Dum sol me despicit non aspiciat me visus hominis

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Mediterraneo e latinità
Mauro Maldonato
Ho spesso parlato male dei ringraziamenti e degli scambi del grazie. Ne ho dubitato. So
bene quanto sia ingrato commisurare alcune frasi alla gratitudine. Già l’anno scorso, nel nostro
precedente incontro, ne avevo avvertito la sproporzione e, per molti versi, l’impossibilità. Allora,
come oggi, mi sembrava difficile pronunciare parole adeguate per testimoniare ai miei ospiti (e agli
ospiti di questi ospiti che voi siete) il senso della riconoscenza per il privilegio ac-cordatomi (nel
senso musicale del termine) e per la lucidità, la generosità e la pazienza donatami.
Non è stato semplice trovare un titolo che riassumesse queste meditazioni. Conosco il
Mediterraneo. Sono nato sulle rive della Magna Grecia, a pochi passi dalla Scuola Eleatica, il luogo
dove Parmenide, Zenone di Elea e altri filosofi ancora, nel più silenzioso dei silenzi, davano forma
a un pensiero – meglio, al pensiero – che sarebbe diventato il destino stesso dell’Occidente. Sono
cresciuto sul mare. Da sempre ne ho respirato i paesaggi. E, per quanto indietro vada nei ricordi
non trovo niente - nessun libro, nessun autore – che abbia mai suscitato in me la stessa
meraviglia, l’esaltazione, lo stupore, la comunione tra l’anima e i luoghi, provati nei miei primi
anni di vita.
Ancora oggi quando guardo (con lo sguardo del cuore) le barche ormeggiate in attesa di
guadagnare il largo; le onde frangersi sulla banchina; la distesa liquida in cui ci si imbarca e si
naviga per ore e ore guidati dalle stelle; lo spazio di un orient-amento – cioè la ricerca del proprio
Oriente - che è poi la ricerca dell’Altro e, dunque, di se stessi; l’orizzonte che sposta
costantemente il margine del nostro interrogare (mentre noi lo seguiamo anche a costo di perderci
per il puro desiderio di perderci), verso una verità costantemente in cammino cui giungeremo solo
nel senso di cercarla ancora; ecco, quando guardo tutto questo, allora comprendo, fino in fondo,
perché il Mediterraneo è stato lo scenario spirituale dei miei pensieri. In quel paesaggio, talvolta,
ho provato, proprio come Flaubert, “uno stato d’animo superiore alla vita, nel quale la gloria non
varrebbe nulla e persino la felicità sarebbe inutile”.
Eppure lì, dove l’ebbrezza della luce esalta l’attitudine alla contemplazione, ho imparato a
non lasciarmi incantare dallo specchio delle idee; a resistere al culto dell’armonia che pretende di
sostituire i gesti intellettuali alla vita; a non lasciarmi irretire dalla tragicità solare di una luce che
cospira contro l’ombra fino ad accecare chi gli rivolga lo sguardo. Su quelle rive, dinanzi a
quell’Aperto, a quei luoghi destinati alla felicità – dove la verità sembra inseparabile dalla felicità nasce il senso e la ricerca del limite, la possibilità della misura. Ecco, il Mediterraneo è
innanzitutto scuola di limite e di philo-sophia.
Il Mediterraneo e la sua navigazione sono origine e metafora della philo-sophìa, di
quell’amore per la conoscenza che è il demone della téchne nautiké, del marinaio-colonizzatore, del
viaggio di colui che non ha vera radice terrena. Sradicato, e perciò sradicante, il mare diverrà via,
metodo; ed il possesso del metodo, del dis-corso, téchne nautiké. Per questo, la filosofia, pensiero
del pensiero, nata su quel mare, non può sperare di rinunciare a quell’ex-perientia pericolosa che
si realizza affrontando il mare e che richiede la più alta téchne. L’esser-tra-le-terre del
Mediterraneo – tra la terra del tramonto (l’Occidente) e la terra del mattino (l’Oriente) – fa del mare,
di quel mare, un porto, un luogo di scambio e di passaggio, un margine, un varco, uno spazio
dove gli uomini giungono e ripartono, arrivano e prendono congedo. Il Mediterraneo, dunque,
come limite di separazione tra le terre, intervallo che fissa una distanza, dis-continuità fra essere
ed essere, richiamo al viaggio.
“Vous étes embarqué” scriveva Pascal, sottolineando la scommessa di una speculazione che
ha lo stesso destino di precarietà dell’elemento ‘marino’, metafora ab-soluta e inemendabile dell’esistenza. Non è un caso che simbolo dell’uomo mediterraneo sia da sempre Ulisse: uomo di terra e
di mare, di contraddizioni e di ambiguità, di astuzia e di conflitti, di “dissoi logoi”: “cavaliere del
mare” e “re contadino”, uomo “nessuno” che vive in sé amore e infedeltà, avventura e focolare,
temerarietà e paura, erranza e nostalgia.
L’ambivalenza di Odisseo, costitutiva del Mediterraneo, è l’elemento naturale che Corbin
definisce “angelico e diabolico, teologico quanto geografico, che ha, malgrado la violenza delle sue
tempeste, permesso i viaggi missionari di Paolo, consentito la diffusione della Parola divina e la
costituzione della diaspora cristiana”. Ora, se è vero che il Mediterraneo è stato il primo luogo di
meditazione dell’Occidente, è vero anche che in Europa, figlia di quel mare, è nata la crisi del
pensiero, l’inquietudine che ha fatto seguito alla rimozione del molteplice e della differenza ad
opera dell’Uno greco. Interrogarsi allora sulla dif-ferenza – e, dunque, sul dif-ferire - comporta
interrogarsi sull’identità. Ma mettersi in viaggio verso il molteplice vuol dire che non basterà
conoscere, analizzare i distinti. È necessario domandarsi come sia avvenuta la scissione, chi
l’abbia prodotta. Solo se l’uomo è capace di un logos della scissione, potrà comprenderla; e,
comprendendola, ricondurla ad armonia. Forse nessun altro ha detto questa ferita meglio di
Pessoa. Nessuno come lui ha testimoniato, con la sua stessa vita, che la letteratura, come l’arte, è
la dimostrazione che la vita non basta. Scrive il grande portoghese:
Mi sono moltiplicato per sentire, /per sentirmi, ho dovuto sentire tutto, /sono
straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, / e in ogni angolo della mia anima c’è
un altare a un dio differente.
Le a-porie del pensiero europeo sono inestricabilmente connesse alla storia d’Europa, alle
sue radici culturali e politiche, alla ‘figura’ determinata dai suoi confini. Naturalmente, non è
questo il luogo per indagare la verità della storia europea ed emendare i “logoi molti e ridicoli” che
di essa narrano e che la sua verità nascondono. Le ragioni attuali del molteplice esigono il ri-cordo del passato, una piena anamnesi. Ma pensare il passato significa, innanzitutto, scendere nei
sotterranei di noi stessi, interrogare la nostra identità, de-cidere il nostro carattere.
La contrapposizione politico-geografica implica l’analisi, la misurazione dei confini
(territoriali e simbolici), ma anche l’indagine della loro struttura e, alla fine, del loro demonecarattere. Per poter misurare, infatti, occorre conoscere il misurante. L’anamnesi storica,
geografica, politica e filosofica del Mediterraneo è stata sempre de-cisa dalla luce meridiana, primo
strumento di misurazione del tempo-natura scandito dai raggi del sole, tra luce ed ombra.
Sul frontone dell'abbazia benedettina di S. Michele (del XV sec.), nell’isola di Procida, nel
golfo di Napoli, vive una splendida meridiana in pietra. II largo spiazzo bianco dell'orologio solare
reca incisa una scritta:
Dum sol me despicit non aspiciat me visus hominis
II senso di questa iscrizione allude ad una situazione complessa, alla compresenza di
almeno tre elementi: la meridiana, il sole, il volto intento di un essere umano. II quarto elemento,
necessario, ma non dichiarato dall'epigrafe, è l’ombra. Ma ad essa si può solo alludere.
Nessun’ombra può esser dichiarata o svelata. È l’ombra dell’asta a rendere possibile la lettura
dell’ora. C'e un'unica ora del giorno in cui è possibile leggere la meridiana in apparenza
senz’ombra: a mezzogiorno, l’ora meridiana. Ma a mezzogiorno l’ombra non è dissolta. A quell’ora
coincide tutta con il corpo e la luce che lo illumina. Ha origine da questa radicale ambivalenza il
fascino e il panico che, da sempre, l’ora meridiana incute ai viandanti: 1’ora di Pan, il più
mediterraneo e arcaico degli dei.
La forza della coincidenza di luce e ombra (io e la mia ombra siamo uno) cancella tutte le
categorizzazioni di soggetto, oggetto, mondo, io, mente, corpo. Anche le ordinarie categorie della
temporalizzazione ne sono sovvertite. L'esperienza del vissuto meridiano (meleta to pan, il
“prenditi cura del tutto” di Anassimandro) indica l’Uno nella sua continua presa e cura del tutto. II
tempo del dio Pan è, infatti, il meriggio. Si manifesta (fainestai) atterrendo uomini e cose con la
potenza della φυσισ. Il tempo come ordinata successione di momenti si arresta. La presenza è
scossa nelle fondamenta, costretta a prender atto di sé, come qualcosa di estraneo e diverso. E,
nondimeno, di proprio.
Su quella linea d’ombra, dove l’esistenza meridiana sosta e si declina, nasce il pensiero
della misura. Ha scritto Camus:
L’assolutismo storico, malgrado i suoi trionfi, non ha mai smesso di scontrarsi con
una indomita esigenza della natura umana, della quale serba il segreto il
Mediterraneo, luogo in cui la ragione è sorella della luce cruda. (…) Ma la giovinezza
del mondo risiede sempre lungo le stesse rive. Gettata nell’ignobile Europa, dove
muore, priva di bellezza e amicizia, la più orgogliosa tra le razze, noi Mediterranei,
viviamo sempre nella stessa luce. Nel cuore della notte europea, il pensiero solare, la
civiltà dal doppio volto, attende l’alba. Ma già rischiara la via del vero dominio.
E ancora:
Al meriggio del pensiero, l’uomo in rivolta rifiuta così la divinità per condividere le
lotte e la sorte comune. Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale,
l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa. Nella luce il mondo resta il nostro
primo ed ultimo amore.
Odisseo, l’uomo mediterraneo per eccellenza che, perduto gli dei, ha in mente Itaca e un
pensiero audace e frugale conosce (e vive) generosamente la disperata speranza di un viaggio
verso quella “virtute e conoscenza” fatta di amore e disperazione, di luce e ombra, di vita e morte.
Nella solitudine silenziosa di una notte senza vento, sulle sponde di quel Mediterraneo,
l’uomo che sa intuisce il suo destino. Scrive ancora Camus:
A mezzanotte solo sulla riva. Aspettare ancora, e partirò. Anche il cielo è in panna con
tutte le stelle, come quei piroscafi coperti di luci che a quest’ora in tutto il mondo
rischiarano le acque buie dei porti. Spazio e silenzio pesano sul cuore con un peso
solo. Un brusco amore, una grande opera, un atto decisivo, un pensiero che
trasfigura, in certi momenti danno la stessa intollerabile ansia, e al tempo stesso
posseggono un’attrattiva irrefrenabile. Deliziosa angoscia di essere, in prossimità di
un pericolo di cui non conosciamo il nome. Vivere allora è correre alla propria perdita?
Di nuovo senza tregua corriamo alla nostra perdita.
Di questo paesaggio antico e magnifico, di questo territorio della scrittura, che fa co-incidere
il pensiero del cammino e il cammino del pensiero; che ci fa pensare a tutto ciò che l’acqua dei
mari ha potuto portare di avventura umana nella vita del mondo, cosa sappiamo davvero? Qui, la
storia entra in difficoltà. E noi, che non intendiamo ad introdurre quiete nei pensieri – come pure
un grande filosofo europeo esortava a fare – ci apprestiamo ad accentuare le nostre inquietudini,
provando,
brevemente,
a
designare
qualche
punto
cruciale
nella
formazione
della
rappresentazione storico-concettuale del Mediterraneo.
Il Mediterraneo deve accettare, nel Medio Evo e agli inizi del Rinascimento, la convivenza di
culture diverse: l’ebraismo, il cristianesimo e il cattolicesimo, i bizantini, l’Islam come forza
alternativa dalle intenzioni egemoniche. Queste culture che, perseguitate o meno, coesisteranno
per secoli, attraverseranno periodi storici di tremenda crudeltà, al punto da mettere a dura prova
la tanto decantata ‘teoria della tolleranza’. Nella storia del Mediterraneo questa si è incarnata solo
in brevi periodi, quasi eccezionali.
Le civiltà post-mediterranee ed oceanico-atlantiche che hanno precorso quella globale devono
molto alla civiltà mediterranea. Nel Mediterraneo, infatti, sono apparsi, per la prima volta, la
civiltà del diritto, la libera creazione tecnica e artistica, le grandi religioni monoteistiche universali,
la civiltà degli scambi. Prima che la maturazione delle civiltà atlantiche lo rendessero un ‘lago’
privo di rilievo geopolitico, il Mediterraneo è stato centro di creazione e di irradiazione di civiltà.
Sempre nel Mediterraneo sorgono grandi sorgenti di valori universali duraturi: Atene e
Gerusalemme, i monoteismi ebraico e cristiano, il diritto romano classico come sorgente dei
rapporti giuridici di autoregolazione prevalentemente o esclusivamente privata.
I fondamenti della civiltà atlantica anglo-sassone sarebbero impensabili senza le radici e gli
archetipi mediterranei antichi: l’impero del mare, la traduzione della Bibbia in inglese, le affinità
tra la common law e diritto romano privato. La nascita stessa degli Stati Uniti (a fine ‘700), la sua
Dichiarazione d’indipendenza, la sua ‘costituzione federale’, si richiamano esplicitamente al Patto
biblico e alla storia antica della Repubblica romana: entrambe radici mediterranee.
Ma anche quando il Mediterraneo diverrà periferico dal punto di vista geopolitico; anche
quando le sue civiltà decadranno visibilmente e lo spirito di Atene e Gerusalemme prenderà forma
altrove, le sue radici saranno sempre riconoscibili. Lo stesso si può dire di alcune connotazioni
mediterranee sorte in periodo di decadenza e considerate inferiori dalle civiltà anglosassone e
germanica (in generale dall’Europa protestante del nord): esse possono essere elette, come
vedremo, in modo diverso e in parte recuperate e ricollegate alle sue radici-archetipi.
Chissà, forse per nascere le prime civiltà avevano bisogno del sole, di un mare non troppo
tempestoso e più facilmente navigabile, della luce meridiana, del calore umano. Sia come sia, la
fantasia, il logos, le grandi fedi hanno origine qui. Si pensi alla straordinaria creazione, nel
Mediterraneo, dell’alfabeto fonetico, rispetto ai sistemi degli ideogrammi: invenzione, questa, più
straordinaria della rivoluzione Gutenberg e di quella telematica, senza la quale queste ultime
sarebbero state impensabili. Importa poco, poi, che questa sia stata fenicia o proto-greca. È stata
comunque è mediterranea.
Sono nate, inoltre, nel Mediterraneo le reti marittime commerciali, a partire dalla civiltà
minoica (Creta) verso il 2000° a. c., le cui flotte avevano navi con albero centrale a vela quadrata. I
Fenici costruirono la prima egemonia marittima sull’intero Mediterraneo senza cercare mai forme
di dominio politico, limitandosi allo scambio commerciale. Dalla diaspora fenicia emerse la
potenza di Cartagine, la contesa tra Greci, Etruschi e Punici per l’egemonia mediterranea.
Con l’impero di Alessandro si ha la prima unità mediterranea e il primo grande porto di
Alessandria. Nel secolo III, sconfitta Cartagine, Roma costruisce la prima lunga fase unitaria del
Mediterraneo e inizia la sua egemonia con la flotta di guerra, che assicura quella tranquillità che
dà slancio al commercio. Anche qui si vedono i caratteri della potenza romana: il patto coi vinti, il
foedus, il diritto non pubblico.
Il Mediterraneo è navigabile per larga parte dell’anno, da primavera ad autunno, e questo
diventa un fattore decisivo di comunicazione, commercio, scambi, rispetto alle più limitate strade
terrestri e alla trazione animale.
Anche se l’ingresso dei Vandali costituisce un momento fondamentale di discontinuità, la crisi
fondamentale e di lunga durata deriva dalla potenza navale mussulmana, secondo la nota tesi di
Henri Pirenne.
Le repubbliche marinare italiane sono esemplari civiltà mediterranee: Venezia, Genova, Amalfi
ecc. Ma già con il XV secolo si aprono le vie oceaniche, soprattutto da parte dei portoghesi di
Enrico il Navigatore. Con la scoperta dell’America e la circumnavigazione del globo il vento cambia
direzione. Se nel Mediterraneo regge l’asse Venezia–Costantinopoli-Alessandria, i porti oceanici di
Siviglia e Anversa conquistano la scena, mentre ristagnano quelli di Genova, di Barcellona, di
Napoli.
Con la pace di Utrecht (1713) l’equilibrio mediterraneo subisce un radicale mutamento:
l’Inghilterra, insediatasi a Gibilterra e Minorca, diviene padrona delle chiavi atlantiche di accesso
al Mediterraneo. Fu un passaggio fattuale e simbolico decisivo. Gli inglesi stabiliscono la propria
egemonia su quella spagnola in netto declino, mentre la crescente presenza russa nel Mar Nero
mira a inserirsi nel Mediterraneo e a sostituire l’impero Ottomano in disgregazione. Tentativo,
questo, che anche gli austriaci, simmetricamente, tentano di condurre a termine attraverso il
controllo Adriatico dei porti di Trieste e Fiume.
Con il Congresso di Vienna, la Gran Bretagna rafforza la propria talassocrazia mediterranea,
ottenendo Malta e le isole Ionie.
La rivoluzione industriale e l’avvento della navigazione a vapore danno nuovo impulso ai traffici
mediterranei. Il canale di Suez (1869) viene realizzato per le mire coloniali e per evitare il periplo
dell’Africa. Nel secondo dopoguerra alle tradizionali potenze mediterranee subentrano le
superpotenze americana e sovietica che sottraggono il Mediterraneo al controllo dei popoli
rivieraschi. La situazione successiva è caratterizzata dal peso economico strategico del petrolio e
dagli aspri conflitti del Medio Oriente.
Come si vede quella mediterranea è una civiltà di mare carica di storia e che dalla storia può
trarre motivi di identità, comunicabilità, nuova visibilità ed energia. Le civiltà anglossassoni e
quelle mediterranee e latine hanno un elemento in comune: entrambe sono civiltà del mare ed
entrambe sono state imperi marittimi. Lo è stata Atene. Lo è stata parzialmente Roma dopo la
vittoria su Cartagine. Lo è stata la Spagna. Lo è stato il Portogallo. Allo stesso modo di come lo
sono stati gli imperi britannico e nord-americano in contrapposizione al nomos della terra della
tradizione germanica e russa.
La progressiva dislocazione del baricentro sociale e culturale della vita dell’uomo prodotto, nel
corso della storia, dall’elemento terranno - quale fondamento solido rispetto a quello acquatico
(nelle sue varie tappe, potamica, talassica, e infine, oceanica) - è emblematicamente rivelata dal
‘mutamento di funzione’ del Leviathan: da signore dell’Oceano (e dunque del male) a simbolo
dell’ordine del potere sovrano, rispetto al quale, capovolgendo la rappresentazione biblica,
Behemoth, signore della terra, viene così a rappresentare il disordine e la guerra civile. Carl
Schmitt legge tale percorso come l’espressione della vicenda storica che da una condizione
‘autoctona’ va fino ad una ‘auto-talassica’: la prima dominata dalla centralità della terra e della
casa; la seconda sviluppatasi sotto “il segno del movimento e della tecnica”.
Per il più grande e controverso giurista del Novecento, la lotta tra le due condizioni storiche
d’esistenza e delle relative ‘visioni del mondo’ si incarnano nella lotta di Atene contro Sparta, di
Roma contro Cartagine, di Napoleone contro l’Inghilterra, della Russia contro l’Inghilterra,
dell’orso contro la balena.
I mondi mediterraneo e latino, nonostante una lunga storia di dominio di diritto pubblico (dalla
monarchia assoluta al codice napoleonico) e benché nati con lo stato moderno, hanno una storia
più lunga e antica: le poleis greche classiche erano sì organiche, ma erano comunità di piccole
dimensioni; il diritto romano originario è diritto delle genti, delle famiglie, dei contratti, della
regolazione civile delle controversie; il Patto biblico del Sinai con Dio che consegna il Decalogo a
Mosé prende corpo in una legge fatta di regole di condotta.
Benché sia diventato luogo comune identificare il mondo anglosassone con la common law e
l’Europa continentale con la civil law (il diritto positivo e la legislazione del sovrano politico: prima
il monarca, poi il Parlamento) le cose sembrano essere più complesse e movimentate. Esiste una
frattura fra la fredda Europa del Nord (terra del diritto astratto e impersonale) e l’Europa
mediterranea latina (terra del diritto personale e relazionale, delle regolazioni faccia a faccia). Va
detto che la Francia, paese latino almeno in parte, sembra identificarsi in parte con la tradizione
dell’Europa del Nord.
Per lungo tempo il diritto personale mediterraneo è stato considerato - nei paradigmi del diritto
pubblico europeo, napoleonico e kelseniano - come un diritto inferiore, un non diritto, una sorte
di ordine giuridico primitivo. Noi pensiamo, al contrario, che di fronte alla crisi profonda e
irreversibile della modernità, alla caduta degli idoli e dei dogmi del diritto astratto e impersonale;
alle dinamiche turbolente del mondo globale–locale, sussistano nuove possibilità di un diritto
personale che, parafrasando Lévinas, potremmo definire un diritto del faccia a faccia, cioè di
nuove forme di auto-regolazione, fattuali e giuridiche.
Per andare al cuore del tema di oggi, relativo alla questione affatto pacifica della latinità, dico
subito che se l’antica civiltà romana non raggiunse il livello e lo splendore culturale di Atene e
Gerusalemme - la prima, come faro della più straordinaria creazione filosofica, artistica e politica,
con il conseguente ‘antropocentrismo’; la seconda, con l’idea dell’essere umano fatto ad immagine
e somiglianza del Creatore, con tutti i suoi secolari e perduranti effetti di civiltà e libertà della
persona - ciò nondimeno, la civiltà romana latina ha dato al mondo contributi importanti. La sua
stessa formidabile potenza militare aveva forti basi politico-giuridiche. Era una civiltà che sapeva
convertire, attraverso il foedus, la conquista militare in esperienza politica: cioè, in un patto con i
vinti che lasciava ampia autonomia ai municipia.
Si pensi, poi, alla lingua e alla cultura latina e alle loro enormi caratteristiche comunicative. La
lingua latina, in particolare, ha un’importanza plurisecolare. Anche quando è diventata lingua
morta (nel senso di non essere più parlata da ampi strati popolari) essa è rimasta per secoli la
lingua europea degli intellettuali, la lingua delle università, la lingua universale della Chiesa
Cattolica. Se il Rinascimento umanistico del ‘400 ha riscoperto il latino classico, si deve
riconoscere che il latino cristiano - dalle Sacre Scritture di San Girolamo, ai Padri della Chiesa e
fino alla Summa Teologica di San Tommaso - è uno straordinario strumento di comunicazione, la
lingua di un’altra civiltà. Basti ricordare che una delle fonti dell’immensa invenzione della
Commedia di Dante è in latino biblico e patristico, accanto a quello virgiliano classico.
Oggi, che la caduta dei miti e dei dogmi (ed anche delle pretese scientistiche e costruttiviste)
della modernità si rivela nella sua pienezza; oggi, che appare evidente come nei paesi sviluppati le
comunità dei credenti siano diventate minoranze; ecco, oggi dobbiamo riconoscere appieno che la
civiltà romana latina di più lunga durata è stata non già quella repubblicana imperiale classica,
ma quella della Chiesa di Roma, dell’universalismo della Chiesa Cattolica.
La Chiesa di Roma – certo, con le tante pagine oscure della sua storia – ha lottato tenacemente
contro i poteri sovrani e gli assolutismi politici, tracciando quella linea di divisione tra potere
spirituale e temporale che è costitutiva di quel tanto che di civiltà occidentale è esistita e sussiste
e che ha consentito il dispiegarsi delle autonomie cittadine, individuali, sociali, condizioni
essenziali per la creazione della ricchezza materiale, della cultura e della spiritualità. In questo,
essa ha manifestato la sua radicale diversità dall’idea totale islamica - la Umma, cioè la comunità
indistinta di religioso e politico - che è una delle ragioni della secolare arretratezza delle società
musulmane.
Detto per inciso, in America Latina, buona parte del Cattolicesimo ha dimostrato la sua
radicale diversità dalla filosofia di conquista militare-secolare, ricercando, nella fede e
indipendentemente dalla razza, la dignità della persona.
Non è certo questa la sede per affrontare il problema dell’identificazione tra il diritto astratto e
impersonale e il protestantesimo, da un lato, e quello delle relazioni personali faccia a faccia,
tipico delle società latino-mediterranee, dall’altro. Del resto, che la nota tesi di Weber
sull’identificazione tra protestantesimo e spirito capitalistico sia piuttosto discutibile lo dimostra
l’esistenza di tanti esempi di interazione tra spirito imprenditoriale e cattolicesimo come, ad
esempio, le Fiandre, la Germania meridionale, il Lombardo Veneto ecc.
Nel definire il concetto di latinità si deve tenere conto di tutto questo. Come bisogna tener
conto del fattore linguistico. Tutte le lingue neolatine, infatti, hanno conservato e potenziato le
caratteristiche comunicative del latino. Certo, si è persa l’universalità del latino classico, ma si è
acquistata una maggiore articolazione, flessibilità, espressività. Le lingue neolatine sono un
fattore essenziale, sia per valori intrinseci, sia come fattore di pluralità nei confronti
dell’imperialismo linguistico inglese. Io ho profondo rispetto per le tante caratteristiche positive e
dinamiche della lingua e della civiltà inglese, ma l’inglese della comunicazione internazionale è
neutro, impersonale, arido, meramente tecnico, espressivamente povero. Certo, è utile. Ma sembra
diventato un vezzo, una moda deteriore, in taluni casi una sudditanza.
Le caratteristiche comunicative, espressive, letterarie delle lingue neolatine sono, invece,
straordinarie e meritano di non essere sottovalutate. L’esprit de geometrie et de finesse del
francese, la sonorità e il calore dello spagnolo, le caratteristiche suasorie del portoghese-brasiliano
e, permettetemi di dirlo, la straordinaria eufonia dell’italiano, sono un patrimonio di civiltà che
merita molte più interazioni di quante non ve ne siano oggi: sia chiaro, interazioni dirette tra reti
culturali e associative, non aspettative di politiche statali. Si pensi, ad esempio, agli stessi Stati
Uniti d’America, cuore dell’irradiazione mondiale della lingua inglese, dove si stanno affermando
forme nuove di pluralità, costituite da comunità apertamente ispanofone - come in California e in
Texas - con proprie reti radiotelevisive, di carta stampata ecc.
Ecco, le lingue neolatine e le civiltà mediterranee latine possono dare un forte contributo alla
pluralità, multipolarità, molteplicità del mondo attuale. Hernando de Soto, professore latinoamericano, figlio cioè di questa terra, ha dimostrato con ricerche sul campo quanta ricchezza
nascosta vi sia nell’apparente miseria delle metropoli latino-americane; e come questa ricchezza
‘pietrificata’ possa essere dinamizzata da un diverso ordine giuridico e di relazioni umane, non di
importazione anglosassone o nordeuropeo, ma specifico, auto-regolato, conforme agli usi, ai
costumi, ai valori dei popoli, improntato a un codice di regole di condotta, che si ac-cor-da
perfettamente con le storie e le attese dei popoli latini e mediterranei.
I latini potranno liberarsi dai complessi di inferiorità o dai risentimenti verso i paesi più
prosperi solo liberandosi dall’idea primitiva e servile che l’economia mondiale sia una torta da
spartire. È un’idea sbagliata. Semmai le risorse ambientali sono limitate, non la possibilità di
creare ricchezza. La libertà la si conquista con i propri valori, le proprie condotte, non con il
risentimento e i pregiudizi verso gli altri. Bisogna sapere che quel che va bene a Filadelfia, non va
bene a Bahia. Le straordinarie risorse della latinità stanno nel riconoscimento del diritto
personale concreto, nel ritrovare le proprie radici culturali, nel ri-apprendere uno spirito
imprenditoriale, nella creatività-fantasia che non si disperde nei mille rivoli delle buone intenzioni
e della rassegnazione.
L’idea neo-testamentaria “gli ultimi saranno i primi” esige la messa in discussione dell’ordine
costituito: umiltà ma non rassegnazione, dinamismo delle opere della fede, naturalezza della
concorrenza. Se si riporta al centro l’uomo singolo, allora conta l’uomo come è, non come
dovrebbe essere secondo le generalizzazioni pseudo-sociologiche o secondo le pianificazioni del
potere. Perché conta la concretezza delle relazioni umane, non la legge del numero e le
uniformazioni del diritto positivo. In questo senso, discutere di una antropologia latina può
significare qualcosa. Ma solo a condizione di considerare queste qualità, espresse o potenziali.
Questo potrebbe essere il senso della definizione di “uomo cordiale” coniata del grande storico
brasiliano Sergio Buarque de Hollanda.
Vedete, e mi appresto alla conclusione, per una ragione o per l’altra, terra, patria, idioma,
popolo, razza, sono diventate parole impronunciabili. Su di loro, per lungo tempo, si è proiettato
un lungo cono d’ombra. Oggi, però, esse attendono da noi risposte all’altezza del passaggio storico
che viviamo, dal quale dipende l’avvenire dell’Occidente. Oggi che la mente europea sembra
essersi impadronita del mondo (ci aiuta qui il concetto di mondia-latinizzazione di Derrida); oggi
che non vi sono altri confini da trasgredire – perché si è dissolto ogni confine certo e, con esso,
ogni integrità territoriale – finalmente i contendenti potrebbero riscoprire la capacità di aprire
questi confini l’un all’altro, senza rinunciare alle proprie convinzioni, senza che l’esodo dalla
propria verità si trasformi in un sentimento di pericolo, di vertigine, di abbandono.
Questo nuovo inizio esige – come ha scritto il filosofo Massimo Cacciari - che l’Occidente metta
in questione, innanzitutto, il proprio occidente. L’Europa latina deve volersi occidente della sua
storia. Così sarà se stessa. Solo essa può produrre, nel proprio centro, un contraccolpo contro se
stessa. La mente europea ha dentro di sé, come promessa e pericolo massimi, il proprio tramonto.
La più alta forma di contesa che essa abbia immaginato è quella contro se stessa: la lotta
dell’anima contro se stessa. Questo è, forse, il nesso più profondo tra eredità classica e
cristianesimo. Odiare se stessi – cioè odiare la propria volontà di conservazione, di sopravvivenza,
la propria inospitale resistenza al richiamo dell’altro. Ecco, se noi potessimo muovere guerra a noi
stessi, una guerra che risparmi nulla, tale da costringerci a tutti gli ostacoli e a tutte le
interrogazioni, da non evitare alcuna responsabilità; se potessimo restare così vigili e insonni in
noi, contro di noi, e non contro l’altro; se potessimo contrastare ogni egoismo; allora, forse,
smetteremmo di essere ostili fuori di noi. Nei suoi momenti più alti e drammatici, il Mediterraneo
ha immaginato la pace solo al culmine di questa guerra interiore, di questa distruzione, in noi, di
ogni difesa, ogni riparo, ogni consolazione.
Questo pensiero appartiene al Mediterraneo; ha accompagnato la sua mente errante lì dove il
suo demone la conduceva. Dobbiamo sperare l’accompagni fino a che essa riconosca il proprio
occidente; fino a che, da costruttrice di utopie, essa sappia pensarsi come atopìa: il non-luogo
dove la volontà di potenza confligge in sé e implode, per risalire a una visione più chiara del
mondo. Ecco, quando questo av-verrà, allora Europa, sposa di Giove, potrà mittere singultus,
emettere il pianto, come colei che ha dato nome alla mèta del mondo. Come Occidente che si
compie in sé essa potrà donare ai suoi futuri viandanti quel mattino così puro, luminoso, sereno,
che ci indicherà la patria comune verso la quale siamo in cammino.
Questa patria comune è una comunità di destino di assolutamente distinti, dove ognuno
rifiuterà la tentazione di vincere. Saremo, infatti, davvero in-comune solo se sapremo ancora
dibattere e cercare di comprendere. Nessuno dovrà indebolire la propria verità, nessuno dovrà
‘armonizzarla’. Alla fine, quella verità che è verità della congettura e sapere dell’esodo, ci apparirà.
Allora, prenderemo congedo, l’uno dall’altro, gentilmente. Ma decideremo di doverci incontrare
ancora. E ancora incontrare. E continuare a dibattere. Con tutto il potere della ragione. Senza
indifferenza. Senza vuota tolleranza. Decideremo che il colloquio, il nostro colloquio, dovrà
proseguire per pensieri e sentieri che nessuna rappresentazione potrà mai esaurire.
Si cerca non perché un fine ponga termine al cercare, ma perché nella ricerca cresce l’amore di
ciò che viene cercato. È intelligenza il contraccolpo a tutto ciò: l’intelligenza che vuole sapere, ma
che sa anche di non poter tutto sapere; l’intelligenza che vuole potere, ma che sa anche del moto
contrario generato ogni volontà di potenza; l’intelligenza che vuole amare, ma che sa anche
l’impossibilità di possedere ciò che davvero si ama.
21/08/2003 – Mostra Sesc de Artes - Latinidades
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