran differenza — si consuma il declino d’Italia,
pilastro di occidente. Oltre a esportare ormai solo barolo e gorgonzola — non vendiamo più
meccanica, ci comunicano i dati della Banca centrale, però alimenti sì, cresciamo a ritmo cinese:
siamo finalmente il Bel Paese, non quello dell’abate Stoppani ma quello di una marca di formaggio
— potevamo sempre vantare d’essere la sede del trono di Pietro. Solo che Pietro non sembra
abbia più voglia di starci seduto.
A questo punto più perspicuo per il trono di Pietro sarebbe trasferirsi, che so in qualche periferia
latinoamericana o in qualche bidonville africana, piuttosto che continuare a sprofondare qui.
Solo che oltre che di Marie e Maddalene, la chiesa sembra non sapere cosa farsene neppure di
Francesco, il poverello.
Noi intanto continuiamo a esportare formaggio, che altro?
Nicotera, 18 febbraio 2013
Scarica