IDEA
L’IDEA è un’illuminazione, è un lampo.
Può essere una parola, che magari indica uno stato d’animo (solitudine, gelosia, rabbia); o una
situazione (un uomo chiuso in ascensore con un estraneo); può essere un ricordo improvviso
(quando il mio amico annegò nel fiume); una persona (un uomo bugiardo, una donna molto grassa).
Qualunque sia il motivo per cui quella particolare idea risalta sulle altre non dobbiamo perderla. E’
lo spunto, può essere il nucleo narrativo di un racconto o di un romanzo. Bisogna appuntarla o
legarla al polso come fosse un palloncino e lavorarci sopra.
Come lavorarci sopra. Pensarci, capire se si tratta di un’idea originale oppure no, magari
confrontarsi con qualcuno. Vedere l’effetto che fa. E poi, da quel momento, ognuno ha un proprio
metodo di sviluppo. C’è chi prende appunti, chi fa una scaletta, chi scrive una specie di soggetto, chi
lavora solo mentalmente e chi scrive.
C’è chi compie un lavoro preliminare, studiando attentamente l’ambientazione di un suo romanzo
prendendo appunti per mesi o per anni, elaborando diagrammi dell’intreccio, compilando il
curriculum vitae dei personaggi (Flaubert si ammazzava di fatica su ogni paragrafo e sembra che
James Ellroy, lo scrittore americano di noir scriva 250 pagine di scaletta per un libro di 200 pagine),
chi invece cerca le parole per un attacco, un’immagine d’apertura non considerando utili scalette o
appunti
c’è chi si costruisce tutto in mente prima di stendere una sola parola (Zola si arrischiava a scrivere
soltanto quando l’opera oramai completa si svolgeva sotto i suoi occhi)
chi trova un personaggio e si fa guidare da lui, (Stendhal componeva lasciandosi trascinare dalla
penna).
Mary Shelley ebbe l’idea di scrivere Frankestein da un sogno che aveva fatto.
L’idea è diversa dal TEMA. Il tema è l’espressione del proprio pensiero e quindi anche la
realizzazione di un racconto su un determinato argomento. E’ la propria opinione, basata sulla
propria capacità di riflettere sul mondo. Il plot invece è l’intreccio.
Secondo Patricia Highsmith il germe di un’idea è probabilmente ogni cosa: un bambino che
cadendo sul marciapiede rovescia un cono gelato. Il germe della trama di Sconosciuti in treno (poi
con Hitchcock: Delitto per delitto) era: due persone decidono di assassinare il nemico una dell’altra,
creandosi con ciò un alibi perfetto”..
Il germe delle idee per una storia può essere piccolo o grande, semplice o complesso, frammentario
o completo, fermo o in movimento. L’importante è riconoscerlo. Lei li riconosceva da una certa
eccitazione che sentiva dentro di sè.
Alcune cose che sembrano idee per una trama non lo sono: non crescono, e non rimangono nella
mente. Il germe di un’idea porta spesso con sé un fattore importantissimo per il prodotto finale:
l’atmosfera.
Le idee sono ovunque, fatti che ci sono accaduti, fatti letti nel giornale, Trovare le idee non è un
problema mentre il problema è capire fra i brandelli di idee che ci affollano la mente quale può
essere una storia potenziale. E soprattutto una storia a cui possiamo tenere e che possiamo
raccontare bene.
Ci sono alcune domande che dovremmo porci quando pensiamo di aver trovato un’idea: ci teniamo
veramente a questa storia? C’è sempre una grande differenza fra la storia che ci viene in mente
e quella che vogliamo raccontare al lettore. Forse per lo scrittore professionista questo scarto è
minore ma il principiante deve scrivere molto per accorciare questo divario.
I TACCUINI sono utili. Vale la pena di buttar giù anche solo tre o quattro parole, che poi
evocheranno un pensiero, un’idea, uno stato d’animo. Nei periodi sterili bisognerebbe sfogliare i
taccuini, e alcune idee potrebbero improvvisamente cominciare a muoversi. Due idee potrebbero
unirsi, forse perché fin dall’inizio erano fatte per combinarsi.
Registrare le ESPERIENZE EMOTIVE. La stragrande maggioranza della gente è capace di
esperienze emotive, sia grandi che piccole. Lo scrittore coglierà anche le più esili, e le utilizzerà se
ne sarà capace.
La Highsmith chiamava queste esperienze schiaffi emotivi. I colpi e le impressioni più varie sono il
materiale di cui gli artisti hanno bisogno per lavorare. Questa ricettività, questa consapevolezza
della vita è l’ideale per un artista ed ha la precedenza su tutto.
Molte idee nascono da ricordi personali e molti narratori trovano sicurezza nell’AUTOBIOGRAFIA.
Ma la prima cosa che uno scrittore deve imparare è uscire da sé e assumere i panni di personaggi
diversi e lontani da lui. Solo così potrà trovare un lessico e una lingua per ogni personaggio.
Altrimenti come spesso succede si utilizza una sola lingua, la propria.
Per creare un minimo di distanza con i personaggi sarebbe bene esercitarsi a lungo a scrivere in
terza persona.
Prima di cominciare la vostra storia chiedetevi se è davvero importante per voi e se possa avere
la stessa importanza per il lettore. Quante volte pensiamo che le fotografie delle nostre vacanze
possano interessare gli amici. Se può essere una storia in qualche modo UNIVERSALE, in cui il
lettore, almeno un lettore, possa riconoscersi.
La narrativa richiede un atteggiamento di separazione dalla materia trattata che fa dell’autore un
OSSERVATORE CRITICO. Critico con tenerezza, o con rabbia, con nostalgia, ma difficilmente
l’adesione può essere totale e cieca.
Ci sono storie nelle quali siamo ancora troppo coinvolti per avere la giusta prospettiva dalla quale
raccontarle. Bisogna essere liberi dalle emozioni per descriverle. Dovete raccontarle attraverso altri
occhi che non siano i vostri. Anche se le esperienze che abbiamo vissuto, le emozioni e le sensazioni
provate possono essere materia importantissima per i nostri racconti. L’esperienza personale
è una miniera inesauribile di materiale e di idee. Sono le proprie ESPERIENZE DIRETTE che
inserite in un racconto lo rendono credibile. Dickens in questo era un maestro.
L’altra cosa da tenere presente quando si ha un’idea è la certezza che questa idea possa avere un
MOTORE che la faccia camminare. Si dice che l’intreccio è un verbo. Vuol dire che l’intreccio è
azione, movimento, conflitto. Se l’idea è solo un aggettivo o una descrizione magari non ha la forza
di diventare una storia. L’idea, perché possa dar vita a una drammaturgia, a una storia, deve
comportare un CONFLITTO.
L’idea può anche essere un personaggio, la sua stessa caratteristica accenderà il motore
dell’azione. (Bertleby lo scrivano di Herman Melville)
L’idea può essere una situazione particolare che non può durare (L’uomo che guardava passare i
treni di Georges Simenon)
Scrive Italo Calvino in “Lezioni americane”: all’origine di ogni mio racconto c’è un’immagine visuale:
un uomo tagliato in due metà che continuano a vivere indipendentemente; un ragazzo che si
arrampica su un albero e poi passa da un albero all’altro senza più scendere a terra; un’armatura
vuota che si muove e parla come ci fosse dentro qualcuno.
INCIPIT
Scrive un personaggio del libro di Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore”: “vorrei poter
scrivere un libro che fosse solo un incipit, che mantenesse per tutta la sua durata la potenzialità
dell’inizio, l’attesa ancora senza oggetto”. E in parte lo stesso Calvino ci riesce nel libro. Il libro è
costruito di 10 inizi di romanzo tenuti insieme da una cornice dedicata alla ricerca affannosa di un
Lettore e di una Lettrice che desiderano conoscere le continuazioni dei romanzi interrotti per disguidi
tipografico-editoriali. I due personaggi sono costretti a correre da un romanzo all’altro, tra librai,
case editrici, traduttori e scrittori, fino a imbattersi in regimi dittatoriali e società segrete. Stili
diversi, ambientazioni diverse, temi diversi e tutti hanno la stessa tensione narrativa. E quando si
interrompono sia noi lettori che i lettori-personaggi del libro hanno un grandissimo desiderio che il
romanzo prosegua. Lo stesso incipit del libro è originalissimo: “Stai per cominciare a leggere il
nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di italo Calvino. Rilassati. Raccogliti”.
E ancora più particolare il fatto che mettendo insieme le prime righe di ognuno di questi incipit di
romanzi si ottiene l’incipit di un undicesimo romanzo.
Ha scritto Italo Calvino nell’Appendice alle Lezioni americane: “Fino al momento precedente a
quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo: … il mondo dato in
blocco, senza un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita…
Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore è
l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la
singola storia che ha deciso di raccontare”.
Chichita Calvino nella nota introduttiva alle cinque Lezioni Americane del marito, annota che egli
stava pensando, per l’ultima, agli inizi e alla fine dei romanzi.
L’inizio di un romanzo o di un racconto è il punto cruciale di ogni testo narrativo, è un tema che ha
affascinato molte persone. E’ da lì che capiamo il tono, il ritmo e la decisione espressiva, il manifesto
programmatico di chi scrive. La prima frase fa da spartiacque fra le tante narrazioni possibili che
un autore può agire, fra i tanti mondi che chiedono l’accesso alla pagina.
“Se stiamo attenti, nella prima frase come anche nella frase di chiusura, è contenuto il Dna di
quell’organismo che è il romanzo”. (Giuliano Gramigna)
Poche battute dell’OUVERTURE riassumono l’opera che essa introduce; così la prima pagina di un
romanzo ce ne suggerisce il tono, il ritmo, talvolta il soggetto.
Secondo Aristotele una storia deve avere un inizio, una metà e una fine.
Riuscire a creare una vera SUSPENSE fa parte delle grandi qualità di uno scrittore e in qualche
modo dovrebbe essere la regola in qualsiasi libro, anche in quelli in cui uno meno se lo aspetta. La
suspence non riguarda solo i libri gialli in cui spesso la suspence è artefatta. Ma un po’ di mistero,
l’attesa che crea il mistero è quasi indispensabile per incatenare il lettore al libro. La sospensione,
l’attesa.
Quando inizia un romanzo? Potremmo dire che è il punto in cui dovremmo sentirci “Attirati
dentro la vicenda”. Quando siamo presi all’amo.
Meglio iniziare con una SCENA, una situazione più che con un’idea o con una descrizione. Qualcosa
che il protagonista viva esprimendo in qualche modo chi è, che tipo di persona è. Se non si comincia
con una scena bisogna riempire il vuoto dell’azione mancata con qualcosa di speciale e potente.
Un altro consiglio è quello di caratterizzare con un particolare DETTAGLIO il o i personaggi e anche
il luogo in cui si svolge l’azione. Qualche oggetto o gesto che diventino indimenticabili e che
raccontino di una persona o di un luogo molto di più di una lunga descrizione.
Cechov dice che la bellezza d’un chiaro di luna può venire raccontata solo facendo passare sotto gli
occhi del lettore lo scintillio di alcuni cocci di bottiglia persi a terra.
Shopenhauer dice che il compito del romanziere non è quello di narrare grandi fatti ma quello di
rendere quelli piccoli, gli infinitesimi, interessanti, necessari, unici. Rendere non solo interessante
ma fatale quel procedere e accatastarsi di eventi minimi.
Se consideriamo il plot come un movimento dalla stabilità all’instabilità alla stabilità, l’inizio
deve essere il momento in cui si cade nell’INSTABILITA’. Questo squilibrio introduce un
periodo di lotta, un conflitto per ristabilire l’equilibrio. Anche se l’equilibrio finale può essere molto
diverso da quello iniziale.
Prendiamo L’Edipo Re di Sofocle. L’equilibrio iniziale consiste nel fatto che Edipo è re di Tebe e ha
sposato Giocasta. Nella prima scena il popolo tebano va da lui a riferire della terribile maledizione
caduta sulla loro terra. Il raccolto non va bene, la gente ha fame e così via. Questa è l’instabilità che
Edipo, come re, deve combattere. Lui non sa che questo percorso porterà alla sua distruzione. Alla
fine avrà scoperto di essere l’origine e la causa della maledizione perché ha ucciso suo padre e
sposato sua madre. Giocasta si uccide e Edipo si acceca alla vista del suo cadavere. Alla fine sarà
condotto fuori scena da un bambino che lo accompagna a mendicare per il mondo, ma avrà
ristabilito l’equilibrio nel suo regno attraverso la propria sofferenza.
Molti scrittori consigliano di iniziare IN MEDIAS RES. Tecnica che viene usata sia nell’Iliade che
nell’Odissea. Quando l’Iliade comincia, siamo in mezzo alla guerra di Troia e Achille è già infuriato.
Quando comincia l’Odissea sono già diversi anni che Ulisse è in viaggio verso casa e molte delle
avventure che ha avuto le racconta lui.
Ma anche l’Amleto comincia qualche tempo dopo il delitto che l’eroe vendicherà.
Un incipit efficace deve fare in modo che la storia vada avanti e rivelare che tipo di storia sarà.
Deve introdurre e caratterizzare il protagonista. Deve attrarre l’attenzione del lettore perché
abbia il desiderio di continuare.
Ovviamente molti inizi fanno di più. Presentano altri personaggi, forniscono l’atmosfera della storia o
il tema.
Perché questi inizi siano efficaci occorre: personaggio, conflitto, specificità e credibilità.
L’inizio deve dare al lettore un personaggio su cui fissare l’attenzione. In una novella questo
personaggio deve apparire quasi subito e deve essere un individuo, non un tipo. In un romanzo
può apparire più tardi (Anna Karenina arriva molto tardi).
(Raymond Chandler, Specialista in guai (La semplice arte del delitto) “Anna Halsey, mezza età,
faccia tinta e ritinta, vestito nero di taglio maschile, era vicina ai centoventi chili. I suoi occhi erano
simili a due bottoni neri da scarpe, le sue guance molli come il sego e approssimativamente dello
stesso colore. Sedeva dietro a un tavolo di vetro nero che pareva la tomba di Napoleone e fumava
una sigaretta in un bocchino un po’meno lungo di un ombrello arrotolato. Disse: “Mi occorre un
uomo”)
Il conflitto è qualcosa che arriva perché qualcosa non sta andando come previsto. Il lettore deve
accorgersene nei primi paragrafi. Il conflitto può anche essere molto sottile e esistere soltanto
nella testa di un personaggio con gli altri ignari della sua angoscia. Ma deve essere presente sin
dall’inizio anche se sarà sviluppato più tardi.
Iniziare dunque con un’ indicazione che qualcosa non va come previsto, o qualcuno sta facendo
esperienza di una emozione di disturbo, o qualcosa sta per cambiare.
(“L’uomo che guardava passare i treni di Georges Simenon: “Per quel che riguarda personalmente
Kees Popinga, si deve convenire che alle otto di sera c'era ancora tempo, perché a ogni buon conto
il suo destino non era segnato. Ma tempo per che cosa? E poteva lui agire diversamente da come
avrebbe poi agito, persuaso com'era che i suoi gesti non fossero più importanti di quelli di mille altri
giorni del suo passato?
Avrebbe scrollato le spalle se gli avessero detto che la sua vita sarebbe cambiata di punto in bianco,
e che quella fotografia sulla credenza, che lo ritraeva in piedi fra i familiari, una mano
distrattamente poggiata sulla spalliera di una sedia, sarebbe stata riprodotta da tutti i giornali
d'Europa?”)
Specificità: un incipit efficace deve usare dettagli specifici. Possono riguardare un discorso,
un’ambientazione, i pensieri di un personaggio, qualsiasi cosa sia rilevante. I dettagli ancorano la
storia nella realtà, distinguono un incipit da centinaia di altri inizi simili.
(Gabriel Garcia Marquez, L’amore ai tempi del colera: “Inevitabile: l’odore delle mandorle amare gli
ricordava sempre il destino dell’amore non corrisposto”)
Credibilità: anche i più accurati e interessanti dettagli non valgono a nulla se la prosa non è
credibile. L’essenza della credibilità è il controllo. Una prosa credibile usa solo il giusto numero di
parole per creare un effetto. Se la storia può essere raccontata con la metà delle parole perché il
lettore dovrebbe leggerne il doppio?
Le scene o le sequenze sono di due tipi: DRAMMATICHE E DESCRITIVE.
Quelle descrittive riassumono l’azione che non ha bisogno di essere raccontata in diretta. La prima
scena non dovrebbe essere di questo tipo. Ma dovrebbe proporre un cambiamento. Sarà
interessante se qualcosa è cambiato alla fine della scena. L’ultima frase della scena è molto
importante, così come l’ultima di un capitolo, l’ultima di un libro. L’ultima frase di una prima scena
dovrebbe scatenare un’emozione.
Il lettore non vuole essere tuffato d’improvviso in un mare di informazioni, di fatti complessi, che
difficilmente potrà collegare ai personaggi, visto che non ha ancora avuto occasione di conoscerli.
Nello stesso tempo sbattere il lettore nel bel mezzo di una scena emotiva, di una lite, di una scena
passionale di qualsiasi tipo è uno spreco di munizioni dato che il lettore non può assolutamente
sentirsi coinvolto senza conoscere i personaggi. E’ bene dare un senso di movimento senza
presentarne subito le ragioni.
E una buona norma fornire nel primo capitolo delle linee d’azione. Le linee d’azione sono linee di
azione potenziale come il desiderio di un personaggio di fare un viaggio…
L’inizio è una implicita promessa. Ogni storia fa una promessa al lettore. Una promessa
emotiva (leggilo e sarai divertito, spaventato, rattristato, coccolato ma sempre assorbito) e una
intellettuale: (leggilo e vedrai il mondo da un’altra prospettiva; leggilo e vedrai confermato quello
che credi a proposito di questo mondo; leggilo e conoscerai un mondo diverso da questo.)
Ovviamente come scrittori occorre sapere quale promessa la storia deve fare. I lettori potrebbero
acquistarlo proprio perché appartiene al genere di promesse che si vogliono sentire fare. (Thriller...)
E nel momento in cui il lettore legge l’inizio della storia conosce qual è la promessa. E’ ovvio che alla
fine della storia la promessa deve essere mantenuta.
La concordanza tra l’inizio e la fine appare come una prova di coerenza nella costruzione del
racconto ed anche come uno strumento che permette al romanziere di esprimere il suo pensiero,
persino la sua visione del mondo. Sin dalle prime pagine sono poste delle domande alle quali
daranno una risposta il successivo sviluppo e soprattutto la conclusione.
L’esempio del romanzo poliziesco è particolarmente probante a questo riguardo poiché esso si
presenta spesso come un intreccio puro nel quale i personaggi e le idee contano meno del
problema da risolvere.
Non si deve tentare un ritmo velocissimo o lentissimo se, a scriverlo, ci si sente sforzati e
innaturali. Alcuni libri sono scattanti fin dall’inizio, alcuni sono lenti fino alla fine, smorzano,
analizzano ed elaborano i fatti. Alcuni cominciano lentamente, prendono velocità e alla fine corrono
a perdifiato.
A proposito di inizi Eco fa l’esempio della Quinta di Beethoven che inizia bene, ti dice subito che
sta accadendo qualcosa di importante e l’Incompiuta di Shubert che inizia talmente in sordina
che non ci si accorge neppure che è cominciata.
Dopo due righe, il lettore deve essere schiavizzato, incapace di liberarsi dalle pagine; deve trovarsi
coinvolto fino al parossismo, deve sudare e prendere cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo
godimento. Questa è letteratura. Pier Vittorio tondelli, L’abbandono (Colpo d’oppio)
ESEMPI
“Un cuore così bianco” di Javier Marias
Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una delle bambine, quando non era più bambina ed
era appena tornata dal viaggio di nozze, andò in bagno, si mise davanti allo specchio, si
sbottonò la camicetta, si sfilò il reggiseno e si cercò il cuore con la canna della pistola di suo padre,
il quale si trovava in sala da pranzo in compagnia di parte della famiglia e di tre ospiti. Quando
echeggiò lo sparo, più o meno cinque minuti dopo che la bambina si era allontanata, il padre non si
alzò subito da tavola, ma restò qualche secondo incapace di muoversi e con la bocca piena, senza
riuscire a masticare né ingoiare e tanto meno sputare il boccone nel piatto; e quando, alla fine,
reagì e corse in bagno, chi lo aveva seguito notò che mentre scopriva il corpo insanguinato della
figlia e si metteva le mani nei capelli continuava a passare il boccone di carne da una guancia
all’altra, senza sapere che farne. Stringeva in mano il tovagliolo, e lo lasciò andare solo nel
momento in cui, accortosi del reggiseno abbandonato sul bidè, cercò di nasconderlo con il
tovagliolo che teneva a portata di mano o stretto in mano e che le sue labbra avevano macchiato,
come se provasse più vergogna alla vista di quell’indumento intimo che davanti al corpo riverso e
seminudo con cui l’indumento era stato a contatto fino a poco prima: il corpo che si era seduto a
tavola, e poi aveva attraversato il corridoio e si era diretto in bagno.
Fin dall’inizio viene indicato il tema del libro: il narratore non voleva sapere. E’ un uomo che
preferirebbe non sapere perché quando si sa tutto potrebbe cambiare. In questo caso cambierà la
sua visione del padre. Presente poi anche la vittima di quello che sarà il giallo, il mistero del libro: la
bambina e la sua morte. A quel punto comincia il romanzo con le descrizioni dei personaggi e in
questo caso quella bellissima della reazione del padre della bambina, imbarazzato più dalla presenza
del reggiseno della figlia che dal suo suicidio. Non ho voluto sapere: presenta il narratore e gli dà
una connotazione (non voleva sapere) Quando non era più bambina ed era appena tornata dal
viaggio di nozze: informazioni basilari sul personaggio della bambina suicida. Segue una descrizione
del padre (che sarà un personaggio importante nel seguito della storia) fatta di dettagli importanti.
(quando tenta di nascondere il reggiseno col tovagliolo)
L’ultimo giorno d’estate di Ian McEwan
Quando la sento ridere per la prima volta ho dodici anni, e sto sdraiato seminudo al sole a pancia in
giù, nel prato dietro casa. Non so niente, non mi muovo, chiudo gli occhi. E’ una risata di ragazza, di
giovane donna, breve e nervosa come se ridesse di una cosa per niente buffa. Con la faccia per
metà nell’erba che ho tagliato un’ora fa, annuso la terra fresca lì sotto. Dal fiume arriva una brezza
leggera, il morso del sole tardopomeridiano sulla schiena e quella stilettata di risata diventano
una cosa sola, un unico sapore nella mente. La risata si interrompe, e non odo altro che la brezza
che sbatte le pagine del mio giornalino, Alice che piange da qualche parte di sopra e un senso di
pesantezza estiva su tutto il giardino.
E’ un racconto che parte lentamente. Parte da una situazione: un ragazzo di dodici anni ha appena
finito di falciare l’erba e si riposa sul terreno, bocconi. Sente la risata di una ragazza e nella risata
c’è qualcosa che stride, qualcosa che contrasta con l’atmosfera pacifica e serena. Qualcuno ride in
modo nervoso, sembra un tic visto che non ride per qualcosa di buffo. Ecco che allora la risata
sgradevole porta con sé anche la sensazione sgradevole del calore del pomeriggio e subito dopo
anche il pianto di una bambina e un senso di pesantezza estiva. Sono le avvisaglie di quello che
dovrà succedere, di un evento che sconvolgerà la pace di un’estate come un’altra e che ruoterà
proprio intorno a quella risata e al pianto della bambina. E infatti subito dopo veniamo a sapere che
la ragazza, che si chiama Jenny, è grassa, molto grassa. Porta gli occhiali, ha le mani umide, suda
continuamente. Jenny abiterà nell’attico della casa di campagna dove il protagonista vive in
campagna di suo fratello Peter da quando i loro genitori sono morti in un incidente stradale. La casa
è una specie di comune, abitata da Kate, la madre della piccola Alice, Sam e Josè… Jenny va spesso
il pomeriggio sul fiume, a bordo della barca a remi del protagonista. Racconta di quando insegnava
in una scuola e i bambini la prendevano in giro perché era grassa o di quando lavorava in un
supermercato. In casa si dà da fare e cambia molte cose in meglio. Si occupa di Alice, cucina
meravigliose torte ma tutti la guardano come fosse una persona diversa da loro, come una specie di
minorata mentale e spesso distolgono gli occhi. Poiché Jenny è così brava con la piccola Alice, la
vera madre gliela affida sempre più spesso fino a permetterle di sostituirla in tutto. E così il
protagonista passa le giornate insieme a Jenny e, suo malgrado, anche insieme alla piccola. L’ultimo
giorno d’estate, prima di tornare a scuola, il ragazzino invita Jenny ancora una volta in barca sul
fiume e lei si porta Alice. Poi dicono qualcosa e Jenny si fa prendere da una risata convulsa, la sua
risata, che spaventa la bambina e squilibra la barca che si rovescia. Jenny e Alice annegano.
UN
ROMANZO/RACCONTO
PUÒ
AUTOPRESENTAZIONE DEL NARRATORE
PRENDERE
L’AVVIO
DA
UN’ORIGINALE
Chiamatemi Ismaele
Herman Melville, Moby Dick
O CON UNA PRESENTAZIONE DI SE STESSO COME PERSONAGGIO NEGATIVO
Andare davanti al giudice, dirgli: “Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe
morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l’ho uccisa”
Gabriele D’Annunzio, L’innocente
Il mio vero nome è così noto negli archivi o registri di Newgate e dell’Old Bailey, e ci sono ancora in
sospeso riguardo la mia condotta personale cose di una tale gravità che non si può pretendere che
riporti qui il mio nome o la storia della mia famiglia
Daniel Defoe, Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders
Spesso m’è stato chiesto come, e attraverso quale serie di passi, divenni consumatore d’oppio
Thomas de Quincey, Le confessioni di un mangiatore di oppio
Permettetemi, per il momento, di chiamarmi William Wilson, così che la pura pagina che mi sta
dinanzi in questo momento non abbia ad essere sporcata dal mio nome vero, un nome che troppo è
già stato oggetto di scorno, d’orrore, d’abominazione per la mia casata
Edgar Allan Poe, William Wilson
O CON UN ATTACCO CLASSICO DA AUTOBIOGRAFIA
Se finirò per essere io l'eroe della mia propria vita, o se questo posto verrà preso da qualcun altro,
si vedrà nel corso delle pagine che seguono.
Charles Dickens, David Copperfield
Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia
Pascal
Luigi Pirandello, il fu mattia Pascal
E’ strano che io, contrario per mia natura a parlare di me e delle cose mie con i miei amici in un
canto del focolare, per la seconda volta nella mia vita prenda a narrare cedendo a un impulso
autobiografico.
Nathaniel Hawthorne, Lettera scarlatta
O CON UN
LETTERARIA
ATTEGGIAMENTO
TRADIZIONALE
INSOLENTE
NEI
RIGUARDI
DELLA
AUTOBIOGRAFIA
Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono
nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella
prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non va proprio di
parlarne.
Jerome D. Salinger, Il giovane Holden
Avrei potuto benissimo farne a meno, ma non ho saputo resistere alla tentazione di scrivere la storia
dei miei primi passi nella vita… D’una cosa, però, sono assolutamente convinto, che se anche
dovessi campare fino a cent’anni, un’autobiografia non la stenderò più di certo. Bisogna essere
troppo sfacciatamente innamorati di se stessi, per parlare, senza vergognarsene, della propria
persona.
Fedor Dostoevskij, L’adolescente
Avrei desiderato che mio padre o mia madre, o meglio tutti e due, giacchè entrambi vi erano
ugualmente tenuti, avessero badato a quello che facevano, quando mi generarono
Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo
O CON L’IO NARRANTE CHE PRESENTA UN ALTRO PERSONAGGIO
Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 per non uscirne più. Da allora è passato più di un quarto
di secolo, più di novemila giorni tediosi e senza scopo, che l’assenza della speranza ha reso tutti
ugualmente vuoti, Giorni e anni, molti dei quali morti come le foglie secche su un albero inaridito.
Fred Uhlman, L’amico ritrovato
Ci siamo incontrati per sette anni, quattro volte alla settimana, in casa sua, ci siamo parlati per mille
e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è
Ferdinando Camon, La malattia chiamata uomo
Quando lo vidi per la prima volta, Terry Lennox era ubriaco in una Rolls Royce fuori serie, di fronte
alla terrazza del Dancers
Raymond Chandler, Il lungo addio
Devo ammettere che quando incontrai per la prima volta Charles Strickland neppure per un istante
notai che vi fosse in lui qualcosa di non comune
William Somerset Maugham, La luna e sei soldi
Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in
mezzo a noi
Italo Calvino, Il barone rampante
O CON LA DESCRIZIONE DI UN PAESAGGIO NATURALE O URBANO CHE SARÀ LO SFONDO
PRIMARIO DELLA STORIA,
Quel ramo del lago di Como…
Alessandro Manzoni, I promessi sposi
Sulla bella costa della riviera francese, a mezza strada tra Marsiglia e il confine italiano, sorge un
albergo rosa, grande e orgoglioso.
Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte
PUÒ AVER INIZIO NEL BEL MEZZO DI UNA CONVERSAZIONE
“Allora, non c’è nessuno qui?… BRATH!… Ma che canchero, sono diventati tutti sordi quaggiù…
BRATH!”
“Non strillare, ti fa male strillare, Arnold”.
Alessandro Baricco, Castelli di rabbia
O DA UNA FRASE CHE L’IO NARRANTE O UN PERSONAGGIO RIVOLGE A QUALCUNO
“Ha detto che avrebbe ballato con me se le avessi portato delle rose rosse”, gridò il giovane
Studente, “ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa!
Oscar Wilde, L’usignolo e la rosa
“Te la faccio vedere io la splendida giornata, se non scendi da quella valigia immediatamente, non
sto scherzando”, disse il signor McArdle.
J.D.Salinger, Nove Racconti (Teddy)
“Eh no: tutto non le posso dire. O che le dico il paese, o che le racconto il fatto: io però, se fossi in
lei, sceglierei il fatto, perché è un bel fatto”
Primo Levi, La chiave a stella
“Ascoltami. Ti dirò la verità sulla vita di un uomo. Ti dirò tutto sul suo amore per le donne. Di uno
che non arriva mai ad odiarle”
Mario Puzo, anche i folli muoiono
Miei cari amici, vi sapevo fedeli. Al mio appello siete accorsi proprio come avrei fatto io al vostro
Andrè gide, L’immoralista
Fuori piove. Ho deciso. Cioè non è che ho deciso che fuori piove, pioveva già. Ho deciso che ti
scriverò una lettera. Oggi che è anche il tuo compleanno. Trentatrè per l’esattezza. Così può essere
come un regalo, un pensiero, non è un pacco ma una busta… durerà di più.
Fabio Volo, Esco a fare due passi
E’ vero! Sono stato e sono molto nervoso, spaventosamente nervoso; ma perché volete dire che son
pazzo? La malattia aveva acuito i miei sensi, non li aveva distrutti, non li aveva resi ottusi. E, su
tutti gli altri, avevo più acuto il senso dell’udito. Ho udito tutte le cose del cielo e della terra; e ho
udito molte cose dall’inferno
Edgar Allan Poe, Il cuore rivelatore
O AL LETTORE.
Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo
Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero
Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore
PUO’ INIZIARE CON UN RICORDO
Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera
Marcel Proust, La strada di Swann
O CON L’EVOCAZIONE DEI CARATTERI DOMINANTI DEL TEMPO STORICO CORRENTE
Il 25 maggio 1796 il generale Bonaparte entrò in Milano a capo di quella giovane armata che aveva
varcato il ponte di Lodi e annunciato al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un
successore.
Henri Stendhal, La certosa di Parma
O CON UNA RIFLESSIONE FILOSOFICA O PSICOLOGICA
Io sono una persona malata… sono una persona cattiva. Io sono uno che non ha niente di attraente.
Credo d’avere una malattia al fegato. Anche se d’altra parte non ci capisco un’acca della mia
malattia, e non so che cosa precisamente ci sia di malato in me.
Memorie del sottosuolo – Dostoevskij
Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani?
Aldo Busi, Seminario sulla gioventù
Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo
Lev tolstoj, Anna Karenina
.
CON LA PRESENTAZIONE IMMEDIATA D’UN PERSONAGGIO DA PARTE DELL’AUTORE
L’uomo era alto e così magro che sembrava sempre di profilo. La sua pelle era scura, le ossa
sporgenti e gli occhi ardevano di un fuoco perpetuo.
Mario Vargas Llosa, La guerra della fine del mondo
Anna Halsey, mezza età, faccia tinta e ritinta, vestito nero di taglio maschile, era vicina ai centoventi
chili. I suoi occhi erano simili a due bottini neri da scarpe, le sue guance molli come il sego e
approssimativamente dello stesso colore. Sedeva dietro a un tavolo di vetro nero che pareva la
tomba di Napoleone e fumava una sigaretta in un bocchino un po’meno lungo di un ombrello
arrotolato. Disse: “Mi occorre un uomo”
Raymond Chandler, Specialista in guai (La semplice arte del delitto)
Rossella O’Hara non era una bellezza; ma raramente gli uomini se ne accorgevano, quando, come i
gemelli Tarleton, subivano il suo fascino
Margaret Mitchell, Via col vento
Nel diciottesimo secolo visse in Francia un uomo, tra le figure più geniali e scellerate di quell’epoca
non povera di geniali e scellerate figure. Qui sarà raccontata la sua storia.
Patrick Suskind, Il profumo
CON LA PRESENTAZIONE DI UNA SITUAZIONE BANALE E TRANQUILLA, CHE DI LÌ A POCO
SARA’ INTERROTTA DA EVENTI NEGATIVI
Era una fresca e limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una
George orwell, 1984
Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani, mio
caro lettore
Fedor Dostoevskij, Le notti bianche
Le otto di sera. Per milioni di persone, ognuno nel suo abitacolo, nel piccolo mondo che si è creato o
che subisce, una giornata ben determinata volge al termine, fredda e nebbiosa, quella di mercoledì
3 febbraio.
Georges Simenon, L’ottavo giorno
CON UN’AFFERMAZIONE LAPIDARIA O SCONCERTANTE, DI IMPATTO
Tutti i bambini crescono, meno uno
James M. Barrie, Peter Pan
Era una gioia appiccare il fuoco
Ray Bradbury, Fahrenheit 451
Gli uomini bisogna vederli dall’alto
Jean paul Sartre, Erostrato (Il muro)
Comunque, fra poco sarò morto del tutto, finalmente
Samuel Beckett, Malone muore
Il sole splendeva, senza possibilità di alternative, sul niente di nuovo
Samuel Beckett, Murphy
Oggi, in quest’isola, è accaduto un miracolo
Aldolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel
Abito a Villa Borghese. Non un granello di polvere, non una sedia fuori posto. Siamo soli e siamo
morti.
Henry Miller, Tropico del cancro
Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so.
Albert Camus, Lo straniero
Inevitabile: l’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino dell’amore non corrisposto
Gabriel Garcia Marquez, l’amore ai tempi del colera
Ho lasciato mio marito il giorno del Ringraziamento
Erica yong, Come salvarsi la vita
O SPIEGANDO PERCHÉ SI STA NARRANDO QUELLA STORIA
Tutto il materiale di questo libro non derivato da mia osservazione diretta è stato preso da
registrazioni ufficiali o è il risultato di colloqui con le persone interessate, e molto spesso di tutta una
serie di colloqui che si sono protratti per un tempo considerevole
Truman Capote, A sangue freddo
Con semplicità, e nel modo più sincero possibile tenterò ora di parlarvi dei miei rapporti coniugali,
perché credo che non sia possibile trovare facilmente un caso simile al mio
Junichiro Tanizachi, L’amore di uno sciocco
Se mai la storia delle avventure di un uomo qualunque in questo mondo fu degna di essere
pubblicata, e, una volta pubblicata di essere bene accolta, colui che l’ha data alle stampe è convinto
che questa lo sia.
Daniel Defoe, La vita e le avventure di Robinson Crusoe
O COMINCIARE QUANDO L’AZIONE È GIÀ AVVIATA, IN MEDIAS RES, NEL CUORE
DELL’AZIONE
Un giorno, ero già avanti negli anni, in una hall mi è venuto incontro un uomo. Si è presentato e mi
ha detto: “La conosco da sempre”
Marguerite Duras, L’amante
Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una
relazione troppo seria
Italo Svevo, Senilità
Stavamo nell’aula di studio quando entrò il preside seguito da un nuovo vestito in borghese, e da un
bidello che portava un grosso banco. Quelli che dormivano si svegliarono, e tutti si alzarono in piedi,
come colti in pieno lavoro
Gustave Flaubert, Madame Bovary
A M…, una importante città dell’italia settentrionale, la marchesa di o… , vedova, signora di
eccellente reputazione e madre di bambini bene allevati, fece pubblicare sui giornali che, senza
saper come, si trovava in stato interessante, che il padre del bambino che avrebbe partorito si
presentasse e che lei, per riguardo verso la sua famiglia, era decisa a sposarlo.
Heinrich von Kleist, la marchesa di O…
Quando Gregor Samsa si svegliò una mattina da sogni inquieti, si trovò trasformato nel suo letto in
un immenso insetto
Franz Kafka, Metamorfosi
Tchen avrebbe tentato di sollevare la zanzariera? Avrebbe colpito attraverso di essa? L’angoscia gli
torceva lo stomaco; conosceva la propria fermezza, ma in quell’istante era soltanto capace di
pensarci con ebetudine, affascinato da quel mucchio di mussolina bianca che ricadeva dal soffitto su
di un corpo meno visibile di un’ombra, da cui usciva soltanto quel piede semiabbandonato nel
sonno, pur tuttavia vivo- della carne umana.
Andrè Malraux, “La condizione umana”
Gli ho detto: “dimmi la verità”, e ha detto: “Quale verità”, e disegnava in fretta qualcosa sul suo
taccuino e m’ha mostrato cos’era, era un treno lungo lungo con una grossa nuvola di fumo nero e lui
che si sporgeva dal finestrino e salutava col fazzoletto. Gli ho sparato negli occhi.
Natalia Ginzburg, E’ stato così
Harriet e David si conobbero a una festa aziendale a cui nessuno dei due aveva avuto molta voglia
di andare, e subito capirono di non aver atteso altro
Doris Lessing, Il quinto figlio
Quando, chiuso cautamente il cancello della sua villa e affacciatosi sul viale, nel tramonto roseo, il
medico fu chiamato dalla domestica per una telefonata e, titubante si rispondere o no, si decise alla
fine a tornare sui suoi passi, se ne pentì subito.
Giuseppe Pontiggia, Il raggio d’ombra
Condannato a morte! Sono cinque settimane che abito con questo pensiero, sempre solo con lui,
sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso!
Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte
Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad
aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo
Gabriel Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata
Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di
male, egli fu arrestato
Franz Kafka, Il processo
Non lo nego: sono ricoverato in un manicomio; il mio infermiere mi osserva di continuo, quasi non
mi toglie gli occhi di dosso perché nella porta c’è uno spioncino, e lo sguardo del mio infermiere non
può penetrarmi perché lui ha gli occhi bruni, mentre i miei sono celesti
Gunther Grass, Il tamburo di latta
Ero spossato, spossato a morte da quella lunga agonia, e, quando, finalmente, mi slegarono e mi fu
permesso di sedere, sentii che i sensi mi abbandonavano. La sentenza, l’orribile sentenza di morte,
fu l’ultima frase che mi giunse distintamente all’orecchio.
Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo
Fedor Fedorovic Sigaiev, poco dopo aver sorpreso la moglie sul luogo del delitto, stava nel negozio
d’armaiolo Schmucks e co. E andava scegliendosi la rivoltella adatta. Il suo viso esprimeva collera,
cruccio e una irrevocabile risoluzione
Anton Cechov, Il vendicatore
L’americano porse a Leamas un’altra tazza di caffè e disse: “Perché non andate a dormire? vi
telefoniamo se arriva”
John Le Carrè, La spia che venne dal freddo
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe
ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio
Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine
Antonio Pentagora s’era già seduto a tavola tranquillamente per cenare, come se non fosse accaduto
nulla
Luigi Pirandello, L’esclusa
Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della
all’apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui.
Paul Auster, Trilogia di New York (Città di vetro)
notte e la voce
Ippolita, quando vide contro il parapetto un gruppo di uomini chini a guardare nella strada
sottoposta, esclamò soffermandosi: “che sarà accaduto?”
Gabriele D’Annunzio, Il trionfo della morte
Sognai l’altra notte che ritornavo a Manderly. Mi pareva di essere al cancello che dà sul viale
d’ingresso, e non potevo entrare: la via era sbarrata
Daphne du Maurier, La prima moglie Rebecca
Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una delle bambine, quando non era più bambina ed era
appena tornata dal viaggio di nozze, andò in bagno, si mise davanti allo specchio, si sbottonò la
camicetta, si sfilò il reggiseno e si cercò il cuore con la canna della pistola di suo padre, il quale si
trovava in sala da pranzo in compagnia di parte della famiglia e di tre ospiti
Javier Marias, Un cuore così bianco
La neve sulle montagne si stava sciogliendo e Bunny era già morto da molte settimane prima che
arrivassimo a comprendere la gravità della nostra situazione.
Donna Tartt, Dio di illusioni
FINALI
I finali sono momenti forti di un testo narrativo e non devono essere trascurati.
Per Aristotele corrispondevano alla catarsi, il momento in cui tutta la tensione accumulata nel corso
della lettura deve sciogliersi.
L’impressione di un cattivo finale talvolta può rovinare il gusto al lettore proprio perché non lo
libera dalla tensione, lo lascia con l’amaro in bocca.
Molti principianti iniziano il racconto con un prologo e lo terminano con un epilogo. Questo molto
spesso toglie tensione alla narrazione.
Un altro errore è di non risolvere i conflitti presentati dai personaggi.
Altro errore è il deus ex machina (nel dramma antico gli dei arrivavano sul palco dall’alto,
servendosi di un’apposita macchina) per risolvere la fine.
“Le conclusioni sono il punto debole della maggior parte degli autori” osservava George Eliot.
Per i romanzieri vittoriani i finali costituivano quasi sempre un problema, perché gli scrittori erano
soggetti all’insistente invito di lettori ed editori perché concludessero con un lieto fine.
L’ultimo capitolo era noto tra gli addetti ai lavori come “Liquidazione di fine attività” e Henry
James lo definiva con sarcasmo: “distribuzione finale di premi, pensioni, mariti, mogli, bambini,
milioni, paragrafi aggiunti e allegri commenti”.
Proprio James fu il precursore dei finali aperti, tipici della narrativa moderna, che interrompono
spesso il romanzo nel bel mezzo di una conversazione, lasciando sospesa in aria un’espressione a
effetto, ma ambigua: “Allora eccoci” disse Strether (Gli ambasciatori)
La concordanza tra l’inizio e la fine appare come una prova di coerenza nella costruzione del
racconto ed anche come uno strumento che permette al romanziere di esprimere il suo pensiero,
persino la sua visione del mondo.
Sin dalle prime pagine sono poste delle domande alle quali daranno una risposta il successivo
sviluppo e soprattutto la conclusione.
L’esempio del romanzo poliziesco è particolarmente probante a questo riguardo poiché esso si
presenta spesso come un intreccio puro nel quale i personaggi e le idee contano meno del problema
da risolvere.
All’inizio l’autore promette qualcosa al lettore che deve mantenere.
Pensiamo a “Via col vento”: le forze messe in campo sono: l’ossessione di Rossella per Ashley,
l’impossibilità di Ashley di lasciare Melania e di scegliere Rossella, l’amore di Rett per Rossella, la
pressione esercitata dall’aristocratico Sud nella Guerra civile, il perseguimento di Rossella della
sicurezza economica. Il libro finisce con la sconfitta dei sudisti e su questo Margaret Mitchell non
poteva farci niente, e con Rossella che perde Rett e questa fine è conseguente con il personaggio
di Rossella. Se Rossella fosse stata diversa, la fine poteva essere diversa, per esempio con Rossella
e Rett insieme.
La fine quindi deve essere collegata non solo alla promessa dell’autore ma al carattere del
protagonista.
Dal confronto sistematico tra l’inizio e la fine, il critico francese Roland Barthes trae un metodo di
analisi strutturale di un romanzo: “Stabilire prima i due insieme – limite, iniziale e terminale,
esaminare quindi attraverso quali vie, attraverso quali trasformazioni, quali mobilitazioni, il secondo
si ricongiunge al primo o se ne differenzia: bisogna insomma definire il passaggio da un equilibrio a
un altro, attraversare la scatola nera”
Nelle ultime pagine di un romanzo, l’autore ci consegna spesso la chiave dell’universo che ha
costruito, a meno che non scelga di cavarsela eludendo la difficoltà, o di dare una spintarella
all’intreccio per trarsi d’impiccio.
Sharazade (nelle Mille e una Notte) evitò il suo destino perché seppe maneggiare l’arma della
suspence per sottrarsi alla condanna del suo insopportabile marito. Sopravvisse solo perché seppe
mantenere il re in una condizione di dubbio circa quello che sarebbe successo poi. Ogni volta che
vedeva sorgere il sole si fermava a metà di una frase, lasciandolo a bocca aperta. “In quel momento
Sharazade vide spuntare l’alba e, discreta, tacque”. Questa piccola frase è la spina dorsale delle
Mille e una notte.
Bisogna distinguere all’interno del romanzo la fine della storia e le ultime pagine del testo che
spesso hanno la funzione di una specie di epilogo e poscritto, di un delicato rallentamento del
discorso mentre si avvia alla conclusione. Lo scioglimento o “denouement” in francese.
Il finale a sorpresa di solito è più caratteristico dei racconti brevi che del romanzo. In realtà si
potrebbe affermare che il racconto è fondamentalmente orientato verso il finale, dato che si
inizia un racconto breve in attesa di giungere presto alla conclusione, mentre non si intraprende la
lettura di un romanzo con l’idea precisa di quando lo si finirà.
“Il gesto della morte”, il brevissimo racconto di Jean Cocteau che ha in sè la suspense e la
sorpresa finale.
Un giovane giardiniere persiano disse al suo principe:
“Questa mattina ho incontrato la morte. Mi ha fatto un gesto di minaccia. Salvami tu! Questa sera
vorrei essere, per un miracolo, a Ispahàn”.
Il buon principe gli diede in prestito i suoi cavalli. Nel pomeriggio, il principe incontrò la morte.
“Perché”, le chiese, “questa mattina hai fatto un gesto di minaccia al mio giardiniere?”.
“Io non ho fatto un gesto di minaccia”, gli rispose, “ma di sorpresa. Perché lo vedevo lontano da
Ispahàn la mattina, e io devo prenderlo a Ispahàn questa sera”.
La fine di un romanzo presuppone anche un momento di scioglimento della tensione dopo il
momento di climax mentre la fine di un racconto deve coincidere con il climax.
In certi racconti proprio l’ultima frase è cruciale.
Lo scioglimento finale deve chiudere qualcosa (spiegare che fine faranno i personaggi principali
ad esempio), essere breve (se è troppo lungo toglie tensione al finale, al climax) e drammatico
(deve, cioè, appartenere alla storia, non deve avere un’esposizione diversa)
Abbiamo la tendenza a leggere un racconto tutto d’un fiato, attirati dalla forza magnetica della sua
conclusione preannunciata; mentre prendiamo in mano e abbandoniamo un romanzo a intervalli
irregolari e magari siamo dispiaciuti di arrivare alla fine.
Nei racconti tradizionali la fine era un evento preciso che rispondeva alla domanda posta dal
racconto stesso.
Nei racconti moderni si lascia spesso il finale aperto perché il racconto magari vuole esaminare
una situazione piuttosto che narrare un plot. Non vuole risolvere la situazione perché è una
situazione ambigua che magari è irrisolvibile.
La fine è molto più vicina all’inizio che la parte centrale di un racconto. Le parti centrali hanno
alti e bassi, personaggi che vanno e vengono, crisi e risoluzioni. Ma come l’inizio mette a fuoco una
singola situazione, un problema, un personaggio, e la parte centrale allarga la storia a realtà
diverse, la fine torna alla singola e cruciale situazione dell’inizio.
La fine e l’inizio dovrebbero formare un cerchio.
ESEMPI
Ci sono finali che allargano la prospettiva della storia che fino allora era limitata,
concentrata:
“E l’anima gli si svelava a poco a poco mentre ascoltava la neve che calava lieve su tutto l’universo,
che calava lieve, come a segnare la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti”
James Joyce “L’ulisse”
A volte il finale è un’interruzione pura e semplice della storia.
Come in “Gordon Pym” di Edgar Allan Poe dove il diario si interrompe bruscamente prima della
grande catastrofe finale.
“Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta dove si era spalancato
un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di
proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il
bianco perfetto della neve”.
Altri finali rilanciano la storia, facendo immaginare che non sia finita lì. Questo finale si
adatta ai cicli di romanzi o di racconti (Balzac, Zola).
Papà Goriot, di Balzac termina così quando Rastignac ha appena seppellito Goriot:
“Rimasto solo, mosse qualche passo verso la sommità del cimitero e vide Parigi tortuosamente
adagiata lungo le due rive della Senna dove cominciava a brillare qualche luce (…). Gettò su
quell’arnia ronzante uno sguardo che pareva volesse succhiarne il miele in anticipo e pronunciò
queste solenni parole:
“A noi due, ora!”
E, come primo atto della sfida che egli lanciava alla società, Rastignac si recò a pranzo dalla signora
di Nucingen”.
C’è poi il lieto fine.
“Decidiamo di trascorrere il resto dei nostri giorni sinceramente pentiti della vita malvagia che
abbiamo vissuto”
Defoe, Moll Flanders
C’è poi la conclusione che non conclude (o finale aperto), un genere di explicit prediletto
dai moderni.
Il racconto “Ancora una cosa” di Raymond Carver racconta di un litigio in famiglia tra un padre e una
figlia. L’ennesimo. La moglie, appena arrivata, caccia di casa il marito. Questi prepara la valigia
mettendoci tutto ciò che possiede con infinita lentezza e alla fine, prima di andarsene, si piazza di
fronte alla moglie e alla figlia definendo la loro casa una gabbia di matti e poi finisce:
“L.D. infilò sotto il braccio la busta di plastica e raccolse la valigia.
Disse: “Soltanto una cosa voglio ancora dire”.
Ma poi non riuscì a pensare cosa mai potesse essere.”
Un altro finale è quello che prevede un’illuminazione, una comprensione finale del senso
di tutto ciò che è avvenuto da parte del protagonista o del narratore.
Per esempio in “La morte di Ivan Ilic” di Tolstoj.
“E il dolore?” si domandò. “Dov’è andato? Dove sei dunque, dolore?”
Prestò ascolto.
“Sì, eccolo. Venga pure il dolore!”.
“Ma la morte dov’è essa?”.
Egli cercava il suo vecchio abituale terrore della morte, e non lo trovava.
Dov’è? Quale morte? Non aveva più alcuna paura, perché nemmeno la morte c’era più.
Invece della morte, c’era la luce (…).
“E’ finita!” disse qualcuno su di lui.
Egli sentì queste parole e le ripetè nella sua anima:
“Finita la morte!” si disse. “Non c’è più”.
Aspirò l’aria, si fermò a metà del respiro, si stese e morì.”
O una conclusione basata sul ribaltamento. Si ha quando le ultime righe ci obbligano a
riconsiderare e a rileggere con altri occhi tutta la storia.
Ne “L’assassinio di Roger Ackroyd” di Agatha Christie, l’assassino è il narratore, il dottor Sheppard.
E’ quindi il narratore in persona a commettere i delitto quando il ruolo del narratore, in cui il lettore
per definizione si identifica, lo rende universale e intoccabile.
Ci sono poi i finali a sorpresa, quando proprio nelle ultimissime righe assistiamo a un
colpo di scena.
Il finale de “La casa di Asterione” di Borges
Il finale de “Breve la vita di Francis Macomber” di Hemingway
"L'invenzione di Morel" di Adolfo Bioy Casares, storia fantascientifica che ha per protagonista, in un
certo senso, il tempo Su un'isola deserta dove è sbarcato per sfuggire alla polizia, un uomo assiste
all'apparizione di strani personaggi. Li osserva, li spia, segue i loro passi, sorprende le loro
conversazioni, si innamora. Ha paura però di essere riconosciuto e consegnato alla polizia e quindi si
nasconde. La storia continua nello stesso modo perché i personaggi spiati dal protagonista fanno più
o meno sempre le stesse cose. E la trama si dipana lentamente, in modo ripetitivo fino alla sorpresa
finale. Quando infatti il protagonista si accorgerà che la danza dei personaggi che si svolge in
giardino sempre alla stessa ora e nello stesso modo ha luogo anche in una giornata di pioggia
torrenziale e i personaggi non si bagnano. Scoprirà infine che cos'è l'invenzione di Morel, scienziato
pazzo che ha filmato le ultime giornate di un gruppo deciso al suicidio collettivo. Così il protagonista
si accorgerà che le persone che vedeva muoversi, passeggiare, parlare, danzare, non erano che
proiezioni delle loro ultime immagini.Jorge Louis Borges ha definito perfetta la trama di questo
racconto. E nell'introduzione Guido Piovene si dichiara affascinato dall'ipotesi della vita di un uomo
con tutti i suoi ricordi e i suoi progetti sul futuro che si interrompa improvvisamente e quell'uomo sia
poi costretto a ripetere in eterno, come un disco portato continuamente indietro, con gli stessi
ricordi e gli stessi progetti, l'ultima ora prima dell'interruzione, senza ricordare però di averla già
vissuta. Quindi la vita di quest'uomo sarebbe comunque piena d'attesa di un futuro che non verrà
mai.
C’è la storia circolare in cui nel finale si torna alla situazione di inizio. “Alice nel paese delle
meraviglie” di Lewis Carroll, si sveglia sotto l’albero dove si era addormentata prima di cominciare le
sue avventure.
Oppure Fiori per Algernon di Daniel Keyes in cui il protagonista torna al livello di intelligenza
dell’inizio della storia.
Charlie Gordon è un uomo ritardato, oggetto di scherzi crudeli nella panetteria dove lavora. Viene
preso come cavia per un’operazione sperimentale che ha come obiettivo quello di aumentare il suo
Q.I. La storia è raccontata da lui che scrive un diario. Ovviamente il linguaggio iniziale è quello di un
uomo ritardato ma migliora mano a mano che migliora il suo Q:I. diventa sempre più complesso fino
al punto che l’intelligenza di Charlie supera quella dei dottori che lo hanno operato. I suoi rapporti
con i medici, con i colleghi e con le donne cambia, anche se non necessariamente in meglio. Fin
dall’inizio Charlie è presentato come un personaggio simpatico, il mondo è descritto come logico
anche se non gentile, l’ingiustizia è inerente alla situazione di Charlie (perché una persona così deve
essere trattato tanto male?). La promessa è che qualsiasi cosa accada a Charlie seguirà la legge
della scienza e noi saremo dalla sua parte e non sarà giusto perché l’universo non è giusto. La fine
mantiene la promessa. Gli effetti dell’operazione sono temporanei. Charlie torna com’era ma il suo
carattere dolce lo tiene lontano dall’infelicità. Supponiamo che Keyes avesse messo una fine
diversa. Charlie muore in un incidente, diventa un assassino, l’operazione ha effetti permanenti e lui
diventa arrogante come i medici o finisce con la felicità di Charlie. Nessuna di queste storie sarebbe
soddisfacente. L’incidente avrebbe tradito i presupposti di una storia di logica e di scienza, Charlie
assassino avrebbe tradito la promessa di un personaggio da amare, l’happy ending avrebbe tradito
la filosofia del racconto.
«Il Dotor Strauss dicie che doverei skrivvere quello che penso e riccordo e tutto quello che mi
sucederà dora inavanti. Non so il perché ma lui dicie che importante perché così vederanno se potrò
servire a cualcosa. Spero di sì perché Miss Kinnian dicie che forse riussiranno a farmi diventare
inteligiente».
Questo è l'inizio del romanzo più famoso di Daniel Keyes, autore newyorkese poco prolifico ma
incisivo. Il romanzo, oggi più che mai attuale è del 1959.
Da questo romanzo fu tratto il film «I due mondi di Charlie», che nel '68 valse a Cliff Robertson un
meritatissimo Oscar quale miglior attore protagonista.
Nel finale Charlie che, dopo tanta genialità ormai avviato per una inarrestabile china regressiva, ha
un ultimo pensiero per il suo piccolo grande amico scomparso, compagno di tante prove e sfide..
«PS per piaccere se posono metano cualke fiore su la tomba di Algernon nel kortile».
Ci sono i finali che vengono messi all’inizio del racconto
“Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad
aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo”
Gabriel Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata
“La veglia di Finnegan” di Joyce ha inizio nel mezzo di una frase e il frammento mancante conclude
il libro riportandoci in tal modo all’inizio.
Ci sono finali che usano il leitmotif che l’autore ha distribuito nel libro.
“Addio alle armi” di Hemingway. L’autore usa la pioggia come un leitmotif che indica tristezza Ogni
volta che piove si stanno svolgendo eventi tristi. Quando muore la donna che il protagonista ama,
l’autore dice poco a proposito dei sentimenti del momento.
Scrive: “Ma quando le ebbi fatte uscire ed ebbi chiusa la porta e spenta la luce non servì a niente.
Fu come salutare una statua. Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in
albergo nella pioggia”
ESEMPI DI FINALI
"Gli parve di navigare languidamente in un mare di visioni vaghe. Colori e luminosità lo
circondavano, lo bagnavano, lo pervadevano. Che cos'era? Sembrava un faro, ma era dentro il suo
cervello, una bianca luce splendente, che scintillava. Balenava sempre più rapidamente. Vi fu un
rombo prolungato, e gli parve di cadere lungo una vasta interminabile scalinata. E, in qualche parte,
là in fondo, cadde nelle tenebre. Solo questo seppe. Era caduto nelle tenebre. E nell'istante stesso in
cui lo seppe, cessò di saperlo".
Jack London, Martin Eden
"A sud-ovest, scorgevo le colline del Ngong. L'onda nobile della montagna si ergeva sulla terra
piatta, tutt'intorno azzurro cielo. Ma a quella distanza le quattro vette parevano insignificanti,
appena distinguibili, diverse da come si vedevano dalla fattoria. Il contorno della montagna veniva
lentamente ammorbidito e livellato dalla mano della lontananza".
Karen Blixen, La mia Africa
"Sono arrabbiata", ho detto, "sono così arrabbiata che potrei morire".
"Me n'ero accorta".
"Se mi lascio andare, se dimentico la rabbia, mi metto a piangere, a gridare".
"Mi sembra una buonissima idea".
"Nel frattempo, continuo a essere arrabbiata".
"Purché tu sappia con chi, sei arrabbiata", ha detto mia nipote Jill, ed è andata a prepararmi una
bella
tazza di thé.
Doris Lessing, Il diario di Jane Somers
Infine toccarono nuovamente terra sulle pendici meridionali di Amon Lhaw. Trovarono una sponda
che si immergeva dolcemente nelle acque; tirarono in secco la barca, e la nascosero come poterono
dietro un grosso macigno. Dopo essersi caricati sulle spalle i bagagli, si misero in marcia, alla ricerca
di un sentiero che valicasse i grigi colli dell'Emyn Muil e li conducesse, infine, giù nella Terra
d'Ombra".
J. R. R. Tolkien, La Compagnia dell'Anello
Parlammo ancora di Torino e della casa. Lei mi parlò di Carlottina e di mia madre. – Le vedrò
quando verrò a Torino? – diceva. Tornammo a piedi, verso sera. C'era un sole d'oro fra le pietre e le
piante. Era l'ora che in carcere battono i ferri. Raccontai a Gina di Amelio. Lei stette a sentire,
tenendomi il braccio. – Verrà a Roma, – le dissi, – verrà anche lui. Come gli altri. Poi ci lasciammo
sulla porta del negozio. Era già notte.
Pavese, Il Compagno
Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco,
un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi.... Io non credo, che possa finire. Ora
che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero
chiedersi: – E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non
adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto
per loro la guerra è finita davvero.
Pavese: La casa in collina
Gli chiesi se Santa era sepolta lì. – Non c'è caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due...
Nuto s'era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. – No, Santa no, –
disse, – non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva
ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin
che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L'altr'anno
c'era ancora il segno, come il letto di un falò.
Pavese: La luna e i falò
Dodici voci si alzarono furiose, e tutte erano simili. Non c'era da chiedersi ora che cosa fosse
successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale
e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due.
La fattoria degli animali di George Orwell
RACCONTI
La maggiore o minore lunghezza della narrazione non basta a definire il racconto in rapporto al
romanzo: la loro stessa natura è diversa, vale a dire, l’obiettivo dell’autore, la costruzione,
il ritmo, il tono adottato.
In generale, il racconto è fatto di poca materia: un aneddoto curioso, una scommessa, un
incontro senza domani, l’abbozzo di una biografia, o semplicemente il colore del tempo che suscita
in un personaggio un’emozione singolare.
Ma questo semplice fatto lascia indovinare tutta la complessità della vita da cui esso è tratto e
l’autore si sforza di tradurre tutta la forza latente.
Nel racconto la legge è quella della concentrazione, della chiarezza, bisogna dire soltanto il
necessario, e caratterizzare fortemente e in modo sensibile.
Il racconto è una narrazione concentrata.
Agli autori di romanzi capita di essere digressivi e analitici, gli scrittori di racconti sono costretti
a rispettare una rigorosa disciplina (devono individuare e colpire il loro bersaglio senza
distrazioni)
Il racconto ha bisogno di astuzia sia per quanto riguarda i soggetti, sia per quanto riguarda gli
svolgimenti (sia per il plot che per il montaggio)
Il racconto si presta a esaltare tutti i generi letterari, dallo psicologico al gotico, dal comico al
mystery, dall’erotico al fantascientifico.
Attraverso l’analisi dei racconti di tutti i generi e di tutte le letterature si constata che gli elementi
che danno identità al racconto sono la pittura dei caratteri, la sospensione del mistero, la precisione,
la concisione e il contrappunto.
Il linguaggio del racconto, come quello della musica, risponde a regole di equilibrio e armonia
che sono matematiche o geometriche; il racconto richiede astuzia di orchestrazione e ricamo. Forse
per questo tra gli artisti novecenteschi del racconto si incontrano molte donne? Katherine Mansfield,
Djuna Barnes, Dorothy Parker, Flannery O’Connor, Clarice Lispector, Ingeborg Bachmann, Joyce
Carol Oates. Grazia Deledda, Natalia Ginzburg, lalla kezich.
Gusto della trama e del mistero, concentrazione, precisione, armonia, sapienza di
contrappunto
Il romanzo si regge su un intreccio, su un certo numero di personaggi, su situazioni che si fanno
diverse tra l’inizio e la fine della storia. Il romanzo racconta un cambiamento, contiene una
rilevante quantità di mondo: molti personaggi, molti ambienti, molto materiale. E’ un tentativo di
rappresentazione del mondo, una sorta di trattato sul mondo.
Nel romanzo c’è spesso anche un cambiamento drastico nel protagonista e magari in più di un
personaggio. Il loro carattere si sviluppa, cambia, migliora o crolla. Ci sono più cambiamenti di
scena. Il dipanarsi della storia è più lungo. C’è tempo per un cambiamento di andatura, c’è spazio
per più di un punto di vista.
La prosa di romanzo si sviluppa per rendere visibile agli occhi della mente le variazioni che il
tempo produce in uno stato d’animo, distruggendole, trasformandole radicalmente. Infatti un
romanzo non può essere altro che una porzione esemplare, intensificata, di una durata, di un
divenire nel tempo. Sia il tempo ciclico, immenso dell’Odissea o di Guerra e Pace, un tempo che
comprende intere generazioni, o il tempo brevissimo, seppure condensi un’immensa durata
psicologica, dell’Ulisse di Joyce che è la storia di una sola giornata.
Nel racconto, invece, di solito c’è un numero ridotto di personaggi (spesso uno solo) e la
situazione non necessariamente cambia. Anzi molti racconti si interrompono, finiscono, proprio
nel momento in cui c’è una traccia di cambiamento, oppure quando diventa chiaro (al lettore o al
personaggio) che nessun cambiamento potrà intervenire. In questo senso è esemplare Raymond
Carver. Quindi nel racconto la porzione di mondo rappresentata è ristretta, c’è un solo ambiente, è
raccontata sì una storia ma non con un intreccio: il personaggio agisce, è in relazione con altri, ha
dei pensieri, ma tutto è molto più statico.
Nel racconto l’avvincimento, ciò che costringe il lettore a non piantare lì il libro, è dato dallo stile.
E’ un lavoro diverso e per certi aspetti più complicato rispetto alla scrittura del romanzo che è meno
puntuale frase per frase.
Il germe di un racconto può benissimo iniziare con il più esile dei fatti, degli avvenimenti o dei
casi come le cruciali impronte che la pioggia lava dal bicchiere lasciato in terrazzo.
Un racconto di suspense può avere un’unica scena e svolgersi in cinque minuti o anche meno.
Può basarsi su una situazione o un avvenimento emotivi.
Le novelle e i racconti hanno questo di caratteristico: se riusciti, dipingono caratteri e ambienti con
felice e scorciata precisione psicologica e sociologica.
Secondo Borges i racconti piacciono “perché sono colpi di sonda nell’inconscio, decifrazioni di rebus,
sbirciatine nel mistero”.
Dice Stevenson: ci deve essere una trama di rapido e logico scioglimento; lo scioglimento del
mistero deve essere a sorpresa e lasciare aperto un margine di interrogazione. Ci devono essere
pochi personaggi, di modo che i loro caratteri possano confrontarsi e scontrarsi; il racconto è una
tragedia da camera, non da piazza. Il paesaggio e l’ambiente non devono prevaricare, non
devono essere distraenti o ingombranti; nel racconto gli sfondi devono essere minimi e magici come
nei quadri di Leonardo. Ci deve essere poi movimento, azione; ricordando, però, che, come nelle
tragedie, possono essere azione e movimento anche i dialoghi”.
Moravia: la differenza tra racconto e romanzo scaturisce dall’essere il racconto risultato di una
intuizione, mentre il romanzo sarebbe il risultato d’una sintesi di sentimento e ragione all’interno
d’una articolata struttura.
Alla lettura di Mèrimèe, Puskin o Maupassant si sente l’impatto della storia densa, fortemente
costruita; chiudendo una raccolta di Catherine Mansfield o di Cechov si dice talvolta: è
inafferrabile, quasi impalpabile, ma qualcosa si è mosso in noi, abbiamo sentito passare un soffio di
vita.
Buzzati, Borges e Cortazar fanno nascere in noi l’inquietudine e la vertigine di fronte a mondi
possibili.
Fitzgerald dipinge alla perfezione la disperata febbre di vita degli yankees negli anni ruggenti del
proibizionismo, del cool jazz e delle follie di Hollywood.
In America: Carver, Anne Philips e David Leavitt hanno imparato il mestiere smontando e
rimontando racconti di Hemingway, di Fitzgerald, di Salinger, di Updike, di Cheever, di Capote, di
Purdy e Bellow.
I racconti di Poe sono il cardine della moderna letteratura d’indagine (poliziesca e non)
L’ultimo geniale autore italiano di racconti, Piero Chiara, ha detto: “Lo scrittore di racconti con ogni
sua storia ci ricorda che l’ambiguità della vita arricchisce i desideri degli uomini e che desideri e
fantasie sono lo spazio delle avventure quotidiane”.
Alcune regole
La punteggiatura
-Le incidentali devono essere racchiuse tra virgole (Marco, il fratello di Fabio, vinse il concorso).
- Anche alcune relative vanno chiuse tra virgole (Mia madre, che aveva sempre amato i concerti, se
ne andò durante l’intervallo. Ma: Le madri che amano i loro figli non dovrebbero abbandonarli.)
- Se un periodo complesso è formato da più proposizioni indipendenti andrebbero separate dal
punto e virgola (I romanzi di Fitzgerald sono appassionanti; sono pieni di avventure.)
- Il trattino medio (-) è un segno di separazione più forte della virgola, meno formale dei due punti
e meno rigido della parentesi. Il trattino ha sempre bisogno di essere chiuso da un altro trattino o
dal punto. Naturalmente si possono usare anche le parentesi ma di solito creano una separazione
più netta rispetto al testo. E’ bene usare il trattino meno possibile perché il lettore si ferma e spesso
si allarma temendo di andare incontro a digressioni.
- I due punti introducono un elenco o annunciano qualcosa che sta per arrivare.
- I puntini di sospensione sono sempre tre. Servono a creare una sospensione.
- Il punto esclamativo serve a enfatizzare e va usato il meno possibile.
La D eufonica: Oggi le forme ad, ed, od si usano solo nei casi in cui la parola che segue inizia,
rispettivamente, con a, e, o.
Od non si usa quasi più.
Eccezioni: ad esempio, ad ogni, ad eccezione, ad esso.
Date
Giorno e anno si scrivono in numeri arabi e il mese in lettere minuscole: 6 ottobre 2008.
La data può anche essere scritta in forma ridotta: il ‘68.
Acronimi
(nome formato con le lettere o le sillabe iniziali o finali di determinate parole di una frase o di una
definizione)
E’ variabile. Alcuni scrivono la prima lettera maiuscola e le altre minuscole: Usa
Altri le scrivono tutte in maiuscolo: USA
Generalmente vanno in minuscolo: cd, dvd, pc, sms, mms.
Accenti
La e di perché, benché, poiché, finché, anziché, poté è chiusa e va usato l’accento acuto.
La e di cioè, è, è aperta e va usato l’accento grave.
Vocaboli stranieri
Si scrivono in corsivo tranne quelli entrati nell’uso comune (sport, bar, film, sketch) e al plurale
restano invariati.
L’aggettivo “mezzo” posto dopo la parola a cui si riferisce acquista valore di avverbio ed è
invariabile: Sono le due e mezzo.
Le parole che terminano per “io” al plurale vogliono una sola “i”.(Rosolio-rosoli; monopoliomonopoli). Il raddoppio della “i” avviene quando c’è una parola con accento tonico sull’ultima
sillaba. (rollìo-rollii; formicolìo-formicolii)
Le parole che terminano in “cia-gia” hanno il plurale senza la “i” se i suffissi “cia-gia” sono preceduti
da consonante (marcia-marce; orgia-orge). Se invece sono preceduti da vocale, il plurale mantiene
la “i” (ciliegia-ciliegie; camicia-camicie).
L’aggettivo marrone è invariabile al plurale (I vestiti marrone)
Il troncamento della parola “bene” è “be’” e non “beh”
Tal e qual non vogliono l’apostrofo (tal è; qual è?)
Non si scrive
Poco a poco
Mano a mano
Faccia a faccia
100 km all’ora
Sforzati a farlo
Due a due
ma
ma
ma
ma
ma
ma
A poco a poco
A mano a mano
A faccia a faccia
100 km l’ora
Sforzati di farlo
A due a due
Sterotipi
Sono sequenze fisse di parole, frasi fatte, luoghi comuni.
Esempi:
Gettare acqua sul fuoco
Essere nel mirino
Secca smentita
Netto rifiuto
Agghiacciante sciagura
Spiacevole incidente
Strepitoso successo
Male incurabile
Nell’occhio del ciclone
Arrivare al capolinea
In preda ai fumi dell’alcol
Delicato intervento
In corso di accertamento
Non destano preoccupazioni
Un ammasso di lamiere
Blitz antidroga
Fitto riserbo
Macabra sorpresa
Uscire dal tunnel
Da brivido
Da urlo
Non c’è problema
Premere l’acceleratore
Bagno di folla
Essere in fibrillazione
Giocare in casa
Tirare la corda
A bocca asciutta
Alzare la cresta
A briglia sciolta
A cuore aperto
Altri consigli di scrittura
La maggior parte degli intervenuti finì o finirono all’ospedale?
Il verbo si può concordare grammaticalmente al singolare ma anche “a senso” al plurale
“La maggior parte degli intervenuti finirono all’ospedale”
“La maggior parte degli intervenuti finì all’ospedale”
Si può dire “gli” invece di “a loro”?
-Manderemo una lettera a loro
- Manderemo loro una lettera
- Gli manderemo una lettera
Tra i giornalisti l’uso di “gli” invece del più corretto ma più pesante “loro, a loro” si va sempre più
affermando.
Manzoni:
Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta?
La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto...
... andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l’ossa,
E’ piovuto o Ha piovuto?
Con i verbi impersonali (piovere, tuonare, nevicare, grandinare succedere, avvenire, bastare ecc.)
l’ausiliare è normalmente “essere”.
È piovuto, è nevicato, è bastato, è successo...
Ma si legge anche: ha piovuto, ha nevicato...
Di solito se si intende “è venuto a piovere” si usa é piovuto
Se invece si intende “la pioggia ha continuato a cadere” si scrive: Ha piovuto
E’ potuto o Ha potuto?
E’ potuto venire (perché venire vuole l’ausiliare essere)
Ha potuto dormire (perché dormire vuole l’ausiliare avere)
Era voluto fuggire (fuggire vuole l’ausiliario essere)
Nei testi moderni, come nel discorso comune, si ha l’impressione che l’avere piaccia di più che non
l’essere.
Non ho potuto venire
Non ha voluto uscire
Concordanza del participio
Ho lasciato gli amici o
Ho lasciati gli amici
Abbiamo accompagnato l’amica
Abbiamo accompagnata l’amica
Nei tempi verbali composti mediante l’ausiliare avere il participio di solito resta invariato, cioè
maschile singolare con finale –o, ma può anche essere accordato in numero e genere con il
complemento oggetto, specialmente se questo è collocato prima del verbo.
Ho lasciato la casa (invece di: Ho lasciata la casa)
I libri che avete comperato (invece di: i libri che avete comperati)
Abbiamo visto i soldati (invece di: Abbiamo visti i soldati)
Concordare invece il participio con il complemento oggetto quando questo è espresso con pronomi
personali divenuti nel discorso “particelle pronominali”: mi, ti, ci, vi, li, le, e come tali collocati prima
del verbo.
Ci avevano ingannati (invece di: ci avevano ingannato)
Li abbiamo aspettati (invece di: Li abbiamo aspettato)
Ti avevo invitata (invece di: ti avevo invitato)
Ti ho chiamata (invece di: ti ho chiamato)
Vi abbiamo seguiti (invece di: vi abbiamo seguito)
Le avevamo salutate (invece di: le avevamo salutato)
Io mi sono lavato le mani o Io mi sono lavate le mani?
Sono ammesse entrambe le forme.
Dietro il muro o Dietro al muro?
E’ meglio la prima forma.
Sopra la panca o sopra alla panca?
Meglio la prima forma
Fuori della città o Fuori la città?
Meglio la prima forma.
(ma: fu spinto fuori dalla stalla. Perché “da” indica moto da luogo)
Sotto il pavimento o Sotto al pavimento?
Meglio la prima forma.
Dentro la cassa o Dentro la cassa?
Meglio la prima forma
INUTILI:
Due cupe occhiaie sotto gli occhi
(non esistono occhiaie in altri luoghi...)
Collaborazione reciproca
(La collaborazione è l’attività svolta in comune, quindi è per sua natura reciproca)
Gerarchia di gradi
(se è gerarchia è fatta di gradi)
L’uomo che ha rivelato per primo...
(Se un uomo fa una rivelazione è sottinteso che la fa per primo)
Subire passivamente
(non si subisce attivamente)
Escalation crescente
(Escalation indica l’intensificarsi di un’azione; perciò crescente è superfluo)
Lievemente amarognolo
(Amarognolo significa “un po’ amaro” perciò lievemente è superfluo)
Indagine conoscitiva
(Tutte le indagini sono fatte per conoscere qualcosa.)
L’impulso ha spinto
(L’impulso è già una spinta)
Un improvviso colpo di scena
(Un colpo di scena è tale proprio in quanto è improvviso)
L’ascensore saliva velocemente verso i piani superiori
(gli ascensori, quando salgono, vanno sempre verso i piani superiori)
IL PLOT o INTRECCIO
Alla base di ogni racconto c’è l’evoluzione da una situazione iniziale a una situazione
finale. Un racconto di solito comincia da un avvenimento, provocato o subito dal protagonista, che
rompe l’equilibrio iniziale costringendo il protagonista a fare qualcosa.
La vicenda così avviata si sviluppa attraverso eventi che possono comportare un ulteriore
peggioramento o un miglioramento della situazione iniziale.
In entrambi i casi, il protagonista non è solo, ma è circondato da altri personaggi che possono
aiutarlo o ostacolarlo.
La situazione termina sempre con la ricomposizione di un nuovo equilibrio, positivo o negativo
per il protagonista, e il ristabilirsi di una nuova situazione, la situazione finale.
L’intreccio, che è una concatenazione di fatti, si basa sulla tensione fra questi fatti che deve
essere creata sin dall’inizio del racconto, mantenuta durante il suo sviluppo e che deve
trovare la sua soluzione nell’epilogo.
L’intensità e la forza variano secondo gli obiettivi dell’autore, dalla tensione appena sensibile in
un intreccio che serve solo da filo conduttore, fino a una crisi sempre imminente che sale verso il
suo parossismo.
L’intreccio può evolvere seguendo un movimento continuo, con movimenti impercettibili
(Madame Bovary) oppure con un gioco di avvenimenti spettacolari equivalenti a colpi di scena
teatrali.
Nel plot avvengono dei cambiamenti. C’è una situazione di stabilità che diventa instabile e il
protagonista lotta per tornare alla stabilità.
Una storia in cui l’intensità non aumenta gradualmente dà l’impressione che non stia succedendo
niente, anche se vengono descritte molte cose.
Ogni scena o capitolo deve essere organizzata come se fosse una ministoria. Dovrebbe cominciare
con un gancio per afferrare l’interesse del lettore, presentare un particolare problema o lotta
da risolvere, muoversi con intensità crescente e arrivare a una conclusione che deve servire
per trattenere l’interesse del lettore.
La progressione è l’essenza del racconto e il plot è la descrizione di questa progressione.
Un plot si muove cronologicamente. Comincia ad un certo punto nel tempo e progredisce verso un
altro momento nel tempo. Può abbracciare pochi minuti o un periodo di molti anni. Cent’anni di
solitudine di Marquez abbraccia generazioni della famiglia Buendia dalla sua immigrazione nel
villaggio di Macondo. Radici, di Alex Haley racconta la storia di una famiglia. Ulisse di Joyce si svolge
in una sola giornata.
In molte storie la successione dei fatti non è presentata cronologicamente ma va avanti a salti.
Rashomon va continuamente avanti e indietro per presentare le diverse verità dello stesso
avvenimento.
Il plot è dunque una successione cronologica di eventi che hanno una relazione di causa
ed effetto fra di loro. Ma l’intensità deve crescere.
Ogni anello della catena deve avere un’intensità maggiore del precedente. Ma l’intensità può
anche essere interiore, far parte del comportamento di un singolo personaggio (Delitto e castigo
di Dostoevskij).
Il romanzo racconta una storia, una successione di avvenimenti concatenati nel tempo da un inizio
e una fine.
Il romanziere opera nei fatti una sorta di montaggio che può seguire l’ordine cronologico oppure
no. Il romanziere dovrà localizzare, tagliare, dare la preferenza a certi fatti che gli sembrano
importanti, lasciare gli altri nell’ombra.
Compone una storia nell’intento di produrre un certo effetto sul lettore, per tenere desta
l’attenzione, commuoverlo, spingerlo a riflettere. Organizza la materia prima della sua storia per
darle una forma artistica.
Realizzare una scaletta di eventi in ordine cronologico che poi potrà esssere smontata nella fase di
realizzazione del romanzo. Si può anche fare una scaletta capitolo per capitolo. Il punto iniziale per
la scaletta di un capitolo dovrebbe essere la domanda: in che modo questo capitolo farà
avanzare la storia?
E’ importante per mantenere l’attenzione del lettore variare nell’intensità o nel tono del
racconto.
Fitzgerald scrisse il suo ultimo romanzo “Gli ultimi fuochi” (rimasto incompiuto) su un produttore
di Hollywood. C’è una scena molto interessante a proposito della tensione narrativa. Uno
sceneggiatore va dal produttore, Monroe Stahr, a chiedergli come mai abbia rifiutato una sua
sceneggiatura. Stahr gli dice che la sceneggiatura era solo una conversazione, non accadeva niente.
L’altro protesta. Allora Stahr gli chiede: “C’è una stufa nel vostro ufficio, una di quelle che si
accendono con un fiammifero?”
“Credo di sì” rispose Bowley, sulle sue. “Ma non l’adopero mai”.
“Supponete di trovarvi in ufficio. Avete duellato o scritto per tutto il giorno e siete troppo stanco per
continuare a duellare o a scrivere. Ve ne rimanete seduto, guardando nel vuoto… intontito, come
capita a tutti, qualche volta. Una graziosa stenografa che già conoscete entra nella stanza e voi la
guardate… apatico. Lei non vi vede, benchè le siate molto vicino. Si sfila i guanti, apre la borsetta e
ne rovescia il contenuto su un tavolino…”
Stahr si alzò gettando sulla scrivania il mazzo delle chiavi.
“Ha due monetine d’argento, un nichelino… e una scatoletta di svedesi. Lascia il nichelino sul tavolo,
rimette le monetine nella borsetta, prende i guanti neri, si avvicina alla stufa, l’apre e vi mette
dentro i guanti. Nella scatoletta c’è un solo fiammifero e lei fa per accenderlo inginocchiata accanto
alla stufa. Voi notate che la finestra aperta lascia passare una forte corrente d’aria… ma proprio in
quel momento suona il telefono. La ragazza prende il ricevitore, dice pronto… ascolta… poi, in tono
reciso, dice al telefono: “Non ho mai posseduto un paio di guanti neri in vita mia”. Riattacca, si
inginocchia di nuovo accanto alla stufa e, proprio mentre accende il fiammifero, voi vi voltate, di
colpo, e vedete che nell’ufficio c’è un altro uomo, a spiare ogni movimento della ragazza…”
Stahr tacque. Prese le chiavi e se le mise in tasca.
“Avanti” disse Boxley sorridendo. “Che cosa succede?”.
“Non lo so” rispose Stahr. “Stavo solo facendo del cinema”.
Se la storia è narrazione di avvenimenti riferiti nell’ordine del loro susseguirsi nel tempo anche
l’intreccio è una narrazione di avvenimenti; ma qui l’accento cade sulla causalità.
“Il re morì, poi morì la regina” è una storia.
“Il re morì, poi di dolore morì la regina” è un intreccio. La sequenza cronologica vi è conservata, ma
messa in ombra dal senso della causalità.
Oppure ancora: “La regina morì, senza che nessuno ne indovinasse la ragione, finchè non si scoprì
che a farla morire era stato il dolore per la morte del re”: è un intreccio che contiene un mistero,
una forma capace di altri sviluppi.
Consideriamo la morte della regina. Incontrandola in una storia diciamo: “e poi?”, incontrandola in
un intreccio domandiamo: “perché?”
Un intreccio richiede intelligenza e memoria. Un lettore intelligente di romanzi, al contrario del
lettore semplicemente curioso che si limita a scorrere con gli occhi un fatto nuovo, raccoglie il fatto
mentalmente. Lo vede da un duplice punto di vista: isolato, e in rapporto con gli altri fatti di cui è
venuto a conoscenza nelle pagine precedenti.
L’elemento di sorpresa o di mistero, l’elemento poliziesco, ha molta importanza per l’intreccio: lo si
suscita creando una sospensione nella sequenza temporale. Il mistero può essere introdotto
con una domanda: “perché è morta la regina?” o con gesti e parole non spiegati per intero, il cui
vero significato si troverà chiarito solo dopo un certo numero di pagine.
Il mistero è essenziale per l’intreccio e non si può apprezzarlo senza l’intelligenza. Per
apprezzare un mistero bisogna lasciare indietro una parte del cervello a riflettere, mentre l’altra
parte continua a camminare.
Memoria e intelligenza sono strettamente connesse: non ricordando non possiamo comprendere. Se
al momento in cui la regina muore ci siamo dimenticati dell’esistenza del re non ci spiegheremo mai
che cosa abbia provocato la sua morte.
Colui che inventa una trama si aspetta che noi ci ricordiamo e per parte nostra non
vogliamo che lui lasci qualcosa in sospeso.
Ogni azione e ogni parola dovrebbero avere valore in un intreccio: esso perciò deve
essere costruito in economia e limitarsi allo stretto necessario; anche se complesso,
dovrebbe sempre essere organicamente pensato e privo di pesi morti.
Un racconto con una cattiva struttura può avere degli elementi piacevoli ma alla fine ci
sono vuoti, incongruenze e il lettore si annoia
Il crimine peggiore per un racconto è di annoiare
Edgar Allan Poe spiegò che il mistero della scrittura non ha un bel niente di misterioso ma è il
risultato di un progetto razionale. “Molti scrittori preferiscono far credere che compongono con
una specie di sottile frenesia o estatica intuizione cercando di occultare tutto l’equipaggiamento che
novantanove volte su cento costituisce la prassi comune dell’histrio letterario. Nessuna parte
dell’opera è frutto del caso o dell’intuizione e il lavoro progredisce passo passo verso la conclusione
con la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico”.
L’invenzione non può prescindere dalla tecnica. Senza ovviamente negare che l’abilità non è
sinonimo del talento.
Stephen King scrive che i romanzi sono motori, proprio come le automobili sono motori: una RollsRoyce senza un motore potrebbe essere benissimo il vaso di begonie più lussuoso del mondo e un
romanzo in cui non c’è storia diventa niente più che una curiosità un esile gioco mentale.
SUSPENSE e SORPRESA
La parola suspense deriva da un vocabolo latino (suspensum, da suspendere) che significa “Stare
sospeso” e difficilmente si potrebbe pensare a una situazione che abbia più suspense di quella di
un uomo aggrappato con la punta delle dita alla parete di una scogliera: da ciò il termine inglese
cliffhanger.
La suspense è l’attesa ansiosa, la sospensione dell’animo. La suspense non è necessariamente
legata alla paura. Può essere legata a una scena d’amore, a un ritrovamento, ad una rivelazione
ecc.
Alfred Hitchcock ha sempre dato grande importanza alla suspense. Scrive: Che cos’è in realtà la
suspense? Io sceglierei la definizione più semplice: in una storia, la suspense è quella
caratteristica che vi mette voglia di continuare a leggerla per sapere che cosa succede
dopo. Naturalmente, sulla base di questa definizione qualsiasi buon racconto contiene l’elemento
della suspense. Una vicenda d’amore può essere a suspense... ci sarà il lieto fine? Anche una storia
d’alpinismo può avere suspense... il protagonista raggiungerà la vetta, oppure scivolerà e
precipiterà sopra una roccia?
Nel whodunit (chi l’ha fatto: ricerca dell’assassino), il giallo tradizionale, secondo Hitchcock non c’è
suspense, ma una sorta di rompicapo. Genera una curiosità priva di emozione.
A Hitchcock non piacciono i gialli classici in cui si attende tranquillamente la risposta alla domanda:
chi è l’assassino? Gli ricordano i giochi di pazienza. Nessuna emozione.
Differenza tra sorpresa (choc) e suspense: persone attorno a un tavolo che parlano e dopo
quindici minuti esplode una bomba: sorpresa. Stesse persone attorno a un tavolo e il pubblico sa
che quindici minuti dopo esploderà una bomba: suspense.
Oppure: un uomo entra nella casa di un altro e comincia a frugare nei suoi cassetti,
improvvisamente arriva l’altro e lo scopre. Questa è la sorpresa. Oppure il pubblico sa che il
proprietario della casa sta per arrivare e scoprire l’intruso, ecco che si crea una situazione di
suspense.
Il condizionamento iniziale del pubblico (informarlo) è la base essenziale per la creazione della
suspense.
Per Hitchcock se facciamo accadere all’improvviso qualcosa di violento quanto inaspettato, allora il
risultato sarà di choc. Durerà per quell’attimo, e sarà subito dimenticato.
Il bisbigliato avvertimento che potrebbe succedere qualcosa di indefinito e di pauroso, al contrario,
conficcherà un ago nella mente dello spettatore o del lettore e sarà più devastante, perché lo
accompagnerà per tutta la durata della vicenda e, si spera, lo lascerà inquieto anche dopo. E questa
è la suspense.
Riflettere sulla tecnica delle soap operas, dove l’interesse dello spettatore viene mantenuto proprio
dalla sospensione, sia durante l’episodio che nell’intervallo che separa un episodio dal successivo.
Ci vogliono ogni tanto delle bombe ad orologeria. Che il lettore deve vedere e deve anche vedere
che i minuti stanno passando. (quanti film basano la suspense proprio sui minuti che passano e ci si
avvicina a una tragedia finale; la presentazione di una bomba, l’attesa dei “nostri” nei film western,
l’acqua che sale in uno spazio chiuso, la corda che sostiene l’ascensore che sta per spezzarsi, ma
pensiamo anche ai doppi, tripli finali dei gialli americani in cui il cattivo sembra morto e invece lo
spettatore vede che si sta muovendo ancora all’insaputa del protagonista ecc)
La bomba ad orologeria in un racconto è la presentazione di una complicazione che il protagonista
deve risolvere in un certo periodo di tempo. E’ il momento che gli americani chiamano
“cliffhanger”.
Il narratore deve usare queste bombe ad orologeria evitando la banalità.
In “Madame Bovary”, Emma ha solo ventiquattro ore per pagare ottomila franchi a M. Lheureux
altrimenti il marito scoprirà la sua bugia.
In “Delitto e castigo”, poichè il delitto avviene nelle prime pagine, tutto il resto del romanzo si basa
sul timore del protagonista di essere scoperto o di farsi scoprire.
In “Via col vento”, Rossella si rende conto all’improvviso di essere innamorata del marito, Rhett
Butler, mentre piange la morte dell’amante. Si alza e corre per raggiungerlo, ma non si sa se lo
troverà e se lo troverà ancora disponibile.
Nel libro di Margaret Mazzantini, “Non ti muovere”, tutta la storia e quindi il racconto dell’amore del
padre per una donna, si svolge mentre la figlia è in pericolo di vita.
La suspense può quindi essere sia emotiva che derivare da un’azione.
Il lettore rimane per qualche tempo con un grande punto interrogativo in mente.
La tensione narrativa nasce anche dalle promesse che l’autore fa al lettore all’inizio di un racconto.
In alcune storie l’autore annuncia il colpo di scena, il cambiamento improvviso che avverrà in
seguito, qualche pagina dopo o molte pagine dopo (L’uomo che guardava passare i treni di Georges
Simenon, L’amore fatale di McEwan, Rebecca la prima moglie di Daphne du Maurier).
In altre storie il colpo di scena non viene annunciato e si verifica improvviso alla fine della storia
(Asterione di Borges, L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie) o poco prima della fine
della storia (La piccola Roque di Maupassant, L’invenzione di Morel di Bioj Casares).
Javier Marias nei suoi libri migliori inizia con un colpo di scena che acquisterà senso col
proseguimento della storia “Un cuore così bianco” (“Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una
delle bambine, quando non era più bambina ed era appena tornata dal viaggio di nozze, andò in
bagno, si mise davanti allo specchio, si sbottonò la camicetta, si sfilò il reggiseno e si cercò il cuore
con la canna della pistola di suo padre, il quale si trovava in sala da pranzo in compagnia di parte
della famiglia e di tre ospiti.) e “Domani nella battaglia pensa a me” (“Nessuno pensa mai che
potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome.
Nessuno pensa mai che qualcuno possa morire nel momento più inopportuno anche se questo capita
di continuo, e crediamo che nessuno se non chi sia previsto dovrà morire accanto a noi”).
La tensione narrativa si mantiene anche creando un’attesa tra un capitolo e il successivo.
Sharazade evitò il suo destino perché seppe maneggiare l’arma della suspense per sottrarsi alla
condanna del suo insopportabile marito. Sopravvisse solo perché seppe mantenere il re in una
condizione di dubbio circa quello che sarebbe successo poi. Ogni volta che vedeva sorgere il sole si
fermava a metà di una frase, lasciandolo a bocca aperta. “In quel momento Sharazade vide
spuntare l’alba e, discreta, tacque”. Questa piccola frase è la spina dorsale delle Mille e una notte.
Oppure, come avviene nei thriller contemporanei, la tensione viene mantenuta per più di un
capitolo. Perché alla fine del capitolo ne parte un altro con diversi personaggi che a sua volta
scatena un secondo filo di tensione.
Patricia Highsmith: “Ogni storia con un inizio, una metà e una fine dovrebbe avere della
suspense. Si presume che una storia di suspense ne abbia di più.
Sorprendere e stupire il lettore e basta è un trucco di bassa lega, soprattutto se avviene a spese
della logica. Una mancanza di invenzione non può essere coperta con un fatto sensazionale e
un’abile prosa. Anche ricorrere all’ovvio è una specie di pigrizia. L’ideale è una svolta inattesa
degli avvenimenti, ragionevolmente coerente col carattere dei protagonisti. Forzate al massimo la
credulità del lettore, il suo senso della logica è molto, molto elastico, ma non spezzatela.”
Carlo Lucarelli racconta in un libro un episodio che si riferisce a Stephen King e che rientra nel
discorso della tensione narrativa. “Una volta qualcuno chiese a Stephen King se credeva fosse
possibile fare paura in tre righe, lui che scriveva romanzi di centinaia di parole. Stephen King citò un
esempio, tratto da un autore di cui non ricordo il nome, e lo citò più o meno così:
“E’ appena avvenuta la catastrofe nucleare, prima riga.
L’ultimo uomo rimasto sulla terra è chiuso in un bunker antiatomico, seconda riga.
Pausa per riprendere il fiato.
Qualcuno bussa alla porta, terza riga.
Quella pausa fatta apposta prima del grande mistero inquietante e irrisolto della terza riga è la
suspense”.
Lucarelli fa anche l’esempio del capolavoro di Henry James: “Giro di vite”. “Un gruppo di persone
davanti al fuoco, in una casa in campagna, in una sera d’inverno, che si raccontano storie di
fantasmi. Uno di questi conosce la storia di fantasmi più spaventosa che sia mai stata raccontata,
una storia che coinvolge due bambini. Ma non la racconta. Ha bisogno di cose, di incoraggiamento,
di un documento che si trova a casa sua, ancora di insistenze da parte di tutti, prima di mettersi
finalmente a parlare”.
Ancora un esempio di Lucarelli: “Sono solo in casa. Sono sicuro di essere solo in casa. E’ notte e me
ne sto seduto in poltrona a guardare un film. Un film dell’orrore, tanto per essere in tema.
Improvvisamene, sono solo in casa, ricordate, improvvisamente in fondo al corridoio buio alla mia
sinistra si accende una lama di luce sotto alla porta chiusa del mio studio. Paura. Chi è? Chi c’è in
casa mia quando dovrei essere assolutamente solo? Nella realtà, appena si accende la luce io sarei
già schizzato fuori di casa o mi sarei attaccato al telefono a chiamare il 113, ma nei romanzi e nei
film di genere è diverso. Nei romanzi si va a guardare. Magari con un attizzatoio in mano, ma si va a
guardare. Vado a guardare, allora, mi avvicino cauto alla porta, metto la mano sulla maniglia, alzo il
braccio armato dell’attizzatoio, abbasso lentamente la maniglia... e alle mie spalle suona il telefono.
Suspense. Quindi la suspense può essere definita come un rallentamento, una variazione del ritmo
narrativo.”
“La suspense deve essere preparata, non banale e a termine.
La preparazione è importante. E’ ovvio infatti che se a vivere questa scena sono Rambo o una
ragazza cieca la suspense sarà diversa. (“Gli occhi della notte” con Audrey Hepburn)
Non banale: un personaggio chiama la polizia per dire al detective che ha scoperto qualcosa di
importante. Il detective chiede che cosa e lui risponde: “non al telefono. Vediamoci all’hangar 5 tra
mezz’ora”. Tutti sanno che quando il detective arriverà all’hangar 5 il personaggio sarà morto.
Quindi l’effetto della suspense non è efficace perché è banale.
A termine: non può durare troppo. L’esempio che fa è quello del solito uomo solo in casa che sta
per scoprire chi c’è dietro la porta e squilla il telefono. E’ la madre del protagonista. Lui taglia corto e
torna davanti alla porta. Il telefono squilla di nuovo. E’ sempre la madre. Lui riattacca seccato e
torna alla porta. Terzo squillo. Se fosse la madre la suspense sarebbe troppo lunga. Se invece della
madre fosse la voce dell’assassino allora l’effetto funzionerebbe. Ma poi, il quarto squillo di telefono
sarebbe veramente troppo.
Ci sono due possibilità a questo punto. Il lettore sa che dietro la porta c’è un pericoloso assassino e
il protagonista no. Oppure nessuno dei due sa che cosa c’è dietro la porta. Hitchcock avrebbe
preferito il primo caso.
La maggior parte dei racconti contiene un elemento di sorpresa. Se noi riusciamo a prevedere
ogni svolta dell’intreccio, è difficile che ne rimarremo avvinti. Ma queste svolte devono essere
convincenti oltre che inaspettate.
Aristotele chiamava questo effetto
capovolgimento: l’improvviso spostamento da uno stato di
cose al suo opposto, spesso combinato con l’agnizione, la trasformazione dell’ignoranza di un
personaggio in conoscenza.
L’esempio era la scena nell’Edipo Re, quando il messaggero che è venuto a rassicurare l’eroe sulle
sue origini, in realtà gli rivela che ha ucciso il padre e sposato la madre. Un effetto come questo
richiede un’attenta preparazione. Bisogna fornire al lettore informazioni sufficienti a rendere
convincente la rivelazione, quando questa viene fatta, ma non troppe, per evitare che venga svelata
in anticipo.
In un racconto è importante immaginare un incipit sorprendente e un finale sorprendente. E’
altrettanto importante disseminare il racconto di sorprese. Ma devono essere sempre credibili. Se
la suspense è data da una bomba ad orologeria, la sorpresa è una bomba che esplode
all’improvviso.
Un colpo di scena tende a ribaltare i ruoli dei diversi personaggi in gioco. Chi ad esempio
sembrava cattivo si rivela buono e viceversa”. (“Rebecca, la prima moglie”)
I racconti multipli Non c’è storia in cui nel corso della narrazione non affiorino altre storie. Una
parentesi di poche righe sul destino di un personaggio secondario, una digressione esplicativa
costituiscono già un racconto nel racconto. Numerose le storie intercalate nel Don Chisciotte. Esse
hanno come obiettivo quello di rinnovare l’interesse del lettore, di illustrare una morale o per
allungare il racconto. La disposizione di questi racconti successivi è: la concatenazione in cui
ciascuno dei personaggi narratori prende a sua volta la parola. L’alternanza consiste nel raccontare
le due storie simultaneamente interrompendo ora l’una ora l’altra per riprenderla all’interruzione
successiva, procedimento che corrisponde al montaggio incrociato nel cinema. Questo
procedimento viene usato nei thriller moderni. Oppure c’è l’incastro (racconto inserito) inclusione
di una storia all’interno di un’altra (frequentemente utilizzato da Maupassant). Lo sviluppo centrale
può dar luogo a molti svolgimenti diversi, a biforcazioni, peripezie più o meno collegate con la linea
principale del racconto. Le “Mille e una notte” presentano un intreccio ininterrotto in cui degli episodi
si aggiungono o si incastrano in altri episodi, mentre il filo conduttore è assicurato dal piano di
Shahrazàd che, per evitare di essere messa a morte, deve cercare di tener sempre desto l’interesse
del sultano.
Un tipo di storia è la storia a forma di escalation. Si tratta di partire da un piccolo fenomeno
deviante, uno scarto impercettibile dalla norma e facendolo lentamente ma progressivamente
montare arrivare a una totale rottura e sconvolgimento dell’equilibrio precedente. (Un amore fatale
di Ian McEwan)
“Drammatizzate, drammatizzate” raccomandava Henry James, nel senso di scrivere delle scene.
La chiave di vetro di Dashiell Hammett è un romanzo trattato esclusivamente sotto forma di scene,
le circostanze sono sempre descritte dall’esterno nel momento in cui si verificano, senza che l’autore
riassuma mai fatti anteriori o ritorni sul passato dei personaggi.
Saint Exupery diceva che l’opera era perfetta quando non c’era più niente da tagliare.
Evitare la dispersione, tagliare l’episodio parassita rientra nell’ideale estetico di Flaubert.
Ancora una cosa
Raymond Carver
Sua moglie Maxine gli disse di andarsene la sera in cui tornando dal lavoro lo trovò di nuovo ubriaco
che insultava Rae, la figlia quindicenne. L.D. e Rae, seduti al tavolo in cucina, litigavano. Maxine non
ebbe nemmeno il tempo di metter via la borsa o di togliersi il cappotto.
Rae disse: «Diglielo, mamma. Digli di cosa abbiamo parlato».
L.D. rigirò il bicchiere nella mano, ma senza bere. Rae lo fissava minaccioso.
«Non t'impicciare in cose di cui non sai nulla», disse L.D. Disse: «Non posso prendere sul serio una
persona che sta tutto il giorno a leggere riviste di astrologia».
«Questo non ha niente a che fare con l'astrologia», disse Rae. «Non c'è bisogno che mi insulti».
Rae, dal canto suo, non andava a scuola da settimane. Diceva che nessuno poteva obbligarla.
Maxine diceva che questa era l'ultima di una lunga serie di tragedie da quattro soldi.
«Perché non chiudete la bocca tutti e due!». disse Maxine. «Mio Dio, ho già mal di testa».
«Diglielo, mamma», disse Rae. «Digli che è tutto nella sua testa. Chiunque ne sappia qualcosa ti
dirà che è proprio lì».
«E il diabete allora?», disse L.D. «E l'epilessia? II cervello controlla anche quelli?».
Alzò il bicchiere sotto gli occhi di Maxine e lo scolò.
«Anche il diabete», disse Rae. «L'epilessia. Qualsiasi cosa! II cervello è l'organo più potente del
corpo, per tua informazione».
Prese le sigarette di L.D. e ne accese una per sé.
«Cancro. E il cancro allora?», disse L.D.
Pensava di averla inchiodata. Guardò Maxine.
«Non so più come abbiamo cominciato», disse L.D. a Maxine.
«Cancro», disse Rae, e scosse la testa di fronte a tanta ingenuità. «Anche il cancro. II cancro
comincia nel cervello».
«Questo è assurdo!», disse L.D. Batté il palmo della mano sul tavolo. Il portacenere sussultò. Il
bicchiere si rovesciò rotolando sul tavolo. «Sei pazza, Rae. Lo sai?».
«Chiudi la bocca!», disse Maxine.
Si sbottonò il cappotto e appoggiò la borsa sul ripiano. Guardando L.D. disse: «L.D., io ne ho
abbastanza. E anche Rae. E tutti quelli che ti conoscono. Ci ho riflettuto. Voglio che tu te ne vada.
Stasera. In questo momento. Ora. Vattene immediatamente di qui».
L.D. non aveva intenzione di andare da nessuna parte. Volse lo sguardo da Maxine al vaso di
sottaceti che era rimasto sul tavolo dall'ora di colazione. Prese il vaso e lo scagliò contro la finestra
della cucina.
Rae balzò dalla sedia. «Dio! E pazzo!».
Corse a mettersi vicino alla madre. Respirava affannosamente.
«Chiama la polizia», disse Maxine. «E’ violento. Esci dalla cucina prima che ti faccia del male.
Chiama la polizia», disse Maxine.
Fecero per uscire dalla cucina camminando all'indietro.
«Me ne vado», disse L.D. «Va bene, me ne vado subito», disse. «Non chiedo di meglio. Comunque
voi siete matte. Questa è una gabbia di matti. Ma la vita non finisce qui
dentro. Credetemi, c'è poco da stare allegri in questa gabbia di matti».
Sentiva sulla faccia l'aria che entrava dal buco nella finestra.
«Ecco dove vado», disse. «Là fuori», disse puntando l'indice.
«Bene», disse Maxine.
«Va bene, me ne vado», disse L.D.
Picchiò forte la mano sul tavolo. Scostò la sedia con un calcio. Si alzò in piedi.
«Non mi rivedrai mai più», disse L.D.
«Mi lasci molti ricordi», disse Maxine.
«Okay», disse L.D.
«Avanti, vattene», disse Maxine. «Sono io che pago l'affitto qui, e sono io che ti dico di andare.
Adesso».
«Me ne vado», disse lui. «Non farmi fretta», disse. «Me ne vado».
«Va' allora», disse Maxine.
«Lascio questa gabbia di matti», disse L.D.
Andò in camera da letto e prese una delle valigie della moglie dall'armadio. Era una vecchia
Naugahyde bianca, con una chiusura rotta. Un tempo lei la riempiva di golf e se la portava
all'università. Anche lui era andato all'università. Buttò la valigia sul letto e cominciò a metterci
dentro la biancheria, i calzoni, le camicie, i maglioni, la vecchia cintura di pelle con la fibbia di
ottone, i calzini e tutte le altre cose che possedeva. Dal comodino prese delle riviste per avere
qualcosa da leggere. Prese il portacenere. Infilò in valigia tutto quello che poteva, tutto quello che ci
stava. Chiuse la serratura funzionante, allacciò la cinghia, e solo allora si ricordò degli oggetti da
toilette. Trovò la busta di plastica sul ripiano dell'armadio dietro i cappelli di Maxine. Rasoio e crema
da barba, talco, stick deodorante e spazzolino finirono dentro. Prese anche il dentifricio. E il filo
interdentale. Le sentì che parlavano a bassa voce in soggiorno.
Si lavò la faccia. Mise il sapone e l'asciugamano nella busta di plastica. Poi aggiunse il portasapone,
il bicchiere che era sopra il lavandino, le forbici per le unghie e il piegaciglia di Maxine.
Non riuscì a chiudere la busta, ma poco importava. Si infilò il cappotto e prese la valigia. Andò in
soggiorno.
Quando lo vide, Maxine mise un braccio intorno alle spalle di Rae.
«Ecco», disse lui. «Questo è un addio», disse. «Non so che altro dire, se non che immagino di non
rivederti mai più. E neanche te», disse L.D. a Rae. «Tu e le tue idee picchiate».
«Va'», disse Maxine. Prese la mano di Rae. «Non credi di aver fatto già abbastanza danni in questa
casa? Va', L.D. Vattene di qui e lasciaci in pace».
«Ricordati», disse Rae. «E nella tua testa».
«Me ne vado, è tutto quello che posso dire», disse L.D. «In qualunque posto. Via da questa gabbia
di matti», disse. «Questa è la cosa più importante».
Lanciò un'ultima occhiata al soggiorno e poi passò la valigia da una mano all'altra e infilò la busta di
plastica sotto il braccio. «Mi farò vivo, Rae. Maxine, faresti meglio a lasciare questa gabbia di matti
anche tu».
«Sei tu che l'hai fatta diventare una gabbia di matti», disse Maxine. «Se è una gabbia di matti, è per
colpa tua».
Lui appoggiò la valigia per terra e la busta di plastica sulla valigia. Raddrizzò le spalle e si piazzò
davanti a loro.
Rae e Maxine fecero un passo indietro.
«Attenta, mamma», disse Rae.
«Non mi fa paura», disse Maxine.
L.D. infilò sotto il braccio la busta di plastica e raccolse la valigia.
Disse: «Soltanto una cosa voglio ancora dire».
Ma poi non riuscì a pensare cosa mai potesse essere.
PERSONAGGI
Il personaggio è la più importante componente del romanzo.
Ci sono personaggi principali e personaggi minori, piatti e a tutto tondo, visti dall’interno della loro
mente e visti dall’esterno, visti dall’autore e visti da un altro personaggio.
Nella letteratura del passato il personaggio veniva introdotto da una descrizione fisica e un
riassunto biografico.
I romanzieri moderni di solito preferiscono lasciare che i fatti riguardanti il personaggio emergano
gradualmente, diversificati, oppure trasmessi attraverso l’azione e la parola.
Qualunque descrizione nella narrativa è altamente selettiva. Per es. Eliot e Isherwood evocano
l’aspetto fisico delle loro eroine mettendo a fuoco le mani e il viso, lasciando al lettore il compito di
immaginare il resto. Gli abiti sono un’indicazione utile per stabilire il carattere, la classe sociale, lo
stile di vita di un personaggio.
Un soggetto a cui si aggiunge qualcosa di cui gli importi (in modo cosciente o no) diventa una
persona. E’ importante sapere perché gli importa. E magari creare una situazione che metta in
pericolo ciò che gli importa.
E’ importante considerare solo i personaggi che abbiano interesse per qualcosa.
Lavorare per far sì che ogni uomo o donna della storia sia un individuo separato e distinto.
Guardare la gente, amarla, buoni e cattivi, interessanti e noiosi perché loro saranno i personaggi.
Scegliere coloro che suscitano forti sentimenti o emozioni. Persone che ammiriamo o odiamo o
invidiamo o amiamo.
La storia deve essere credibile e i Personaggi verosimili.
E’ l’autore che deve spiegare in modo convincente perché un personaggio agisce come agisce.
Fornire spiegazioni plausibili per il suo comportamento. Mettersi al suo posto.
Cercare nella propria memoria qualche emozione che può essere simile a quella che si vuole
attribuire al personaggio.
Sono emozioni che tutti vivono anche se le esperienze che le hanno determinate sono diverse
Caratterizzazione di un personaggio.
Di solito in un racconto è sufficiente mostrare una sola parte, un solo lato, una sola caratteristica del
personaggio, per esempio l’egoismo. (Il gigante egoista di Oscar Wilde).
In un romanzo invece l’autore deve descrivere il personaggio in tutte le sue caratteristiche:
I tratti generali (quelli formati dall’eredità genetica e dall’ambiente).
Caratteristiche universali: Sono caratteristiche comuni a tutti gli uomini. Sono date per scontate.
Vanno descritte solo quando si presentano delle anomalie ( un personaggio cieco, senza una gamba
ecc.)
Caratteristiche nazionali: i cittadini di ogni paese possiedono certe caratteristiche nazionali che sono
il risultato della geografia de paese, la cultura, il linguaggio, la storia, la psicologia. Alcuni sono
diventati addirittura degli stereotipi (lo scozzese avaro, l’inglese flemmatico, l’amante latino ecc.)
Caratteristiche regionali: per esempio il provincialismo di Emma Bovary
Caratteristiche di gruppo: il personaggio può avere le caratteristiche di un determinato gruppo
sociale o professionale (avvocati, criminali, miliardari ecc)
i tratti fisici (le caratteristiche fisiche). Non è tanto importante descrivere il personaggio
fisicamente per essere più realistici ma per suggerire qualcosa attraverso le caratteristiche fisiche
(muscoli che denotano forza, magrezza, obesità, pallore, bellezza ecc)
I tratti personali
sono le caratteristiche che permettono di distinguere un individuo dall’altro.
Identificano uomini e donne come persone in possesso di certe particolarità sociali ed etiche
(coraggioso, vigliacco, egoista, leale, doppio, ambizioso, pigro, fedele, bugiardo ecc)
i tratti emozionali (caratteristiche mentali, psichiche) Derivano direttamente dagli altri tratti.
Esempio da La spia che venne dal freddo di John Le Carré
Leamas era bassino, con capelli corti e grigi e il fisico del nuotatore. Era molto forte. Una forza che
si notava nella schiena e nelle spalle, nel collo e nella forma tozza delle mani e delle dita (Tratti
fisici)
Aveva un concetto pratico dell’abbigliamento come di quasi tutto il resto, cosicché anche gli occhiali
che portava ogni tanto avevano la montatura metallica. I suoi vestiti erano per lo più di fibra
artificiale, tutti senza panciotto, e prediligeva le camicie di tipo americano, coi bottoni alle punte del
colletto, e le scarpe di camoscio con suole di gomma. (Tratti fisici e personali)
Aveva un viso attraente, solcato da muscoli, e una piega ostinata alle labbra sottili (Tratti fisici e
personali). Gli occhi erano scuri e piccoli. (Tratti fisici) Irlandese secondo alcuni. Difficile, invece,
classificarlo. (Tratti generali) Fosse entrato in un club londinese, difficilmente il portiere l’avrebbe
scambiato per un socio; di contro, in un locale notturno di Berlino gli davano puntualmente il tavolo
migliore. (Tratti generali) Aveva l’aria di chi pianta grane, bada al soldo e non è gentiluomo fino
all’osso. (Tratti di gruppo, fisici e personali)
Come si rivela un personaggio
Il protagonista deve essere posto in conflitto con il suo ambiente o con l’ambiente altrui. La
risposta del protagonista agli stimoli dell’ambiente diventa la forza che lo fa agire, il movente. Tutto
quello che fa per raggiungere il suo obiettivo e tutto quello che fanno altri personaggi per ostacolarlo
rivela qualcosa del carattere del protagonista e anche degli altri personaggi.
(Per esempio, la storia di Emma Bovary è tutta una risposta positiva o negativa agli stimoli
dell’ambiente che la circonda)
Il personaggio viene rivelato dalle sue azioni. E’ però necessario anche descrivere le reazioni
emozionali del personaggio prima di compiere un’azione per spiegarne il carattere (un personaggio
che si getta in acqua per salvare qualcuno che sta per affogare può aver agito di impulso e non
essere necessariamente coraggioso)
Il personaggio viene rivelato dalla scoperta di sé e dalla sua realizzazione. (Un personaggio può
pensare di essere vigliacco e comportarsi eroicamente in un’azione)
Il personaggio viene rivelato dalle sue motivazioni. Quando compie qualcosa seguendo una forte
spinta personale, rivela qualcosa del suo carattere.
Il personaggio viene rivelato dal suo nome
(In una storia i nomi non sono mai neutri. Hanno sempre un significato. Gli scrittori didattici, satirici
o comici possono permettersi un’esuberanza di inventiva, oppure possono ricorrere a un’ovvia
allegoria quando assegnano i nomi. Gli scrittori realisti preferiscono nomi più correnti con
connotazioni appropriate. Simenon non cominciava un romanzo se non aveva riflettuto a lungo sul
nome dei protagonisti.)
Il personaggio viene rivelato dalle sue caratteristiche
Aspetto Bisogna trovare delle note distintive per ciascun personaggio. Anche particolarità nel
linguaggio. Ripetizioni, modi di dire. Chiedersi se senza quel difetto fisico o quella particolarità quel
personaggio sarebbe rimasta la stessa persona (per es. Cyrano. Capitan Uncino, il Gobbo di Notre
Dame.)
Manierismi (una risata particolare, un gesto, un tic, mordersi le labbra, allisciarsi i capelli)
Atteggiamento (modo di reagire…)
Capacità (di fare una bomba, tagliare i capelli, aggiustare una macchina)
Il personaggio viene rivelato quando viene descritto in contrasto con un altro
Il personaggio viene rivelato nei momenti della verità (Rebecca la prima moglie)
Il personaggio viene rivelato dal una confessione
BACKGROUND
Perché un Personaggio è quello che è e fa quello che fa? Per capire il presente e il futuro, esplorare
il passato.
Non è necessario costruire un passato complicato, è sufficiente creare uno o due forti motivi per
cui il Personaggio è diventato quello che è. Serve a rendere il Personaggio unico. A fornire una
ragione perché agisce come fa
Per renderlo credibile, dargli spessore
Senza background si ha una caricatura.
Fare un Personaggio troppo complicato è sbagliato.
Il passato serve a spiegare perché un Personaggio fa determinate cose e perché non ne fa altre.
Raccontare il suo ambiente e le sue esperienze
Tutti i personaggi dovrebbero avere un background personale, una vita prima del punto in cui la
storia comincia e solide ragioni per cui appaiono nel libro.
I personaggi sono reali non perché ci assomigliano ma perché sono convincenti.
Un personaggio di un libro è reale quando il romanziere sa tutto di lui.
Può anche preferire di non comunicarci tutto quello che sa: potrà tenerci nascosti molti fatti, ma
ci dà la sensazione che, anche se il personaggio non è stato del tutto spiegato, è spiegabile.
Nella realtà la conoscenza perfetta è un’illusione. Nel romanzo, invece, le persone possiamo
conoscerle perfettamente.
Dei personaggi è importante descrivere solo ciò che sarà importante per tutta la storia. Se un
uomo viene descritto con l’ombrello sarà diverso da uno senza l’ombrello.
E’ superfluo a volte descrivere nei dettagli l’aspetto fisico dei personaggi. Il colore dei capelli,
l’altezza ecc. E’ più importante individuare un dettaglio particolare e come si comporta, come
pensa, come reagisce, come parla, a chi somiglia… Erle Stanley Gardner non descrisse mai Perry
Mason.
La ripetizione può servire a caratterizzare un personaggio sottolineando un tic fisico, una mania, la
presenza di un oggetto familiare; essa dà a un dato personaggio un rilievo caratteristico, lo rende
immediatamente riconoscibile e contribuisce talvolta a farlo entrare nella mitologia popolare:
Maigret è l’ispettore con la pipa.
Porsonaggi piatti e tondi
I personaggi piatti sono i tipi o caricature. Nella loro forma più pura sono costruiti intorno a
un’unica idea o qualità. Sono loro stessi l’idea.
Un grande vantaggio del personaggio piatto è che lo si riconosce subito: ogni volta che entra in
scena viene identificato dall’occhio emotivo del lettore. Sono molto utili all’autore per creare un
qualche effetto. Un altro vantaggio è che il lettore se li ricorda facilmente. Gli restano in mente
inalterabili poiché le circostanze del libro non sono mai intervenute a modificarli.
I personaggi piatti non costituiscono di per se stessi risultati elevati come quelli tondi e riescono
meglio se sono comici. Un personaggio piatto quando è serio o tragico tende a risultare noioso.
Personaggi tondi. Personaggi che vengono descritti in tutte le dimensioni. Jane Austen è una
miniaturista che però non dipinge mai a due dimensioni. Tutti i suoi personaggi sono rotondi oppure
sono capaci di diventarlo. Funzionano a tutto tondo e, anche se l’intreccio pretendesse da essi
qualcosa di più, sarebbero sempre all’altezza della situazione.
La prova che un personaggio è tondo consiste nella sua capacità di sorprenderci in
maniera convincente. Se non ci sorprende mai è piatto.
PERSONAGGI MASCHILI
Don Chisciotte di Miguel de Cervantes
In un borgo della Mancia, di cui non voglio ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva un
gentiluomo di quelli con lancia nella rastrelliera, scudo antico, ronzino magro e can da seguito.
Qualcosa in pentola, più spesso vacca che castrato, quasi tutte le sere gli avanzi del desinare, in
insalata, lenticchie il venerdì, un gingillo il sabato, un piccioncino ogni tanto in più la domenica,
consumavano tre quarti delle sue rendite; il resto se ne andava tra una casacca di castoro con
calzoni e scarpe di velluto per le feste, e un vestito di fustagno, ma del più fino, per tutti i giorni.
Aveva una governante che passava i quarant’anni, una nipote che non arrivava ai venti e un
garzone capace per il campo come per il mercato, buono a sellare un ronzino come a menar la
roncola. L’età del nostro gentiluomo rasentava la cinquantina: era di complessione robusta, asciutto
di corpo, magro di viso, molto mattiniero e amante della caccia.
I quattro moschettieri di Alexandre Dumas padre (D’Artagnan)
Un giovinotto… - tracciamo la sua figura con un sol tratto di penna. – immaginate Don Chisciotte a
diciott’anni; Don Chisciotte senza corsaletto, senza giaco e senza cosciali, Don Chisciotte rivestito
d’n farsetto di lana il cui colore turchino s’era mutato in una indefinibile sfumatura tra la feccia di
vino e l’azzurro celeste. Aveva viso lungo e bruno; zigomi sporgenti, segno di astuzia, muscoli
mascellari enormemente sviluppati, indizio infallibile al quale si riconosce il guascone anche senza il
berretto, e il nostro giovinotto ne portava uno ornato da una specie di piuma; occhio aperto e
intelligente, naso adunco ma finemente disegnato; era troppo alto di statura per un adolescente,
troppo basso per un uomo fatto; un occhio poco esperto l’avrebbe preso per il figlio di un fattore in
viaggio, senza la lunga spada che, appesa ad un balteo di cuoio, sbatteva nei polpacci del suo
proprietario quand’era a piedi e sul pelo irto della sua cavalcatura quand’era a cavallo.
La Certosa di Parma di Stendhal (Fabrizio del Dongo)
Quando Fabrizio ebbe fatto la sua prima comunione, la zia ottenne dal marchese, sempre esule
volontario, il permesso di farlo uscire qualche volta dal collegio. Lo trovò originale, sveglio di mente,
molto serio, bel ragazzo, tale da non stonare affatto nel salotto d’una donna alla moda: ignorante
del resto parecchio, e appena in grado di scrivere.
Moby Dick di Herman Melville (Il capitano Achab)
Il capitano Achab era sul cassero. Non pareva avesse indosso segni di una comune malattia fisica,
né di convalescenza alcuna. Aveva l’aspetto di un uomo staccato dal rogo quando il fuoco ha
devastato, trascorrendole, tutte le membra, ma senza consumarle o rubar loro una sola particola
della compatta e vecchia robustezza. Tutta la sua figura alta e grande sembrava fatta di solido
bronzo e foggiata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso del Cellini. Un segno sottile come
una bacchetta, d’un biancore livido, si apriva una strada di tra i capelli grigi e continuava dritto da
un lato della faccia e del collo abbruciacchiati dall’abbronzatura, finchè scompariva negli abiti. (-)
Tanto fortemente m’impressionò l’insieme del truce aspetto di Achab e quel livido marchio che lo
segnava, che per i primi istanti non mi accorsi appena come non poco del suo strapotente effetto
truce fosse dovuto alla barbarica gamba bianca sulla quale in parte poggiava. (-) La gamba d’osso
assicurata in quel buco, un braccio levato e afferrato a una sartia, il capitano Achab stava eretto,
guardando dritto al largo, oltre la prora della nave che continuamente beccava. C’era tutto un
infinito di fortezza sicura, di volontà determinata e indomabile nella dedizione fissa e intrepida e
pronta di quello sguardo. Non disse una parola, e nemmeno i suoi ufficiali dissero nulla a lui,
sebbene tradissero chiaramente, nei loro menomi gesti e nelle espressioni, la disagiata, se non
penosa, coscienza di trovarsi sotto un occhio corrucciato di padrone. E non soltanto questo, ma il
cupo, folgorato Achab stava loro innanzi con una crocifissione sul volto, in tutta l’indicibile e regale e
opprimente dignità di un gagliardo dolore.
Oblomov di Ivan Gonciarov
Di età sui trantadue o trentatrè anni, di media statura, di aspetto piacente, con occhi grigioscuri, ma
con un viso i cui lineamenti non esprimevano alcuna concentrazione per un’idea determinata. Il
pensiero, a guisa di libero uccelletto, volteggiava su quel viso, svolazzava negli occhi, si soffermava
sulle labbra semichiuse, si nascondeva tra le rughe della fronte per scomparire di colpo e allora su
tutto il volto si diffondeva il grigiore uniforme dell’indifferenza. Indifferenza che dal viso passava
nell’atteggiamento del corpo e persino nelle pieghe della veste da camera. A tratti, un’espressione di
stanchezza o di noia adombrava il suo sguardo; ma noia o stanchezza non riuscivano, neppure per
un attimo a scacciare da quel volto l’indolenza che costituiva l’elemento fondamentale e dominante,
non soltanto del viso ma di tutta l’anima, e l’anima riluceva apertamente e chiaramente negli occhi,
nel sorriso, in ogni movimento del capo e delle mani. Un osservatore freddo e superficiale, dopo
aver rivolto una fuggevole occhiata a Oblomov, avrebbe detto: “Dev’essere un buon diavolaccio, un
semplicione!”. Ma un osservatore più profondo e spinto da un senso di simpatia, dopo averlo
guardato a lungo attentamente ed aver abbozzato un sorriso, si sarebbe allontanato. (-) I suoi
movimenti, anche quando era agitato, erano trattenuti da una certa mollezza e da un’indolenza non
priva, nel suo genere, di grazia. Se su quel volto guizzava, proveniente dall’anima, un’espressione
preoccupata, lo sguardo si annebbiava, la fronte si copriva di rughe e aveva inizio il giuoco dei
dubbi, della tristezza, della paura, ma assai di rado quest’agitazione assumeva la forma di un’idea
ben definita, e più raramente ancora si trasformava in un deciso proposito. Tutta l’agitazione
risolveva in un sospiro, per dissolversi in un’apatica sonnolenza.
I miserabili di Victor Hugo (Jean Valjean)
Era un uomo di media statura, tozzo e robusto, ancora aitante e che poteva avere quarantasei o
quarantott’anni; un berretto a visiera di cuoio abbassata gli celava in parte il viso, riarso dal sole e
dalla caldura e madido di sudore; la camicia, di grossa tela gialla, allacciata al collo da una fibbietta
d’argento, lasciava scorgere il petto villoso.
Bouvard e Pècuchet di Gustave Flaubert
Allora si osservarono meglio. L’aspetto simpatico di Bouvard conquistò subito Pècuchet. Quegli occhi
cilestri, sempre semichiusi, sorridevano nel colorito acceso del volto. Le brache ad arcata di ponte
che ricadevano a fisarmonica su scarpe di castoro, modellavano il ventre, stringevano alla cintola la
camicia, che ne traboccava a sboffi. I capelli biondi, che da sé s’arricciolavano in leggere ciocche,
davano al viso un che d’infantile.
Dal canto suo Bouvard era colpito dall’aspetto grave di Pècuchet. Il cranio a pera era così fittamente
guernito di ciocche nere e lisce, da far pensare che portasse la parrucca. Il viso era tutto profilo, a
causa del naso che si prolungava a proboscide. Aveva le gambe, chiuse in tubi di clasting, più corte
del torso; la voce forte, cavernosa.
Bel ami di Guy de Maupassant
Camminava proprio come al tempo in cui portava l’uniforme degli ussari, petto in fuori, gambe
leggermente divaricate come se fosse appena sceso di cavallo; e avanzava risoluto nella via piena di
gente, urtando spalle, spingendo persone per non deviare dal suo cammino. Portava il cilindro
leggermente inclinato sull’orecchio, picchiando i tacchi sul selciato. Aveva sempre l’aria di sfidare
qualcuno, i passanti, le case, la città intera, con la naturalezza del bel soldato sbattuto nella vita
civile.
Pur indossando un abito da sessanta franchi, conservava una certa eleganza vistosa, un po’ banale,
e tuttavia autentica. Alto, ben fatto, biondo, d’un biondo castano vagamente rossiccio, coni baffi
arricciati che parevano schiumargli sul labbro, occhi azzurro chiaro, bucati da una pupilla molto
piccola, capelli naturalmente ricciuti, spartiti dalla scriminatura al centro del cranio, somigliava
parecchio al cattivo soggetto dei romanzi popolari.
Lord Jim di Joseph Conrad
Era un paio di centimetri o tre sotto il metro e ottanta, molto robusto di corporatura, e vi arrivava
dritto incontro a testa avanti, rientrando un poco le spalle, con uno sguardo fisso da sotto in su che
faceva pensare alla carica di un toro. Aveva la voce profonda, sonora, e l’atteggiamento improntato
a una specie di caparbia imperiosità che non aveva nulla di aggressivo. Atteggiamento che pareva
rispondere a una necessità, e manifestamente si applicava più a lui che agli altri. Era sempre vestito
in modo inappuntabile, di un bianco immacolato dalla testa ai piedi, e negli svariati porti dell’Oriente
ove si guadagnava da vivere come commesso marittimo di fornitori navali erra molto conosciuto.
Morte a Venezia di Thomas Mann (Aschenbach)
Gustav von Aschenbach era di statura lievemente inferiore alla media, bruno, sbarbato. La testa
risultava u po’ grande rispetto alla corporatura quasi minuta. I capelli spazzolati all’indietro,
alquanto radi sul cocuzzolo, folti e molto brizzolati alle tempie, incorniciavano una fronte alta,
segnata da rughe profonde come cicatrici. L’arco degli occhiali d’oro, dalle lenti non cerchiate,
s’infossava nella radice del naso forte e nobilmente aquilino. La bocca era grande, a volte rilassata,
a volte improvvisamente sottile e contratta; le guance magre e scarne, il mento ben modellato e
morbidamente diviso nel mezzo. Su quella testa quasi sempre reclinata in atteggiamento dolente, si
sarebbe detto che fieri destini avessero deposto la loro traccia, e invece era stata l’arte a compiere
quel processo di configurazione fisionomica che normalmente è frutto di una vita agitata e difficile.
Occhi blu capelli neri di Marguerite Duras
Il giovane straniero raggiunge la giovane donna. Come lei, è giovane. E’ alto come lei, come lei è in
bianco. Si ferma. L’aveva perduta. Per il riverbero che viene dalla terrazza i suoi occhi fanno paura
tanto sono blu. Quando si avvicina a lei, si vede che è colmo di gioia di averla ritrovata e
dall’angoscia di doverla perdere ancora. Ha il pallore degli amanti. I capelli neri. Piange.
Pietro il lettone di Georges Simenon (Maigret)
Dopo di che, in piedi, la schiena rivolta al fuoco, riempì la pipa, si tirò giù il colletto che, benchè
molto basso, gli dava fastidio. (-) Lui stava là, enorme, con le spalle poderose che disegnavano una
grande ombra. La gente lo urtava ma lui restava immobile come un muro. (-) Maigret si diresse a
una porta che si apriva su un armadio a muro, si lavò le mani in un lavabo di smalto, si passò il
pettine tra i folti capelli, di un castano scuro con appena qualche filo bianco alle tempie, si aggiustò
la cravatta che non era mai riuscito ad annodare correttamente. (-) La presenza di Maigret al
Majestic aveva fatalmente qualcosa di ostile. Egli formava in qualche modo un blocco che
l’atmosfera si rifiutava di assimilare.
Non perché assomigliasse ai poliziotti che le caricature hanno reso popolari. Non aveva i baffi e non
portava scarpe dalle suole rinforzate. I suoi vestiti erano di stoffa fine, ben tagliati. Infine si radeva
tutte le mattine e le sue mani erano curate.
Ma la struttura era plebea. Era enorme e ossuto. I muscoli poderosi si disegnavano sotto la giacca,
sformavano in breve tempo i pantaloni più nuovi.
Aveva soprattutto una maniera del tutto personale di piantarsi in un dato posto che non aveva
mancato di dare fastidio perfino a molti suoi colleghi.
Era qualcosa più che sicurezza e tuttavia non era orgoglio. Arrivava tutto d’un pezzo, e da quel
momento sembrava che tutto dovesse spezzarsi contro di lui, sia che avanzasse, sia che rimanesse
piantato sulle gambe un piò divaricate. La pipa era inchiodata alla mascella. Non si dava pena di
metterla via perché era al Majestic. Era forse, a conti fatti, un partito preso di volgarità, di fiducia in
sé stesso?
Addio mia amata di Raymond Chandler
A un’estremità del bar stava appoggiato un negro robusto, dal collo di toro, con elastici rosa attorno
alle maniche della camicia e un paio di bretelle bianche e rosa che gli s’incrociavano sulla schiena
larga e robusta. Era un bullo, si vedeva subito. Posò lentamente il piede che teneva sollevato, si
voltò pian piano a fissarci, divaricando con calma le gambe e passandosi la grossa lingua sulle
labbra. Aveva una faccia devastata, che pareva fosse stata colpita dagli oggetti più diversi. Era
appiattita e gonfia, rivoltata e rinsecchita, piena di cicatrici e ricordi vari. Era una faccia che non
aveva da temere nulla. Le avevano già fatto tutto quello che si può immaginare.
Il grande sonno di Raymond Chandler (Marlowe)
Portavo un completo azzurro polvere, con cravatta e fazzolettino blu scuro, scarpe nere e calze nere
di lana, con un disegno a orologi blu scuro. Ero ordinato, pulito, ben raso e sobrio, e non me ne
importava che la gente se ne accorgesse. Sembravo il figurino dell’investigatore privato elegante.
Andavo a far visita a un milione di dollari.
----------------------------Bertleby lo scrivano di Herman Melville
Scrive Melville che «tutti quelli che dicono sì, mentiscono; e tutti quelli che dicono no — beh, essi
sono nella felice condizione dei giudiziosi viaggiatori in Europa che non si portano dietro impicci;
attraversano le frontiere dell’Eternità senza nient’altro che una semplice borsa, vale a dire l’Io».
Melville, a partire da questo concetto — saper dire «no» —, ha costruito uno dei più bei racconti che
siano mai stati pubblicati: Bartleby lo scrivano.
Un magistrato della Corte di equità assume uno scrivano, Bartleby, che dapprima lavora a pieno
ritmo ma d’un tratto inizia inspiegabilmente a rifiutarsi di eseguire gli ordini opponendo con decisa
dolcezza la frase «preferirei di no». Il magistrato, nonostante tutto, non riesce a licenziarlo né a
liberarsene (come fosse una coscienza) tanto da decidere di traslocare lui stesso, per staccarsi di
dosso quella scomoda presenza. Lo scrivano rimarrà solo nelle stanze dello studio fino a quando,
arrivati i nuovi inquilini, la polizia lo rinchiuderà con l’accusa di vagabondaggio. In carcere, Bartleby
preferirà non mangiare, lasciandosi morire.
Eppure anche morto, Bartleby vive. Certo, non è più un uomo, ma diventa un fantasma che ha
insinuato il tarlo del dubbio nel vecchio magistrato che ne racconta la vicenda. Con i suoi misteriosi
rifiuti, Bartleby ha fatto traballare tutte quelle che erano state fino ad un istante prima le sue
certezze, fondate sulla supposizione che fossero indiscutibili perché largamente accettate. Ma
Bartleby «era uomo di preferenze, più che di supposizioni», si rende conto il magistrato. Insomma,
era capace di scegliere secondo una sua propria indipendente — e imperscrutabile — scala di valori.
Ed è proprio tale caratteristica, evidenziata dall’apparente assurdità, a determinare la sua libertà.
Facendo assurgere Bartleby a prototipo dell’uomo libero.
L’avvocato si descrive:
io sono uno di quegli avvocati privi di ambizione, che non si rivolgono mai ai giurati, che mai
corteggiano il pubblico applauso, ma nella riposante pace di un comodo studio si occupano
tranquillamente delle obbligazioni, ipoteche e dividendi di persone facoltose. Tutti quelli che mi
conoscono mi considerano un uomo eminentemente posato.
Descrive il copista Tacchino:
era un inglese basso e corpulento, suppergiù della mia età, cioè non lontano dai sessanta. Al
mattino il suo volto ostentava un bel colorito florido, ma dopo le dodici, mezzogiorno, l’ora in cui
faceva colazione, ardeva come un caminetto il giorno di Natale, e continuava ad ardere con
decrescente intensità fin verso le sei del pomeriggio, dopo la quale ora non vedevo più il proprietario
di quella faccia che, raggiungendo il suo pieno fulgore con il sole, sembrava con esso tramontare,
per sorgere culminare e calare il giorno seguente, con pari regolarità e splendore. Molte strane
coincidenze ho avuto modo di osservare nel corso della mia vita, delle quali non è la minore il fatto
che, esattamente nel momento in cui Tacchino faceva piovere i suoi più caldi raggi dal viso
rubicondo e radioso, proprio in quel momento critico cominciava il periodo quotidiano nel quale
dovevo considerare le sue capacità di lavoro seriamente compromesse per il restante della giornata.
Non che rimanesse ozioso o mostrasse avversione al lavoro; tutt’altro. Il pericolo, se mai, era
l’opposto, incline com’era a dar prova di energia eccessiva. Si manifestava allora in lui una strana e
ardente attività., d'un carattere dinamico, turbinoso, catastrofico. Intingeva la penna nel calamaio
sbadatamente, e infatti tutte le macchie che, per colpa sua, costellavano i miei documenti vi erano
cadute dopo le dodici, mezzogiorno. Ma non era solo sbadato, nel pomeriggio, e disgraziatamente
incline a fare macchie; qualche giorno andava più in là e diveniva piuttosto rumoroso. In quelle
occasioni la sua faccia brillava di anche più fulgidi colori, come se sull'antracite avessero versato una
palata di carbone bituminoso. Faceva un chiasso da non dire con la sedia, versava la coppetta del
polverino, nel temperare le penne le riduceva in tanti pezzi e poi le sbatteva per terra in una crisi di
rabbia, si alzava in piedi, si curvava sul tavolo, scompigliava i fogli in modo men che decoroso, e
tanto più triste a osservare in un uomo della sua età. Tuttavia, siccome, sotto vari aspetti, mi era
quanto mai prezioso, e ogni giorno, prima delle dodici, mezzogiorno, la persona più pronta e fidata
che si possa immaginare, e capace di smaltire una grande quantità di lavoro con una precisione che
non era facile uguagliare, per queste ragioni ero propenso a chiudere un occhio sulle sue
eccentricità, sebbene, per dire il vero, di tratto in tratto lo rimproverassi.
Descrizione del copista Pinzette:
era un giovane di circa venticinque anni, col viso smorto ornato da un paio di favoriti e, tutto
considerato, di un aspetto piuttosto piratesco. Ho sempre pensato fosse la vittima di due influssi
altamente malefici: l'ambizione e la cattiva digestione. L'ambizione si manifestava in una certa
insofferenza per i lavori di semplice copista, in una ingiustificabile propensione a occuparsi di affari
strettamente professionali, come la stesura di documenti legali. La cattiva digestione era rivelata da
una irritazione nervosa, una digrignante insofferenza, che gli faceva arrotare i lenti in modo udibile,
per errori commessi nel copiare; da maledizioni del tutto superflue, sibilate più che non pronunciate,
nel fervore del lavoro, e specialmente dal fatto the fosse perennemente insoddisfatto dell'altezza del
tavolo a cui doveva lavorare. Sebbene singolarmente portato alla meccanica, Pinzette non era mai
in grado di sistemare il tavolo in modo soddisfacente. Insinuava sotto le gambe schegge, cubetti di
legno di vari tipi, strisce di cartone, e un giorno giunse al punto di tentare una meticolosa e delicata
livellazione con pezzi di carta assorbente ripiegata. Ma non c'era nulla che andasse bene. Se, allo
scopo di riposare la schiena, piegava il piano del tavolo a un angolo acuto, spingendoselo quasi
sotto il mento, e vi scriveva sopra come chi usi per scrivania il tetto spiovente di una casa olandese,
allora dichiarava che questa posizione arrestava la circolazione del sangue nelle braccia. Se
abbassava il tavolo all'altezza della vita e si curvava tutto sopra, avvertiva subito delle fitte alla
schiena. In breve, per dir la verità, Pinzette non sapeva ciò che voleva. O, se voleva qualcosa, era
liberarsi una volta per tutte del tavolo di scrivano.
Descrizione del fattorino Zenzero:
era un monello di circa dodici anni. Suo padre faceva il carrettiere, ma covava l'ambizione di potere,
prima di morire, veder suo figlio sedere sullo scranno di un tribunale anziché sulla panca di un carro.
Così che me l'aveva mandato in ufficio come studente di legge, fattorino e scopatore, al salario di un
dollaro la settimana. Possedeva anche lui un piccolo tavolo, ma non se ne serviva molto. Chi
l'avesse ispezionato, avrebbe trovato nel cassetto un notevole assortimento di gusci di noce. Infatti,
per questo sveglio ragazzo, l'intera nobile scienza del giure si trovava tutta racchiusa in un guscio di
noce. Una delle occupazioni più importanti di Zenzero, e quella che sbrigava con maggior alacrità,
era andare a comperare biscotti e mele per Tacchino e Pinzette. Copiare documenti legali è, per
definizione, una occupazione arida, e così i due scrivani avevano l'abitudine di inumidirsi la bocca
con delle mele Spitzenberg, che facevano acquistare a una delle tante bancarelle, cosi frequenti nei
pressi della dogana e della posta. Sovente lo spedivano anche a comperare quei biscottit schiacciati,
rotondi e molto drogati, dai quali egli aveva ricavato il suo nome. Certe fredde mattinate, quando
non c'era molto da fare, Tacchino ingozzava dozzine di questi biscotti, come fossero ostie (infatti
costano pochissimo, e se ne hanno sei o sette per un penny), tanto che lo scricchiolio della penna si
confondeva col rumore che produceva masticando questi friabili biscotti. Fra i più madornali sbagli e
pericolosi spropositi pomeridiani commessi da Tacchino, ricordo che una volta inumidì uno di questi
biscotti tra le labbra e poi io applicò su un'ipoteca, come fosse un sigillo.
Descrizione di Bertleby:
In risposta a una mia inserzione, un bel mattino mi trovai sulla soglia dell’ufficio, s’era d’estate e la
porta restava aprta, un giovane immobile. Ancora adesso posso rivedere quella figura, così sbiadita
nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, disperata nella sua solitudine. Era Bartleby.
Scambiate poche parole sulle sue capacità, lo assunsi senz’altro, lieto di avere, tra i miei copisti, una
persona di aspetto così stranamente tranquillo,che pensai avrebbe potuto esercitare una influenza
benefica sulla matura turbolenta di Tacchino e quella irascibile di Pinzette.
“Preferirei di no” mi dichiarò una terza volta Bartleby. Io lo guardai immobile. Un volto smunto e
composto, gli occhi grigi, opachi, spenti. Non pareva turbato dalla minima agitazione. Avessi scorto
nei suoi modi una certa inquietudine, ira, impazienza, impertinenza, in altre parole avessi notato in
lui qualcosa di comprensibile, di umano, senza dubbio l’avrei licenziato sui due piedi. Ma, così
com’era, mi sarebbe stato più facile licenziare il bianco busto in gesso di Cicerone.
PERSONAGGI FEMMINILI
La dama delle camelie di Alexandre Dumas figlio (Margherita Gautier)
Era, insomma, impossibile trovare una bellezza più incantevole di quella di Margherita. Alta e
slanciata fino all’esagerazione, essa possedeva al massimo grado l’arte di far scomparire quel difetto
della natura con un accorto modo di vestirsi. Il cascimirre, la cui punta toccava in terra, lasciava
spuntare, di qua e di là, i larghi volanti di un abito di seta, e il grosso manicotto che le nascondeva
le mani e che essa appoggiava contro al petto, era circondato da pieghe così abilmente disposte che
l’occhio più esigente non trovava niente da ridire sul contornato di quelle forme. La testa, mirabile,
era oggetto di una speciale civetteria. Era piccolissima, e sua madre, come avrebbe detto De
Musset, pareva averla fatta così piccola per poterla fare con più cura. Mettete in un ovale dalla
grazia indescrivibile due occhi neri sormontati da sopracciglia dall’arco tanto puro da sembrare
disegnato, velate quegli occhi con ciglia così lunghe che, abbassandosi, ombreggino il rosa delle
guance; tracciate un naso fine, diritto, spirituale, dalle narici lievemente aperte per l’ardente
desiderio di vita sensuale; disegnate una bocca regolare, le cui labbra si schiudano con grazia su
denti bianchi come il latte; colorite la pelle col tono vellutato proprio delle pesche che nessuna mano
ha ancora sfiorato e avrete l’immagine di quella tesa deliziosa. I capelli neri come il gè, ondulati
naturalmente o no, si dividevano sulla fronte in due larghe fasce e si perdevano dietro il capo
lasciando vedere il lobo degli orecchi sui quali luccicavano due brillanti del valore di quattro o
cinquemila franchi l’uno. Come potesse quella vita tanto piena di ardore lasciare sul volto di
Margherita l’espressione verginale, addirittura infantile che le era propria, ecco quello che siamo
costretti a constatare senza poter capire.
La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne (Hester Prynne)
La giovane donna era alta, con una corporatura di perfetta eleganza, sebbene maestosa. Aveva una
copiosa capigliatura nera, così lucente da riflettere i raggi del sole, e un volto che, oltre ad essere
bello per regolarità di lineamenti e ricchezza di tinte, possedeva quell’intensità che deriva da
sopracciglia ben disegnate e profondi occhi neri. Aveva anche qualcosa di nobile, secondo i canoni
che predominavano in quei giorni e prescrivevano una certa maestosa dignità, più che non la grazia
delicata, evanescente e indescrivibile, viene oggi riconosciuta come il segno della gentilezza
femminile.
Madame Bovary di Gustave Flaubert (Emma Bovary)
Charles restò impressionato dal nitore di quelle unghie. Erano luccicanti, appuntite, più levigate
degli avori di Dieppe, tagliate a mandorla. La mano, tuttavia, non era bella nel suo complesso: forse
non abbastanza candida, piuttosto secca alle falangi, era anche troppo lunga e mancava di mollezza
nei contorni. Di veramente bello, la signorina Emma aveva, invece, gli occhi: sebbene fossero grigi
parevano neri a causa delle lunghe ciglia, il loro sguardo ti colpiva francamente, con candida
arditezza. (-) La sala non era riscaldata, e lei batteva un poco i denti, mangiando, scopriva così le
labbra carnose che era solita mordicchiare nei momenti di silenzio. Il collo le usciva da un colletto
bianco, rovesciato. I capelli, le cui bande nere parevano fatte ciascuna d’un pezzo unico tanto erano
lisce, erano divisi nel mezzo da una scriminatura sottile che s’incideva lievemente secondo la curva
del cranio scoprendo appena la punta degli orecchi, andavano a confondersi, dietro, in uno chignon
abbondante. Sulle tempie aveva come un movimento d’onda, ed era la prima volta che il medico di
campagna vedeva una pettinatura simile. Aveva le guance rosee. E come un uomo portava
l’occhialino di tartaruga infilato tra due bottoni del corpetto.
Guerra e pace di Lev Tolstoj (Natascia)
Nera d’occhi, grande di bocca, non bella, ma piena di vita, la ragazzetta, con le sue spallucce
scoperte, da bimba, che la rapida corsa le aveva fato salir su dal corsage, coi suoi neri boccoli
sfuggiti all’indietro, con le esili braccia nude e le piccole gambe dai mutandoni di merletto sulle
scarpine scollate, era in quella graziosa età in cui la ragazzetta non è più una bambina, e la
bambina non è ancora una giovinetta. Scivolata via dal padre, corse accanto alla mamma e, non
facendo nessun caso del severo ammonimento di lei, nascose il viso infocato tra i merletti della
mantiglia materna, scoppiando a ridere. C’era qualche cosa che la faceva ridere, ed essa vi alludeva
accennando con parole convulse a una bambola, che s’era tratta fuori dalla vestina.
Anna Karenina di Lev Tolstoj
Si scusò, e stava per entrare, quando provò il bisogno di guardarla ancora una volta non perché era
molto bella, non per quella eleganza e quella grazia modesta che apparivano da tutta la sua figura,
ma perché, nell’espressione piacente del viso, quando gli era passata accanto, c’era qualcosa di
affettuoso e di dolce. Nel momento in cui si era voltato a guardarla, ella pure aveva girato il capo. I
suoi occhi grigi, luminosi, che sembravano scuri per le sopracciglia folte, si fermarono attenti con
un’espressione amichevole sul viso di lui, come se lo riconoscessero, e subito si portarono sulla folla
che si avvicinava, cercando qualcuno.
La strada di Swann di Marcel Proust (Odette de Crècy)
Ella era parsa a Swann non senza bellezza certo, ma di un tipo di bellezza che gli era indifferente,
che non gl’ispirava alcun desiderio, gli dava anzi una specie di repulsione fisica, di quelle donne
come tutti han le proprie, diverse per ognuno, e che sono l’opposto del tipo invocato dai nostri
sensi. Ella aveva un profilo troppo pronunciato per piacergli, la carnagione troppo delicata, gli zigomi
troppo sporgenti, i lineamenti troppo tirati. I suoi occhi erano belli, ma così grandi che piegavano
sotto il loro peso, affaticavano il resto del volto e le davan sempre l’aria d’aver cattiva cera o
d’essere di malumore.
Addio a Berlino di Christopher Isherwood (Sally Bowles)
Mentre componeva il numero, notai che le sue unghie erano smaltate verde smeraldo, una scelta di
colore sfortunata, perché attirava l’attenzione sulle mani molto macchiate dalla nicotina e sporche
come quelle di una bambina. Erra abbastanza scura da poter essere la sorella di Fritz. Aveva un viso
lungo e magro, chela cipria rendeva bianco come quello di un cadavere. Gli enormi occhi marroni
avrebbero dovuto essere più scuri per armonizzare coni capelli e la matita che usava per le
sopracciglia.
“Ciaaoo” tubò, sporgendo le labbra di un brillante rosso ciliegia come se avesse intenzione di baciare
il microfono: “ist das Du, mein Liebling?”. La bocca le si aprì in un sorriso di fatua dolcezza. Fritz e io
ce ne stavamo seduti a osservarla, come a una recita a teatro.
BAMBINI
Io non ho paura di Niccolò Ammaniti
Primo era Antonio. Come sempre. Antonio Natale, detto il Teschio. Perché lo chiamavamo il Teschio
non me lo ricordo. Forse perché una volta si era appiccicato sul braccio un teschio, una di quelle
decalcomanie che si compravano dal tabaccaio e si attaccavano con l’acqua. Il Teschio era il più
grande della banda. Dodici anni. Ed era il capo. Gli piaceva comandare e se non obbedivi diventava
cattivo. Non era una cima, ma era grosso, forte e coraggioso. E si arrampicava su per quella collina
come una dannata ruspa.
Secondo era Salvatore. Salvatore Scardaccione aveva nove anni, la mia stessa età. Eravamo in
classe insieme. Era il mio migliore amico. Salvatore era più alto di me. Era un ragazzino solitario. A
volte veniva con noi ma spesso se ne stava per i fatti suoi. Era più sveglio del Teschio, gli sarebbe
stato facilissimo spodestarlo, ma non gli interessava diventare capo.
Madame Bovary di Gustave Flaubert (Charles Bovary)
Il nuovo rimaneva in un angolo, dietro la porta, così che appena lo si poteva scorgere: era un
ragazzotto di campagna, di circa quindici anni, e di statura più alta che noi tutti. Portava i capelli
tagliati dritti sulla fronte, al modo dei chierici di paese, aveva un’aria tranquilla e molto impacciata.
Benchè non fosse largo di spalle, la sua giubba di panno verde coi bottoni neri doveva costringerlo
alle attaccature delle maniche, e lasciava vedere, per l’apertura dei paramani, dei polsi abituati a
stare scoperti. Le sue gambe, calzate di turchino, uscivano da certi calzoni giallastri molto tirati dalle
bretelle. Portava ai piedi degli scarponi robusti, mal lucidati e con le suole chiodate.
Si cominciò a ripetere le lezioni. Egli stette ad ascoltare tutt’orecchi, attento come alla predica, non
osando neppure d’incrociare le gambe né di appoggiarsi sul gomito, e alle due, quando sonò la
campana, l’assistente dovette chiamarlo perché si mettesse in fila con noi.
Il bambino prodigio di Thomas Mann
Il bambino prodigio si presenta da dietro uno splendido paravento, tutto ricamato di ghirlande
Impero e grandi fiori incredibili, si arrampica svelto per la scaletta fino al podio, va incontro
all’applauso, come se entrasse in un bagno, rabbrividendo un po’, investito da un lieve tremito,
tuttavia va verso un elemento amico. Arriva sull’orlo del podio, sorride come per una posa
fotografica, ringrazia con un piccolo, timido e grazioso inchino femminile, anche se è un ragazzo. E’
vestito tutto di seta bianca, il che suscita una certa tenerezza nella sala. Indossa una giacchettina
bianca, dal taglio fantasioso, sotto, una sciarpa; perfino le scarpette sono di seta bianca. Ma dai
pantaloncini di seta bianca escono le gambette scure e nude; infatti è un bambino greco.
I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy
Fu un giorno durante il pranzo. Eravamo tutte sedute. Arrivò una ragazza, una nuova. Aveva
quindici anni, i capelli diritti come lame, lucenti, gli occhi severi e fissi, ombrati. Il naso aquilino, i
denti, quando rideva, e rideva poco, erano aguzzi. Una bella fronte alta, dove i pensieri si potevano
toccare, dove generazioni passate le avevano tramandato talento, intelligenza, fascino. Non parlava
con nessuno. Le sembianze erano di un idolo,sprezzante. Forse per questo desiderai conquistarla.
Non aveva umanità. Sembrava anche disgustata. La prima cosa che pensai. Era andata più in là di
me.
Dei bambini non si sa niente di Simona Vinci
Il sole batte sul vetro dello specchietto retrovisore e torna indietro, una lama, sul caschetto biondo
della bambina ferma in mezzo allo spiazzo. Sta rivolta verso il campo di granturco, altissimo.
Indossa un grembiule azzurro, corto, col bordo sfilacciato e le tasche enormi, le gambe sono appena
divaricate e ben piantate su un paio di anfibi rossi con le stringhe blu. Tiene le mani in tasca e
canta. Canta una di quelle canzoni che cantano i bambini, alle volte, canzoni che quando le senti ti
ricordano qualcosa e non sai esattamente cosa, forse di quando le cantavi anche tu. La voce è
intonata e bella, canta come se cantasse a qualcuno, con esattezza e pazienza, senza accelerazioni
o ritardi. Fanno così i bambini quando sono tristi. (-) Canta, la bambina e tiene lo sguardo fermo
sulla linea estrema dei campi, lontano, radente la cima del granturco, più alto di lei. Le mani nelle
tasche del grembiule. Il caschetto biondo acceso dal sole.
PUNTO DI VISTA
Il punto di vista è l’angolo di ripresa del racconto. In un racconto si possono formare diverse
prospettive: quelle dell’autore, quelle della voce narrante, quelle del protagonista, e quelle del
personaggio.
La terza persona è più utile quando si vogliono prendere le distanze dal racconto.
Forster: Il punto di vista da cui ci si può situare per narrare la storia
narratore col racconto.
è il rapporto del
Lo scrittore può descrivere i propri personaggi dal di fuori, come uno spettatore,
imparziale o parziale che sia, oppure può essere onnisciente e descriverli dall’interno;
oppure può mettersi nei panni di uno di loro e fingersi all’oscuro circa i moventi degli
altri.
Highsmith: Attraverso gli occhi di chi va raccontata la storia? Io preferisco il punto di vista del
personaggio principale, scritto in terza persona singolare e, aggiungerei, maschile, perché ho la
sensazione che le donne non siano attive come gli uomini e siano meno audaci. Tendo a pensare alle
donne come spinte dagli altri o dalle circostanze invece che intente a spingere e più inclini a dire
“non posso” piuttosto che “lo faccio”.
Io preferisco avere due punti di vista in un romanzo ma non sempre li ho.
Non dobbiamo dimenticare il punto di vista dell’osservatore e l’uso brillante che ne ha fatto Henry
James in Il giro di vite. Le reazioni della governante di fronte alle cose che vede o immagina
fanno rizzare i capelli in testa.
In Sconosciuti in treno ho usato i due punti di vista. E questo può creare un divertente
cambiamento di ritmo e di atmosfera.
Mantenere un unico punto di vista come ho fatto nel Il talento di mister Ripley accresce
l’intensità di una storia e l’intensità può bilanciare l’eventuale monotonia del punto di vista singolo.
L’autore onnisciente osserva la cosa nell’insieme, quasi da una certa distanza.
Aristotele attribuiva tanto più valore al racconto omerico in quanto l’autore interveniva poco e
lasciava piuttosto la scena ai suoi personaggi.
Fin dall’antichità ci si trova di fronte a due concezioni del racconto che si opporranno lungo tutto
il corso del XX secolo: in un caso il narratore che conosce tutto, l’interno e l’esterno, l’assente e il
presente, e non esita a invadere il racconto predicando, esprimendo giudizi, riassumendo una parte
della storia, dicendo tutto quel che bisogna pensare su ogni cosa; nel secondo caso, si sforza di non
comparire, di far dimenticare che si tratta di un racconto. Nel primo caso racconta, nel secondo
mostra.
Henry James che stabilisce come regola che bisogna drammatizzare segue gli insegnamenti di
Flaubert: “Uno dei miei principi è che non bisogna scriversi. L’artista deve essere nella sua opera
come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente in modo che lo si senta ovunque ma non lo si
veda.
Cerami: Lo scrittore alle prime armi non sapendo usare ancora lo strumento della scrittura trova
sicurezza nell’autobiografia. Invece la prima cosa che dovrebbe imparare è uscire da sé e
assumere i panni di personaggi lontanissimi e diversissimi da lui. Solo in questo modo potrà
trovare un lessico e una lingua per ogni personaggio. Altrimenti si utilizza una sola lingua, la
propria e la si mette in bocca a uomini, donne e bambini, indistintamente. Senza contare che non
esiste forma narrativa con più rischi di piattezza dell’autobiografia. Il genere letterario più difficile da
affrontare.
Lo scrittore deve imparare a lavorare contro natura, non deve adagiarsi sulla propria lingua, sulle
proprie esperienze. Per creare un minimo di distanza con i personaggi sarebbe bene
esercitarsi a lungo a scrivere in terza persona.
La scrittura mima sempre la voce di qualcuno. E il personaggio che ha quella voce è sempre e
comunque il protagonista della vicenda, anche se, nel caso della terza persona, non si vede. Egli è il
protagonista immobile, nascosto, e ci sta raccontando indirettamente com’è fatto, secondo lui, il
mondo. Il tono del suo parlare, la scelta del taglio narrativo, il tipo di descrizione che utilizza per
presentare un ambiente o un personaggio, lo stile che adotta, la vicenda che propone al lettore,
connotano una precisa personalità, offrono un punto di vista.
Anche nei racconti in prima persona non bisogna confrontare lo scrittore con l’io narrante:
quest’ultimo è sempre un personaggio inventato (Il grande Gatsby). Anche nei casi più conclamati di
autobiografia, la distanza tra chi scrive e l’io che racconta è sempre incolmabile. E questo perché,
appunto, siamo all’interno di un linguaggio dalle cui convenzioni non è possibile prescindere.
Lo scrittore e il narrante sono quasi sempre personaggi diversi (eccettuati i diari e gli
epistolari).
Chi comincia una storia deve decidere di chi sarà la voce che parla. Le possibilità, tranne
qualche scelta stravagante (Le mille luci di New York) sono soltanto due: la prima e la terza
persona.
Cioè un io che racconta una vicenda di cui è stato protagonista (o testimone: Grande Gatsby, Moby
Dick); oppure un io neutro, impersonale, che si limita a riferire fatti accaduti ad altri. Nel primo caso
il narratore non potrà raccontare se non ciò che ha vissuto o visto personalmente, o gli è stato
riferito: la narrazione segue il percorso del protagonista così come lui dice di aver vissuto la vicenda.
Nel caso della terza persona, invece, il narratore è onnipresente e onnisciente. Egli è sempre là, in
ogni situazione e conosce vita morte e miracoli di ogni personaggio. E’ demiurgo e tessitore (I
miserabili).
E’ evidente che nel caso della prima persona il mondo rappresentato, essendo frutto di una
soggettiva, non possa non proporre che una visione relativa, faziosa, stravolta della realtà, filtrata
attraverso il personaggio che parla, tanto precisa quanto limitata dalla sua personalità (l’ininterrotta
soggettiva di La coscienza di Zeno, dove il mondo esiste solo nello sguardo interiore disturbato e
patologico del protagonista; La Ricerca del tempo perduto).
Al contrario nella terza persona il mondo appare come un dato di fatto, con i connotati
dell’oggettività. L’autore imbastisce la trama, sceglie di passare da un personaggio all’altro nei
momenti che giudica opportuni. La sua è la figura del classico drammaturgo, egli imposta e mette in
scena i conflitti in gioco.
Il suo riferimento fisso, il punto d’appoggio della trama è sempre il lettore, a lui rivela i segreti,
segreti che al momento opportuno svela anche ai personaggi che agiscono nella storia. Ha il
vantaggio di poter orchestrare sentimenti inconfessabili e rivelazioni tra fraintendimenti e menzogne
e di organizzare al millimetro i colpi di scena.
Esiste una terza possibilità, un’altra modalità di scrittura: il discorso libero indiretto. Si tratta di
una finta terza persona. Di una terza persona che sceglie come partito preso di non
abbandonare mai il suo eroe. Lo scrittore fa sua la lingua del personaggio principale e la utilizza
per esprimere pensieri e raccontare azioni e rapporti (Felicità). Regredisce insomma nel personaggio
e rappresenta la realtà così come lui la vede. Il narratore rinuncia alla piena obiettività e registra
soltanto le situazioni che il protagonista vive direttamente. Se deve delineare un ambiente lo farà
attraverso lo sguardo del protagonista. E’ evidente che si calerà completamente nei panni dell’eroe
scelto. Lo deve conoscere alla perfezione, sia da un punto di vista sociologico che psicologico e
caratteriale.
Nella finta terza persona tutto, compresi gli altri personaggi, è proiezione della soggettività
del’eroe: il lettore però non se ne accorge, benché la narrazione abbia un’andatura quasi da prima
persona, con una sola voce che invade un po’ tutto. Nel libero indiretto, infatti, non può esistere
altro che il punto di vista di un personaggio, e solo di quello.
Il lessico che lo scrittore assume come proprio appartiene al personaggio. E gli altri personaggi non
parlano oggettivamente ma come il protagonista li ascolta.
Il discorso libero indiretto puù essere usato come successione e alternanza di punti di vista
nell’arco della narrazione. La scrittura dei Promessi Sposi in una convenzionale lingua del seicento,
muta stile con i personaggi in gioco nei diversi episodi. L’autore modifica i materiali linguistici e
decide quando staccare da una scena all’altra. In tal caso la voce che fa da connettivo, che si
inserisce tra un portatore di lessico e un altro, si propone come la lingua neutra della terza persona
classica, la quale prende toni di cronista super partes.
PRIMA PERSONA
Lo scrittore racconta la storia dal punto di vista di un personaggio che narra e che non è il
protagonista (Nick)
Il Grande Gatsby
Francis Scott Fitzgerald
Guardai la signorina Baker chiedendomi che cosa riuscisse a "combinare". Mi piaceva guardarla. Era
una ragazza snella, dai seni piccoli e il portamento eretto fino a farle arcuare le spalle come un
cadetto. Gli occhi grigi, arrossati dal sole, mi risposero cortesi con pari curiosità da un viso pallido,
delizioso, insoddisfatto. Ora mi venne in mente che l'avevo già vista chissà dove, lei o un suo
ritratto.
« Voi abitate a West Egg » disse con fare sprezzante. «Conosco qualcuno laggiü. »
« Io non conosco nessuno. » « Dovete conoscere Gatsby. » « Gatsby? » chiese Daisy. « Che
Gatsby? »
Prima di poter rispondere che era il mio vicino, fu annunciato il pranzo; infilando imperiosamente il
braccio rigido sotto il mio, Tom Buchanan mi spinse fuori dalla stanza come se spostasse una pedina
sulla scacchiera.
Snelle, languide, con mani posate lievemente sui fianchi, le due giovani donne ci precedettero in una
veranda soffusa di rosa, aperta sul tramonto, dove quattro candele tremolavano sulla tavola nel
vento sopito.
Lo scrittore racconta la storia dal punto di vista del protagonista…
Moby Dick
Herman Melville
Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa - non importa quanti esattamente - avendo pochi o punti denari
in tasca e nulla di particolare che m'interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere
la parte acquea del mondo. E' un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la
circolazione. Ogni volta che m'accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell'anima mi
scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che m'accorgo di fermarmi
involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che
incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un
robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per
terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il
mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada:
io cheto cheto mi metto in mare. Non c'è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero,
quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l'altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi
sentimenti che nutro io verso l'oceano.
… fino al monologo interiore di “Lauri senza fronde” di Dujardin o di Molloy ne L’Ulisse di
Joyce.
Durante il suo soggiorno a Parigi, nei primi mesi del 1903, James Joyce, recatosi alla stazione per
andare a Tours, acquistò ad un’edicola un volumetto di uno scrittore francese, “I lauri senza fronde”
di Edourda Dujardin. Parecchio tempo dopo, in una conversazione con amici, Joyce indicava in
Dujardin il creatore del monologo interiore, la tecnica narrativa che lo stesso Joyce aveva frattanto
sviluppata nel suo “Ulisse” e che tanta influenza doveva avere sul romanzo sia di lingua inglese sia
francese.
Joyce più volte riaffermò questo suo debito e fece tradurre “I lauri senza fronde” aiutando l’autore
nel lavoro.
I Lauri senza fronde
Edouard Dujardin
- Signore.
Mi chiamano; il portinaio; ha in mano una lettera.
- La cameriera, quella che è già venuta tante volte, ha portato questa lettera per il signore, un
quarto d'ora fa. Ha detto che era urgente.
Senza dubbio una lettera di Léa.
- Date qui... Grazie.
Sì, una lettera di Léa. Presto.
- Caro amico, non andate a prendermi questa sera al teatro. Venite direttamente a casa mia verso
le dieci. Vi aspetterò. Léa.
Insopportabile; sempre cambiamenti; non si può mai sapere quello che si farà; ci si prepara per una
cosa, ed è un'altra; eternamente la stessa commedia; perché non vuole che vada a prenderla al
teatro? perché non la vedano con me? qualche nuovo venuto, senza dubbio? Forse sarebbe stata in
ritardo; forse ha un motivo. Il terzo piano o ancora il secondo? la lampada a gas; è il secondo.
Questa ragazza è esasperante; e sono ancora fortunato che sia riuscita ad avvertirmi; mandare la
cameriera alle sette; potevo non rientrare; è assurdo; se non avessi ricevuto il biglietto e mi avesse
visto a teatro, mi avrebbe fatto una scena terribile; no, temendo che io ci sia uscirà da un'altra
porta; quei teatri hanno cinquanta porte; e che figura avrei fatto? sapeva, certo, che io prima
dovevo passare da casa; insomma... La mia porta; apriamo; l'oscurità; i fiammiferi sono alloro
posto; ne strofino uno... attenzione.., la porta del salotto; entro; il camino; ecco il candeliere;
accendo la candela; il fiammifero nel portacenere; tutto è a posto; il tavolo; non ci sono lettere; ah
sI, un biglietto da visita; con un angolo ripiegato; chi è venuto?... Jules de Rivare... Ah! che
peccato; un vecchio amico; eravamo vicini nell'aula di filosofia; com'era bravo! E venuto oggi; il
portinaio non mi ha detto nulla; il buon de Rivare è dunque a Parigi; con i suoi baffetti neri e l'aria di
ufficiale di cavalleria; una persona che sa comportarsi; ritornerà; ma che testa, non dire dove
alloggia! ah! sul verso del biglietto da visita, non pensavo a guardare, c'è qualche parola... «Ti
aspetto domani a colazione; alle undici, Hotel Byron, rue Laffite ». Ci andrò, ci andrò. E la lezione di
diritto alle due? se non ho il tempo di andarci non ci andrò. Dev'essere ricco, il buon de Rivare;
questi nobili di provincia; mah! chissà? Domani, alle undici, rue Laffite. Adesso devo vestirmi per
andare da Léa; ho più di un'ora e mezza, tutto il tempo di prepararmi. Su una sedia, il soprabito e il
cappello. Entro nella mia camera; i due candelieri a due braccia; su, accendiamo; ecco fatto. La
camera; il bianco della coperta nel letto di bambù, a sinistra; e l'arazzo antico sopra il letto, i disegni
rossi, imprecisi, sfumati, azzurri violacei, attenuati, sfumature nerastre di rosso nero e di azzurro
nero, dei toni consunti; occorre una nuova stuoia nella toeletta; ne comprerò una al Bon Marché; o
sarà meglio nell'avenue de l'Opéra. Ora devo prepararmi.
Lo scrittore racconta la storia dal suo punto di vista, ma non si tratta di una vera
autobiografia
Alla ricerca del tempo perduto
Marcel Proust
Per molto tempo, mi son coricato presto la sera. A volte, non appena spenta la candela, mi si
chiudevan gli occhi cosI subito che neppure potevo dire a me stesso: «M'addormento». E, una
mezz'ora dopo, il pensiero che dovevo ormai cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro,
sembrandomi averlo ancora fra le mani, e soffiare sul lume; dormendo avevo seguitato le mie
riflessioni su quel che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevan preso una forma un po'
speciale; mi sembrava d'essere io stesso l'argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità
tra Francesco I e Carlo V. La convinzione sopravviveva per qualche attimo al mio risveglio, e non
offendeva la mia ragione, ma mi pesava sugli occhi come scaglie, ed impediva loro di rendersi conto
che la candela non era più accesa. Poi cominciava a diventarmi inintelligibile, come i ricordi di
un'esistenza anteriore dopo la metempsicosi; il contenuto del libro si staccava da me, ero libero di
pensarci o non pensarci; subito ricuperavo la vista ed ero assai stupito di trovare intorno a me
un'oscurità dolce e riposante per i miei occhi, ma forse più ancora per l'animo mio, al quale essa
appariva come una cosa senza causa, incomprensibile, come una cosa veramente oscura. Mi
domandavo che ora potesse essere; sentivo il fischio dei treni, che, più o meno lontano, come il
canto di un uccello in una foresta, segnando le distanze, mi descriveva la distesa della campagna
deserta, dove il viaggiatore s'affretta verso la stazione vicina; e il viottolo che percorre gli resterà
impresso nel ricordo dall'eccitazione che gli dànno dei luoghi nuovi, degli atti insoliti, i recenti
discorsi e l'addio sotto una lampada estranea che lo seguono ancora nel silenzio della notte, e la
prossima dolcezza del ritorno.
Lo scrittore racconta la sua storia (diari)
Il mestiere di vivere
Pavese
E’ la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito.
Nel mio mestiere dunque sono re.
In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora.
Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho
ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era
eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell'« inquieta angosciosa», sono ricaduto
nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna,
nomi casuali - se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo - e a questo trionfo
manca la carne, manca il sangue, manca la vita.
Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti
ormai escludono.
Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò.
Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai,
non t'interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?
18 agosto.
La cosa più segretamente temuta accade sempre.
Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?
Basta un po' di coraggio.
Più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio.
Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.
Tutto questo fa schifo.
Non parole. Un gesto. Non scriverò più.
TERZA PERSONA
Lo scrittore è onnisciente e racconta oggettivamente la storia
A che punto è la notte
Fruttero e Lucentini
La vecchia Volkswagen color crema del venditore di matite era parcheggiata a metà di via dei
Rododendri. Fittamente incollati sugli sportelli, sui parafanghi, sui vetri dei finestrini posteriori,
striscioni., etichette e bandierine, dicevano "Jucca, la matita superminata", oppure « Provate a
consumarmi" e anche "Jucca, la matita con la parrucca". Sopra quest'ultimo slogan si vedeva una
matita con appesa in cima una parrucca gialla, rossa e verde.
II sedile posteriore della Volkswagen era pieno fino al soffitto di scatoloni di matite Jucea e anche
accanto al posto di guida ce n'erano.. quattro uno sull'altro, legati da un grosso spago, sopra i quali
stava appoggiato un megafono con la scritta trasversale “Jucca, la matita giovane".
Chiuso fra quelle cataste di scatole, il venditore quasi scompariva: era un uomo di statura piuttosto
bassa, con un giaccone di finta pelle rossiccio, una camicia a grosse righe bianche e celesti, un
berretti be quadri e una penna a sfera infilata dietro l'orecchio. Teneva sulle ginocchia un blocco di
copiacommissioni e in mano una matita copiativa Jucca. Ma non stava scrivendo, stava guardando
davanti a sé con aria tra meditativa e svagata, come se. non vedesse quel, poco che, succedeva
nella via.
(------------------------)
Dopo dieci minuti che sfogliava il dossier, il commissario Santamaria si rese conto che il vero
oggetto della sua piccola indagine era Dio.
Signore, pensò allarmato, non sono degno… La questione non lo interessava da trent'anni, ma la
sua colpa, d'indolenza più che d'orgoglio, era di essere scivolato a poco a poco nella convinzione che
anche agli altri Dio facesse lo stesso effetto che faceva a lui, l'effetto cioè di uno sport marginale e
impraticabile, come il decatlon o il pattinaggio a rotelle, di cui egli aveva dimenticato le regole, i
segreti, le pur spasmodiche passioni.
Lo scrittore assume il punto di vista del protagonista e segue soltanto lui (discorso libero
indiretto)
Felicità
Katherine Mansfield
Nonostante i suoi trent'anni, Bertha Young viveva ancora momenti come questo, in cui aveva voglia
di correre invece di camminare, di eseguire passi di danza su e giù per il marciapiede, giocare al
cerchio, lanciare in aria qualcosa e poi riafferrarla, oppure starsene li, ferma, a ridere, a ridere di
nulla, proprio di nulla. Che cosa ci volete fare se avete trent'anni e, voltando l'angolo della strada, vi
sentite sopraffatti, all'improvviso, da un senso di felicità, di assoluta felicità, come se aveste d'un
tratto inghiottito un pezzo lucente di quel tardo sole pomeridiano che vi bruciasse dentro,
spandendo una pioggerella di scintille in ogni intima fibra, in ogni dito delle mani e dei piedi?
Oh, non c'è dunque altro modo di esprimere questo stato d'animo senza essere "ebbro e sconvolto"?
Com'è idiota, la civiltà! Perché avere un corpo, se bisogna tenerlo chiuso in un astuccio come un
rarissimo violino?
"No, questa faccenda del violino non è proprio quello che voglio dire" pensò, salendo di corsa i
gradini e frugando nella borsetta per cercare la chiave - al solito l'aveva dimenticata - e scuotendo
la cassetta delle lettere. "Non è quel che voglio dire perché..."
«Grazie, Mary» ed entrò nell'ingresso. «E tornata la balia?»
Lo scrittore è a volte onnisciente, a volte scrive in prima persona e a volte assume il punto
di vista di uno dei personaggi
Madame Bovary
Gustave Flaubert
Eravamo allo studio, quando il Rettore entrò, seguito da un nuovo, vestito ancora dei suoi abiti
borghesi, e da un bidello che portava un gran banco. Quelli che dormivano si destarono, e tutti si
alzarono in piedi come sorpresi in mezzo al lavoro.
Il Rettore ci fece cenno di sedere; poi, volgendosi all'assistente:
- Signor Roger - disse a mezza voce ecco un allievo che le raccomando. Egli entra in quinta. Se il
suo profitto e la sua condotta saran buoni, passerà fra i grandi, come esigerebbe la sua età.
Il nuovo rimaneva in un angolo, dietro la porta, così che appena lo si poteva scorgere: era un
ragazzotto di campagna, di circa quindici anni, e di statura più alta che noi tutti. Portava i capelli
tagliati dritti sulla fronte, al modo dei chierici di paese, aveva un'aria tranquilla e molto impacciata.
(------------------------)
Parigi, luogo più vago dell'Oceano, brillava agli occhi di Emma in un'atmosfera vermiglia. Eppure la
vita innumerevole che s'agitava in quel tumulto le appariva divisa in tante parti, classificata in
quadri distinti. Ella ne vedeva bene soltanto due o tre, e questi le nascondevano tutti gli altri,
rappresentando da soli l'umanità intera. C'era il ceto degli ambasciatori; camminavano su lucidi
pavimenti di legno, in salotti foderati di specchi, attorno a tavole ovali tappezzate di velluto con
frange d'oro. Abiti con lo strascico, grandi misteri, angosce dissimulate sotto il sorriso. Poi veniva la
società delle duchesse; pallidi esseri che si alzavano alle quattro del pomeriggio; le donne, poveri
angeli! portavano merletti di punto inglese all'orlo delle gonne, e gli uomini, valori misconosciuti
dietro la futilità dell'apparenza, sfiancavano i loro cavalli in grandi cavalcate di piacere, passavano
l'estate a Baden, e infine, verso la quarantina, sposavano delle ereditiere.
(-------------------------)
Chi arriva ha davanti a sé, all'estremo orizzonte, le querce della foresta d'Argueil, con le scarpate
del colle di San Giovanni, solcate d'alto in basso da lunghe strisce rosse inuguali: sono le tracce
delle piogge, e quei segni di color mattone, che formano come una maglia sottile sul grigio del
monte, derivano dalla quantità di sorgenti ferruginose che scendono per l'altro versante, nella
regione vicina.
Si è qui al confine della Normandia, della Piccardia e dell'Isola di Francia: contrada bastarda dove la
parlata è senza accento, come il paesaggio è senza carattere. Proprio qui si fanno i peggiori
formaggi di Neufchâtel di tutto il circondano; e, d'altra parte, la coltivazione vi è costosa, perché
occorre molto concime per ingrassare i terreni, friabili, pieni di sabbia e di sassi.
Omaggio alla Svizzera
Hernest Hemingway
Nel caffè della stazione faceva caldo e c'era una buona luce. Il legno dei tavolini era lucido e sempre
pulito e sui tavolini c'erano cestini con biscotti in sacchetti di carta velina. Le sedie erano di legno
ma rese comode dal lungo uso. Sul muro c'era un orologio di legno e in fondo alla stanza un bar.
Fuori della finestra nevicava.
Due dei facchini della stazione sedevano bevendo vino nuovo al tavolo posto sotto l'orologio. Entrò
un altro facchino e disse che il Simplon-Orient Express aveva un'ora di ritardo da StMaurice. Usci. La
cameriera si avvicinò al tavolo del signor Wheeler.
- L'Express ha un'ora di ritardo, signore, - disse in inglese. - Posso portarvi un caffè?
- Se non credete che mi terrà sveglio.
- Scusate? - chiese la cameriera.
Sì, portatemi un caffè, - disse il signor Wheeler.
- Grazie.
La cameriera portò dalla cucina il caffè e il signor Wheeler guardò fuori della finestra la neve che
cadeva, nella luce proveniente dalla piattaforma della stazione.
- Sapete altre lingue oltre l'inglese? - chiese alla cameriera.
- Sissignore. So il tedesco, il francese e i dialetti.
- Volete bere qualcosa?
- Nossignore. Non è permesso bere al caffè coi clienti.
- Volete un sigaro?
- Nossignore. Non fumo, signore.
- Molto bene, - disse il signor Wheeler. Di nuovo guardò fuori della finestra, bevve il caffè, e accese
una sigaretta
- Fräulein, - chiamò. La cameriera accorse. Che cosa desiderate, signore?
- Voi, - disse il signor Wheeler.
- Non dovete prendermi in giro cosI.
- Non vi prendo in giro.
- Allora non dovete dirlo.
- Non ho tempo di discutere, - il signor Wheeler disse. - Il treno arriva fra quaranta minuti. Se
venite con me al piano di sopra vi do cento franchi.
- Non dovreste dire di queste cose, signore. Vi mando il facchino.
- Non voglio un facchino, - disse il signor Wheeler. - E neppure un poliziotto o uno di quei ragazzi
che vendono sigarette. Voglio voi.
- Se parlate così dovrete andarvene. Non potete star qui e parlare cosí.
- Perché non ve ne andate, allora? Se ve ne andate non posso parlarvi così.
La cameriera si allontanò. Il signor Wheeler guardò se andava a parlare ai facchini. Non ci andò.
- Mademoiselle, - egli chiamò. La cameriera accorse. - Portatemi una bottiglia di Sion, per piacere.
- Sissignore.
Il signor Wheeler la osservò uscire, poi entrare col vino e portarlo al tavolo. Guardò l'orologio.
- Vi do duecento franchi, - disse.
- Per piacere, non dite di queste cose.
- Duecento franchi sono una bella somma.
- Non dite di queste cose! - disse la cameriera. Stava smarrendo il suo inglese. Il signor Wheeler la
guardò interessato.
- Duecento franchi.
- Siete odioso.
- Perché non ve ne andate, allora? Non potrei parlarvi così se non foste qui.
La cameriera lasciò il tavolo e si diresse al bar. Il signor Wheeler bevve il vino e sorrise tra sé per un
po' di tempo.
- Mademoiselle, - chiamò. La cameriera finse di non sentire. - Mademoiselle, - egli chiamò ancora.
La cameriera si avvicinò.
- Desiderate qualcosa?
- E come! Vi do trecento franchi.
- Siete odioso.
- Trecento franchi svizzeri.
La cameriera si allontanò e il signor Wheeler la segui collo sguardo. Un facchino apri la porta. Era
quello che aveva in consegna i bagagli del signor Wheeler.
- Il treno è in arrivo, signore, - disse in francese. Il signor Wheeler si alzò.
- Mademoiselle, - chiamò. La cameriera venne verso il tavolo. - Quanto fa il vino?
- Sette franchi.
Il signor Wheeler contò otto franchi e li posò sul tavolo. Infilò il cappotto e segui il facchino sulla
piattaforma dove cadeva la neve.
- Au revoir, Mademoiselle, - disse.
La cameriera lo guardò uscire. E’ brutto, pensò, brutto e odioso. Trecento franchi per una cosa che
non costa niente fare. Quante volte l'ho fatta per niente! E nessun posto dove andare di sopra. Se
fosse stato intelligente avrebbe capito che qui non c'era il posto. Né tempo né posto dove andare.
Trecento franchi per fare quella cosa. Che gente questi americani!
In piedi sulla piattaforma di cemento accanto ai bagagli, guardando lungo le rotaie i lumi del treno
che arrivava attraverso la neve, il signor Wheeler stava pensando che quello era uno sport assai
poco costoso. In effetti aveva speso, oltre il pranzo, soltanto sette franchi per una bottiglia di vino e
un franco per la mancia. Sarebbe stato meglio settantacinque centesimi. Egli ora si sarebbe sentito
meglio se la mancia fosse stata di soli settantacinque centesimi. Un franco svizzero vale cinque
franchi francesi. Il signor Wheeler era diretto a Parigi. Badava molto al denaro e delle donne non
gl'importava. In quella stazione era già stato prima e sapeva che non c'era nessun piano di sopra
dove andare. Il signor Wheeler non correva mai rischi.
SECONDA PERSONA
Il narratore si rivolge al lettore come se il punto di vista fosse il suo
Le mille luci di New York
Jay McInerney
Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a
quest'ora del mattino. E invece eccoti qua, e non puoi certo dire che il terreno ti sia del tutto
sconosciuto, anche se i particolari sono confusi. Sei in un nightclub e stai parlando con una ragazza
rapata a zero. Il locale è lo Heartbreak oppure il Lizard Lounge. Tutto diventerebbe più chiaro se
potessi fare un salto in bagno a sniffare una bella riga di Tiramisu Boliviano. Una vocina dentro dite
insiste che questa epidemica mancanza di chiarezza è già il risultato di un eccesso di biancolina. La
notte ha ormai girato quell'impercettibile chiavetta con cui si passa dalle due alle sei del mattino. Tu
sai benissimo che il momento è arrivato e passato, ma non sei ancora disposto ad ammettere di
aver superato il limite oltre il quale tutto è effetto collaterale gratuito e paralisi di terminazioni
nervose. A un certo punto avresti potuto decidere di fermarti, ma sei andato oltre su una coda di
cometa di polvere bianca, e adesso stai cercando disperatamente di cavalcarla. In questo momento
il tuo cervello è uno schieramento di soldatini boliviani. Sono stanchi e infangati per la lunga marcia
attraverso la notte. Hanno i buchi nelle scarpe, hanno fame. Hanno bisogno di sostentamento, di un
po' di Tiramisu Nazionale.
Il narratore si rivolge al lettore come se il punto di vista fosse il suo ma poi torna alla
terza persona.
Se una notte d’inverno un viaggiatore
Italo Calvino
Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo
Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda
sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. Dillo subito,
agli altri: «No, non voglio vedere la televisione! » Alza la voce, se no non ti sentono: « Sto
leggendo! Non voglio essere disturbato! » Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo
piú forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino! » O se non vuoi non
dirlo; speriamo che ti lascino in pace.
Prendi la posizione piú comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su
un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf.
Sull'amaca, se hai un'amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. Puoi anche metterti a testa in
gii, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce.
Certo, la posizione ideale per leggere non si riesce a trovarla. Una volta si leggeva in piedi, di fronte
a un leggio. Si era abituati a stare fermi in piedi. Ci si riposava cosI quando si era stanchi d'andare a
cavallo. A cavallo nessuno ha mai pensato di leggere; eppure ora l'idea di leggere stando in arcioni,
il libro posato sulla criniera del cavallo, magari appeso alle orecchie del cavallo con un finimento
speciale, ti sembra attraente.
DESCRIZIONE AMBIENTE
Il racconto deve comunicare emozioni al lettore. L’autore lo fa utilizzando la descrizione.
La descrizione fa appello ai sensi del lettore. E’ la creazione di immagini mentali che permettono al
lettore di godere una storia attraverso i sensi. Scatena una risposta emotiva nel lettore e rende
credibili sia i personaggi che l’ambiente in cui si muovono.
Fare appello ai cinque sensi del lettore per scatenare in lui emozioni diverse: rabbia, disgusto,
piacere, nostalgia, nausea, gioia, ripugnanza, paura ecc
L’esposizione o la semplice narrazione riferisce un fatto, la descrizione fa in modo che il lettore lo
viva emotivamente. Per es. “John si perde nel deserto” (esposizione). Attraverso la descrizione
invece possiamo raccontare il colore e la conformazione della sabbia del deserto in modo che il
lettore la veda, l’odore della polvere perchè il lettore lo senta, il sapore della sabbia nella bocca del
protagonista, la sensazione del vento sulla pelle, il terribile silenzio che circonda il protagonista,
l’isolamento, l’angoscia ecc.
Con la narrazione facciamo appello alla mente del lettore, con la descrizione ci rivolgiamo ai suoi
sensi.
I dettagli aiutano il lettore a “vedere”, a sentire ecc.
Esempio. Madame Bovary va a teatro. “Sorrise involontariamente di vanità, vedendo la folla che si
precipitava a destra per l’altro ingresso, mentre lei saliva la scala del prim’ordine (vista). Provò un
piacere infantile a spingere con le sue dita le larghe portiere imbottite, (tatto) aspirò a pieni polmoni
l’odore polveroso dei corridoi, (odorato) e, quando fu seduta nel suo palchetto, si irrigidì nel busto
con la disinvoltura d’una duchessa”.
Evitare i dettagli che richiamano alla mente una persona qualunque e scegliere i dettagli che
richiamano alla mente “quella persona”.
I particolari danno consistenza e plasticità al racconto. I classici sono zeppi di particolari.
Gli oggetti non sono mai troppi. Importanti anche gli odori e le sensazioni.
L’autore deve rendere i luoghi descritti familiari al lettore.
Il lettore deve sentire che i personaggi sono a loro agio nell’ambientazione.
La descrizione, dice Genette, uno studioso francese della letteratura, è necessaria ad ogni tipo di
racconto salvo il teatro.
Le descrizioni sono i mattoni con cui si costruiscono le case narrative. La descrizione rappresenta la
consistenza della struttura narrativa.
Nella descrizione lo scrittore mette i suoi stati d’animo, la sua sensibilità, il suo gusto, le sue
convinzioni morali.
La narrazione dei fatti è drammatica, la descrizione invece indugia sugli oggetti e sulle persone
sospendendo il tempo e dilatando il racconto.
Barthes: La descrizione è un motivo statico e libero che ha lo scopo di accrescere l’effetto di realtà.
Non è importante descrivere la realtà come la vediamo. Occorre scegliere cosa descrivere,
selezionare i dettagli che creeranno suggestioni nel lettore.
Molti lettori sono convinti che la descrizione corrisponda a quelle pagine dei libri che si possono
saltare senza che la storia ne risenta.
In molti racconti c’è un ambiente e questo ambiente genera una storia. Immaginiamo il set di un
film. In scena c’è una grande quantità di oggetti che non vengono utilizzati direttamente nella
storia; tuttavia devono essere perfetti.
Visconti voleva che nei cassetti del comò che non
sarebbero stati aperti durante il film ci fossero i capi di biancheria che ci sarebbero stati nella realtà.
Portarsi dietro un quaderno e annotare tutto ciò che sperimentiamo con i cinque sensi. Fare lo
stesso immaginando di essere qualcun altro, il personaggio di una nostra storia.
La descrizione può servire a creare un ritmo nel racconto: costringendo a volgere lo sguardo verso
l’ambiente circostante provoca una distensione dopo un brano ricco d’azione, o una suspence
quando interrompe il racconto in un momento critico.
La descrizione dovrebbe essere breve, selettiva, precisa, deve creare atmosfere.
Non sempre sono necessari quadri minuziosi che non vogliono lasciare sfuggire nulla. A volte più le
descrizioni sono lunghe meno il lettore vede…
Balzac come la maggior parte dei romanzieri del XIX sec. dà immediatamente al lettore le
informazioni utili o interessanti sul luogo principale in cui sarà situata l’azione, e introduce altre
descrizioni ogni volta che si sposta. Il racconto si immobilizza dunque per un certo tempo in un
“quadro”, poi riprende il suo regolare svolgimento. I lettori di Balzac saltavano spesso le sue
descrizioni che gli sono state rimproverate anche dai critici.
Il lettore non ama percepire la descrizione come gratuita, ma al contrario vuole sentirla legata alla
storia, se non altro per servirle da scenario.
Narrare e descrivere sono due operazioni simili nel senso che entrambe si traducono con una
sequenza di parole ma il loro oggetto è diverso:
la narrazione restituisce la successione temporale degli eventi, la descrizione rappresenta oggetti
simultanei e coesistenti nello spazio.
Gli spostamenti dello sguardo introducono nella descrizione un elemento dinamico e permettono
una circolazione, un’esplorazione dello spazio in parecchie direzioni.
La luce costituisce l’elemento fondamentale della composizione in molti quadri romanzeschi (La
Recherche abbonda in notazioni luminose, la lanterna magica ecc) Anche il romanziere, come il
pittore, ha i suoi colori preferiti: freddi o caldi, decisi o sfumati, contrastanti o fusi, chiari o cupi
ecc.
Il ritmo della frase e dell’insieme del testo suggerisce anche il rumore o il silenzio, come pure la
rapidità e la lentezza.
Grazie al naturalismo la descrizione finirà con l’occupare il primo piano al punto di cancellare i
personaggi o per lo meno di prevalere sul loro studio.
In Notre Dame de Paris le descrizioni della cattedrale e della città costituiscono tutto il terzo libro,
quella della battaglia di Waterloo nei Miserabili occupa decine di pagine.
Il romanzo contemporaneo mostra spesso lo spazio circostante attraverso gli occhi di un
personaggio o del narratore.
Robbe Grillet in “L’anno scorso a Marienbad”: “avanzo una volta di più lungo questi corridoi,
attraverso questi saloni, queste gallerie, in questa costruzione – d’un altro secolo, questo albergo
immenso, lussuoso, barocco – lugubre, in cui interminabili corridoi succedono a corridoi – silenziosi,
deserti, sovraccarichi di decorazioni cupe e fredde di legno, di stucco, di pannelli modanati, marmi,
specchi cupi, quadri dai colori cupi, colonne, pesanti tendaggi…”.
Carver: la sua prosa è quieta, piatta, animata da dettagli ben scelti. Per esempio nel racconto
“Nessuno diceva niente”, un bambino sente il litigio tra i genitori. Il giorno dopo non vuole
andare a scuola. In queste pagine ci sono solo dialoghi o i pensieri del bambino. Poi arriva una
descrizione, quando la madre sta per uscire e il bambino sta per rimanere solo, ed è assolutamente
incisiva:
“Sulla porta si è fermata e ha girato la maniglia. Sembrava volesse dire qualche altra cosa. S’era
messa la camicetta bianca, la cintura alta e la gonna nera. A volte la chiamava la sua tenuta, altre
volte, la sua uniforme. Da quando me la ricordavo, era sempre o appesa nell’armadio o sul filo ad
asciugare o era lavata a mano la sera o stirata in cucina”.
Non c’è un solo aggettivo in tutto il brano eppure Carver dipinge un ritratto accurato di come il
bambino vede la madre e la sua presenza in casa attraverso il vestito.
Scrive Carver: “In un racconto si possono descrivere delle cose, degli oggetti comuni usando un
linguaggio comune ma preciso e dotare questi oggetti – una sedia, le tendine di una finestra, una
forchetta, un sasso, un orecchino – di un potere immenso, addirittura sbalorditivo. Se le parole
sono appesantite dall’emozione incontrollata dello scrittore, o se sono imprecise e inaccurate per
qualche altro motivo – se sono, insomma, in qualche maniera sfocate – fatalmente gli occhi del
lettore scivoleranno sopra di esse e non si sarà ottenuto un bel niente. Il senso artistico del lettore
non sarà affatto stimolato. Henry James diceva che questo infelice genere di scrittura era affetto da
“debolezza di specificazione”.
Fitzgerald. “Il grande Gatsby”
Tom Buchanan, marito di Daisy, mostra la casa a Nick Corraway, il narratore.
“Attraversammo un atrio spazioso e passammo in un salone luminoso color rosa, legato fragilmente
alla casa dalle portafinestre. Le finestre erano socchiuse e scintillavano bianche contro l’erba fresca
che pareva spingersi fino in casa. Nella stanza spirava un vento leggero, gonfiava le tende
spingendone un’estremità in dentro e l’altra in fuori come se fossero bandiere pallide, torcendole
verso il soffitto ornato come una torta nuziale e poi drappeggiandole sul tappeto color vino e
stendendo su questo un’ombra come fa il vento sul mare.
Il solo oggetto assolutamente immobile nella stanza era un divano enorme su cui erano posate
come nella navicella di un pallone frenato due giovani donne. Erano vestite di bianco e con le gonne
fluttuanti e drappeggiate come se fossero appena ritornate da un breve volo intorno alla casa. Devo
esser rimasto qualche secondo ad ascoltare gli schiocchi delle tende e il gemito di un quadro sulla
parete. Poi s’intese un gran colpo quando Tom Buchanan chiuse le finestre posteriori e il vento
imprigionato si spense nella stanza e le tende e i tappeti e le due donne calarono lentamente a
terra”.
Nick descrive la casa di Gatsby
“Nelle notti estive giungeva la musica dalla casa del mio vicino. Nei suoi giardini azzurri
uomini e donne andavano e venivano come falene fra bisbigli e champagne e stelle.
Durante l’alta marea del pomeriggio, guardavo i suoi ospiti tuffarsi dal trampolino o prendere il sole
sulla sabbia calda della spiaggia privata, mentre i suoi due motoscafi fendevano le acque dello
stretto, rimorchiando acquaplani tra cascate di spuma. Nei giorni dei week-end la sua Rolls-Royce
diventava un autobus e dalle nove del mattino a notte avanzata trasportava compagnie intere dalla
città e ritorno mentre il suo furgoncino scorrazzava come un vivace insetto giallo per trovarsi
all’arrivo di tutti i treni. E il lunedì otto domestici, compreso un giardiniere supplementare,
lavoravano tutto il giorno con redazze e spazzoloni e martelli e forbicioni a riparare i danni della
notte precedente.
Ogni venerdì cinque casse di arance e limoni arrivavano da un fruttivendolo di New York; ogni lunedì
le stesse arance e gli stessi limoni uscivano dalla porta di servizio in una piramide di bucce senza
polpa. In cucina vi era una macchina che spremeva il sugo di duecento arance in mezz’ora, purchè il
pollice di un maggiordomo premesse duecento volte un dato bottoncino.
Almeno una volta ogni quindici giorni un’intera squadra di fornitori arrivava con centinaia di metri di
tela e lampadine colorate sufficienti a trasformare il giardino enorme di Gatsby in un albero di
Natale. Sulle tavole dei rinfreschi, guarnite di antipasti scintillanti, i saporiti prosciutti al forno si
accatastavano, coperti da insalate dai disegni arlecchineschi insieme a porcellini e tacchini ripieni,
trasformati come per magia in oro cupo. Nel salone principale era impiantato un bar con
un’autentica ringhiera di ottone, stracarico di gin e di liquori e di cordiali di marche dimenticate da
tanto tempo che quasi tutte le invitate erano troppo giovani per poter conoscere.
Una tecnica per costruire intensità in un racconto è quella di ripetere immagini, frasi, temi
e pensieri.
Un esempio può essere “Addio alle armi” di Hemingway. L’autore usa la pioggia come un
leitmotif che indica tristezza Ogni volta che piove si stanno svolgendo eventi tristi. Quando muore la
donna che il protagonista ama l’autore dice poco a proposito dei sentimenti del momento. Scrive:
“Ma quando le ebbi fatte uscire ed ebbi chiusa la porta e spenta la luce non servì a niente. Fu come
salutare una statua. Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in albergo nella
pioggia”
E’ importante distanziare accortamente i leitmotifs perché se ricorrono troppo spesso il lettore può
annoiarsi e se a troppa distanza possono essere dimenticati e la ripetizione perderà il suo effetto. La
ripetizione serve anche a caratterizzare un personaggio. E avrà maggiore effetto se si metterà in
rilievo un dettaglio misterioso.
A proposito di tempo atmosferico. Evitare le banalità. E’ meglio scrivere che x osservava la strada
o un campo ghiacciato piuttosto che affermare che era una giornata gelida.
Il tempo può essere descritto usando tutti e cinque i sensi: il tempo può essere udito (la pioggia sul
tetto), può essere sentito (caldo, freddo), può essere “gustato” (sapore della pioggia, polvere nel
vento, umidità nell’aria ecc), può essere “odorato” (l’odore del prato bagnato dalla pioggia ecc)
Sappiamo come le condizioni del tempo influiscano sul nostro stato d’animo. Il romanziere può
inventare qualsiasi tempo appropriato allo stato d’animo che vuole evocare.
Fino al diciottesimo secolo poca attenzione veniva dedicata al tempo atmosferico nella narrativa. Nel
diciannovesimo secolo i romanzieri non fanno che parlarne. Questo è dovuto anche alla
rivalutazione della natura indotta dalla poesia e dalla pittura romantica e all’accresciuto interesse
letterario per l’individualità, per gli stati di sensibilità che influiscono sulle nostre percezioni del
mondo esterno o ne subiscono l’influsso.
Jane Austen. “Emma”
“La sera di quel giorno fu molto lunga e malinconica a Hartfield. Il tempo aggiunse tetraggine per
quel che potè. Cominciò una pioggia fredda e temporalesca e non restò traccia del mese di luglio se
non negli alberi e negli arbusti squassati dal vento, e nel protrarsi del giorno, che si limita a rendere
visibile più a lungo il crudele spettacolo.”
Charles Dickens. “Casa desolata”
Londra. Trimestre autunnale finito da poco e il Lord Cancelliere installato a Lincoln’s Inn Hall. Tempo
implacabile di novembre. Tanto fango per le strade come se le acque si fossero ritirate di recente
dalla faccia della terra, 3e non sarebbe da meravigliarsi di incontrare un Megalosauro, lungo più di
trenta metri, che cammina su per Holborn Hill, dondolandosi come un lucertolone mastodontico. Il
fumo scende dai comignoli, formando una pioggerellina nera e soffice contenente fiocchi di fuliggine
grandi come fiocchi di neve completamente formati – ha preso il lutto, si potrebbe immaginare, per
la morte del sole. Cani, indistinguibili dalla melma. Cavalli, poco meglio, coperti di schizzi fino agli
stessi paraocchi. Pedoni che giostrano con l’ombrello l’uno dell’altro, in un contagio generale di
cattivo umore, e perdono l’equilibrio all’angolo della strada, dove decine di migliaia di altri pedoni
hanno continuato a scivolare e slittare da quando è sorto il giorno (se poi il giorno è mai sorto),
aggiungendo nuovi depositi alla crosta sopra la crosta di fango, attaccata tenacemente al
marciapiede in quel punto e accumulata a interesse composto”.
Lawrence Durrell. “Justine”
“Cerco di ricordare ora come durante quell’ultima primavera (eterna) passeggiavamo insieme sotto
la luna piena, sopraffatti dall’aria dolce e stordita della città, con le quiete abluzioni dell’acqua e
della luce lunare che la facevano risplendere come uno scrigno immenso. Una follia eterea tra gli
alberi deserti delle piazze oscure, e le interminabili strade polverose che inseguivano mezzanotti
innumeri più azzurre dell’ossigeno. I volti di chi incontravi erano diventati gemme, in delirio – il
fornaio che preparava la sua merce per la vita del domani, l’amante che correva verso casa
inchiodato nel casco d’argento della paura, gli enormi cartelloni dei cinema che si facevano prestare
una magnificenza spettrale da una luna che pareva tendersi tra i nervi come un arco.
Basta svoltare a un angolo e il mondo diventa un gioco d’arterie schizzato d’argento e bordato
d’ombra. Nella lontana periferia di Kom el Dick non c’è un’anima viva se non l’occasionale poliziotto
ossessivo che striscia furtivo come un desiderio colpevole nella mente della città. I nostri passi
hanno la regolarità d’un metronomo sui marciapiedi deserti: due uomini, nel loro tempo e nella loro
città, lontani dal mondo, camminano come se stessero passeggiando in uno dei lugubri canali della
luna.”
Flaubert. “Madame Bovary”
“Tempo bello e caldo; il sudore colava tra i riccioli, tutti tiravano fuori il fazzoletto e si asciugavano
la fronte arrossata; talora un vento tiepido, che spirava dal fiume, moveva mollemente gli orli delle
tende di traliccio sospese davanti alla porta dei piccoli caffè. Un po’ più giù, però, c’era il refrigerio
d’una corrente d’aria glaciale, che odorava di sego, di cuoio e d’olio. Era l’esalazione della via dei
Barrocci, piena di grandi magazzini neri e di botti rotolanti”.
Flaubert era ossessionato dal particolare, Nelle sue opere paesaggi e sentimenti sono legati.
L’emozione diventa paesaggio e il paesaggio nasce dall’emozione.
Flaubert non si accontenta di paragonare la noia di Emma a un ragno silenzioso che tesseva la sua
tela in tutti gli angoli del suo cuore, descrive il paesaggio dal quale stilla la noia.
Il giardino che Emma aveva notato al suo arrivo a Tostes è ad immagine della sua anima:
“Quando faceva bello, essa scendeva in giardino. La brina aveva lasciato sui cavoli delle trine
d’argento, e lunghi fili chiari tesi dall’uno all’altro cavolo. Non si sentivano uccelli, tutto pareva
dormisse, la spalliera coperta di paglia e la vite come un grande serpente malato sottolo sporto del
muro. Avvicinandosi a questo, si vedevano dei millepiedi che vi si trascinavano sulle loro tante
zampe. Tra le abetine, vicino alla siepe, il prete in tricorno che leggeva il suo breviario aveva
perduto il piede destro, e il gesso scrostato dal gelo chiazzava il suo volto di una rogna bianca”.
Molto meglio di un’analisi psicologica o di un monologo interiore, il grande serpente malato e le
chiazze di rogna bianca della statua fanno sentire lo sconforto sentimentale e il crescente disgusto di
Emma.
E quando si abbandona a Rodolphe non c’è bisogno di descrivere l’emozione di Emma, basta la
descrizione del paesaggio:
“Scendevano le ombre della sera, il sole, orizzontale, passando tra i rami le abbagliava gli occhi.
Qua e là, tutt’attorno a lei, nelle foglie o per terra, tremavano delle chiazze luminose, come se dei
colibrì, volando, avessero sparpagliato le loro penne. Tutto taceva ovunque; qualcosa di dolce
pareva uscire dagli alberi; ella sentiva il suo cuore che riprendeva a battere e il sangue che le
circolava nella carne come un fiume di latte”. E ancora. “Ma era soprattutto all’ora dei pasti ch’essa
sentiva di non poterne più, in quella stanza a pianterreno, con la stufa che fumava, la porta che
strideva, i muri che trasudavano, il pavimento umido; tutta l’amarezza della sua vita le pareva
raccolta sul suo pitto, e fiutando il fumo del lesso sentiva salire dal fondo della sua anima delle
zaffate di disgusto”.
Più che descrivere, nominare un sentimento, uno stato d’animo, Flaubert lo rivela descrivendo
l’oggetto o il paesaggio. Il mondo interiore di Emma e la natura sono a tal punto intercambiabili che
l’emozione o la passione suscitano la nascita del paesaggio interiore:
“Entrava in un mondo meraviglioso, dove tutto doveva essere passione, estasi, delirio; la circondava
un’immensità azzurrina, le vette del sentimento scintillavano sotto il suo pensiero, la vita ordinaria
non appariva che in lontananza, giù giù, negli intervalli di queste altezze”.
Gli odori. Peter Suskind. “Profumo”
“Al tempo di cui parliamo, nella città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le
strade puzzavano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco
di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone; le stanze non aerate puzzavano di
polvere stantia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell’umido dei piumini e dell’odore pungente
e dolciastro di vasi da notte. Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo di
solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati;
dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando
non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e latte acido e malattie tumorali.
Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c’era puzzo sotto i ponti e nei palazzi.
Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, puzzava tuta la
nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra,
sia d’estate sia d’inverno. Infatti nel diciottesimo secolo non era stato ancora posto alcun limite
all’azione disgregante dei batteri, e così non v’era attività umana, sia costruttiva sia distruttiva, o
manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo.”
Scrive Zola: “Ecco... come faccio il romanzo. Non lo faccio affatto. Lascio che si faccia da sè. Io non
so inventare dei fatti; mi manca assolutamente questo genere d’immaginazione. Se mi metto a
tavolino per cercare un intreccio, una tela qualsiasi di romanzo, sto lì anche tre giorni a stillarmi il
cervello, colla testa fra le mani, ci perdo la bussola e non riesco a nulla. Perciò ho preso la
risoluzione di non occuparmi mai del soggetto. Comincio a lavorare al mio romanzo, senza sapere
nè che avvenimenti vi si svolgeranno, nè che personaggi vi avranno parte, nè quale sarà il principio
e la fine. Conosco soltanto il mio protagonista, uomo o donna; che è una conoscenza antica. Mi
occupo anzitutto di lui, medito sul suo temperamento, sulla famiglia da cui è nato, sulle prime
impressioni che può aver ricevuto, e sulla classe sociale in cui ho stabilito che debba vivere. Questa
è la mia occupazione più importante: studiare la gente con cui questo personaggio avrà a che fare, i
luoghi in cui dovrà trovarsi, l’aria che dovrà respirare, la sua professione, le sue abitudini, fin le più
insignificanti occupazioni a cui dedicherà i ritagli della sua giornata. Mettendomi a studiare queste
cose, mi balena subito alla mente una serie di descrizioni che possono trovare luogo nel romanzo, e
che saranno come le pietre miliari della strada che debbo percorrere.
“L’assommoir”
“Gervaise preferì aspettarlo per la strada. Nell’attesa, entrò sotto il portico, spingendosi fino alla
portineria, che era a destra. E là, sulla soglia del cortile, alzò di nuovo lo sguardo. All’interno,
l’edificio aveva sei piani, e quattro facciate tutte uguali chiudevano l’ampio quadrato del cortile. Le
mura grigie erano divorate da una lebbra giallastra, rigate dalla sgocciolatura dei tetti, e
s’innalzavano, completamente piatte, dal selciato fino alle ardesie del tetto, senza una modanatura.
Soltanto i tubi di scarico si piegavano a gomito all’altezza dei piani, dove i cassoni degli acquai,
spalancati, mostravano le macchie della ghisa arrugginita. Alle finestre mancanti di persiane i vetri
nudi erano di un torbido verde, come di acqua sporca. Da alcune, spalancate, penzolavano
materassi a quadretti blu, messi lì a prendere aria; davanti ad altre, su corde tese, asciugavano capi
di biancheria, il bucato di una famiglia: le camicie dell’uomo, le camiciole della donna, le mutandine
dei bambini. (--) Infatti la scala B, grigia, sporca, con ringhiera e gradini bisunti, i muri graffiati che
mettevano a nudo il gesso, era immersa in un violento odore di cucina. Su ogni pianerottolo si
aprivano corridoi, risuonanti di rumori e di voci, si allineavano porte, dipinte di giallo, annerite
attorno alla serratura dalla sporcizia delle mani, e, a livello delle finestre, i cassoni degli acquai
esalavano un fetore umido, che si mescolava a quello, più acre, della cipolla cotta. Si sentivano, dal
pianterreno al sesto piano, acciottolio di stoviglie e di tegami fragorosamente risciacquati, di
casseruole raschiate per pulirne il fondo. Al primo piano, Gervaise scorse, attraverso una porta
semiaperta, sulla quale la parola “Disegnatore” era scritta in grosse lettere due uomini seduti
davanti a un tavolo sparecchiato ricoperto da una tela cerata, che discutevano animatamente,
immersi nel fumo delle loro pipe. Il secondo piano e il terzo, più tranquilli, lasciavano soltanto
filtrare, dagli interstizi del rivestimento di legno, il ritmo cadenzato del dondolio di una culla, il
pianto soffocato di un bambino, e la grossa voce di una donna, che giungeva come un sordo
mormorio di acqua corrente, senza che si potesse distinguerne le parole. (…) Arrivata in cima, con le
gambe spezzate, senza fiato, ebbe la curiosità di chinarsi dalla ringhiera: ora era il becco di gas in
basso a sembrare una stella, in fondo all’angusto pozzo dei sei piani. Gli odori, la vita immensa e
rumorosa della casa le arrivavano fusi in un unico respiro, colpendo con una vampata di calore il suo
volto inquieto che si affacciava, come verso il fondo di un abisso.”
DIALOGHI
Niente come il dialogo porta il lettore proprio al centro della scena.
Pensiamo ad un litigio. Invece di leggere la descrizione dell’autore è meglio sentire il dialogo di
coloro che vi sono coinvolti. E’ anche il modo migliore per capire quali sono i rapporti di forza fra i
singoli personaggi, quali sono i rapporti tra di loro e quindi prevedere come reagirà l’uno o l’altro.
A volte niente come il dialogo riesce ad esprimere il pensiero di un personaggio.
Far parlare i personaggi solo quando “devono” non quando serve al narratore.
Il dialogo deve rivelare qualcosa sul personaggio e non offrire delle spiegazioni o informazioni al
lettore.
Ascoltare la “propria” voce, il modo in cui vengono usate le parole.
E’ importante leggere ad alta voce ciò che i personaggi dicono per sentire se il dialogo è falso o
verosimile.
Dare a ciascuno la sua voce.
Ciò che i personaggi dicono non può essere interscambiabile.
Mentre si scrive un dialogo dimenticare la propria voce e pensare con la testa del personaggio.
Impossibile scrivere buoni dialoghi se non si è capaci di ascoltare.
Ascoltare i frammenti di dialoghi delle persone che ci sono accanto e scriverli su un quaderno.
(musei, ristoranti, bar, autobus, metro, cinema ecc ma anche la famiglia, la
vita privata, il
passato)
Non bisogna scrivere tutto ciò che un personaggio direbbe ma solo ciò che è importante per lo
svolgimento della storia o ciò che può essere rappresentativo e rivelatore del personaggio.
Bisogna sviluppare “l’orecchio” per il dialogo.
Ciò che il personaggio dice deve essere necessario alla storia che raccontate.
Il dialogo deve fornire alla storia ritmo, emozione e tensione (direzione).
Da evitare un dialogo neutro come:
- Salve
2. Salve
1. come sta?
2. Bene. E lei?
1. Benissimo. E’ una bella giornata.
2. E’ vero. Una bellissima giornata
I dialoghi devono essere acuti, definiti, originali. Devono essere dei piccoli “eventi”.
Ogni dialogo può portare al conflitto ma è importante decidere in quale punto farlo esplodere per
non annoiare il lettore.
Ogni buon dialogo ha molti elementi:
interruzioni
silenzi
eco (quando uno dei dialoganti riprende l’ultima parola dell’altro)
rovesciamenti
cambiamenti nel tono e nel ritmo
idiomi
dettagli
E’ importante consentire al dialogo di condurre avanti la storia incrementandone la tensione.
Questo avviene con i dialoghi diretti, quelli che non hanno bisogno di un’interpretazione.
Ci sono quelli intercalati da brani di narrativa per interromperlo e per interpretare il dialogo
stesso. Ma non bisogna farlo sempre. Non occorre interpretare ogni dialogo.
Ci sono dialoghi più ambigui, vicini a quelli della nostra vita.
Dialoghi in cui si cambia repentinamente argomento
In cui ci si dirige a qualcuno che non è in scena
In cui si risponde a domande con risposte che non sono proprio risposte
Personaggi che parlano a se stessi
Conversazioni intrecciate
Ci sono poi i dialoghi modulati, in cui mentre i personaggi parlano hanno anche la possibilità di
pensare e commentare o di andare indietro nella memoria o di fare associazioni o di analizzare
qualche dettaglio che li circonda.
Il breve dialogo de “La signora col cagnolino” di Cechov è un’epifania, un momento di chiarezza
nel quale il protagonista vede nella giusta luce la sua vita.
Dopo lo scambio di frasi la parte
narrativa serve ad aggiungere ciò che non è stato detto piuttosto che spiegare ciò che è stato detto.
La storia parla di Dmitry Dmitrich Gurov, un moscovita. La sua vita pubblica e privata lo lasciano
insoddisfatto e malinconico e, in vacanza a Jalta, incontra una donna con cui comincia una storia. E’
ringiovanito dalla relazione, si sente rinato ma nello stesso tempo deve mantenere il segreto per
non distruggere la vita di entrambi poichè sono sposati. La sua esistenza gli sembra divisa in due,
innamorato di una donna e intrappolato nella famiglia. Sente il bisogno di confidarsi con qualcuno.
Lo fa all’uscita di un ristorante. Il brano seguente rivela, in poche parole di dialogo e nelle reazioni
dei personaggi, moltissimo su entrambi.
E già lo tormentava un desiderio intenso di rendere partecipe qualcuno dei suoi ricordi. Ma a casa
non poteva parlare del suo amore e fuori di casa, non c’era nessuno cui confidarlo. Non già fra gli
inquilini e nemmeno alla banca. E poi, di che parlare? Forse che aveva amato, allora? Forse che
c’era stato qualcosa di bello, poetico, o di edificante o anche semplicemente di interessante nella
sua relazione con Anna Sergeevna? Conveniva perciò parlare in termini vaghi dell’amore, delle
donne, e nessuno indovinava di che si trattasse in sostanza, e solo la moglie muoveva le sue
sopracciglie scure e diceva: “A te, Dimitri, non s’adatta punto la parte di bellimbusto”.
Una volta, di notte, uscendo dal circolo dei medici con il suo compagno di partita, un funzionario,
non riuscì a trattenersi ed esclamò:
“Se sapeste con che donna incantevole ho fatto amicizia a Jalta!”
Il funzionario prese posto nella slitta e quando questa si mise in moto, si voltò d’un tratto e lo
chiamò:
“Dmitri Dmitric!”
“Che c’è?”
“Avevate ragione dianzi: quello storione aveva un certo odorino”
Queste parole, così comuni, chissà perchè indignarono d’un tratto Gurov, gli parvero umilianti,
impure. Che usanze rozze, che persone! Com’erano insulse le serate, come insignificanti, senza
nulla d’interessante i giorni! Il gioco accanito delle carte, l’intemperanza nel mangiare e nel bere, e
continuamente gli stessi discorsi. Le faccende inutili, i discorsi sempre sugli stessi temi si divorano la
più gran parte del tempo, le forze migliori, e alla fin fine rimane un’esistenza tronca, senz’ali,
qualcosa di sconclusionato, e non è possibile andarsene, fuggire, come se ti trovassi in un
manicomio o in una compagnia di detenuti.
Il modo in cui un personaggio parla ci fa capire chi è.
Pensare alle persone conosciute.
E’ importante riconoscere la “propria voce” e quella dei propri personaggi. Per far parlare i
personaggi bisogna distaccarsi dalla propria voce.
Considerare l’età dei personaggi, l’età separa e definisce.
Considerare il livello sociale, il luogo di appartenenza. La professione. Il dialetto (anche se non
bisogna esagerare in nome dell’autenticità a meno che non si faccia una scelta precisa, come
Camilleri). Il modo di scegliere le parole. La dizione e la sintassi usata da ciascuno.
Comprimere. E’ importante comprimere i dialoghi all’essenziale. Certe frasi devono avere un senso
di necessità e urgenza per essere dette. Tagliare. Tagliare. Ridurre all’osso e all’essenziale.
Nei dialoghi quotidiani ci sono tante cose omesse, date per scontate. Ometterle anche nel dialogo
letterario.
La tensione è ritmo e il ritmo ha bisogno di interruzioni. I personaggi si devono interrompere,
devono completarsi le frasi, ripetere le parole, cambiare argomento, come succede nella vita.
Il dialogo deve fornirci ciò che il personaggio vuole e ciò che sa attraverso: tensione,
interruzione, dettagli, informazioni, ripetizione, cambiamento di argomento.
A volte è molto utile il silenzio. Un personaggio può non rispondere ad una domanda e in questo
modo far scoprire qualcosa nelle sue intenzioni o nel suo carattere in modo più esplicito che
attraverso le parole.
Ci sono momenti in cui nulla deve essere detto. Molte cose si nascondono dietro questo silenzio:
sofferenza, conflitto, risoluzione. Il silenzio è la risposta.
Il dialogo può interrompersi in un silenzio pieno di gesti e movimenti. Qualcuno accende una
sigaretta, tamburella sul tavolo, bacia qualcun altro, volta lo sguardo, si passa la mano tra i
capelli... gesti che possono essere più significativi di parole.
Evitare i clichés.
Ci sono dei gesti, delle azioni che valgono più di lunghi discorsi.
Ricordare che come diceva Aristotele le parole di un dialogo hanno due ascoltatori: il primo è
l’interlocutore di chi sta parlando e il secondo è il lettore.
Flaubert si è augurato di riuscire a dipingere col dialogo.
Prendiamo il racconto di Raymond Carver: “Una piccola, buona cosa” in cui una mamma ordina
una torta speciale per l’ottavo compleanno del figlio Scotty che dovrà essere ritirata il lunedì. Quel
giorno il bambino viene messo sotto da una macchina. Dopo due giorni di coma il bambino muore.
In quei due giorni il fornaio, un tipo burbero e scostante, chiama ripetutamente la casa del bambino
per avere notizie riguardo alla torta. La prima volta risponde il padre che non sa nulla della torta e
pensa ad uno scherzo. A quel punto il fornaio, infuriato, fa strane telefonate a casa della coppia. E’
solo dopo la morte del piccolo che la madre ricorda la torta e associa le telefonate al fornaio. E’
notte quando la coppia va a trovarlo per dirgli il fatto suo.
Quando l’uomo viene a sapere dell’accaduto si addolcisce, si commuove, offre ai due caffè e
ciambelle.
“Probabilmente avete bisogno di mangiare qualcosa,” disse.
“Spero vorrete accettare alcune delle mie ciambelle calde. Occorre mangiare per potere andare
avanti. Il mangiare è una piccola, buona cosa in un momento come questo.”
Servì loro delle ciambelline alla cannella appena uscite dal forno, con la glassa ancora fluida. Mise
sul tavolo il burro e i coltelli per spalmarlo. Poi sedette insieme a loroo. Aspettò sinchè non ebbero
preso ciascuno una ciambellina cominciando a mangiare. “Fa bene mangiare qualcosa”, disse
guardandoli. “Ce n’è ancora. Mangiate sinchè volete. Ci sono tutte le ciambelle del mondo, qui.”
Parla poi della propria solitudine, senza figli e senza famiglia. E infine offre loro del pane che qui è
proprio il simbolo della fratellanza, della pace, della solidarietà. E’ una specie di rituale che parla di
protezione, di comunione tra i personaggi, di perdono.
Oltre che ascoltare le persone occorre guardarle per riconoscere alcuni gesti e atteggiamenti
particolari da intercalare ai dialoghi.
Registrare anche i rumori, le luci, i movimenti intorno a coloro che parlano. Perchè tutto ciò può
in qualche modo, anche inconscio, influenzare quello che dicono. (per es. in un bar: rumore della
cassa, musica da un juke box, il cameriere che passa, la porta che si apre con rumore, la luce
particolare che illumina il tavolino ecc)
L’ambiente deve diventare parte integrante del dialogo.
Prendiamo l’inizio de “Lo straniero” di Alber Camus.
La madre del protagonista è morta. Lui va nell’ospizio in cui la madre viveva per vegliare la salma
prima del funerale. E’ nel piccolo obitorio dell’ospizio quando lo raggiunge il portinaio.
Quando l’infermiera è uscita, il portinaio ha parlato: “Vi lascerò solo, adesso”. Non so che gesto ho
fatto, ma lui è rimasto lì, in piedi dietro di me. Quella presenza alle mie spalle mi metteva a disagio.
La stanza era piena di una bella luce di pomeriggio inoltrato. Due calabroni ronzavano contro la
vetrata e io mi sentivo vincere dal sonno. Ho detto al portinaio, senza voltarmi: “E’ molto tempo che
siete qui?” Mi ha risposto immediatamente: “Cinque anni”, come se avesse atteso da sempre la mia
domanda. Poi ha chiacchierato molto.
I personaggi parlano ma la conversazione sembra piuttosto essere quella del protagonista con il
luogo in cui si trova invece che tra i due uomini. E’ il mondo che parla nel loro silenzio. I calabroni,
la luce, la vetrata, la desolazione.
Alessandro Baricco: Novecento.
E' la storia di un neonato abbandonato in una scatola di cartoe sul pianoforte di una nave. Il
marinaio che lo trova gli farà da padre per otto anni e alla sua morte il bambino, chiamato
Novecento, rimarrà tutta la vita sulla nave.
Ecco cosa scrive quando immagina di arrivare in cielo dopo la morte:
Già me la vedo la scena, arrivato lassù, quello che cerca il mio nome nella lista e non lo trova.
"Come ha detto che si chiama?" "Novecento." "Nosjinskij, Notarbartolo, Novalis, Nozza..." "È che
sono nato su una nave." "Prego?" "Son nato su una nave e ci sono anche morto, non so se risulta lì
sopra..." "Naufragio?" "No. Esploso. Sei quintali e mezzo di dinamite. Bum." "Ah. Tutto bene
adesso?" "Sì, sì, benissimo... cioè... c'è solo 'sta faccenda del braccio... si è perso un braccio... ma
mi hanno assicurato..." "Manca un braccio?" "Sì. sa, nell'esplosione..." "Dovrebbero essercene un
paio di là... qual è che le manca?" "Il sinistro." "Ahia." "Sarebbe?" "Ho paura che siano due destri,
sa?" "Due bracci destri?" "Già. Nel caso, lei avrebbe problemi a..." "A cosa?" "Voglio dire, se
prendesse un braccio destro..." "Un braccio destro al posto del sinistro?" "Sì." "Mah... no, in linea di
massima... meglio un destro che niente..." "È quello che penso anch'io. Aspetti un attimo, glielo
vado a prendere" "Se mai ripasso fra qualche giorno, le fosse arrivato un sinistro..."
Achille Campanile è stato uno dei più grandi scrittori umoristici italiani.
Dialogo tra un cameriere e due clienti:
Il cameriere chiede: Acqua minerale?
Il cliente: Naturale Il cameriere: (prende nota) Acqua naturale.
Il cliente: Ho detto minerale
Il cameriere: Veramente, mi scusi, ma lei ha detto naturale
cliente: Intendevo: "naturale, acqua minerale". Non le sembra naturale che io beva acqua
minerale? cameriere: Anche la signora acqua minerale?
La cliente: Naturale
cameriere: (prendendo nota) Minerale.
La cliente: Ho detto naturale
cameriere: Credevo che intendesse come il signore: "naturale, acqua minerale". Invece intende:
"naturale, acqua naturale". Signora! Ho famiglia. Un figlio.
Il cliente: Legittimo?
Il cameriere: Naturale …
Il cliente: E non può legittimarlo?
cameriere: Perché dovrei legittimarlo, se è già legittimo.
Il cliente: Ha detto che è naturale
cameriere: No. Intendevo: "naturale, è legittimo".
Leggere testi teatrali per imparare a scrivere buoni dialoghi. I testi teatrali, a parte qualche
descrizione sui movimenti dei personaggi in scena, sono formati solo da dialoghi. Prendiamo Luigi
Pirandello che divenne famoso proprio grazie al teatro che chiama teatro dello specchio, perché vi
raffigura la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell'ipocrisia e delle convenienze
sociali, di modo che lo spettatore possa guardarsi in uno specchio e vedere come realmente è, per
diventare migliore. Prendiamo il bellissimo racconto L'uomo dal fiore in bocca. È un colloquio fra
due uomini. Il primo è condannato a morire fra breve e questa sua situazione lo spinge a indagare
nel mistero della vita e a tentare di penetrarne l'essenza. L'altro personaggio è un avventore del
caffè della stazione, dove si svolge tutta la scena; un uomo qualsiasi, che la monotonia e la banalità
della vita quotidiana hanno reso scialbo, piatto e vuoto e non si pone il problema della morte.
L'uomo dal fiore. Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è... Ha perduto il treno?
L'avventore. Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.
L'uomo dal fiore. Poteva corrergli dietro!
L'avventore. Già. È da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti quegli impicci di
pacchi, pacchetti, pacchettini... Più carico d'un somaro! Ma le donne – commissioni... commissioni...
– non la finiscono più. Tre minuti, creda, appena sceso di vettura, per dispormi i nodini di tutti quei
pacchetti alle dita; due pacchetti per ogni dito. Ed ecco come l'uomo dal fiore in bocca descrive la
sua malattia:
Venga... le faccio vedere una cosa... Guardi, qua, sotto questo baffo... qua, vede che bel tubero
violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo... più dolce d'una caramella: Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma... La morte, capisce? è passata.
M'ha ficcato questo fiore in bocca, e m'ha detto: - «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!
Oppure il celebre racconto "La patente" dove un uomo considerato jettatore va da un giudice a
chiedere il riconoscimento ufficiale della sua particolarità.
Risponde il giudice: Povero Chiàrchiaro mio, e che te ne fai?
Chiarchiaro: Che me ne faccio? Lei, padrone mio, per esercitare codesta professione di giudice,
anche così male come la esercita, mi dica un po', non ha dovuto prender la laurea?
Giudice: La laurea, sì.
Chiarchiaro: Ebbene, voglio anch'io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col bollo.
Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale.
Giudice: E poi?
Chiarchiaro: E poi? Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno
assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov'ero scritturale, con la scusa che,
essendoci io, nessuno più veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con
la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà più sapere, perché sono
figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche
lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta
altro che di mettermi a fare la professione del jettatore! Mi sono parato così, con questi occhiali, con
quest'abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo!
Il giudice si mostra scettico a questa richiesta e allora l'uomo incalza spiegando cosa potrà fare una
volta ottenuta la patente: Ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti;
non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a
tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei
dice dell'ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e
tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d'avere ormai in questi
occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!
Quando uscì dal bagno si avvicinò al letto e guardò Fedink. Dormiva sodo, a faccia in giù, un braccio
ripiegato sul capo. Il telefono aveva smesso di suonare. Ned si raddrizzò la cravatta e tornò nel
salotto.
Trovò tre sigarette in una scatola sul tavolino tra due poltrone. Ne prese una mormorando: Raffinata - senza sorridere, prese un fiammifero, accese la sigaretta e andò in cucina.
Spremette quattro arance e bevve il succo. Poi preparò il caffè e ne bevve quattro tazze. Stava
uscendo dalla cucina quando Fedink chiese con voce incolore: - Dov'è Ted? - L'unico occhio visibile
era ancora semichiuso.
Ned Beaumont si chinò su di lei. - Chi è Ted? - chiese.
- Quel tizio che era con me.
- C'era un tizio con te? E come posso saperlo?
Fedink aprì la bocca e la richiuse con uno schiocco sgradevole. - Che ora è?
- Non lo so. Un'ora qualsiasi del giorno.
La ragazza premette il volto contro il cuscino di cinz e disse: - Mi capita un bravo ragazzo, ieri gli
prometto di sposarlo e poi lo pianto per portarmi a casa il primo barbone che incontro. - Aprì e
richiuse la mano che teneva sopra il capo. - O forse questa non è casa mia?- La chiave della porta l'avevi - disse Ned Beaumont. - Vuoi un succo d'arancia?
- Non voglio un accidenti di niente fuorché morire. Mi fai il favore di andartene, Ned, e di non
tornare mai più?
- Sarà dura per me - disse Ned di malumore - ma mi ci proverò.
(D. Hammett, "La chiave di vetro" (1931)
Mossi un poco la testa, con prudenza. Mi fece un male cane, ma non più di quanto mi aspettassi. Ero
impacchettato come un tacchino pronto per il forno. Avevo le mani ammanettate dietro la schiena e
di lì partiva una fune che mi girava intorno alle caviglie e si perdeva oltre l'estremità del divano
marrone su cui ero disteso. Mi mossi un altro poco per accertare che la fune fosse attaccata da
qualche parte. (...)
- Come vi sentite? - lei aveva una voce dolce, argento assortito a quello dei capelli. Vi tintinnava
una nota chiara, simile a una campanella da casa di bambola. Trovai idiota il paragone appena
riuscii a formularlo.
- Meravigliosamente - dissi. - Qualcuno ha messo su un distributore di benzina sul mio mento.
- Cosa vi aspettavate, signor Marlowe. Delle orchidee?
- Solo una cassa di legno di pino - dissi. - Non preoccupatevi di far aggiungere maniglie di bronzo o
d'argento. E non disseminate le mie ceneri sulle onde blu del Pacifico. Preferisco i vermi. Lo sapete
che i vermi sono ermafroditi e ogni verme di qualsiasi sesso può amare un altro verme di qualsiasi
sesso?
- Prendete le cose troppo alla leggera - disse lei con uno sguardo solenne.
(R. Chandler, "Il grande sonno" (1939)
Al telefono
Alle tre del mattino, il telefono accanto al letto mi fece schizzar via la testa dal cuscino. La voce che
m'arrivò attraverso il filo era quella del lince canadese.
«Fine di Arlie» annunciò.
«Steso?»
«Già.»
«Come?»
«Bucato.»
«Il nostro gigolo?»
«Già.»
«Reggi fino al mattino?»
«Già.»
«Ci vediamo in ufficio» e ripresi a dormire.
(D. Hammett, "106.000 dollari di taglia" (1954)
Avevo dato ordine che mi svegliassero alle otto, e quando squillò il telefono guardai l'orologio,
sorpreso di avere ancora tanto sonno. Le sette e dieci. Pensai: "accidenti agli alberghi" e tirai su il
ricevitore.
Una voce flautata mi comunicò che c'era una chiamata per me da New York. Dissi: «Eccomi qui»
e pensai che a New York dovevano essere le otto passate. Poi mi arrivò la voce di Nero Wolfe.
«Archie?» .
«Sissignore. Buongiorno.»
«Non potrà mai essere un giorno sopportabile. Dove siete?”
“A letto”
“Non vi chiedo scusa per il disturbo. Alzatevi e tornate a casa. La signorina Brooke è morta. Il suo
cadavere è stato trovato stamattina: aveva il cranio sfracellato. E’ stata assassinata. Tornate a
casa.”
Inghiottii a vuoto un paio di volte. Poi cominciai: “Dove diavolo è…” M’interruppi e dissi: “Arrivo.”
“Quando sarete qui?”
“E che ne so? Verso mezzogiorno. L’una. “
“Bene.” E riattaccò.
(Rex Stout "Il diritto di morire" 1964)
- Parla il signor Marlowe, l'investigatore? Era una vocetta esile, piuttosto frettolosa, da ragazzina. Risposi che ero il signor Marlowe,
l'investigatore. - Quanto chiedete per i vostri servizi, signor Marlowe?
- Che cosa vorreste farmi fare?
La voce divenne un poco più aspra.
- Non ve lo posso dire, al telefono. E'... è molto confidenziale. Prima di perdere tempo a venire nel
vostro ufficio, vorrei avere un'idea...
- Quaranta dollari al giorno, più le spese. A meno che non sia un lavoro che si possa fare per un
forfait.
- E' veramente troppo dichiarò la vocina. Eh, sì, potrebbe venire a costare centinaia di dollari, e io
guadagno poco e...
- Dove siete, ora?
- Ma... in un drugstore. Nel palazzo di fianco al vostro ufficio.
- Avreste potuto risparmiare un nichelino. L'ascensore è gratis.
-lo... io... Come avete detto?
Ripetei tutto da capo.
- Venite su e lasciate che vi dia un'occhiata soggiunsi. - Se vi trovate in un guaio di quelli che so
sistemare, posso darvi una discreta idea di...
- Devo sapere qualcosa di voi - dichiarò la vocina con fermezza. Si tratta di una faccenda molto
delicata, molto personale. Non posso parlarne al primo venuto...
- Se è delicata a questo punto forse vi occorre una investigatrice.
- Cielo! Non sapevo che ce ne fossero. Ma non credo proprio che un'investigatrice possa andare.
Vedete, signor Marlowe, Orrin abitava in un quartiere molto malfamato. Per lo meno a me è parso
malfamato. Il direttore della pensione è un individuo quanto mai sgradevole. Puzza di liquore. Voi
bevete, signor Marlowe?
- Be', ora che ne parlate...
- Non mi sentirei di assumere un investigatore che faccia uso di alcool, in nessuna forma. Non
approvo nemmeno il tabacco.
- Avete niente in contrario se pelo un'arancia?
Colsi un'aspirazione brusca all'altro capo del filo.
- Potreste almeno parlare come un gentiluomo - osservò la voce.
- Vi conviene provare al circolo universitario consigliai. - Ho sentito dire che laggiù di gentiluomini
ne sono avanzati un paio, ma non so se vi permetteranno di metterci le mani sopra.
E deposi il ricevitore. Fu un passo nella giusta direzione, ma non andai abbastanza lontano. Avrei
dovuto chiudere la porta a chiave e nascondermi sotto la scrivania.
(R. Chandler, "La sorellina" (1949)
L'avvocato sollevò il ricevitore del suo apparecchio. - Sì. Pronto... Parla Perry Mason.
- Avvocato Mason, sono Arlene Duvoll.. Ho bisogno di vedervi per una cosa molto importante.
Posso... posso pagare... ho denaro... Ma sono stata derubata.
Mason ammiccò a Della Street.
- Venite pure a trovarmi, signorina Duvall.
- Non posso. Non so come vestirmi.
- Oh, non importa. Siamo tutt'altro che formalisti, qui. Venite pure così come siete.
- Se poteste vedermi ritirereste subito l'invito.
- Perché?
- Quello che ho indosso non copre della mia pelle più di quanto ne coprirebbe un francobollo.
- Be', mettete qualcosa...
- Non posso. Mi hanno rubato tutto: abiti, cose personali, auto, casa...
- E dove siete adesso?
- Alla quattordicesima buca del Remuda Golf Club. C'è una cabina telefonica, in questo punto. Il
campo è deserto, ora. Ho chiamato la telefonista del Club e le ho detto che sono una socia, così ho
potuto parlarvi. Ho bisogno di vestiti e di aiuto.
(E.S. Gardner, Terry Mason e la nudista" (1955)
SALOMÉ
di Oscar Wilde
Un grande terrazzo nel palazzo di Erode, che dà sulla sala del banchetto. Dei soldati sono appoggiati
alla balaustra. Sulla destra un’enorme scalinata. Sul fondo a sinistra un’antica cisterna circondata da
un muro di bronzo verde. Chiaro di luna.
GIOVANE SIRIANO - Come è bella la principessa Salomé questa sera!
PAGGIO DI ERODIADE - Guarda la luna. Ha un’aria strana la luna. Si direbbe una donna che esce
dalla tomba. La luna sembra una donna morta. Si direbbe che cerca dei morti.
GIOVANE SIRIANO - Ha un’aria così strana. Sembra una principessina dai piedi d’argento che porta
un velo giallo. Sembra una principessa dai piedi come due colombe bianche… Si direbbe che stia
ballando.
PAGGIO DI ERODIADE - È come una donna morta. Si muove piano piano. (Rumori dalla sala del
banchetto)
PRIMO SOLDATO - Quanto rumore! Chi sono queste bestie selvagge che urlano?
SECONDO SOLDATO - Sono gli ebrei. Fanno sempre così. È per la religione che litigano.
PRIMO SOLDATO - Perché litigare per la religione?
SECONDO SOLDATO - Non lo so. Lo fanno sempre… I farisei affermano che ci sono degli angeli, e i
sadducei dicono che gli angeli non esistono.
PRIMO SOLDATO - Io trovo ridicolo discutere di queste cose.
GIOVANE SIRIANO - Come è bella la principessa Salomé questa sera!
PAGGIO DI ERODIADE - La stai sempre guardando. La guardi troppo. Non sta bene guardare la
gente in quella maniera… Può accadere una disgrazia.
GIOVANE SIRIANO - È molto bella questa sera.
PRIMO SOLDATO - Il tetrarca ha un aspetto cupo.
SECONDO SOLDATO - Sì, ha un aspetto cupo.
PRIMO SOLDATO - Sta guardando qualche cosa.
SECONDO SOLDATO - Sta guardando qualcuno.
PRIMO SOLDATO - Chi sta guardando?
SECONDO SOLDATO - Non lo so.
GIOVANE SIRIANO - Come è pallida la principessa. Non l’ho mai vista così pallida. Sembra il riflesso
di una rosa bianca in uno specchio d’argento.
PAGGIO DI ERODIADE - Non bisogna guardarla. Tu la guardi troppo!
PRIMO SOLDATO - Erodiade ha versato da bere al tetrarca.
SOLDATO DI CAPPADOCIA - È la regina Erodiade quella che porta la mitra nera costellata di perle e
che ha i capelli incipriati di blu?
PRIMO SOLDATO - Sì, è Erodiade. È la donna del tetrarca.
SECONDO SOLDATO - Al tetrarca piace molto il vino. Ha dei vini di tre qualità diverse. Uno viene
dall’isola di Samotracia, ed è purpureo come il mantello di Cesare.
SOLDATO DI CAPPADOCIA - Non ho mai visto Cesare.
SECONDO SOLDATO - Un altro viene dalla città di Cipro, ed è giallo come l’oro.
SOLDATO DI CAPPADOCIA - Mi piace molto l’oro.
SECONDO SOLDATO - Il terzo è un vino siciliano, e quel vino è rosso come il sangue.
SOLDATO DI NUBIA - Agli dei del mio paese piace molto il sangue. Due volte all’anno noi
sacrifichiamo dei giovani e delle vergini: cinquanta giovani e cento vergini. Ma sembra che non
diamo mai abbastanza perché sono molto duri verso di noi.
SOLDATO DI CAPPADOCIA - Al momento, nel mio paese non ci sono gli dei, i romani li hanno
cacciati. C’è chi dice che si sono rifugiati nelle montagne, ma io non ci credo. Io ho passato tre notti
sulle montagne a cercarli dappertutto. Non li ho trovati. Alla fine li ho chiamati per nome e non sono
comparsi. Io penso che siano morti.
PRIMO SOLDATO - Gli ebrei adorano un Dio che non si può vedere.
SOLDATO DI CAPPADOCIA - Questa è una cosa che non capisco.
PRIMO SOLDATO - Difatti credono solo alle cose che non si possono vedere.
SOLDATO DI CAPPADOCIA - Ma è assolutamente ridicolo.
FINALE
SALOMÉ - Dammi la testa di Iokanaan.
ERODE - (crollando sulla sedia) Datele ciò che chiede! È proprio la figlia di sua madre. (Il primo
soldato si avvicina. Erodiade prende dalla mano del tetrarca l’anello della morte e lo dà al soldato
che lo porta subito al boia. Il boia sembra esterrefatto) Chi ha preso il mio anello? Avevo un anello
alla mano destra. Chi ha bevuto il mio vino! C’era vino nel mio calice. Era pieno di vino. Qualcuno
l’ha bevuto? Oh, sono sicuro che accadrà una disgrazia a qualcuno. (Il boia scende nella cisterna)
Ah! Perché ho giurato? I re non dovrebbero mai giurare. Se non mantengono il giuramento, è
tremendo. Se lo mantengono, è altrettanto tremendo…
ERODIADE - Io trovo che mia figlia ha fatto la cosa giusta.
ERODE - Sono sicuro che accadrà una disgrazia.
SALOMÉ - (si china sulla cisterna ed ascolta) Non c’è nessun rumore. Non sento niente. Perché non
grida, quell’uomo? Ah! Se qualcuno cercasse di uccidermi, io griderei, mi divincolerei, non vorrei
soffrire… Colpisci, colpisci, Naaman. Colpisci, ti dico… No, non sento niente. C’è un silenzio orrendo.
Ah! Qualcosa è caduto a terra. Ho sentito cadere qualcosa. Era la spada del boia. Ha paura, quello
schiavo! Ha lasciato cadere la sua spada. Non osa ucciderlo. È un vigliacco, quello schiavo! Bisogna
mandare i soldati. (Vede il paggio di Erodiade e si rivolge a lui) Vieni qui. Tu eri l’amico di quello che
è morto, vero? Ebbene, non ci sono stati abbastanza morti. Dì ai soldati che scendano e mi portino
ciò che ho chiesto, ciò che il tetrarca mi ha promesso, ciò che mi appartiene. (Il paggio indietreggia.
Lei si rivolge ai soldati) Venite qui, soldati. Scendete nella cisterna e portatemi la testa di
quell’uomo. (I soldati indietreggiano) Tetrarca, tetrarca, ordina ai tuoi soldati di portarmi la testa di
Iokanaan. (Un grande braccio nero, il braccio del boia, emerge dalla cisterna portando su uno scudo
d’argento la testa di Iokanaan. Salomé la afferra. Erode si nasconde il viso con il mantello. Erodiade
sorride e agita il ventaglio. I nazareni s’inginocchiano e incominciano a pregare) Ah! Tu non volevi
che io baciassi la tua bocca, Iokanaan. Guarda, ora la bacerò. La morderò con i denti come si morde
un frutto maturo. Sì, bacerò la tua bocca, Iokanaan. Te l’avevo detto, vero? Te l’avevo detto. Ecco,
ora la bacerò… Ma perché non mi guardi, Iokanaan? I tuoi occhi che erano così tremendi, che erano
così pieni di collera e di disprezzo, sono chiusi ormai. Perché sono chiusi? Apri gli occhi! Solleva le
palpebre, Iokanaan. Perché non mi guardi? Hai paura di me, Iokanaan, che non mi vuoi guardare? E
la tua lingua che era come un serpente rosso che scocca veleni, non si agita più, non dice più niente
ormai, Iokanaan, quella vipera rossa che ha vomitato su di me il suo veleno. Strano, vero? Come è
mai possibile che quella vipera rossa non si agita più? Non mi hai voluta, Iokanaan. Mi hai respinta.
Mi hai detto cose infami. Mi hai trattata come una cortigiana, come una prostituta, io, Salomé, figlia
di Erodiade, principessa di Giudea! Guarda, Iokanaan, io sono ancora viva, ma tu sei morto e la tua
testa è mia. Posso farne quello che voglio. Posso buttarla ai cani e agli uccelli dell’aria. Ciò che i cani
lasceranno, gli uccelli dell’aria lo mangeranno… Ah, Iokanaan, Iokanaan, sei stato il solo uomo che
io abbia mai amato. Tutti gli altri uomini mi fanno ribrezzo. Ma tu eri bello. Il tuo corpo era una
colonna d’avorio su un piedistallo d’argento. Era un giardino pieno di colombe e di gigli d’argento.
Era una torre d’argento ornata di scudi d’avorio. Non c’era niente al mondo bianco come il tuo
corpo. Non c’era niente al mondo nero come i tuoi capelli. Nel mondo intero non c’era niente rosso
come la tua bocca. La tua voce era un turibolo che spande strani profumi, e quando ti guardavo
sentivo una strana musica! Ah! Perché non mi hai guardato, Iokanaan? Dietro le tue mani e dietro le
tue maledizioni tu hai nascosto il viso. Hai legato sugli occhi la benda di chi vuole veder il suo Dio.
Bene, l’hai visto, il tuo Dio, Iokanaan, ma me… me… non mi hai mai vista. Se mi avessi vista, mi
avresti amata. Io ti ho visto, Iokanaan, e ti ho amato. Oh! Quanto ti ho amato. Ti amo ancora,
Iokanaan. Amo solo te… Ho sete della tua bellezza. Ho fame del tuo corpo. E né il vino, né la frutta
possono appagare il mio desiderio. Cosa farò adesso, Iokanaan? Né i fiumi né le alte mareggiate
potranno spegnere la mia passione. Io ero una principessa, tu mi hai disprezzata. Ero una vergine,
tu mi hai sverginata. Ero casta, tu hai riempito le mie vene di fuoco… Ah! Ah! Perché non mi hai
guardata, Iokanaan. Se mi avessi guardata mi avresti amata. Lo so che mi avresti amata, e il
mistero dell’amore è più grande del mistero della morte. Bisogna guardare soltanto l’amore.
ERODE - È mostruosa, tua figlia, assolutamente mostruosa. Insomma, ciò che ha fatto è un grande
crimine. Sono sicuro che si tratta di un crimine contro un Dio sconosciuto.
ERODIADE - Approvo ciò che mia figlia ha fatto, e adesso voglio rimanere qui.
ERODE - (si alza) Ah! La moglie incestuosa che parla! Vieni! Non voglio rimanere qui. Vieni, ti dico.
Sono sicuro che accadrà una disgrazia. Manassé, Issachar, Ozias, spegnete le torce. Non voglio
guardare queste cose. Non voglio che le cose mi guardino. Spegnete le torce. Nascondete la luna!
Nascondete le stelle! Nascondiamoci nel nostro palazzo, Erodiade. Incomincio ad aver paura. (Gli
schiavi spengono le torce. Le stelle scompaiono. Una grande nube nera passa attraverso la luna e la
nasconde completamente. La scena si fa buissima. Il tetrarca comincia a salire la scala)
VOCE DI SALOMÉ - Ah! Ho baciato la tua bocca, Iokanaan, ho baciato la tua bocca. C’era un acre
sapore sulle tue labbra. Il sapore del sangue? Ma forse era il sapore dell’amore. Dicono che l’amore
ha un acre sapore… Ma cosa importa? Cosa importa? Ho baciato la tua bocca, Iokanaan, ho baciato
la tua bocca. (Un raggio di luna cade su Salomé e la rischiara)
ERODE - (si volta e vede Salomé) Ammazzate quella donna! (I soldati si precipitano e schiacciano
sotto i loro scudi Salomé, figlia di Erodiade, principessa di Giudea)
GENERI LETTERARI
STORIE D’AMORE
Le storie d’amore sembrano essere state raccontate già tutte e, alcune volte, in modo
ineguagliabile. Eppure ci sono continuamente nuove storie d’amore, originali, indimenticabili.
Personaggi
Trovare personaggi originali ma veri.
Anche personaggi che possono apparire incompatibili possono essere protagonisti di una storia
d’amore: La bella e la bestia e i vari succedanei come Il fantasma dell’opera, come Notre Dame de
Paris. La rosa e il Piccolo Principe. Il cinese e la ragazzina francese ne L’amante. Humbert Humbert
e Lolita. Giorgio e Fosca.
Incontro
Evitare la banalità e la genericità. L’incontro deve essere indimenticabile o comunque significativo
per i personaggi coinvolti e quindi per il lettore. Non trascurare i dettagli. Creare suggestioni
attraverso i sensi.
Tipo di amore.
Le emozioni sono molto importanti in una storia d’amore.
Gli amori possono scatenare paura, attrazione, delusione, minaccia ecc.
L’elemento importante in una valida storia d’amore è il carattere dei personaggi coinvolti. La
reazione chimica che si scatena tra gli amanti.
Troppo spesso i romanzi d’amore sono generici.
Si possono scrivere storie d’amore con un bell’intreccio ma se i due personaggi che si amano non
sono convincenti non lo sarà neppure la storia.
Più si conoscono i personaggi descritti più essi saranno universali e i lettori potranno identificarsi
nella loro storia.
C’è una differenza nel creare una storia basata sulla sentimentalità, che attinge i propri personaggi
da un magazzino di figure stereotipate e una storia che si basa sui sentimenti, sui propri, unici,
sentimenti.
I sentimenti nascono da personaggi vivi, ben conosciuti e non da personaggi con emozioni
generalizzate.
Fare del sentimentalismo vuol dire esagerare le emozioni oltre il limite posto dal contesto.
Bisogna essere autentici. Non parlare semplicemente d’amore ma mostrarlo.
Descrizione di un amore: intensità e suggestione (libri di Marguerite Duras e di Lawrence Durrell)
Amori in cui ad amare è solo uno o comunque uno ama più dell’altro (“L’amante” della Duras,
“Justine” di Durrell)
Amore omosessuale (“Morte a Venezia” di Thomas Mann)
Amori platonici (“Quel che resta del giorno” di Ishiguro)
Amore e odio (“Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Edward Albee)
Ostacolo o conflitto
Sappiamo che il conflitto è fondamentale nella narrativa e ancora di più se stiamo scrivendo un
romanzo in cui il tema centrale è l’amore.
“Un uomo incontra una donna” non è abbastanza. La trama sarà “un uomo incontra una donna
ma...” Il “ma” indica gli ostacoli che impediranno all’amore o di consumarsi o di durare.
Ci sono amori che infrangono tabù sociali come “Indovina chi viene a cena” o “Giulietta e Romeo”
o “Abelardo e Eloisa”
Ci sono amori impediti dai legami ufficiali, amori adulterini (“Anna Karenina” di Lev Tolstoj,
“L’amante di Lady Chatterley” di Lawrence, “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne, “Madame
Bovary” di Gustave Flaubert).
Nella società ottocentesca non era concepibile che un amore adultero potesse finire bene. Anna
Karenina e Madame Bovary si uccidono.
Altri ostacoli possono essere gli equivoci, la gelosia. Misteri che si scoprono (“Rebecca”: il
fantasma della prima moglie che la protagonista crede più amata di lei. )
Jane Eyre,lei scopre nel momento in cui sta per sposarsi, che lui è già sposato.
Anche impedimenti fisici: In “Cyrano de Bergerac” di Rostand, l’ostacolo è il naso del protagonista.
Ma lui o lei possono avere un handicap fisico o essere malati o in fin di vita. Per esempio
“Notre Dame” di Victor Hugo. (Quasimodo si innamora di Esmeralda, “Love Story”)
L’impedimento può essere anche la differenza d’età come in “Lolita” di Nabokov.
Fine
La maggior parte delle storie d’amore non ha un lieto fine.
E’ altrettanto importante in un romanzo raccontare un amore quanto raccontare la fine di un
amore.
(Anna Karenina. Giulietta e Romeo. Lettera di Rodolfo in “Madame Bovary” di Flaubert, rimpianti di
in “Viaggio al termine della notte” di Céline)
Celebre la fine di “Dalla parte di Swann”, il primo libro della Recherche di Proust:
“E dire che ho sciupato anni della mia vita, ho desiderato di morire, ho avuto il mio più grande
amore, per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo!”
Bella la fine di un amore ne “Viaggio al termine della notte” di Céline:
“Sono passati degli anni da quella partenza e poi ancora anni... Ho scritto spesso a Detroit e poi
altrove a tutti gli indirizzi che mi ricordavo e dove potevano conoscerla, seguirla Molly. Non ho mai
ricevuto risposta. Il casino è chiuso adesso. E’ tutto quello che ho potuto sapere. Buona, ammirevole
Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono
cambiato per lei, che l’amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole e
dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci
arrangeremo! Ho conservato tanto della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora
per tutti e due e per almeno vent’anni ancora, il tempo di arrivare alla fine.”
GIALLO
Il giallo in Italia si chiama così per il colore della copertina della famosa collezione Mondadori
che parte nel 1929 con “La strana morte del signor Benson” di S.S. Van Dine.
Il giallo è il romanzo poliziesco o l’enigma.
Solo in Italia è connotato da un colore. In Germania si chiama “Romanzo criminale”, nei paesi
anglosassoni è il “Mistery novel” o “Detective story” o “Crime story”; in Francia è “Romanzo
poliziesco” (roman policier). I russi lo chiamano “Romanzo d’investigazione”; i polacchi “Storia a
sensazione”.
C’è chi sostiene che il genere poliziesco abbia avuto inizio nell'Ottocento, negando che se ne
possano individuare le origini in opere precedenti. Non sarebbe stato possibile, infatti, scrivere
polizieschi prima dell'avvento di una polizia organizzata.
Intorno al 400 a.C. la città di TEBE è sconvolta da una terribile pestilenza. Edipo (un avventuriero
dalle origini incerte, divenuto re anni prima) viene a sapere che l'unico modo per salvarla è scoprire
l’assassino di Laio, precedente sovrano ucciso da uno sconosciuto mentre si recava a interpellare
l'oracolo. Improvvisatosi detective, Edipo scoprirà con sgomento di avere ucciso senza saperlo il suo
vero padre (Laio), per una banale lite fra viandanti e di avere conquistato il trono di Tebe sposando
la sua vera madre (Giocasta).
L'Edipo re di Sofocle si svolge intorno a quello che non si può esitare a definire come il più perfetto
dei delitti. L'investigatore è ignaro di essere egli stesso l'uomo che sta cercando.
Il romanzo-enigma presuppone due storie.
La prima è quella del delitto e di ciò che lo ha provocato: è una storia conclusa prima dell’inizio
della seconda ed è in genere assente dal racconto.
E’ necessario quindi passare attraverso la seconda storia, quella dell’indagine, per ricostruirla.
Laura Grimaldi: In Italia si usa definire “giallo” qualunque romanzo che tratti di omicidi, siano
essi risolti o irrisolti, sia la conduzione della storia di taglio classico o moderno.
Anthony Boucher, grande esperto della materia, sosteneva che il genere deve essere suddiviso in
almeno cinque categorie distinte:
il puzzle (l’enigma),
il whodunit (il “chi è stato”),
l’hard-boiled (d’azione),
il pursuit (l’inseguimento)
e il character analysis (il romanzo di analisi psicologica).
E da qui discendono le altre definizioni. Detective story, crime story, mystery, police procedural,
suspense, spy story e thriller (con i suoi sottogeneri di legal thriller, techno-thriller, hostage thriller)
Il puzzle e il whodunit appartengono al giallo.
Il pursuit e l’hard-boiled appartengono al nero.
Il character analysis è un appendice del nero (Patricia Higsmith e Cornell Woolrich).
Il giallo cerca di mettere ordine nel caos mentre il nero è il caos.
Il giallo ha delle regole, il nero no.
Il giallo è una storia d’indagine atta a intrattenere attraverso l’intrigo, presentando al lettore un
enigma e una susseguente soluzione alla quale lo stesso lettore può non aver pensato, ma che
può accettare come logica.
Il noir invece rifiuta le soluzioni lineari, preferendo addentrarsi nella disperazione, nella solitudine
dell’individuo che arriva a uccidere, spesso, quasi come legittima difesa nei confronti di un
mondo che è incapace di capire e del quale non accetta le regole.
Di solito si dice che chi ama l’enigmistica è portato al giallo.
Chi invece è affascinato dal lato più oscuro della mente umana, chi è del parere che almeno in
astratto siamo tutti assassini, chi è interessato alle pulsioni più segrete che stanno dietro a un fatto
di sangue, è portato al noir.
Il nero è un romanzo di città e corpi in sofferenza
Il giallo è un meccanismo di precisione per lettori che amano la meccanica e la precisione.
Il nero è uno sguardo sul mondo reale.
Il giallo è mistero.
Il nero è l’esatto contrario del paradiso.
Il giallo racconta storie costruite sull’intrigo, sull’enigma.
Nel nero, invece, l’elemento decisivo è il modo di raccontare. La storia vive unicamente delle sue
contraddizioni, dei suoi errori, della sua libertà d’iniziativa.
Il giallo sta dalla parte dell’ordine.
Il nero sta dalla parte del disordine.
Il giallo è una costruzione, una logica.
Il nero è un tono, uno stile.
Ci sono poi delle contaminazioni. Pensiamo a Thomas Harris e al suo “Il silenzio degli innocenti”.
Nonostante i personaggi appartengano inequivocabilmente all’oscuro mondo del noir, il rispetto delle
regole della detection è puntiglioso.
Il giallo ha regole che vanno rispettate perché il romanzo abbia una sua fisionomia riconoscibile e
di conseguenza una sua logica anche stilistica, ma anche per onestà nei confronti del lettore, che nel
giallo ripone aspettative assai precise.
Uno o più omicidi, i testimoni, gli indiziati, il movente, il mezzo.
Ma è alla vittima che vanno sempre riferiti i personaggi principali della vicenda.
Un romanzo privo di indagine e quindi di colui che indaga non può essere definito giallo.
Sarà lo scrittore a decidere di quali luci e ombre arricchire il personaggio dell’investigatore e
quello dell’assassino.
Più saranno problematici e più complessi i loro conflitti interiori maggiore sarà lo spessore della
vicenda e più intenso il coinvolgimento del lettore.
Colui che indaga è molto spesso, almeno nei romanzi americani, l’investigatore privato. Ma si può
usare anche il poliziotto, l’avvocato, il giornalista ecc.
Gli indizi. Un bravo giallista offre al lettore gli stessi indizi di cui dispone l’investigatore. La
presenza degli indizi deve essere accorta e ben dosata perché dalla loro disseminazione dipende la
soluzione. Alcuni possono essere anche depistanti, ma in ogni caso tutto dev’essere puntualmente
verificato in sede di revisione.
La red herring è il falso indizio. Nel buon giallo è indispensabile anche se non bisogna abusarne.
(A e B sono ospiti di amici. A viene colpito dal fatto che B esce a mezzanotte con aria furtiva. La
mattina dopo si viene a sapere che è stato commesso un delitto a pochi passi dalla casa, appunto
verso mezzanotte. Nel caos successivo, A dimentica l’uscita di B. Ma non la dimentica il lettore,
anche e soprattutto perché A sembra averla cancellata dalla mente. E punterà i suoi sospetti su B,
che naturalmente non dovrà essere l’assassino. E’ evidente che alla fine si dovrà dare una
spiegazione a quell’uscita notturna e all’aria furtiva di B)
La loose end è una conclusione che rimane in sospeso. E’ un tradimento nei confronti del lettore.
Un buon giallo dovrebbe essere perfettamente circolare, nel senso che tutti i suoi punti dovrebbero
fluire in un’unica curva ininterrotta nella quale inizio e fine combaceranno. Se dovesse contenere
particolari o interrogativi irrisolti, la sua circolarità verrebbe interrotta o deformata.
Ne “Il grande sonno” di Chandler un autista muore e poi l’autore si dimentica di spiegare come e
perché. Quando glielo chiesero Chandler alzò le spalle.
Nel noir non ci sono regole precise. Tutto è ammesso.
La trama prenderà forma e vita attraverso l’insieme di azioni, sentimenti, pensieri e dialoghi che
avremo saputo ideare e che, in qualche modo, dovranno imprimere un nuovo impulso alla vicenda.
Se uno di questi elementi non provocherà nessuna conseguenza e neppure ne sarà oggetto,
risulterà inerte e fine a se stesso.
E’ evidente che più ricca è la trama, con il suo intreccio di azioni e personaggi, e più il romanzo
sarà efficace. Ma anche maggiormente difficile da costruire e condurre.
La trama è inscindibile dai suoi personaggi. Sono loro a renderla dinamica. E più saranno
complessi, più si muoveranno spinti da un qualche conflitto interiore, maggiormente
interessante risulterà la vicenda.
Nessuna idea, nessuna emozione è di per sé una trama. Lo diventa solo quando si trasforma in
azione e causa un qualche effetto. Per dare il via a una trama, una volta trovati la giusta
connessione, il giusto equilibrio, fra azione e pensiero e viceversa, dobbiamo chiederci quale
direzione prenderà la nostra storia.
E’ importante non mettere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra, senza interrogarsi
su ragioni e motivazioni, e sull’inevitabilità del male. Spesso i grandi scrittori riescono a generare nel
lettore una sorta di profonda ambivalenza nei confronti dell’assassino, anche se ha commesso
delitti atroci: in parte ammirazione e in parte repulsione, in parte fascino e in parte indignazione.
(Hannibal Lecter)
Ogni personaggio, anche il meno importante, dovrà essere funzionale ai fatti narrati, sia pure solo
per interromperne la tensione. Organizzare con metodo la trama fin dall’inizio, quindi, ci consentirà
di ottenere un ordito solido e compatto.Non si deve dimenticare che il motore di tutto è il
protagonista.
Simenon: Un personaggio di romanzo è chiunque nella strada, è un uomo,una donna qualunque.
Abbiamo in noi, tutti quanti, tutti gli istinti dell’umanità. Ma di questi istinti, ne freniamo per lo meno
una parte, per onestà, prudenza, educazione, talvolta semplicemente perché non abbiamo
l’occasione di agire diversamente. Il personaggio di romanzo, lui andrà fino al limite di se stesso e il
mio ruolo di romanziere è di metterlo in una situazione tale che vi sia costretto.
E’ importante che il personaggio, buono o cattivo che sia, si riveli da subito con una qualche
caratteristica specifica, che lo renda da subito riconoscibile. Potrà esprimere la sua personalità
attraverso un dialogo o un’azione, e la descrizione fisica potrà venire più avanti, o non venire
affatto.
Ogni personaggio, anche il più marginale, merita la massima cura, il massimo sforzo, e dovrà essere
rappresentato, a tutto tondo.
Più il coro di personaggi che dovranno interagire con il protagonista sarà variegato e complesso,
maggiore risulterà la statura dell’eroe.
Non sempre il personaggio secondario dovrà essere coerente con la psicologia di base che
abbiamo ideato per lui: rischierebbe di risultare appiattito dalla sua stessa prevedibilità.
La buona descrizione caratteriale deve riservare delle sorprese. Poniamo che abbiamo messo in
scena un tipo assai pigro e irascibile, che in una data circostanza esprime all’improvviso grande
attivismo ed estremo controllo. Il subitaneo cambio di comportamento allerterà l’attenzione del
lettore, e la circostanza in cui l’ha espresso apparirà da subito eccezionale.
Esistono poi le trame parallele. Anche la più semplice delle trame parallele, quella ad esempio in ci
vengono descritte a capitoli alterni le azioni dell’investigatore e le contro-azioni dell’assassino, se da
una parte rende il senso della caccia assai più drammatico, dall’altra impone allo scrittore un’acuta
percezione della misura. Dovrà calibrare l’entrata e l’uscita di scena dei due personaggi con il
massimo dell’equilibrio, perché il lettore non dimentichi le emozioni suscitate dal capitolo
precedente e non se ne allontani troppo.
Nessun romanzo come il giallo esige una strategia precisa e preordinata.
La trama e le sottotrame devono essere da una parte ben collegate e dall’altra fluire in modo da non
creare intoppi alla lettura.
Gli elementi sui quali lavorare sono gli stessi che regolano la cronaca nera: quando, dove, chi,
come, perché. Rappresentano gli interrogativi che il lettore di gialli si pone fin dall’inizio e se anche
lo scrittore potrà scomporli o invertirne l’ordine, anticiparne o posticiparne l’uso, non dovrebbe
ignorarne nessuno.
Il giallo in particolare, molto meno il noir, richiede una grande cura per i particolari.
E’ molto utile quindi tracciare una scaletta, la quale altro non è che il riassunto della storia che si
ha in mente, possibilmente già suddivisa in capitoli. E con, a parte, un primo abbozzo dei
personaggi.
Definito questo primo tracciato, bisognerà infittirlo, dotarlo di un qualche significato “altro” e
arricchirlo di sorprese e colpi di scena.
Nei romanzi di suspense sono spesso le prime righe a fornirci l’immediata sensazione di ciò che
stiamo per leggere, dell’atmosfera, delle suggestioni e perfino dei contenuti. E non solo per ciò che
dicono, ma per come lo dicono, per lo stile.
Il consiglio è di iniziare in media res. Se una storia inizia da una scena o da una descrizione
rivelatrici di un dramma già in atto, e se lo stile è adeguato, allora il lettore si sentirà incatenato alla
storia e fra lui e lo scrittore nascerà fin da subito quella corrispondenza, quella sintonia, che possono
determinare il successo di un libro. Se anche non succede niente, il primo capitolo deve contenere
una promessa d’azione.
Molti scrittori ambientano le loro storie nei luoghi che conoscono meglio, nei luoghi della memoria
(la Londra di Conan Doyle, la Parigi della banlieu di Simenon, la Los Angeles di James Ellroy).
Alcuni scrittori operano una scelta puramente tecnica riguardo all’ambiente e spesso rispondono a
un’idea molto convenzionale della coerenza con cui legare luoghi, personaggi e situazioni al tipo di
trama che sta per essere sviluppata.
Alcuni scrittori amano fare un uso eccessivo dei dialoghi, affidando loro la maggior parte dei
significati e delle intenzioni del romanzo. Sono quei dialoghi compiaciuti che proseguono per righe e
righe, nei quali l’autore pensa di riconoscersi in una sorta di irresistibile autocompiacimento
dimenticando che chi lo legge, nel frattempo, prova un insostenibile senso di noia.
Un maestro nell’uso del linguaggio è Georges Simenon. Nei romanzi del commissario Maigret
capita di trovare lunghi periodi descrittivi, poi una sola battuta di dialogo seguita da un altro periodo
descrittivo. Eppure, il lettore sa con esattezza quale dei personaggi in scena ha pronunciato la
battuta e perché. Questo vuol dire che il parlato della storia scaturisce direttamente da ciò che
l’autore ci ha raccontato fino a quel momento, ne fa parte integrante: la battuta può appartenere a
quell’unico personaggio e non ad altri, in quanto intreccio e atmosfera a lui ci portano e solo a lui.
La migliore maestra di dialoghi è la buona lettura.
In un buon romanzo di suspense, la tensione va tenuta alta. Non necessariamente a ogni pagina e
non necessariamente per mezzo di un’azione vera e propria. Spesso un sottinteso o una
promessa che qualcosa sta per accadere può risultare più drammatico di un qualcosa che
realmente accade. Ma quando la promessa si realizzerà, per non deludere le aspettative del lettore
dovrà contenere un forte elemento di sorpresa.
Rileggendo il romanzo ci si dovrà chiedere se siamo riusciti a intrecciare nella vicenda questo filo di
tensione continua che dovrebbe creare il climax e l’anticlimax indispensabili per ottenere questo
scopo.
Bisognerà anche fare altre verifiche. Ho lasciato elementi irrisolti? Ho dato risposta a tutti gli
interrogativi? Se sì, l’ho data al momento giusto? Fornire troppo presto o troppo tardi la spiegazione
a un piccolo o grande mistero può aprire una grave falla nella struttura narrativa.
Cerami: La metonimia è una figura retorica (designazione di una cosa qualsiasi con il nome di
un’altra cosa che sia legata alla prima in un rapporto di reciproca dipendenza: nella frase “bevi un
bicchierino” si nomina il contenente al posto del contenuto), ma in narratologia ha un percorso
particolare. Le due cose compaiono a distanza di luogo e di tempo e il procedimento retorico è
volutamente mascherato. La metonimia narrativa è come una miccia che si accende e che
esploderà più tardi, è un segnale che promette uno sviluppo.
Un piccolo episodio che sembra esaurirsi nel momento, ma che in seguito darà origine a un risvolto
nella narrazione, è appunto una metonimia. (Se in una storia compare una boccia di veleno,
possiamo star sicuri che più avanti risalterà fuori; se un bambino vede di nascosto il padre che infila
una rivoltella in un cassetto, sembra ombra di dubbio arriverà il momento in cui il bambino prenderà
in mano quella rivoltella.)
Il racconto giallo, così ricco di indizi seminati qua e là, è fortemente metonimico.
Possiamo caratterizzare il poliziesco per la sua focalizzazione su un delitto grave, giuridicamente
riprovevole. Il suo fine è, secondo i casi, sapere chi ha commesso il delitto e come (romanzoenigma), prevalere su chi lo commette (romanzo noir), evitarlo (romanzo di suspence)
Uno degli elementi chiave nei polizieschi classici è l'ambiente chiuso: ne "I delitti della Via
Morgue" di Poe, la stanza in cui vengono commessi i delitti è addirittura "serrata" (ma Dupin riesce
a dimostrare che una finestra che pare inespugnabile in realtà può essere aperta e richiusa
facilmente).
Il mistero della stanza chiusa dall'interno ha attirato l'interesse di moltissimi scrittori (da Leroux a
Futrelle, da Chesterton a Van Dine, Ellery Queen, Agatha Christie...).
Quello dell'ambiente chiuso è sempre un elemento cruciale nel poliziesco classico. L'ambiente in
questione può infatti non essere quello di una singola stanza. Magari è un circolo, il chiostro di una
cattedrale, l'isola privata di un miliardario... - tutte alternative al piccolo villaggio inglese, St Mary
Mead, immortalato nelle storie che hanno per protagonista Miss Marple. Insomma uno spazio
circoscritto in cui valgono codici di comportamento specifici; e quando si penetra il codice
profondo che regola i rapporti all'interno di quel dato ambiente, si dispone della "chiave" per
entrare e uscire - e si risolve il mistero.
Poe è considerato il padre del romanzo poliziesco per i racconti I delitti della via Morgue, Il
mistero di Marie Roget, La lettera rubata, Lo scarabeo d’oro e Tu sei il colpevole!. In essi Poe ha
anticipato ogni possibile motivo tematico del romanzo poliziesco. Per esempio l’introduzione
di una nuova figura di eroe letterario, il detective; il procedimento razionale e deduttivo
impiegato per risolvere l’enigma, un crimine commesso in un ambiente chiuso e apparentemente
impenetrabile; la primalità nel plot della descrizione della detection; il confronto tra il detective
dilettante e la polizia ufficiale; la presenza di un narratore totalmente estraneo agli eventi, con
gli occhi del quale seguiamo la vicenda.
Jean Claude Vareille: il colpo di genio di Poe, fondatore del genere (romanzo poliziesco) è di aver
capito che il ragionamento in quanto tale, ovvero la successione di deduzioni e induzioni
possedeva da solo un interesse drammatico che poteva diventare da solo l’essenziale della storia.
Dai racconti di Poe sono state rilevate alcune regole fondamentali per il romanzo giallo:
- Il caso che costituisce la base del racconto è un mistero apparentemente inesplicabile.
- Uno o due personaggi, simultaneamente o successivamente, vengono considerati, a torto,
colpevoli, perché indizi superficiali sembrano designarli tali.
- Una minuziosa osservazione dei fatti, materiali e psicologici, seguita dall’esame delle
testimonianze e, soprattutto, da un rigoroso ragionamento, trionfano su tutte le teorie affrettate.
Colui che compie un’analisi non indovina: ragiona e osserva.
- La soluzione, che concorda perfettamente con i fatti, è assolutamente imprevista.
- Quando sono state eliminate tutte le soluzioni impossibili, quella che rimane, anche se in un
primo momento può sembrare incredibile, è la soluzione giusta.
NOIR
La narrativa nera o del brivido nasce intorno agli anni '30, e si sviluppa grazie al cinema americano
e francese degli anni '40, '50 e '60,
Qualcuno individua nel triangolo diabolico il baricentro del genere noir. Lui, lei, l’altro o l’altra.
Il postino suona sempre due volte, La fiamma del peccato (titolo originale Double Indemnity da cui
fu tratto un capolavoro cinematografico, diretto da Billy Wilder e sceneggiato addirittura da
Raymond Chandler) e Ascensore per il patibolo (anche questo romanzo è stato oggetto di un
bellissimo film di Luis Malle).
I primi due rappresentativi del noir americano, l’altro del noir francese.
Ma storie del genere c’erano sempre state in letteratura: Teresa Raquin di E. Zola.
Possiamo considerare la Bibbia il primo libro noir, la prima raccolta di storie criminali. Si inizia
subito con Caino che uccide Abele.
Seguono l'Iliade e l'Odissea, due altre straordinarie antologie noir, repertori dei crimini più vari e
atroci.
L’ Edipo re di Sofocle, è il primo romanzo noir. Patrick Raynal, direttore della più famosa collana di
noir del mondo, la Série noire di Gallimard, ha affermato nel 1995, in un intervento pubblicato dalla
rivista "Les Temps Modernes": "Se definiamo sommariamente la scrittura nera, l'ispirazione nera,
come uno sguardo sul mondo, uno sguardo sul lato oscuro, opaco, criminale del mondo,
attraversato dal sentimento intenso della fatalità che portiamo in noi per il fatto che l'unica cosa che
veramente sappiamo è che moriremo, allora, effettivamente, io dico che Edipo è il primo romanzo
noir".
L'Inferno di Dante, grandiosa galleria di crimini e criminali.
Il genere Noir nasce e si sviluppa insieme alla moderna civiltà industriale.
In Francia le storie di crimine erano edite da Gallimard in una collana che si chiamava serie noire
ed aveva copertine gialle e nere. In Italia si è arrivati a usare questi due colori per distinguere il
giallo (rassicurante, basato sulla soluzione di un caso) e il noir (inquietante, basato sul crimine e
sulle esperienze dei personaggi che l’hanno commesso o che cercano di trovare il colpevole).
Il noir non è un genere in cui ci sono veri eroi trionfatori, come succede nei romanzi avventurosi.
Victor Hugo scrive: "L'uomo che non medita vive nella cecità. L'uomo che medita vive nell'oscurità.
Non abbiamo altra scelta che il nero".
Sandro Ferri (editore E/O): E’ prima in America che nasce il genere particolare di letteratura
poliziesca che definiamo "noir". La definizione è evidentemente francese, ma è successiva (a partire
dagli anni Cinquanta) alla pubblicazione e al successo dei primi grandi romanzi noir negli Stati Uniti.
Chandler e Hammett sono i caposcuola di questo genere (che gli americani chiamano hard-boiled)
che rovescia e sovverte i canoni del giallo tradizionale alla Agatha Christie. Nei loro romanzi non c'è
più il poliziotto o l'investigatore che risolve l'enigma e rimette tutto in ordine. Qui il caos regna
prima e dopo, indipendentemente dall'esito dell'inchiesta, perché l'autore è consapevole che le
regole del mondo esterno sono quelle della prevaricazione, dell'ingiustizia, della violenza. Tutto ciò
corrisponde alla presa di coscienza di una realtà creata e manipolata da un capitalismo spietato,
dove i confini tra legalità e illegalità sfumano, con lo sviluppo di grandi metropoli, vere giungle
d'asfalto, ai cui margini vive una massa d'individui poveri, disperati, pronti a tutto pur di
sopravvivere.
Valerio Evangelisti: il noir, prima negli Stati Uniti
e poi nel resto del mondo, cessa di
rappresentare una narrativa di evasione e diviene la letteratura del proprio tempo, pulsante al suo
ritmo e macchiata di sangue come il reale in cui è immersa. La sua cifra è il pessimismo; la sua
arma una disincantata sincerità. E spesso dietro questi sentimenti si cela l'indignazione morale di
uno scrittore che avrebbe voluto rovesciare il mondo, ma che, non essendovi riuscito, deve limitarsi
a descriverlo ponendone in evidenza le aberrazioni.
Lia Volpatti: Non sempre violenza e azione sono connotazioni del “nero” perché dove c’è il nero c’è
spesso più che altro rassegnazione, disperazione, autodistruzione, non voglia di lottare bensì di
cedere e di lasciarsi andare.
Ne La tipologia del romanzo poliziesco Todorov definisce il noir in relazione al romanzo-enigma in
questo modo: Non c'è più una storia da indovinare e non vi è mistero, come nel romanzoenigma. Ma l'interesse del lettore non viene meno comunque: ci si rende allora conto che
esistono due forme completamente differenti di interesse. La prima può essere chiamata
curiosità e va dall'effetto alla causa: a partire da un certo risultato (un cadavere e qualche
indizio), bisogna risalire alla causa (il colpevole e ciò che lo ha spinto al delitto). La
seconda forma è la suspense e, in questo caso, si va dalla causa all'effetto: dapprima ci
vengono mostrati degli elementi iniziali (dei gangsters che preparano un colpo) e il nostro
interesse è sostenuto dall'attesa di ciò che avverrà, cioè degli effetti (cadaveri, delitti,
baruffe). Questo tipo di interesse era inconcepibile nel romanzo-enigma, poiché i suoi
personaggi principali (il detective e il suo amico, il narratore) erano, per definizione,
immuni, nulla poteva accadere loro. La situazione si capovolge nel romanzo noir: tutto è
possibile e il detective rischia la sua incolumità se non la vita.
Il romanzo noir può - contrariamente al romanzo-enigma - realizzare insieme racconto del delitto e
racconto dell'indagine, arrivando perfino a eliminare il secondo e a centrarsi, per esempio,
sull'assassino e sulla sua storia. Il delitto può accadere in ogni momento ma se ne può vedere la
preparazione o anche la ripetizione. Ciò permette una grande varietà di schemi.
Il gioco intellettuale e cognitivo del romanzo-enigma lascia allora il posto all'emozione e
all'identificazione, inserendo il noir nella tradizione del romanzo d'avventure (il che non esclude un
interesse complementare per la dimensione sociale). Sono proprio le avventure, i personaggi e
l'universo rappresentato che ci appassionano. Corpo e fisico sono onnipresenti.. Chi vincerà? A quale
prezzo? Che succederà? Come andrà a finire?
Vi sono varie possibilità: il lettore ne sa quanto l'investigatore (se esiste), di più o di meno.
Il sapere è sostanzialmente al servizio della drammatizzazione. Dapprima risvegliando la curiosità
del lettore (con eventi o personaggi misteriosi), poi angosciandolo (per le conseguenze di una certa
azione), infine rendendo possibili colpi di scena attraverso la dissimulazione di informazioni
importanti nello svolgimento della storia.
Vi sono due forme narrative che dominano il noir, e sono entrambe molto lontane dal racconto
fatto dal narratore onnisciente. Nella prima la storia è resa nota attraverso il discorso del
protagonista (investigatore, criminale o vittima che sia) oppure attraverso quello di vari
personaggi secondo la loro prospettiva: la narrazione è in terza persona in prima persona e la
prospettiva è «interna». Il lettore sa
ciò che sa il personaggio, il che favorisce il processo di
identificazione e l'effetto dei colpi di scena. Nella seconda la storia è raccontata da un narratore
nascosto e neutro che si accontenta di "registrare" eventi o personaggi dall'esterno, e che sembra
saperne meno dei personaggi. Lo stile di questa forma è stato definito "behaviorista" perché in
teoria non si sa mai cosa passa per la testa dei personaggi ma se ne vedono soltanto i
comportamenti. Questo tipo di scrittura, utilizzato da Hemingway o da Hammett, ha mantenuto una
grande influenza fino ad oggi. In ogni caso, in entrambe queste forme narrative il mondo che i
personaggi si trovano di fronte è sottoposto a una continua interrogazione critica. E un mondo ormai
senza logica, percorso da uno sguardo che lo contesta o addirittura senza nessuno sguardo.
Nel romanzo noir la violenza e l'azione hanno un ruolo essenziale. Le uccisioni talvolta sono
descritte minuziosamente e con dovizia di dettagli macabri. Il rischio e la morte sono sempre
presenti, sono elementi del quotidiano, sono la norma nell'universo rappresentato in questo tipo di
romanzo.
Le scene classiche, molto diverse, ne portano l'impronta: scene di scontri, di interrogatori violenti, di
scazzottate, di inseguimenti o assassini, oppure, appena differenti, di passione o di erotismo. I
dialoghi portano i segni della lotta e dei rapporti di forza: minacce o insulti sprezzanti lo
testimoniano.
Anche i vari scenari possibili sono molto diversi tra loro: storie di vite (specialmente di gangsters)
quasi vere e proprie biografie, sanguinose epopee, risse, delitti, truffe, delinquenza giovanile, studi
di casi, città corrotte, innocenti vittime di complotti, storie di razzismo, vicoli ciechi, killer che
vogliono smettere ecc. La duttilità della struttura insieme all'importanza del mondo referenziale,
permette di generare una moltitudine di storie.
Un ruolo importante, anche se sottovalutato, è dato alla descrizione (sia delle città che dei
personaggi) e ai dettagli. Scrive R. Chandler in una lettera del 1948:
Molto tempo fa, quando scrivevo per le pulp, in un racconto misi una frase del genere: "Smontò
dalla macchina, attraversò il marciapiede inondato di sole, finché l'ombra del tendone sopra
l'ingresso gli tagliò il viso col tocco dell'acqua gelida". Quando pubblicarono il racconto eliminarono
questa frase. I loro lettori queste cose non le apprezzavano: servivano soltanto a rallentare l'azione.
Mi disposi allora a dimostrare che sbagliavano. La mia teoria era che in effetti i lettori credevano di
interessarsi soltanto all'azione; ma in effetti, anche se non lo sapevano, ciò che gli interessava, e
interessava me, erano le emozioni create attraverso i dialoghi e le descrizioni. Le cose che
ricordavano, quelle che gli restavano impresse non erano, per esempio, il fatto che un uomo venisse
ucciso, ma piuttosto che, nel momento di morire, quell'uomo stava cercando di raccogliere sul lucido
piano di una scrivania della scrivania un fermaglio che continuava a sfuggirgli di mano, cosicché
c'era un'espressione di tensione sul suo viso e la bocca era dischiusa in una specie di ghigno
tormentato, e al tempo stesso l'ultima cosa al mondo alla quale pensava era appunto la morte. Non
l'aveva neppure sentita bussare alla porta. Quel maledetto fermaglio continuava a sfuggirgli di tra le
dita.
Il realismo dei personaggi
Nel romanzo noir i personaggi sono delle vere "incarnazioni": possiedono una psicologia, sono fatti
di carne e sangue, devono poter catalizzare le identificazioni e le emozioni del lettore. In alcuni
romanzi - specialmente per i perdenti, gli assassini o gli squilibrati - il romanzo diventa lo studio di
un caso. Possiamo notare che vi sono due direzioni privilegiate nella costruzione dei personaggi:
l'opposizione tra personaggi "buoni" e cattivi" oppure il conflitto tra i valori di alcuni protagonisti
(specialmente i detectives privati) e un mondo "degradato" che ha perduto tutti i valori.
In ogni caso i personaggi possono essere, e sono realmente, della più varia estrazione. Più che un
romanzo dei bassifondi o delle realtà marginali, il noir è il romanzo della miscela sociale.
Mai costretti da una struttura rigida, i personaggi possono essere molto numerosi, differenti
psicologicamente e nel modo di parlare, comparire anche alla fine del romanzo ed evolversi e
trasformarsi nel corso della storia.
I personaggi del noir sono sempre stati emblemi importanti nell'immaginario collettivo, tanto da dar
vita a veri tipi mitologici della nostra cultura: loser, detective privato, vamp, killer, poliziotto
corrotto, politico losco.
I personaggi più tipici del noir sono i loser, i perdenti. Popolano questo mondo e
contribuiscono a dargli un tono pessimista. La morte o è la logica conclusione di una vita segnata
dalla sfortuna oppure è meglio della vita stessa. I romanzi di McCoy, Goodis o Thompson lo
testimoniano in modo esemplare. Spesso la conclusione dei romanzi lo mostra chiaramente; si pensi
a J.M. Cain ne Il postino suona sempre due volte o a D. Goodis ne Lo scassinatore.
Le vittime
La vittima è un personaggio essenziale del romanzo noir nel quale tutti rischiano la vita a ogni
istante. Ce ne può essere una sola o più d'una; può appartenere al presente della storia come al
passato o al futuro.
Non necessariamente ha un ruolo sociale importante. Se non lo ha può però mettere in luce una
serie di vittime altrimenti ignorate o non correlate tra loro. Può essere "innocente" (errori, equivoci,
scambi) o implicata nella corruzione circostante, volontariamente o meno, con maggiore o minore
responsabilità.
Quello della vittima è un ruolo che può capitare in sorte a tutti perché tutti rischiano la vita. Capita
ai testimoni come ai detectives ma anche agli assassini. E un ruolo che in realtà è già toccato in
sorte a tutti. Perché - ed è una delle caratteristiche essenziali del romanzo noir e della sua visione
critica - quasi tutti i personaggi (assassini compresi) sono stati vittime della miseria, della
corruzione o della famiglia quando erano bambini.
Eroe e antieroe
Il protagonista non è necessariamente un investigatore ma può essere anche un
assassino o un innocente che qualcuno tenta di incastrare. Se è un investigatore può essere
un detective privato, un poliziotto, un avvocato, un giornalista o anche un privato cittadino. Spesso
figura ambigua, è vicino all'antieroe: si costituisce più nel conflitto e nello scontro che nella
risoluzione di un enigma.
Accanto all'avvocato e al giornalista è il detective privato però che resta il mito, la figura
emblematica del romanzo noir. Ecco alcune delle sue caratteristiche più importanti. la sua ricerca è
subordinata all'azione. Si sposta continuamente, mette la sua vita in pericolo, fa scoppiare conflitti
ed è un catalizzatore di situazioni.
Il detective privato non è mai sottomesso al potere sociale; è un solitario, lontano dalle istituzioni
e spesso in conflitto con queste (anche se vi ha fatto parte o se vi mantiene degli amici); a queste
contesta l'incapacità e, talvolta, la corruzione. Da questo punto di vista è una specie di intermediario
tra giustizia e morale. Questa distanza-opposizione ha anche una funzione narrativa: libero
nell'azione e negli spostamenti, indipendente dai legami delle leggi o dei superiori, ha maggiore
libertà di azione. E infatti si muove dappertutto alla ricerca di informazioni (al contrario del detective
da poltrona) e percorre tutti gli strati sociali. Per questo suo lato può essere considerato come un
successore dell'eroe picaro.
Se è vero che accetta incarichi per denaro è anche vero che via via che le indagini si sviluppano,
diventano un affare personale: di amicizia, d'amore o di onore. Perché in questo mondo degradato,
e dietro l'apparenza di cinismo e disincanto, resta un uomo di valori.
Il detective privato deve avere una buona forma fisica: capitano spesso scontri con gli uomini
e rapporti sessuali con le donne. Così facendo, d'altronde, ottiene indizi e confessioni anche se, in
entrambi i casi, procede a rischio di ferite (fisiche o sentimentali) o di morte.
I suoi metodi sono più legati al fisico che razionali. Tenta dei colpi di mano, scompagina
l'ambiente intorno a lui, vi si introduce, scuote gli uomini, seduce le donne, spia, consulta i suoi
informatori o stringe patti a volte poco edificanti. Spesso, specie all'inizio, procede a tentoni; per
esempio, nel racconto La morte del dottor Estep di Hammett, il detective privato dice: «Ammetto
di avanzare alla cieca, ma come vedo un punto di luce, mi ci precipito e, in fin dei conti,
prima o poi arriverò alla luce». Per molto tempo il puzzle resta irrisolto (come il mondo che ha
perduto senso); il detective privato sa che la soluzione è là, a portata di mano, che ha solo
dimenticato un elemento essenziale, come in un sogno o in un'amnesia momentanea. Infine, grazie
a una parola o a un evento, scocca la scintilla, il quadro si illumina, il puzzle si ricostituisce, anche
se talvolta accade troppo tardi.
I suoi rapporti con gli assassini sono spesso ambigui. Anche se li combatte e li odia, talvolta è
cresciuto nel loro stesso ambiente. Come loro cresce ai margini della società e condivide linguaggio,
comportamenti e anche valori (virilità, individualismo, professionalità). Di certo è più prossimo a
loro che non agli operai, agli impiegati, ai borghesi.
Il detective privato è quasi sempre solo: la solitudine è una condizione della sua autonomia ma
anche la conseguenza della rottura con la società di cui non accetta la corruzione e disapprova i
valori, della sua lotta infinita contro il male ma anche di un'antica ferita interna. Questo lupo
solitario e ferito è un morto in piedi alla ricerca di una favola impossibile.
Assassini
Nel romanzo noir tutti possono essere assassini (persone inizialmente innocenti, detective,
poliziotti...). Non è tanto il segno della volontà di sviare il lettore quanto l'indicazione di una
familiarità con la violenza, individuale o collettiva, e perciò stesso indice di una critica a una società
ormai pervasa dalla violenza.
Infatti i delitti, accaduti o ancora da realizzare, non sono eventi isolati. Si inseriscono nel
meccanismo del funzionamento sociale, che siano eseguiti da professionisti, da organizzazioni
criminali, da assassini al soldo delle istituzioni, da serial killer psicopatici. E altrettanto variano i
modi di realizzazione del delitto: dall'azione psicologica al mortaio...
La soluzione della storia
Se il castigo è incompiuto, testimonia ancora una volta il fallimento della società. Se è compiuto dal
detective privato o da un suo sostituto allora esplicita la natura implacabile alla base della lotta e
anche l'assenza di fiducia nelle istituzioni incaricate di fare giustizia. Se è delegato a queste stesse
istituzioni, è sentito solo come un momento di tregua in una guerra senza fine.
Il ritorno a un ordine sereno è una vana speranza. In modo complementare la ricompensa, se
arriva, lascia l'amaro in bocca. Nessuno esce integro, senza ferite da questo combattimento
implacabile. La perdita è sia finanziaria (il detective privato ha le mani bucate e non si arricchisce
mai) sia sentimentale (la gioia dura un istante, il privato passa avanti a malincuore, il che è anche
una condizione della sua ricerca e della sua autonomia). Il detective privato rappresentato da Paul
Benjamin in Gioco suicida, ci racconta chiaramente questa dimensione: “Quello dell'investigatore
è un lavoro sporco, ma il crimine è più sporco, perciò è meglio chiarire alle persone che
anche se le aiuti, qualche graffio se lo procureranno. In questo gioco non vince nessuno e
tutti perdono. L'unica differenza è che qualcuno perde più degli altri.
SPESSO NEL NOIR MANCA IL LIETO FINE
“Il marciapiede era terribilmente freddo e il vento umido che veniva dal fiume saettava nei loro volti.
Ma la cosa non aveva la minima importanza. Se ne stavano seduti là, continuando a passarsi la
bottiglia di mano in mano, e non c’era più niente che importasse, ormai. Proprio niente.”
(David
Goodis: Strada senza ritorno)
“Avrebbe voluto farle comprendere che anche lui desiderava portarla via, ma non poteva perché
adesso gli era impossibile provare la sua innocenza e avrebbero dovuto sempre fuggire, e se anche
la strada era larga, era però buia e aspra e senza alcuna certezza.”
(David Goodis: Giungla
umana)
Se pensiamo alla chiarezza che prevale alla fine del romanzo enigma, essa è assai più rara nel noir,
con i suoi intrighi molto complessi e le soluzioni ambigue, che lasciano larghe zone d'ombra intorno
a loro.
Il mondo del noir, contrariamente a quello del romanzo-enigma, è fondamentalmente
aperto. Spazialmente da una parte: sono frequenti spostamenti, inseguimenti e viaggi.
Temporalmente dall'altra: la storia del libro può durare molto tempo in confronto alla storia sociale o
anche "fare ritorno" dopo anni (tema della vendetta). Socialmente infine perché, come nel romanzo
picaresco, i personaggi passano attraverso tutti gli ambienti e gli strati sociali, dall'alto in basso e
dal centro alla periferia, e viceversa.
E’ un mondo - tranne alcune eccezioni - fondamentalmente urbano. La città, simbolo della
modernità, di mobilità fisica e sociale, di apertura di possibilità lecite e illecite, raffigura e concentra
questo universo. Ed affascina gli scrittori. La violenza è un elemento costitutivo della giungla
urbana, esiste già prima dell'inizio dell'azione e continuerà ad esserci dopo la sua soluzione (ed è
anche, semplicemente, un mezzo di sopravvivenza). La città e la violenza acquistano piena
esistenza al calar della notte, la compresenza e l'alleanza di questi tre elementi è fondante per il noir
(come ci ha magnificamente mostrato il cinema) e ha dato vita a immagini straordinarie come
l’incipit di Anonima Assassini di James Eastwood: “Quasi le due del mattino. La città
dorme... la città con i suoi alti grattacieli, chiari e compatti, con i contorni vagamente
visibili sul cielo notturno... La città dalle strade vuote, così vuote che diventa un'eco
brutale il rumore di un'automobile in ritardo... La città, con le insegne intermittenti, rosse
e bianche, che fanno l'occhiolino ai fantasmi... giungla di pietra, creata dall'uomo, a
quest'ora disertata dall'uomo... Sfondo montato, sembra, per una visione da incubo...”
È un universo pervaso dalle storie politiche e sociali. Fatti di cronaca o storie di banditismo
sono assai diffuse, come sono spesso evocati i legami tra economia, politica e grande criminalità.
Sono largamente descritte le relazioni con il potere, la corruzione nelle città, il razzismo e la
delinquenza giovanile... I personaggi portano i segni delle guerre precedenti (Corea,
Vietnam, Algeria...).
Si inserisce, fin dalla sua nascita, nel realismo come lo intendeva Chandler in questo
celebre omaggio a D. H ammett:
Hammett ha tolto il delitto dal vaso di cristallo e l'ha gettato nei vicoli… Hammett da
principio, e fin quasi alla fine, scrisse per le persone che prendevano la vita di petto,
aggressivamente. Queste persone non avevano paura dei lati neri dell'esistenza; erano
vecchie conoscenze per loro. La violenza non li sgomentava: era ordinaria
amministrazione, nel loro quartiere. Hammett restituì il delitto alla gente che lo commette
per ragioni vere e solide, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori, e lo fece
compiere con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci
tropicali. Mise sulla carta i suoi personaggi com'erano e li fece parlare e pensare nella
lingua che si usa, di solito, per questi scopi.
Questo desiderio di realismo e questa invasione dell'ambito socio-politico non devono far
dimenticare che i personaggi si interrogano continuamente sul senso del mondo, sul senso
dell'esistenza e su quello della loro vita. Di conseguenza l'intrigo è spesso una ricerca di sé,
un'indagine sulla propria identità.
Il noir usa un modello aperto. È molto meno rigido di quello del romanzo-enigma. D'altra
parte non è mai stato codificato attraverso un sistema di regole. Permette così realizzazioni molto
diverse tra loro come il romanzo d'azione, lo studio psicologico o il romanzo di ricerca. Non è certo
un caso se sempre più autori passano dal romanzo noir a quello "letterario" e si moltiplicano i
passaggi di autori da un editore all'altro o da una collana all'altra.
Questo modello permette sempre nuove evoluzioni: di ambienti, di personaggi, di intrighi. Per
spiegare questa duttilità è importante considerare anche il desiderio di rappresentare il contesto
storico-sociale. Inoltre si è rivelato un modello particolarmente adatto a riprodursi in altri
media.
Lo stile dei romanzi noir ha sollevato domande tanto quanto ha prodotto studi importanti.
Dapprima sono state lodate la rapidità e l'efficacia del genere come i suoi dialoghi realistici che
suscitavano l'ammirazione di Gide.
Per via della sua struttura più duttile, il noir è sentito come luogo di sperimentazione. E gli scrittori,
anche se uniti da una comune preoccupazione per la precisione, nella pratica dimostrano stili molto
diversi.
INCIPIT
EDGAR ALLAN POE (1809 - 1849)
Noir
Il gatto nero
Riguardo a questa stranissima e tuttavia comunissima storia, che mi accingo a scrivere, non
aspetto, né pretendo che mi si creda; sarei veramente pazzo se me lo aspettassi in un caso in cui i
miei stessi sensi rifiutano la propria testimonianza; eppure non sono pazzo e sicuramente non
sogno, ma domani io morirò e oggi voglio alleggerire la mia anima. Il mio scopo immediato è di
mostrare a tutti chiaramente, succintamente e senza commenti, una serie di semplici avvenimenti
domestici, che nelle loro conseguenze mi hanno atterrito, torturato, distrutto; non tenterò tuttavia
di spiegarli; per me hanno offerto solo orrore, ad altri sembreranno meno terribili che "barocchi".
Una discesa nel maelström
Avevamo ora raggiunto la sommità della cima più elevata; per alcuni minuti il vecchio sembrò
troppo spossato per parlare.
- Non molto tempo fa - disse alla fine - avrei potuto guidarvi su per questa via tanto bene quanto il
più giovane dei miei figli, ma, circa tre anni fa, mi è capitata un'avventura, non mai prima toccata
ad un essere mortale, o almeno quale nessuno, sopravvissuto, poté raccontare... e le sei ore di
mortale terrore che allora sopportai mi hanno spezzato il corpo e l'anima.
Il diavolo nel campanile
Tutti vagamente sanno che il più bel posto del mondo è, o almeno era, il borgo olandese di
Vondervotteimittiss. Ma, poiché sorge ad una certa distanza dalle vie maestre e poiché si trova, in
un certo qual modo, in una posizione remota, forse solo pochissimi miei lettori l'avranno visitata.
Quindi, per soddisfare la curiosità di coloro che non l'hanno mai vista, io credo opportuno dirne
qualcosa in particolare, e ciò è veramente ancor più necessario, in quanto proprio con la speranza di
guadagnare la simpatia del pubblico in favore dei suoi abitanti, io mi propongo qui di raccontare i
disastrosi fatti che di recente sono avvenuti entro i suoi confini.
La caduta della Casa Usher
Durante un'intera giornata d'autunno, fosca, oscura e silenziosa, in cui le nuvole, basse nel cielo,
formavano come una cappa di piombo, avevo attraversato, da solo, a cavallo una landa
straordinariamente tetra, e alla fine, mentre calavano le ombre della sera, mi trovai in vista della
malinconica Casa Usher; non so dire come... ma, alla prima occhiata che diedi alla costruzione, un
sentimento d'insopportabile tristezza penetrò nel mio animo; dico insopportabile, poiché essa non
era mitigata da nessuno di quei sentimenti quasi piacevoli, perché poetici, con cui il nostro spirito di
solito accoglie anche le più cupe immagini naturali della desolazione e del terrore.
Ligeia
Sull'anima mia, non riesco proprio a ricordarmi quando, e neppure, con precisione, dove conobbi
Lady Ligeia: lunghi anni sono da allora passati e la lunga sofferenza ha indebolito la mia memoria o
forse adesso non riesco a richiamare tutto alla mente, perché, in verità, il carattere della mia amata,
la sua rara cultura, il suo tipo di bellezza così singolare e pure così tranquillo, la penetrante e
affascinante eloquenza della sua profonda voce musicale si fecero strada nel mio cuore con passi
così sicuri, così costanti e furtivi da restar inosservati e ignorati. Tuttavia credo di averla incontrata
per la prima volta e poi parecchie altre in una grande, vecchia città in rovina sulle rive del Reno.
L'uomo della folla
È stato detto bene di un certo libro tedesco che non si lascia leggere. Vi sono taluni segreti che non
si possono dire; ci sono uomini che di notte muoiono nei loro letti, stringendo le mani di spettri, che
li confessano, e guardandoli miserabilmente negli occhi... muoiono con la disperazione nel cuore e la
gola serrata per l'orrore di misteri che non sopportano di essere rivelati; di tanto in tanto, ohimè!, la
coscienza dell'uomo porta un fardello d'infamia così pesante che può deporlo solo nella tomba: e
così l'essenza di tutto il delitto non viene conosciuta.
Il pozzo e il pendolo
Ero sfinito, sfinito mortalmente da quella lunga agonia, e quando alla fine mi sciolsero e mi
permisero di sedere, sentii che i sensi mi abbandonavano. La sentenza, la spaventosa sentenza di
morte, fu l'ultima cosa che con chiarezza giunse alle mie orecchie. Dopo di questo, il suono delle
voci degli Inquisitori mi sembrò sommerso in un mormorio indefinito di sogno, che suggeriva alla
mia anima l'idea della rotazione, forse perché le associavo, nella fantasia, con la macina di un
mulino.
Il cuore rivelatore
È la verità! Sono nervoso, sono stato e sono molto, molto, terribilmente nervoso; ma perché volete
dire che sono un pazzo? Il male ha affinato i miei sensi, non distrutti, non annientati. Più di
chiunque altro avevo avuto acuto il senso dell'udito. Ho ascoltato tutte le voci del cielo e della terra.
Molte ne ho intese dall'inferno. Per questo sono pazzo? Uditemi! e osservate con che precisione, con
che calma io posso narrarvi tutta la storia.
Non è possibile dirvi come in principio l'idea entrò nel mio cervello; ma una volta concepita, essa mi
possedé giorno e notte. Non v'era né scopo né passione. Io amavo il vecchio, non mi aveva mai
colpito. Non mi aveva mai insultato. Non desideravo affatto il suo oro.
Gialli
Lo scarabeo d'oro
Molti anni fa mi legai in stretta amicizia con un certo signor Guglielmo Legrand, che discendeva da
un'antica famiglia ugonotta ed un tempo era stato molto ricco, ma una serie di sventure l'avevano
ridotto in miseria. Per evitare l'umiliazione che era derivata dalla sua disgrazia, aveva lasciato
Nuova Orleans, la città dei suoi avi, e si era stabilito nell'isola di Sullivan, presso Charleston, nella
Carolina del Sud. Quest'isola è una delle più strane: non consiste quasi di altro che di sabbia marina
ed è lunga circa tre miglia; è separata dalla terraferma da un canale appena visibile che si apre la
via attraverso una distesa desolata di canne e di melma, ritrovo favorito di galline di palude.
I delitti della Via Morgue
Le facoltà mentali che sono chiamate analitiche sono, di per sé, poco suscettibili di analisi; le
valutiamo esattamente solo nei loro risultati; tra l'altro, sappiamo che per coloro che le possiedono
sono una fonte di vivissima gioia. Come l'uomo forte si rallegra della sua abilità fisica dilettandosi in
quegli esercizi che mettono in azione i muscoli, così un uomo di mente analitica si gloria di
quell'attività spirituale che sa districare e trova piacere anche nelle più comuni occupazioni che
fanno entrare in azione il suo talento; va pazzo per gli enigmi, gli indovinelli, i geroglifici, mostrando
nella soluzione di ognuno un acume che alle persone normali sembra soprannaturale; i risultati
ottenuti attraverso l'essenza, l'anima stessa del metodo, hanno, in verità tutta l'aria di una
intuizione.
Chandler, in un saggio dal titolo ‘’La Semplice Arte del Delitto’’, apparso sulla rivista ’’The
Atlantic Monthly’’ nel 1944, polemizza con il poliziesco analitico rappresentato dalla scrittrice inglese
Agatha Christie, sostenendo che occorre sottrarre il delitto ai dilettanti e restituirlo agli addetti ai
lavori.
I fautori del romanzo di investigazione inglese risposero a queste accuse sostenendo che dopotutto
c’è più realtà nelle storia di Agatha Christie che in quelle di Chandler, le cui trame sono spesso
convulse e contorte.
“Di solito chi sa impostare trame lucide e solide non è poi in grado di fornire personaggi vivaci e
dialogo brillante, o gli manca il senso del ritmo narrativo o la profondità psicologica. Il romanziere
dotato di una logica ferrea è una patata lessa quanto a senso dell’atmosfera”.
“Conan Doyle commise balordaggini tali da invalidare in assoluto certi suoi racconti, ma era un
pioniere; e Sherlock Holmes, in fin dei conti, cos’è? Un atteggiamento azzeccato e qualche dozzina
di battute memorabili”.
Indica inoltre in Dashiell Hammett l’inventore di uno stile poliziesco realistico. ‘’Hammett ha tolto il
delitto dal vaso di cristallo e l’ha gettato in mezzo alla strada … Hammett ha restituito il delitto alla
gente che lo commette per ragioni concrete, e non semplicemente per provvedere un cadavere ai
lettori ... Ha messo sulla carta i suoi personaggi com’erano e li ha fatti parlare e pensare nella
lingua che si usa ,di solito ,per questi scopi.’’
“Hammett era scarno, controllato, crudo, ma rinnovò innumerevoli volte l’impresa che soltanto i
grandi scrittori possono compiere: ha scritto scene che avevano l’aria di non essere mai state scritte
prima”.
“Certo lo stile realistico è facilmente malmenabile. Per fretta, per incoscienza, per incapacità a
superare l’abisso spalancatesi tra quanto lo scrittore vorrebbe arrivare a dire e quanto è realmente
in grado di dire. E’ facile tradirlo. Scambiando brutalità per forza, impertinenza per umorismo,
dimenticando che un eccesso di tensione può risultare tedioso come un eccesso di banalità e che i
lascivi commerci con le bionde di facili costumi possono dare un autentico fastidio quando la
descrizione è opera di adolescenti avidi solo di descrivere commerci lascivi con bionde di facili
costumi. Di questa roba se n’è vista tanta, che se, in un poliziesco, un qualche eroe da strapazzo
dice yeah invece di yes, l’autore viene subito classificato tra i seguaci di Hammett.
Particolare il rapporto che lega Chandler al cinema: mentre sceneggia, tra gli altri, un romanzo di
James Cain per la regia di Billy Wilder (Double indemnity: La fiamma del peccato), il suo “Il
grande sonno” viene portato sullo schermo da Howard Hawks su sceneggiatura di William
Faulkner. Chandler non aveva mai messo piede in uno studio. Il rapporto di chandler con Wilder è
pessimo. Chandler è conosciuto come un uomo dolce, ingenuo, ricco di calore umano. Ma non tollera
i soprusi di Wilder, si lamenta in continuazione
con il produttore.
Si lagna della scarsa
considerazione in cui vengono tenuti gli sceneggiatori.
“Il primo film al quale lavorai venne scelto per uno dei premi dell’Academy Award, ma io non venni
invitato neppure alla presentazione alla stampa organizzata direttamente nello studio”. Scrive
Chandler. Risposta di Wilder: “E così Hollywood l’avrebbe trattato male? Non l’abbiamo invitato
all’anteprima? E come avremmo potuto? Era ubriaco fradicio sotto un tavolo da Lucey’s. E’ già un
miracolo che non abbia scritto che è stata Hollywood a spingerlo a bere. Ho sentito gente dire che a
spingerlo a bere ero stato io”
Scrive poi due film mediocri che non sono arrivati in Italia e poi “La dalia azzurra”.
L’ultima sua fatica a Hollywood è la sceneggiatura per Hitchcock di “Delitto per delitto” tratto dal
romanzo di Patricia Highsmith. L’elaborazione di questa scenggiatura che nella versione finale non
conserverà quasi più nulla è particolarmente tormentata.
Tutti gli sforzi di Chandler, ossessionato dal realismo, tendono a rendere credibile il plot di
“Sconosciuti in treno”. Hitchcock raccontò di non essere mai riuscito a lavorare bene con uno
scrittore specializzato, come Chandler, nel thriller e nella suspence: “Ero seduto accanto a lui,
cercavo di trovare un’idea e gli dicevo: “Perché non fare così?”. Rispondeva: “Ebbene, se lei trova le
soluzioni, perché ha bisogno di me?”
Hitchock incarnava le esigenze e le urgenze di quanto era cinematografico, pronto quindi a sorvolare
su tutti i diritti e i reclami della logica. Chandler si identificava con le norme impose da una
letterarietà sensibile alle costrizioni del realismo. Alla fine H. gli strappò la sceneggiatura e la affidò
a Czenzi Ormonde la quale gli chiede che tipo di interventi le sarà lecito fare sullo script del
maestro. Come risposta H. getta la sceneggiatura di Chandler nel cestino. La casa produttrice pagò
Chandler per mettere il suo nome nei titoli.
CORNELL GEORGE HOPLEY WOOLRICH.
Nato a New york nel 1903, Fino dall’adolescenza trascorse molti anni fra l’America latina e New
York, conteso fra il padre, ingegnere civile sempre in viaggio per cantieri edili e la madre, ricca
signora colta e possessiva che durante il periodo scolastico lo teneva con sé a Manhattan. Le
estati invece le trascorreva in Messico dove, durante le rivoluzioni che precedettero la prima guerra
mondiale, prese a raccogliere e collezionare i bossoli di fucile che trovava durante i suoi
spostamenti.
Dopo un breve periodo sereno, forse l’unico della sua vita, trascorso in una bella casa a New York
insieme alla madre, a una zia e al nonno, si iscrisse da esterno alla Columbia University. Fu
allievo di Harrison R. Steeves che teneva un corso sulla narrativa ed era un grande lettore di
romanzi polizieschi. Fu lui a influenzarlo sia come cultore di Scott Fitzgerald sia come scrittore di
suspence. Quando fu vicino alla laurea un’infezione a un piede lo tenne in una forzata immobilità
che lo portò a scrivere il suo primo romanzo Cover Charge, una storia molto fitzgeraldiana
ambientata nella jazz society che fu subito pubblicata nel 1926, Da quel momento decise che la sua
vita apparteneva alla narrativa.
Lasciò l’università e tornò a vivere con la madre e dopo un anno partecipò con il romanzo
Children of the Ritz a un concorso e lo vinse. Il premio prevedeva anche il diritto alla
riduzione cinematografica e lui fu chiamato nel 1929 a hollywood per partecipare alla
sceneggiatura. Mentre lavorava alla sceneggiatura scrisse articoli e racconti , frequentò ricevimenti
e trovò anche il tempo di sposarsi, sorprendendo gli amici. Lei era Gloria Blackton, l’ingenua figlia
di un produttore, bella e convinta che l’irlandese biondo dagli occhi chiari avesse bisogno di una
moglie mamma. Lui invece era omosessuale e quando ancora viveva a New York la sera tirava
fuori da una valigia una divisa da marinaio e batteva il molo in cerca di compagni occasionali. Il
matrimonio non cambiò le sue abitudini tanto che la moglie dopo poche settimane fuggì e chiese
l’annullamento del matrimonio mai consumato. Lui prese l’aereo e tornò dalla madre. Poco dopo
partiva con lei per un lungo viaggio attraverso l’Europa.
Il periodo che seguì fu prolifico un romanzo all’anno. Verso la fine del 1929 uscì Time Square poi
A Young Man’s Heart, The Time of Her Life e finalmente Manhattan love song con il quale si
affrancò dalla sudditanza fitzgeraldiana e affrontò per la prima volta quelli che sarebbero diventati i
suoi temi dominanti: la morte, la solitudine e l’amore sognato più che vissuto e destinato
a finire.
L’ansia riprende a corroderlo, lascia la madre rifiutando la sua vicinanza e il suo aiuto economico.
Vuole sottrarsi alla morbosità del loro rapporto. Si trasferisce in un misero alberghetto
periferico dove vive nell’apatia. Poi scrive I love you, Paris, un romanzo ambientato nella Parigi del
1912 e quando se lo vede respingere distrugge il manoscritto.
Coperto di debiti vive in prima persona la fame e le notti di paura per le strade di New York,
elementi che torneranno ossessivamente in tutti i suoi racconti. Non ha soldi per andare al cinema
e entra dalla porta secondaria a spettacolo iniziato. Comincia a bere. Vanno di moda i pulp
magazines, riviste da pochi cents sulle quali scrive Dashiell Hammett, alias Peter Collins. Anche lui
decide di rivolgersi agli editori dei pulp magazines e il racconto Death sits in a Dentists chair è la
sua prima reale incursione non solo nel campo del mystery, ma anche del suspense puro. Il lettore
viene tenuto in tensione dalla consapevolezza che un uomo sta per morire per il cianuro che gli è
stato messo in un’otturazione temporanea e l’intero racconto è una corsa contro il tempo, un
elemento che sarà uno dei suoi temi ricorrenti.
Da questo momento comincia a scrivere quella strana terribile narrativa che lo farà
definire il Poe del ventesimo secolo, il poeta delle sue ombre, autore di storie piene di
paura, senso di colpa, abiezione. Dime Detective e Detective Fiction Weekly cominciano a
pubblicare regolarmente gli inquietanti racconti del nuovo scrittore. Nei dieci piccoli capolavori che
stampa nel 1935 sono già espresse le sue molteplici sfaccettature d’autore: mystery e suspence,
police procedural e demoniaco. E quasi sempre una donna come protagonista o come motore
delle altrui emozioni. Ecco il maggior mistero dei lavori di Woolrich per gli editori e gli scrittori che
lo conoscevano: come poteva un uomo che non aveva mai avuto rapporto con una dona che
aveva sempre vissuto solo con la madre come poteva chinarsi su di essa con tanta
compassione, come poteva far soffrire e vivere nelle sue pagine quelle creature d’amore e
di morte? Secondo alcuni l’autore riusciva a identificarsi con quelle donne perchè
costituivano la terribile, essenziale parte di lui che altrimenti non si sarebbe mai potuta
esprimere. Negli anni successivi scrive più di cento racconti e diventa collaboratore fisso di molte
riviste. Nel 1940 torna al romanzo con The bride wore black (La sposa era in nero) che darà
inizio alla cosiddetta serie nera, un genere che influenzerà non solo il roman noir francese,
ma buona parte della produzione cinematografica hollywoodiana. La sposa in nero è una
giovane donna che dà la caccia, spietata, a un guidatore ubriaco e a quattro suoi amici, che ritiene
responsabili della morte del marito. Dopo un anno esce The Black Curtain (Il sipario nero) un
vero e proprio capolavoro sull’abusato tema dell’amnesia. Il protagonista emerge da tre anni di vita
di cui ha perso la memoria, è braccato da uno sconosciuto e si convince di essere un assassino.
Anche qui sarà la corsa contro il tempo a scandire la vicenda e l’uomo che forse è davvero un
assassino è una delle figure più angosciose della storia del mystery.
Nel 1942 scrive un secondo romanzo della nuova serie Black Alibi (L’alibi nero) ma poichè ha
pronto un secondo manoscritto e ha legato il suo nome in esclusiva all’editore Simon e Schuster, fa
pubblicare La donna fantasma usando come pseudonimo William Irish, il tema è quello della
prossima esecuzione capitale di un innocente, con l’orologio che scandisce a ritroso i secondi
che lo separano dalla morte.
Ha vissuto per alcuni periodi lontano dalla madre, nella più cupa infelicità, e alla fine è sempre
tornato da lei. Dall’alberguccio periferico è passato ad altri più centrali e più accoglienti ma è sempre
solo. Scrisse nella sua autobiografia: “Nel 1942 vissi solo in una camera d’albergo per tre settimane,
poi una notte lei mi chiamò al telefono e mi disse: non posso vivere senza di te, devo stare con te,
ho bisogno di te. E allora misi giù il ricevitore e feci le valige e tornai da lei, e per tutta la vita non
ho passato più una sola notte lontano da lei, neppure una. Lo so cosa pensano gli altri di me, cosa
dicono di me, e non me ne importa. Non ho rimpianto la mia decisione e non la rimpiangerò mai.
Inizia così la sua vita di recluso metropolitano. Passa le sue giornate chiuso in una stanza dello
Sheraton Russell Hotel di Manhattan uscendo solo quando è indispensabile dividendo con la
madre le ore e gli interessi. E scrivendo. Inizia il quarto romanzo della serie nera Black Angel
(L’angelo nero) dove l’io narrante è una donna. Il marito di questa donna è condannato per un
delitto che non ha commesso: dopo un’insostenibile tensione che porta il lettore lungo le strade di
New York alla ricerca del colpevole, il finale arriva stravolto, come una mazzata.
E’ di un anno dopo Si parte alle sei nel quale come William Irish descrive magistralmente una
corsa disperata contro la città e il sorgere del sole. In La notte ha mille occhi uscito negli Stati
Uniti con lo pseudonimo di George Hopley, gioca abilmente sui poteri occulti di un recluso che
prevede la morte di un milionario. Vertigine senza fine e Ho sposato un’ombra chiudono la
produzione dell’autore come William Irish. Nel frattempo continua la serie nera: L’incubo nero, un
marito che bracca la moglie e l’amante di lei per distruggere entrambi e Appuntamenti in nero
dove viene ripreso il motivo dell’angelo vendicatore ma con un uomo come protagonista, un uomo
sconvolto dal dolore per la morte della giovane fidanzata e deciso a vendicarla dando la caccia a
tutti quelli che ne ritiene responsabili. Qui la vendetta è ancora più agghiacciante perchè l’uomo
penetra nella vita delle persone sospettate per uccidere chi maggiormente amano.
E’ arrivato il successo di lettori, e di spettatori. Ma la madre è ammalata e lui trascorre le giornate
chiuso in camera con lei. Non ha più voglia di scrivere. Firma come George Hopley Vortice di paura
e con il suo nome Frontiera sconosciuta.
Il cimema, la televisione e la radio propongono senza sosta riduzioni tratte dai suoi lavori. Ma
dentro quella camera giunge a malapena l’eco del gran rumore esterno, mentre la madre si
aggrava. Claire Amalie Woolrich muore nel 1957 lasciando il figlio in stato di shock e
semialcolizzato. Dopo sette anni esce Hotel room che racconta gli alberghi nei quali ha vissuto
con la madre. Esce il suo peggior romanzo Vertigine senza fine e Death is my dancing
partner, storie dense di sentimentalismo.
Rimane senza amici siede per ore davanti al televisore, nella camera d’albergo dove vive in
mezzo al disordine con libri e bottiglie vuote sparsi ovunque. Soffre di alcolismo e un’avanzata
forma di diabete. Ha trascurato a tal punto un’infezione al piede che quando finalmente qualcuno
si decide a chiamare un medico la gamba è in cancrena e deve essere amputata. Negli ultimi giorni
vive isolato, su una sedia a rotelle, gli occhi sperduti nel vuoto, assistito solo dai camerieri
dell’albergo.
Muore il 25 settembre del 1968 lasciando tre opere incompiute: l’autobiografia e due romanzi uno
dei quali si intitola Il perdente. Il patrimonio che ammonta a quasi un milione di dollari viene
lasciato alla Columbia University per un fondo intestato alla madre. “Tentavo solo d’ingannare la
morte”, scrive negli ultimi giorni. “Tentavo solo di superare almeno un po’ il buio che per tutta la
vita avevo saputo che sarebbe arrivato a travolgermi, a cancellarmi. Tentavo solo di restare vivo
ancora per un po’, mentre ero già morto. Di restare alla luce di essere un altro po’ con i vivi dopo
che il mio tempo era già scaduto”.
Ho sposato un’ombra
Nella cabina telefonica, era di nuovo immobile. Immobile come prima. La porta della cabina era
semiaperta per fare circolare un po' d'aria. Quando ci si trova in una cabina per più di pochi attimi,
l'atmosfera diventa soffocante. E lei stava lì dentro da ben più di pochi attimi. Era come una
bambola sistemata ben diritta nella sua scatola, con un lato aperto perché si vedesse il contenuto.
Una bambola consumata. Una bambola di scarto, venduta a poco prezzo, senza nastri argentati o
carta da imballo. Una bambola che nessuno avrebbe donato e nessuno avrebbe ricevuto. Una
bambola che non sarebbe ai stata reclamata.
Se ne stava in silenzio, nonostante quello fosse un luogo fatto apposta per parlare. Aspettava di
sentire qualcosa, qualcosa che non arrivava. Teneva il ricevitore puntato verso l'orecchio. All'inizio,
aveva premuto saldamente contro il padiglione auricolare, ad angolo retto, come si fa con i
ricevitori. Ma questo era accaduto un bel po’ di tempo prima. Con il lento, spiacevole trascorrere dei
minuti il ricevitore si era abbassato sempre di più, fino a raggiungere la spalla.
Adesso se ne stava appoggiato lì, senza vita, sconfitto. Come una di quelle brutte orchidee nere di
ebanite che si appuntano sul petto.
Alla fine, il silenzio si trasformò in una voce. Ma non quella che desiderava, non quella per cui stava
aspettando.
«Mi dispiace, ma ve l'ho già detto. Non serve a niente attendere la linea. L'abbonamento che
corrisponde a quel numero è stato disdetto e non c'è nessun'altra informazione che possa darvi.»
La mano scivolò giù dalla spalla, trascinando con sé il ricevitore, e cadde in grembo, morta. C'era
qualcosa di difinitivo in questa caduta. La mano non si mosse più, come a ricordarle che non era
quella l’unica cosa in lei che fosse morta. Ma la vita, certe volte, non consente dignità nemmeno agli
epitaffi.
«Posso riavere i miei cinque cents?» sussurrò. «Per piacere. Non ho trovato la persona che cercavo,
e sono... sono gli ultimi che ho.»
Il sipario nero
Dapprima tutto era confuso. Poi poté sentire delle mani che gli armeggiavano attorno, molte mani.
Non lo toccavano effettivamente; toccavano cose che erano a contatto con lui. Ne risentiva come un
contatto indiretto: gettavano via piccoli oggetti minuti, simili a blocchetti di cemento o frammenti di
mattone di cui, a quanto sembrava, era tutto cosparso. Ad ogni minuto quei detriti diminuivano.
Poi vagamente, udì una voce che diceva: «Ecco l'ambulanza».
E un'altra che rispondeva: «Portatelo da questa parte. Lo caricheranno più facilmente.»
Si sentì sollevare di peso e deporre nuovamente. Tentò di alzare le palpebre e una quantità di
terriccio e polvere gli penetrò negli occhi, facendoglieli dolere. La prima volta li richiuse. Al secondo
tentativo riuscì a tenerli aperti. Ebbe la visione accecante di uno squarcio di cielo azzurro al quale
parevano far corona numerose facce chine su di lui, intente a fissarlo.
Qualcuno gli aprì la giacca e la camicia e gli premette il petto.
«Niente costole rotte» disse una voce. Gli fletterono le braccia e le gambe, poi la stessa voce
soggiunse: “Nessuna frattura. Se l'è cavata a buon mercato. Ha soltanto un bernoccolo in testa.»
Lo rialzarono a sedere, e una pioggerella di terriccio o di qualcosa di simile gli cadde dai capelli. Il
medico disse:
«Okay, amico, ora vi facciamo una medicazione e non dovreste aver bisogno d'altro.» Mise qualcosa
che bruciava sulla ferita, e l'uomo trasalì. Seguì l'applicazione d'un cerotto.
«Ecco. Adesso potete rialzarvi.»
Lo aiutarono a rimettersi in piedi; lui tese una mano per appoggiarsi a uno dei soccorritori. Poi si
accorse che riusciva a reggersi da solo.
«Volete venire ugualmente all'ospedale per una visita di controllo?» domandò ancora il medico
mentre richiudeva la borsa.
«No, grazie, sto benissimo» rispose lui.
Voleva correre a casa. Doveva essere tardi. Virginia lo aspettava di certo. Non gli piaceva arrivare in
ritardo.
«Okay, ma se non vi sentite bene, venite a farvi dare un'occhiata.»
«State tranquillo.»
Un agente in uniforme si fece avanti, armato di taccuino.
«Volete darmi il vostro nome e indirizzo?» disse.
«Frank Townsend” rispose l'altro senza esitare. «Rutherford Street Nord, 28.”
Questo fu tutto. L'autombulanza se n'era già andata. L'agente si allontanò, terminando il suo
rapporto mentre camminava.
Un mucchio di detriti sul marciapiede e un incavo frastagliato nello spiovente del tetto della casa
erano le sole tracce rimaste di quanto era appena accaduto. Il folto gruppo dei curiosi accorsi da
ogni parte cominciò a diradarsi e disperdersi. Townsend si voltò e cominciò a farsi largo.
Un ragazzino sui dodici anni gli gridò dietro:
«Ehi, il cappello! Ve l'ho raccolto io.»
Townsend si voltò, prese il cappello, lo spolverò alla meglio e lo ritirò per metterselo in testa. Poi
rimase immobile, fissandone l'interno. Sul marrocchino, spiccavano le iniziali D.N.
Townsend guardò il ragazzino scuotendo la testa, e fece per restituirglielo.
«Dove l'hai trovato? Non è mio...»
«Sicuro che è vostro! Ho visto io che vi è volato dalla testa quando siete caduto!»
Townsend girò lo sguardo dubbioso sul marciapiede sporco e nella cunetta che lo fiancheggiava, ma
non c'era un altro cappello in vista.
Il ragazzino lo guardava di traverso.
«Non conoscete nemmeno il vostro cappello?»
CONSIGLI DI SCRITTORI
Lezioni di scrittura di John Gardner
Lo scrittore più svantaggiato è quello il cui senso del linguaggio sembra incorreggibilmente deviato.
L’esempio più ovvio è lo scrittore che non riesce a muovere un passo senza servirsi di frasi tipo "con
un lampo di felicità negli occhi", o "la deliziosa coppia di gemelli", o "l’eco della sua sonora risata":
espressioni prive di vita, emozioni meccaniche, da zombie, di uno scrittore che nella vita quotidiana
non prova alcuna sensazione o comunque non crede a ciò che sente in misura sufficiente da cercare
di definirlo con parole proprie, e chi quindi preferisce ripiegare su "ella soffocò un singhiozzo", "un
sorriso amichevole all’angolo della bocca", "inarcando il sopracciglio in quel suo tipico modo
interrogativo", "un lieve sorriso le piegava il labbro", "il volto incorniciato da riccioli ramati". Il
problema è che non si tratta solo di clichés (logori, abusati) ma che questo linguaggio è
sintomatico di uno sfondo psicologico che conduce all’atrofia.
Il bravo scrittore vede le cose in modo netto, vivido, preciso e selettivo (vale a dire che
sceglie ciò che è importante) non necessariamente perché la sua capacità di osservazione sia per
natura più acuta di quella delle altre persone (benché con la pratica diventi tale) ma perché si
preoccupa di vedere le cose in modo chiaro e di metterle per iscritto in maniera convincente. Una
visione trascurata può indebolire il suo progetto. Il giovane scrittore dovrebbe leggere gli
altri scrittori per vedere come vengono realizzate le pagine chiedendosi quello che
avrebbe fatto lui nella stessa situazione e se il suo metodo sarebbe stato migliore o peggiore, e
i motivi per cui sarebbe stato tale. Egli legge nello stesso modo in cui un giovane architetto guarda
un edificio, o uno studente di medicina osserva un’operazione: sia con dedizione, sperando di
imparare da un maestro, che in modo critico, attento a ogni possibile errore.
Nella migliore narrativa, l’intreccio non è una sequela di sorprese quanto piuttosto di
riconoscimenti, momenti di comprensione, che avanzano in modo crescente. Uno degli
errori più diffusi tra i giovani scrittori è l’idea che una storia tragga il suo potere dall’occultamento
dell’informazione – vale a dire, dal fatto di mettere il lettore in una certa disposizione per poi
coglierlo di sorpresa. La narrativa che manca di generosità è innanzitutto una narrativa in cui lo
scrittore non è disposto ad accettare il lettore come un partner della sua stessa forza.
JAN MCEWAN
“Sono poco sistematico. E’ come se “covassi”…rimugino le cose per un sacco di tempo. Ci sono
certe cose a cui evito di pensare prima di scrivere e anche se pensarci darebbe loro molta più
consistenza di quanto ne dossero avere prima che io le tirassi fuori. E’ come se dovessi rimuginare
fino al limite della follia, fino al momento in cui l’unica cosa che mi rimane da fare è scrivere. A quel
punto quello che cerco è il tono, lo stile, il “mezzo” attraverso il quale io riesco a raccontare una
storia”.
Decalogo per l'aspirante scrittore
Susanna Tamaro
1. Vivi la tua vita con passione e leggi molto, soprattutto i classici.
2. Prima di metterti a scrivere, prendi molti appunti. Fai crescere la storia dentro dite.
3. Non innamorarti del mondo degli altri, coltiva uno sguardo originale.
4. Evita le frasi fatte, sii preciso nei dettagli.
5. Affronta la complessità con l'arma della semplicità.
6. Sii sincero con te stesso, sappi da dove vieni e dove vai.
7. Rispetta la ricchezza dei personaggi. Stai attento ai cliché e alle maschere.
8. I dialoghi servono a far affiorare la psicologia nascosta delle persone, non a spiegarla.
9. Sii sempre curioso del mondo che ti circonda. Fatti molte domande e non accontentarti mai della
prima risposta.
10. Fai leggere la tua storia ai tuoi amici, ascolta i loro consigli e non offenderti dei loro giudizi.
Edith Warton nel suo libro Scrivere narrativa, afferma: "L'ispirazione arriva, sì, agli inizi di
ogni creatore, ma più spesso assomiglia a un neonato indifeso, balbettante e malfermo sulle gambe,
che dev'essere guidato e istruito; e il principiante, per tutto il tempo in cui alleva il suo dono, è
facile che lo usi in maniera sbagliata, come i genitori giovani facilente commettono sbagli
nell'allevare il primo figlio."
ERRI DE LUCA
Per scrivere le proprie storie, bisogna sapere come scrivono le storie gli altri. La scuola
principale per me è stata la lettura di libri. Leggere le storie degli altri, non con l'intento di
scomporle in parcelle, non per capire la costruzione. Non ho mai capito la costruzione di un libro,
non ho mai capito quelli che me la spiegavano, o quelli che, dopo aver letto le cose che scrivevo io,
dicevano qual era la costruzione. Non ho mai saputo che cos'è. Io adopero un io narrante, sempre,
arrivo al massimo al tu. Non mi sono mai spinto fino alla remota terza persona, non so farlo.
Questo io narrante è qualche cosa che ha solamente un filo di voce. Se questo tono di voce
regge, funziona, sta in piedi, passa all'ascolto, qui sta tutta la costruzione. Se non regge, cede,
inciampa e stona, fallisce. E allora il castello della complicità si sfalda e le carte finiscono per terra.
Non ho mai scritto un dialogo a più voci, il massimo della molteplicità delle voci sono due, per me.
Un «trialogo» non l'ho mai scritto.
Non mi è mai venuto in mente di scrivere d'altro, mentre qualche volta mi è venuto in mente di
utilizzare un io femminile. Ho scritto due piccoli racconti così: uno riguardava una terrorista in
carcere che scrive al marito e un altro riguardava una ragazza della Bosnia, che ho conosciuto in
uno dei tanti viaggi che ho fatto lì come autista di convogli in spedizioni di solidarietà, e mi sono
immaginato come lei vedeva noialtri che venivamo lì in quell'ospedale durante la guerra. Tutto
questo sempre cercando di reggere un io narrante. Quindi, dal punto di vista del rango degli
scrittori, sono abbastanza dimezzato, comunque ridotto, nel senso che posseggo solo due persone di
tutte quelle che ci sono, e ce ne sono sei nella nostra grammatica.
Io scrivo sempre in posizioni scomode, non mi sono mai seduto a scrivere da qualche parte, in
molti posti della mia vita non c'era un tavolo. Ho imparato a scrivere in ginocchio, appoggiando il
quaderno sul letto. E poi, mi sono accorto che questa è una cosa molto piacevole dal punto di vista
della schiena. Dopo che uno ha fatto una lunga giornata di lavoro in cantiere, sedersi non funziona.
Invece, stare in quella posizione scomoda funziona. Ma non è questo che conta, importante è come
vengono fuori le pagine. Scrivo una storia e poi la lascio stare per un po', poi la riprendo, a
distanza di tempo, per ricopiarla. Il mio intento è di ripassare, di ricalcare di nuovo quello scritto, di
ripassarci sopra senza nessun intento di cambiamento, solamente per vedere se quella storia
funziona per me, se vale ancora il mio tempo di copiatura e la buona volontà di tenerla presente.
Altre storie cadono perché le butto via, non ho voglia di ricopiarle e finiscono nei rifiuti; altre,
invece, resistono e io le ricopio.
Dunque, l'idea della scrittura non è quella dell'edificio che si eleva piano per piano, ma di un
sentiero che si approfondisce passaggio per passaggio fino a levare di mezzo tutte le asperità, a
essere transitabile tranquillamente. Il ripasso, la ricopiatura, mi permette di portare via le parole, i
pezzi di frase, delle intere frasi che non mi piacciono. Esistono parole che, a distanza di tempo,
magari perché finiscono in bocca a qualche personaggio televisivo, diventano improvvisamente goffe
o consumate, e ingialliscono. Allora uno non le riesce più a usare. Di conseguenza, lentamente,
attraverso queste ricopiature, attraverso la consumazione delle parole, si scava un proprio
vocabolario. Non per scelta, ma per una mutilazione. Perde pezzi, il vocabolario. Copiando e
ricopiando, a distanza di tempo mi è capitato di arrivare a una versione definitiva. Versione
definitiva che secondo Borges, signore della letteratura, appartiene alla religione o alla stanchezza.
La mia appartiene alla impossibilità di togliere altri pezzi nella ricopiatura. Quando cioè non posso
più levare niente, quando la copiatura diventa una copia conforme, una fotocopia, a quel punto è
finita quella storia per me, non ci posso mettere più mano.
Ho iniziato a scrivere da ragazzino, subito, appena ho cominciato a leggere, perché era una cosa che
si faceva in casa mia. Anche mio padre ha scritto delle storie, era una cosa perfettamente naturale.
Allora, però, le storie le inventavo, non le avevo di mio. Ci sono degli scrittori che dicono che i libri
sono i loro figli, per me non è così, proprio per niente. I libri per me sono delle storie con cui sono
cresciuto, che mi sono portato appresso, aggiungendo le esperienze che intanto mi capitavano.
Sono cose, quindi, che procedono con la mia vita, coincidendo con essa. Quando arrivo alla stesura
definitiva, io sono stato il proseguimento di quei libri, ne sono il figlio, il seguito è il punto in cui mi
sono fermato, i miei antenati, pietra del passato di cui io sono la continuazione. Non sono figli miei
che vanno in giro per il mondo, sono io che sono il seguito di quelle storie.
PERCHÉ SCRIVO:
ANDREA CAMILLERI
Scrivo perché è sempre meglio che scaricare casse al mercato centrale.
Scrivo perché non so fare altro.
Scrivo perché dopo posso dedicare i libri ai miei nipoti.
Scrivo perché così mi ricordo di tutte le persone che ho amato.
Scrivo perché mi piace raccontarmi storie.
Scrivo perché mi piace raccontare storie.
Scrivo perché alla fine posso prendermi la mia birra.
Scrivo per restituire qualcosa di tutto quello che ho letto.
UMBERTO ECO
Perché mi piace.
KEN FOLLETT
Quando mi sveglio la mattina la prima cosa che penso è di scrivere la prossima scena del mio libro.
È quello che mi diverte di più. È fantastico dedicarsi a qualcosa che uno sa di fare bene. Mi diverto
scrivendo, ma "divertirsi" è una parola che non dà del tutto l'idea. L'atto di scrivere mi appassiona.
Coinvolge tutto il mio intelletto, le mie emozioni e comprende tutto quello che so del mondo e di
come funziona l'essere umano. Tutto fa parte della sfida per accattivare i miei lettori. Il mio lavoro
mi assorbe totalmente.
MARK HADDON
Fiction, poesia, teatro, pittura, disegno, fotografia... in realtà non importa.
Un giorno che non riesco a fare qualcosa, per piccola che sia, mi sembra un giorno sprecato.
Una settimana senza creare nessun tipo di arte mi risulta assolutamente dolorosa.
A volte può sembrare una benedizione essere così, sapere con tanta certezza quello che voglio fare.
Ma spesso è una sofferenza perché sapere ciò che vuoi non è lo stesso che sapere come fare.
Potrei essermi dedicato a qualsiasi altra cosa, salvo che non mi sento in condizione.
Odio che mi dicano quello che devo fare e quando devo farlo, anche se mi diverto in compagnia, ho
bisogno di trascorrere diverse ore al giorno da solo, a pensare soltanto.
Per questo non sono mai riuscito a conservare un lavoro "vero" per più di sei settimane.
Perché scrivo? L'unica risposta è perché non posso fare altro.
JAVIER MARÍAS
Come ho già detto in molte occasioni, scrivo per non avere un capo e non vedermi obbligato ad
alzarmi presto. Ma anche perché non ci sono molte altre cose che sappia fare e lo preferisco e mi
diverte più che tradurre o insegnare, cose che, all'apparenza, sì so fare. O sapevo fare, sono
occupazioni del passato.
Scrivo anche per non dovere quasi niente a quasi nessuno e per non dover salutare chi non voglio
salutare. Perché credo di pensare meglio davanti alla macchina da scrivere che in qualsiasi altro
luogo o situazione. Scrivo romanzi perché la fiction ha la facoltà di insegnarci ciò che non
conosciamo e ciò che non è dato, come dice un personaggio del romanzo che ho appena concluso. E
perché l'immaginario aiuta molto a comprendere quello che ci accade, che si è soliti chiamare
"realtà".
Quello che non faccio è scrivere per esigenza. Potrei trascorrere anni tranquillo senza scrivere una
riga. Ma in qualcosa bisogna occupare il tempo ed è necessario guadagnare qualche soldo. Scrivo
anche per questo.
PATRICK MCGRATH
Scrivo per dare forma alle creazioni della mia immaginazione che altrimenti morirebbero nel silenzio
e nel buio.
AMÉLIE NOTHOMB
Mi chiedono perché ho scelto di scrivere. Io non l'ho scelto. È la stessa cosa che innamorarsi. Si sa
che non è una buona idea e uno non sa come ci è arrivato, ma quanto meno deve provarci. Gli si
dedica tutta l'energia, tutti i pensieri, tutto il tempo. Scrivere è un atto e, come l'amore, è qualcosa
che si fa. Non se ne conoscono le istruzioni per l'uso così si inventa perché necessariamente devi
trovare un mezzo per farlo, un mezzo per riuscirci.
VALERIA PARRELLA
È la mia sacca di libertà. È l'unico momento in cui mi sento veramente libera. Quando scrivo non mi
faccio nessun tipo di scrupolo: non penso mai se posso o non posso dire una cosa che voglio dire.
Ed è l'unico caso in cui mi comporto così. Questo motivo è pre pubblicazione quindi credo sia quello
di fondo. Poi possiamo parlarne per mesi.
ANTONIO TABUCCHI
Preferirei formulare la domanda così: perché si scrive? Tempo fa, quando ero giovane ascoltai
Samuel Beckett rispondere: "Non mi rimane altro". Le risposte possibili sono tutte valide, ma con un
punto interrogativo. Scriviamo perché temiamo la morte? Perché abbiamo paura di vivere? Perché
abbiamo nostalgia dell'infanzia? Perché il passato è fuggito in fretta o perché vogliamo fermarlo?
Scriviamo perché a causa della vecchiaia sentiamo nostalgia, rammarico? Perché vorremmo aver
fatto una cosa e non l'abbiamo fatta o perché non dovremmo aver fatto qualcosa che abbiamo fatto
e non avremmo dovuto? Perché stiamo qui e vogliamo stare lì e se stessimo lì non sarebbe stato
meglio per noi restare qui? Come diceva Baudelaire: la vita è un ospedale dove ogni malato vuole
cambiare letto. Uno crede che potrebbe guarire più in fretta se si trovasse accanto alla finestra e un
altro pensa che starebbe meglio vicino al riscaldamento.
MARIO VARGAS LLOSA
Scrivo perché imparai a leggere da bambino e la lettura mi procurò tanto piacere, mi fece vivere
esperienze tanto entusiasmanti, trasformò la mia vita in una maniera così meravigliosa che credo
che la mia vocazione letteraria fu una sorta di traspirazione, di derivazione da quella enorme felicità
che mi dava la lettura.
In un certo modo, la scrittura è stata come il rovescio o il completamento indispensabile della
lettura, che per me continua a essere la massima esperienza di arricchimento, quella che più mi
aiuta ad affrontare qualsiasi tipo di avversità o fallimento. D'altra parte, scrivere, che all'inizio è
un'attività che si mischia alla tua vita con le altre, con la pratica diventa il tuo modo di vivere,
l'attività centrale, quella che organizza del tutto la tua vita.
La famosa frase di Flaubert che sempre cito: "Scrivere è un modo di vivere". Nel mio caso è stato
esattamente così. È diventato il centro di tutto ciò che faccio al punto che non concepirei una vita
senza la scrittura e, ovviamente, senza il suo complemento indispensabile, la lettura.
ORHAN PAMUK
Scrivo perché ne ho voglia.
Scrivo perché non posso fare un lavoro normale come gli altri.
Scrivo perché dei libri come i miei siano scritti e io li possa leggere.
Scrivo perché ce l'ho con voi tutti, contro il mondo.
Scrivo perché mi piace stare chiuso in una stanza tutto il giorno.
Scrivo perché non posso sopportare la realtà se non trasformandola.
Scrivo perché il mondo intero sappia che genere di vita io, gli altri, noi tutti abbiamo vissuto e
continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia.
Scrivo perché amo l'odore della carta e dell'inchiostro.
Scrivo perché credo più di tutto nella letteratura, nell'arte del romanzo.
Scrivo per abitudine, per passione.
Scrivo perché ho paura di essere dimenticato.
Scrivo perché apprezzo la fama e l'interesse che ne derivano. Scrivo per star solo.
Scrivo nella speranza di capire perché ce l'ho così tanto con voi tutti, con il mondo intero.
Scrivo perché mi piace essere letto.
Scrivo, dicendomi, che bisogna finire questo romanzo, questa pagina, che ho cominciato.
Scrivo, dicendomi, che è quello che tutti si aspettano da me.
Scrivo perché come un bambino credo nell'immortalità delle biblioteche e nella posizione che vi
mantengono i miei libri.
Scrivo perché la vita, il mondo, tutto è incredibilmente bello ed esaltante.
Scrivo perché è piacevole tradurre in parole tutta questa bellezza e la ricchezza della vita.
Scrivo non per raccontare una storia bensì per costruirla.
Scrivo per sfuggire al sentimento di non potere raggiungere un luogo verso cui si aspira, come nei
sogni.
Scrivo perché non riesco ad essere felice qualsiasi cosa faccia.
Scrivo per essere felice.
GEORGE ORWELL
Scrivo perchè c’è qualche menzogna che voglio denunciare, qualche fatto sul quale voglio attirare
l’attenzione, e la mia prima preoccupazione, è quella di essere ascoltato. Ma non potrei sopportare
la fatica di scrivere un libro oppure un lungo articolo di giornale, se ciò non fosse anche
un’esperienza estetica.
Non penso che si possano valutare le motivazioni di uno scrittore senza conoscere qualcosa della
sua prima formazione. L’argomento del suo scrivere sarà certo determinato dall’età in cui vive - ma
prima ancora che cominci a scrivere egli avrà acquisito un’attitudine emotiva dalla quale non si
distaccherà mai completamente. Non c’è dubbio che il suo lavoro consisterà nel disciplinare il
temperamento ed evitare di restar fermo a uno stadio di immaturità, ma se egli rifuggirà del tutto
dalle sue prime influenze, avrà distrutto il suo impulso a scrivere.
Tenendo a parte il motivo di guadagnarsi da vivere, penso che vi siano quattro importanti ragioni
per scrivere. Queste sono presenti a livelli diversi in ogni scrittore e in ogni scrittore le proporzioni
varieranno di volta in volta secondo l’atmosfera nella quale egli vive. Esse sono:
- il semplice egoismo
- l’entusiasmo estetico
- l’impulso storico
- lo scopo politico
HEINRICH BÖLL
"Io amo scrivere, per me è una vera allegria costruire. L'argomento, il contenuto, il messaggio viene
da ciò che è stato vissuto dalla mia generazione, tutto ciò che in qualche modo mi è stato dato, il
contenuto è sempre un dono. La qual cosa non vuol dire che sia superfluo - un regalo è una bella
cosa. Ma, il lettore, deve "conquistare" questo dono, e lo farà imponendo limiti a se stesso, e cioè,
essendo costretto ad accettare la forma con la quale esso si presenta. Ma, innanzitutto, scrivere è
più semplicemente il desiderio di creare qualcosa".
TRUMAN CAPOTE
"Sono uno scrittore essenzialmente orizzontale. Penso meglio quando sono sdraiato, con una
sigaretta tra le labbra e una tazza di caffè a portata di mano. La tazza di caffè può anche essere
cambiata con un bicchiere di vodka, non bisogna essere fanatici. Non uso la macchina da scrivere,
scrivo a mano, con la matita. Lavoro quattro ore al giorno per quattro mesi all'anno. Sono uno
stilista: mi preoccupo di più sul posto di una virgola che sull'elezione del premio Nobel".
GABRIEL GARCIA MARQUEZ
"Perché i miei amici mi amino di più."
ITALO CALVINO
"In un certo modo, penso che sempre scriviamo su qualcosa che non conosciamo, scriviamo per
dare al mondo non-scritto un'opportunità di esprimersi attraverso di noi. Ma, a partire dal momento
in cui la mia attenzione vaga dall'ordine prestabilito delle linee scritte verso una complessità
mutevole che nessuna frase potrà apprendere totalmente, credo di capire che al di là delle parole c'è
qualcosa che le parole potrebbero significare".
FEDERICO GARCIA LORCA
"A volte, osservando ciò che accade nel mondo attorno a me, mi domando: perché scrivere? Ma,
bisogna lavorare, lavorare, lavorare. Lavorare come forma di protesta. Perché l'impulso normale di
una persona sarebbe urlare tutti i giorni nello svegliarsi in un mondo pieno di ingiustizie e di miserie
di tutti i tipi: Io protesto! Io protesto! Io protesto!"
JOYCE CAROL OATES
"Io non ho risposto a causa della difficoltà della domanda e dell'immensità della risposta. Perché?
Non è una questione che l'artista si pone quando sta totalmente immerso nel suo lavoro. La teoria è
territorio di quelli che non agiscono. Quindi, la ragione può essere, in parte, modificare, anche in
modo infimo, la coscienza della nostra epoca; comunicare (come soltanto uno scrittore può fare)
intimamente agli individui; onorare lo splendido fenomeno che è il linguaggio; nel gioco; nella
guerra; perché è un modo intimo di stabilire un dialogo con il nostro vero essere, quello più segreto
e sconosciuto".
PAUL AUSTER
"Mi faccio spesso questa domanda. Non ho una buona risposta. Credo che la ragione per cui scrivo
sia: devo scrivere. È così semplice. Non è esattamente un'attività facile, non dà... ahimè... molti
piaceri. Scrivere è l'arte della solitudine, è un modo di essere in armonia, o almeno in pace con
l'angolo più ombroso dell'essere. Paul Celan, un ebreo nato in Romania, scriveva in tedesco anche
se viveva in Francia, dove è morto suicida annegandosi nella Senna. Lui scriveva incessantemente.
Come ho scritto nel mio saggio "La poesia dell'esilio", il dolore e la rabbia di Celan hanno fatto
diventare furiosa la sua poesia, che era una poesia ispirata dall'amarezza. Ossia, tu devi lavorare
davvero duramente quando scrivi, perché è un'attività che risucchia tutte le tue energie. E,
nonostante ciò, io mi sento più vivo e più umano quando sto scrivendo".
JORGE AMADO
"Non so fare altro. Questa è la verità, non so fare altra cosa. C'è un numero di cose che tutta la
gente sa fare ed io non so. Allora, primo, scrivo, perché, nel bene o nel male, è l'unica cosa che so
fare; secondo, perché è un mestiere che, essendo duro, difficile, a volte anche drammatico, ci dà
anche molta allegria, una certa soddisfazione di aver compiuto qualcosa. Quando qualcuno - e
questo accade piuttosto spesso - mi scrive o viene da me e dice 'io ho letto il tuo libro e questo è
stato importante per me, ha aiutato la mia vita', quando un giovane brasiliano viene e dice 'ho letto
Capitani della spiaggia e ora posso capire molto meglio il problema dei meninos de rua', questo mi
dà una grande soddisfazione."
JEAN-PAUL SARTRE
"Scrivo perché non sono felice. Scrivo perché è un modo di lottare contro l'infelicità".
SAMUEL BECKETT
"Ho scritto tutta la mia opera molto velocemente - tra il 1946 e il 1950. La mia opera in francese mi
ha portato al punto che sentivo di dire le stesse cose sempre un'altra volta. Per alcuni scrittori, più
scrivono, più facile diventa scrivere, per me è il contrario, è sempre più difficile. Per me il campo
delle possibilità si riduce sempre di più"
PETER HANDKE
"Questo uno non può decidere. Noi ci proviamo perché non sopporteremmo un altro tipo di vita,
forse perché in un'altra vita saremmo troppo vincitori o troppo sconfitti. Così abbiamo scelto questo
terzo percorso, senza speranza. Non scegliamo, siamo scelti, non so da chi. Comunque, è successo
quando ero studente di Giurisprudenza a Graz, in Austria. Non vedevo alcun senso nello studio,
avevo avversione per il mestiere che mi aspettava, essere un avvocato. Allora ho pensato: sarà ora
o mai più. Ho provato a scrivere un libro. Prima già scrivevo, anche se occasionalmente. E poi le
cose prenderanno il suo corso".
OCTAVIO PAZ
"I poeti dicono la verità quando affermano che, iniziando a scrivere una poesia, non sanno cosa
finiranno per dire. Scriviamo per dire il non detto, e per conoscerlo".
WILLIAM FAULKNER
"Scrivo solo per campare".
HARUKI MURAKAMI
Scrivere un libro è un po' come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa
natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno
CLAUDIO MAGRIS
Scrivere è trascrivere. Anche quando inventa, uno scrittore trascrive storie e cose di cui la vita lo ha
reso partecipe: senza certi volti, certi eventi grandi o minimi, certi personaggi, certe luci, certe
ombre, certi paesaggi, certi momenti di felicità e disperazione, tante pagine non sarebbero nate
Un giorno, un amico trova JAMES JOYCE riverso sullo scrittoio, in atteggiamento di profonda
disperazione:
«James, che cosa c'è che non va? È il lavoro?»
James asserì, senza nemmeno alzare la testa.
«Quante parole hai scritto oggi?»
«Sette»
«Sette? Ma James... è ottimo, almeno per te!»
«Suppongo di sì, ma non so in che ordine vanno.»
WILBUR SMITH
Il processo creativo in se stesso è già un'attività estremamente piacevole: per me è divenuta come
una droga della quale non posso farne a meno. Generalmente lavoro per un anno, poi mi concedo
sei mesi di relax e di viaggi. Trascorsa questa pausa, comincio ad attendere con ansia l'ispirazione.
DACIA MARAINI:
Non vedo altro motivo che il piacere: si scrive spinti da un desiderio quasi erotico, si scrive perché si
è felici di farlo. Mentre scrivo non mi chiedo mai chi siano i miei lettori e non voglio neanche saperlo.
Mi piace, semmai, se proprio devo pensare a un lettore, immaginarne uno che mi assomigli, che sia
in grado di capirmi. In realtà quel lettore sono io. Il primo lettore della propria scrittura è l'autore
stesso.
Vengo da una famiglia di scrittori: mia nonna, Yoi Pawlowska, la madre di mio padre, agli inizi del
secolo scriveva in inglese libri di viaggio, un nonno, Enrico Alliata, scriveva libri di filosofia e anche
mio padre, Fosco, scrive libri di etnologia, ma con piglio da narratore. Quindi era destino che io
avessi un rapporto stretto con i libri. Sono stata una lettrice precocissima, anche se il mio primo
rapporto con la letteratura italiana è avvenuto da straniera. Venivo infatti dal Giappone, leggevo in
inglese e quando sono arrivata nel mio paese il mio italiano era incerto, stentato. Mi chiamo Dacia
Maraini e scrivo. Ho cominciato molto presto, perché vengo da una famiglia di scrittori. Mia nonna
scriveva, mio padre pure, anche se non romanzi - è uno scrittore di Etnologia -, poi anche mio
nonno da parte materna. Quindi diciamo che la scrittura è una cosa di famiglia, è un mestiere
tramandato da padre, da madre, padre in figlio. Ho cominciato molto presto. Scrivevo nel giornale
della scuola e poi ho fondato una rivista, quando avevo 17 anni, e poi ho cominciato a scrivere il
primo libro che ne avevo 18. A 24 ho pubblicato il primo romanzo. Ecco, poi ho continuato sempre.
FRANCESCO PICCOLO
Imparare a scrivere è, in pratica, una educazione alla quotidianità; rende ognuno consapevole che
scrivere ha bisogno di costanza, cura, pazienza, senso critico, fatica, leggerezza... Tutto quello che
viene fuori è che bisogna organizzare la vita intorno a una capacità per fare in modo che tale
capacità non vada dispersa. Per questo è necessario combattere il mito romantico del poeta.
NATALIA GINZBURG
La prima cosa seria che ho scritto è stato un racconto. Un racconto breve, di cinque o sei pagine:
m'è venuto fuori come per miracolo, in una sera, e quando sono andata a dormire ero stanca,
stordita e stupefatta. Ho scoperto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. E' un
cattivo segno se non ci si stanca. Uno non può sperare di scrivere qualcosa di serio così alla leggera.
Uno quando scrive una cosa che sia seria, ci casca dentro... e se ha dei sentimenti molto forti che lo
inquietano, se quanto scrive è valido e degno di vita, ogni altro sentimento s'addormenta in lui,
tutto s'allontana e svanisce, nessuna felicità e nessuna infelicità può sussistere in lui che non sia
strettamente legata a questa sua pagina e se non gli succede così, allora è segno che la sua pagina
non vale nulla.